Renée Falconetti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 06 Oct 2025 20:00:55 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Scolpire il tempo, seminare il vento, creare antagonismo https://www.carmillaonline.com/2025/10/06/scolpire-il-tempo-seminare-il-vento-creare-antagonismo/ Mon, 06 Oct 2025 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90254 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Siamo la natura che si ribella!, ammonisce con efficace sintesi uno striscione no-tav esprimendo un radicale antagonismo nei confronti del mortifero sfruttamento capitalista patito dall’essere umano e dalla natura, di cui è parte. Nella Carta di intenti stesa dal Comitato No-Tav di Torino al momento della sua fondazione in apertura di millennio è scritto: «Siamo persone ed associazioni della società civile che credono sia possibile un mondo diverso, più giusto e responsabile dell’attuale, e che lottano per realizzarlo. Apparteniamo, di fatto, a quel 20% dell’umanità che pratica uno stile di vita insostenibile per [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Siamo la natura che si ribella!, ammonisce con efficace sintesi uno striscione no-tav esprimendo un radicale antagonismo nei confronti del mortifero sfruttamento capitalista patito dall’essere umano e dalla natura, di cui è parte. Nella Carta di intenti stesa dal Comitato No-Tav di Torino al momento della sua fondazione in apertura di millennio è scritto: «Siamo persone ed associazioni della società civile che credono sia possibile un mondo diverso, più giusto e responsabile dell’attuale, e che lottano per realizzarlo. Apparteniamo, di fatto, a quel 20% dell’umanità che pratica uno stile di vita insostenibile per il pianeta, ma vogliamo metterlo in discussione perché pregiudica i diritti del restante 80%, delle future generazioni, delle altre specie viventi sulla Terra. Non vogliamo un futuro ricco di beni di consumo […] carico di paure e di angosce in uno stato di guerra permanente: perciò ci battiamo, in modo pacifico ma determinato, contro il modello neoliberista che in nome degli interessi economici di un’esigua minoranza rappresentata dai poteri forti sfrutta le persone e la natura, assoggetta le istituzioni e la politica cancellando progressivamente diritti, democrazia e pace». Comitato No-Tav di Torino, 13 Dicembre 2002.

Passato in sordina dalle sale cinematografiche, ma fortunatamente ancora visibile su RaiPlay, il film Semina il vento (2020) diretto da Danilo Caputo, autore della sceneggiatura insieme a Milena Magnani, ambientato nel tarantino, è attraversato dal medesimo spirito che anima le comunità montane piemontesi in lotta da decenni.

Il film, girato tra San Marzano di San Giuseppe, Grottaglie, Monteiasi, Statte e Monteparano, prende il via con il ritorno a casa dai genitori, nelle campagne del tarantino, di Nica (Yile Vianello), una giovane studentessa di agronomia. Le sequenze d’apertura del film la mostrano taciturna, chiusa nei suoi pensieri, introversa, restia anche solo a scambiare qualche frase di circostanza con chi le sta dando un passaggio in auto nel viaggio verso il paese natale; giusto qualche parola espressa controvoglia al cellulare con un interlocutore, di cui non ci è dato a sapere alcunché, che invita a far pulizia delle sue cose e “gettare tutto” prima di eliminare la sim dell’apparecchio, a sancire la chiusura di un capitolo della sua vita.

Il film di Caputo è la storia di un ritorno, un “nostos” dalle connotazioni regressive verso il proprio paese natale, saturo dei fantasmi del passato, sempre pronti ad aggredire. Come la Sandra di Vaghe stelle dell’orsa (1965) di Luchino Visconti, Nica torna verso il proprio passato, verso gli angusti spazi della provincia solitaria e silenziosa. Se nel film di Visconti incontriamo Volterra, città dalle parvenze spettrali e intrise di un ambiguo e sfarzoso passato, nel film di Caputo è la provincia di Taranto ad accogliere la protagonista e ad avvolgerla del suo tetro dolore. Un dolore fatto di sfruttamento del territorio da parte di un sistema che costruisce stabilimenti industriali deturpando il territorio e legando gli abitanti del luogo ad un lavoro sempre più abbrutente ed alienato.

Se nel passato gli abitanti potevano vivere dei prodotti che quello stesso territorio offriva, l’industria li lega, come in un carcere, ad un’altra forma violenta di lavoro. Lo dice la stessa Nica nel film: adesso la gente preferisce morire di tumore piuttosto che morire di fame. Infatti, in diversi momenti del film vediamo stagliarsi le industrie con le loro ciminiere dai quali vengono continuamente emessi dei fumi tossici: ormai, il paesaggio arcaico è irrimediabilmente devastato. Vediamo le due facce di una stessa medaglia: le ciminiere e le industrie, gli oliveti e il mare; sono le due facce della terribile medaglia della contemporaneità industriale e postindustriale.

Quegli oliveti non sono più ‘sacri’ e quelle campagne non sono più ataviche ed arcaiche, legate ad una ritualità perduta fuori della storia perché ormai sono imbruttite per sempre dall’inquinamento e dai rifiuti tossici; quel mare non è più quello appartenente al mito e al mondo preindustriale: lo vediamo incresparsi e brillare al sole ma sullo sfondo compaiono perennemente le ciminiere e le industrie che lo feriscono nel profondo come le coste fra Lazio e Toscana, deturpate da siti industriali, che vediamo ne La chimera (2023) di Alice Rohrwacher, ambientato negli anni Ottanta1.

Quegli anni sono passati come una lama affilata che ha deturpato luoghi e coscienze per lasciare spazio ai Novanta, altrettanto devastanti; il nuovo millennio è corso lungo quella stessa scia e ha buttato giù le ultime macerie rimaste di un passato ormai definitivamente cancellato. Ha lasciato in piedi mefitici mostri industriali mentre le coscienze, impaurite e inquinate esse stesse da sempre nuove emergenze, si sono rapprese in simulacri digitali che vorrebbero rappresentare la vita reale. Nell’epoca dei droni e dello sterminio degli innocenti, dei social e dei meme, la realtà là fuori è sempre più squallida e brutale: restano quelle mostruose cattedrali nel deserto, fabbriche e industrie, e gli ultimi alberi da abbattere in nome del profitto. E, fuori dal mondo virtuale nel quale sembrano ormai immerse, le persone continuano a respirare aria inquinata e malata.

Nica si fa lasciare dall’uomo che le offre un passaggio nei pressi di un grande impianto industriale che si erge come una vetusta cattedrale di cemento e metallo tra le sterpaglie di un deserto rurale arso dal sole che, soltanto qualche decennio prima, insieme al lavoro ha portato inquinamento e dissoluzione ad una comunità già decimata dalle partenze verso il Nord dei più giovani in cerca di sostentamento più che di fortuna.

Raggiunta dal padre che la conduce a casa, Nica ritrova la madre ridotta a starsene costantemente a letto, più che per il mal di testa che la affligge, per lo stato di depressione che la attanaglia derivato dal veder svanire la speranza di poter aprire un negozio, e con essa dei suoi sogni di una vita nuovamente attiva.

Lo stato in cui versa la donna manifesta la situazione di sospensione, di mancanza di futuro che investe l’intera comunità locale alle prese con la malattia degli ulivi secolari che avevano contribuito a dare sostentamento alle generazioni precedenti.

I pidocchi che rendono improduttivi gli alberi sembrano rappresentare gli effetti maligni dello sfruttamento capitalista sulla natura e con essa di un’antica civiltà rurale. È come se gli ulivi, ammalandosi, finissero per sottrarsi alla loro naturale produzione di frutti, così come la donna, disillusa, si ritira dalla vita attiva.

Tradito dalle lusinghe industriali, che ora si risolvono in licenziamenti e disoccupazione, e dalla natura maltrattata che reagisce negando i suoi frutti, il paese è condannato a uno stato di immobilità, di impotenza e, terminati i quattro soldi del licenziamento, i suoi abitanti si ritrovano ad auspicare il via libera all’abbattimento degli ulivi per poter incassare qualche soldo nella consapevolezza che si tratta di una soluzione che risponde a esigenze immediate, ma incapace di offrire loro un futuro. È insomma una comunità che, non vedendo sbocchi possibili, si limita a prolungare la propria agonia consapevole che si sta lasciando morire.

È in tale contesto che fa ritorno la giovane, a sua volta disillusa dalla vita condotta fino ad allora in città, ma che, a differenza degli altri paesani, pur nella sua riservatezza e apparente fragilità, riesce a trovare la forza e la determinazione di agire, di prospettare un futuro per la famiglia, per la comunità e per gli ulivi.

La ragazza, che pure cerca di ridare un futuro all’universo rurale da cui proviene attraverso risposte scientifiche alla malattia degli alberi, non rifiuta il mondo arcaico, con le sue ataviche credenze e superstizioni. Per certi versi sembra opporre al nefasto presente, frutto del passato più recente, un futuro capace di riannodare i fili con il passato più lontano: a dover essere estirpati non sono gli ulivi secolari, ma quella malamodernizzazione che con le sue industrie, con le sue false promesse derivate da una logica capace solo di guardare all’immediato, ha condotto a un presente catatonico e avvelenato privo di futuro.

Nica e la sua amica Paola, nell’auto ferma davanti al mare, ascoltano la musica ed una delle due si fuma una canna, figlie ribelli di un territorio devastato, tenaci piratesse del sud perdute nell’abbandono e nella solitudine. Se Nica vuole portare avanti la tradizione del suo paese appresa dalla nonna, Paola sta incidendo un disco in dialetto grico, in modo così da recuperare l’antica cultura della propria terra. Ma si tratta, ormai, come già notato, di una terra preda di una devastazione totale e gli esseri umani ne sono vittime allo stesso modo delle piante.

Nica e Paola, come le piante, vivono nel tempo perché possiedono la memoria del passato: è interessante ricordare qui quanto scrive Andrej Tarkovskij nel suo saggio teorico dal titolo Scolpire il tempo: «Il tempo e la memoria sono fusi l’uno nell’altra, sono due facce della stessa medaglia […] Un uomo privo della memoria è in balia di un’esistenza illusoria: fuori dal tempo non è più capace di conservare il suo legame con la realtà esterna, e quindi è condannato alla follia»2.

Nica e Paola sono capaci di ricordare, esercitano la memoria come un’arte. Anche le piante sono le testimoni silenziose della memoria: nelle prime inquadrature le vediamo apparire a tratti nel buio, illuminate dai fari dell’auto sulla quale si trova Nica che sta tornando a casa. Altre volte, nel corso del film, le piante in generale e gli olivi in particolare sono oggetto di vellutati movimenti di macchina che le mostrano imponenti e silenziose come se fossero delle antiche, terribili divinità.

Possono venire in mente, a questo proposito, le Furie rappresentate da Pier Paolo Pasolini, negli Appunti per un’Orestiade africana (1970), sotto le vesti di enormi alberi perduti nella savana. Le piante, nel film, oltre che divinità, appaiono come veri e propri esseri viventi dotati di corpo che, come gli umani, si ammalano e guariscono. In un componimento appartenente alla bella raccolta di poesie di Francesca Fiorentin, uscita recentemente e intitolata Piante vs umani (non a caso per l’editore salentino “Terra d’ulivi”) protagonista è proprio un ulivo che – afferma l’autrice – come un essere umano “vivo” è capace di sogni («Mi sono addormentata sotto un ulivo / come sopra un vivo / una bolla includeva / me e lui – sognammo – i suoi rizomi che vanno nel profondo / senza una legge biochimica / vanno come i sogni»3 ).

In un’altra sequenza vediamo sempre Paola, insieme ad un altro giovane, impegnata nella ripresa di un filmato nel quale entrambi, vestiti di una tuta rossa, si muovono in modo meccanico e robotico. Sull’inquadratura ‘robotizzata’ dal movimento dei personaggi si staglia l’entrata in campo di Nica che, letteralmente, ‘entra’ dentro di essa muovendosi rapidamente e in modo fluttuante. La sua andatura, fisica e corporea, entra in contrasto con il movimento meccanizzato degli altri personaggi (emblema forse dell’esistenza scontata degli individui ormai rassegnati a vivere in un territorio inquinato e tossico, preda di un sistema delinquenziale e malato?) e prelude essa stessa a una via di fuga e di rifiuto di quel mondo: la giovane, infatti, dopo aver lambito il percorso meccanico degli altri due, si allontana uscendo dal campo.

Individuato un insetto antagonista ai parassiti che avvelenano gli ulivi, la giovane agronoma si prodiga affinché questo prosperi e si riproduca così da contrastare l’agente che li ha resi incapaci di dare frutti. Ben presto Nica scopre di dover ampliare la battaglia che sta conducendo con caparbietà contrastando, oltre i pidocchi, i versamenti di veleni prelevati da un’industria vicina con cui gli abitanti del paese, tra cui lo stesso padre, tentano di accelerare l’abbattimento degli alberi ormai vissuti come impaccio da cui liberarsi in cambio di qualche soldo con cui tirare avanti ancora qualche tempo.

Ecco allora che gli insetti antagonisti ai pidocchi degli ulivi che la ragazza individua e fa moltiplicare assumono anche una connotazione metaforica alludendo alla necessità di individuare e organizzare antagonismo sociale contro un altro tipo di parassiti che risponde a logiche mortifere, di avvelenamento, di sfruttamento e assorbimento della vitalità degli individui e delle terre, al solo scopo di ottenere un profitto immediato come se non vi fosse un domani.

A essere messa sotto accusa dal film è allora quella logica capitalista che, soprattutto nella sua fase industriale, ha espropriato l’essere umano dal suo legame con la natura, ha trasformato entrambi in cave da cui estrarre profitto per poi abbandonarli una volta spremuti e prosciugati di ogni energia vitale.

Il film sembra suggerire che l’antagonismo alla stato di cose presenti, derivato da quella incontrollata accelerazione industriale che si è rivelata mortifera, dovrebbe saper coniugare logica razionale e tradizioni antiche, le conoscenze scientifiche di cui si dispone – che sono altro rispetto alla tecnoscienza capitalista – e, perché no, le tracce di quelle credenze ancestrali sprezzantemente soffocate in nome di un progresso basato sul solo presente, incurante com’è del passato e del futuro.

Ecco allora che parallelamente al tradizionale falò di buon auspicio che, con il suo simbolico spazzare via di ogni negatività, derivato da pratiche ancestrali, accompagna la festa del Santo del paese, la protagonista decide di affiancarne un nuovo, di lotta, incendiando uno degli escavatori impegnati nell’eliminazione dei secolari ulivi che si sottraggono dalla loro naturale collaborazione con gli umani.

Non c’è bisogno di eroi dalla muscolatura erculea, né di vendicatori mascherati che si ergono a portavoce di chi non li ha nominati; ad appiccare il fuoco può essere una giovane e introversa ragazza dall’aspetto minuto e inoffensivo ma dotata di una risolutezza e di una costanza cui, spesso, solo le donne sono capaci.

Nica è caparbia, tenace e il suo volto e la sua acconciatura la fanno assomigliare alla Giovanna d’Arco cinematografica interpretata da Renée Falconetti in La passione di Giovanna d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc, 1928) di Carl Theodor Dreyer: un’eroina quasi mitica decisa a condurre fino in fondo la sua battaglia. E, a finire sul rogo in questo caso non sarà lei ma la ruspa che devasta gli ulivi in nome del profitto: Nica non esiterà, come già osservato, in un estremo gesto di ribellione, a incendiare quello strumento di morte, servo della crudele meccanica del capitale.

Se nella poesia di Pasolini dal titolo Il pianto della scavatrice (1956), la stessa ruspa emetteva un urlo di dolore distruggendo lembi di campagna per cementificarla, lo scavatore contemporaneo che vediamo nel film è ormai un oggetto meccanizzato e abulico, un automa forse parente lontano di una pervasiva Intelligenza Artificiale che lambisce le nostre esistenze. Vicino ad un fuoco che si erge silenzioso e catartico, Nica stessa si muove in silenzio, come se fosse una figura eterea e figlia del fuoco ella stessa: vengono in mente le sequenze di Sacrificio (Offret, 1986) di Andrej Tarkovskij, nei momenti in cui Alexander si muove placidamente vicino alla propria casa a cui ha appiccato il fuoco.

Certo, quello di Nica è un gesto individuale, ma che può moltiplicarsi al pari degli insetti antagonisti che alleva tenacemente, come del resto, da qualche tempo, dimostrano le comunità montane del nord Italia in lotta contro quell’alta velocità ferroviaria che è soltanto distruzione della natura di cui è parte l’essere umano che la abita. Siamo la natura che si ribella!


  1. Cfr. P. Lago, G. Toni, Anni Ottanta: la chimera e la memoria ai tempi della devastazione, in «Machina», 31 luglio 2024. 

  2. A. Tarkovskij, Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, Firenze, 2015, pp. 55-56. 

  3. F. C. Fiorentin, Piante vs umani, Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2024, p. 27 

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