Reich – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Guerra e rivoluzione nell’immaginario cinematografico contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2022/11/12/rivoluzione-e-controrivoluzione-nellimmaginario-tedesco-contemporaneo-note-a-proposito-di-un-recente-film/ Sat, 12 Nov 2022 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74704 di Sandro Moiso

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (pseudonimo di Erich Paul Remark, 1898–1970) costituisce sicuramente una delle pietre miliari della letteratura anti-militarista del ‘900 e ancora oggi, in tempi di nuove guerre che sembrano ripetere scenari e motivazioni ideologiche e geo-politiche del primo macello imperialista, potrebbe lasciare un segno indelebile in chi volesse leggerlo.

Pubblicato per la prima volta sul giornale tedesco «Vossische Zeitung» nel novembre e dicembre 1928 e in volume alla fine di gennaio del 1929, ebbe subito grande successo e venne successivamente tradotto [...]]]> di Sandro Moiso

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (pseudonimo di Erich Paul Remark, 1898–1970) costituisce sicuramente una delle pietre miliari della letteratura anti-militarista del ‘900 e ancora oggi, in tempi di nuove guerre che sembrano ripetere scenari e motivazioni ideologiche e geo-politiche del primo macello imperialista, potrebbe lasciare un segno indelebile in chi volesse leggerlo.

Pubblicato per la prima volta sul giornale tedesco «Vossische Zeitung» nel novembre e dicembre 1928 e in volume alla fine di gennaio del 1929, ebbe subito grande successo e venne successivamente tradotto in 44 lingue. Mentre per il cinema ha visto realizzate tre versioni, uscite grosso modo a quarant’anni di distanza l’una dall’altra: «All’ovest niente di nuovo» (All Quiet on the Western Front) diretto da Lewis Milestone (1930); «Niente di nuovo sul fronte occidentale» (All Quiet on the Western Front), film TV diretto da Delbert Mann (1979) e, per finire, «Niente di nuovo sul fronte occidentale» (Im Westen nichts Neues) diretto da Edward Berger (2022) e attualmente disponibile su Netflix.

Ed è proprio su quest’ultimo che vale la pena di tornare a riflettere, dopo la recensione già pubblicata su Carmilla domenica 6 novembre. Unico dei tre ad essere di produzione tedesca, mentre i primi due erano di produzione americana e anglo-americana, porta con sé alcuni elementi di indubbio valore, insieme ad altri che ne limitano l’efficacia, indirizzandone i contenuti più su problematiche di battaglia politica interne alla Germania attuale che alla sottolineatura dell’originario antimilitarismo voluto da Remarque nel suo libro. Vediamo ora perché.

Il romanzo descriveva l’inumanità della guerra in ogni suo aspetto, attraverso la prospettiva di un soldato diciannovenne, Paul Bäumer e si basava, almeno in parte sull’esperienza di guerra dell’autore che, dopo il compimento dei 18 anni, fu chiamato alle armi nell’Esercito imperiale tedesco con la sua classe di leva, nel novembre 1916, ed inquadrato inizialmente nel 78º Reggimento di fanteria.

Nel giugno 1917 fu assegnato al 15º Reggimento di fanteria della riserva e inviato nelle trincee delle Fiandre Occidentali. Il 31 luglio 1917 rimase ferito abbastanza gravemente e dopo essere stato dimesso il 31 ottobre 1918, venne infine congedato il 5 gennaio 1919.
Nella sua opera più famosa, Im Westen nichts Neues, con un linguaggio semplice e toccante descrisse in modo realistico la vita durante la guerra. Nel 1933 i nazisti bruciarono e misero al bando le opere di Remarque, mentre la propaganda di regime faceva circolare la voce che discendesse da ebrei francesi e che il suo cognome fosse Kramer, cioè il suo vero nome al contrario.

Il film di Edward Berger rispetta in parte la trama del romanzo e, va detto subito, è certamente uno dei film più realistici, insieme a Uomini contro di Francesco Rosi (1970) e Torneranno i prati di Ermanno Olmi (2014), a sua volta tratto da un racconto di Federico De Roberto (La paura) del 1921, sulle condizioni in cui si svolse la guerra di trincea che caratterizzò il primo conflitto mondiale, soprattutto sui fronti europei.

Un film che gronda letteralmente sangue, fango, violenza, paura, fame, orrore e merda. Sia fisica, quest’ultima, che ideologica. Ma che non sa sottrarsi alla vita politica della Germania odierna. E alle sue menzogne. Così, mentre la parte realistica patisce a tratti un eccesso di effetti drammatici che allontanano la narrazione da quella più stringata e per questo più efficace del libro, quella storico-politica, ben poco presente nell’opera di Remarque, avanza giustificazioni sul comportamento della socialdemocrazia tedesca che possono forse far piacere all’attuale cancelliere Olaf Scholz, ma che sicuramente non rispettano gli eventi accaduti in Germani sul finire di quel conflitto. E anche al suo inizio, che segnò la catastrofe della Seconda Internazionale con il tradimento degli ideali internazionalisti e antimilitaristi che avrebbero dovuto caratterizzare il movimento operaio e i partiti socialisti.

Il troppo umanitarismo, soprattutto mostrato nella figura del ministro che firma l’armistizio con gli alleati, nasconde e ignora gli eventi, prossimi all’esplosione rivoluzionaria, che spinsero nel 1918 il governo tedesco (e probabilmente anche quelli alleati) a cercare una rapida, anche se costosa, soluzione del conflitto. Dimostrando così come nell’immaginario collettivo odierno, pilotato dagli interessi nazionali e dall’ordine costituito, ogni riferimento alla rivoluzione o all’azione dal basso in direzione di un governo dei consigli costituisca il vero, inviolabile tabù.

Come ha scritto lo storico Fritz Fischer, a proposito di quegli eventi:

Con la richiesta di inoltrare immediatamente domanda di armistizio, presentata dal Comando supremo dell’esercito al governo del Reich, la Germania doveva rinunciare alla lotta; non si poteva più parlare seriamente di mire belliche tedesche. La Germania ormai poteva considerarsi fortunata se fosse riuscita a salvare ancora almeno la sua posizione di grande potenz europea e semplicemente cavarsela liscia dall’inevitabile sconfitta […] Come via d’uscita [il ministro degli esteri Paul von Hintze il 29 settembre 1918] fissò la «fusione di tutte le energie della nazione per la battaglia difensiva finale» per mezzo della dittatura o della democratizzazione, della «rivoluzione dall’alto». Il Kaiser e i generali rifiutarono la «dittatura» – per poterla realizzare era necessaria la vittoria – e si dichiararono favorevoli a «incanalare» la democratizzazione secondo laproposta di Hintze. Questa mobilitazione delle ultime forze doveva servire a estorcere un armistizio ed una pace fondati sulle proposte del presidente americano Wilson […] Il Kaiser, il Comando supremo, il governo del Reich erano d’accordo sia con la «rivoluzione dall’alto», sia con i principi di Wilson.[…]
Da questo momento tutti gli sforzi tedeschi per la pace si concentrarono sugli Stati Uniti d’America. In conformità con gli accordi del 29 settembre, il nuovo governo tedesco presieduto dal principe Max del Baden pregò pertanto il presidente Wilson nelle prime de note del 3 ottobre 1918 «di prendere l’iniziativa per stabilire la pace» e per addivenire a un armistizio immediato, dichiarando la volontà della Germania di accettare una pace fondata sui 14 punti1.
Contemporaneamente procedeva la «democratizzazione». Ma nella Germania imperiale la vittoria delle istituzioni parlamentari e democratiche [era] il frutto di una premeditata «rivoluzione dall’alto», per prevenire la «rivoluzione dal basso» e porsi al tempo stesso in una posizione il più possibile favorevole ai fini delle trattative con le potenze vincitrici […] Per la prima volta nella storia tedesca l’ingresso nel governo di capi partito della fama di Erzberger [leader della sinistra del partito cattolico] e Scheidemann [principale esponente parlamentare della Socialdemocrazia tedesca] conferì al gabinetto carattere parlamentare. Il Reichstag sanzionò molto più tardi, il 27 ottobre, con l’approvazione accordata alle leggi di modifica costituzionale presentate dal governo, dietro pressioni di Wilson, la nuova evoluzione che doveva rendere il parlamento titolare della sovranità. Comunque, troppo tardi per arrestare la rivoluzione, che arrivò ancora a scoppiare per via degli indugi nelle trattative d’armistizio e del timore che la guerra avesse a continuare.
Al tempo stesso, la vittoria sulla rivoluzione conseguita grazie all’alleanza tra il capo della socialdemocrazia maggioritaria Ebert e Hindenburg, che era rimasto alla testa dell’esercito dopo l’abdicazione di Guglielmo II, doveva costituire agli occhi delle potenze occidentali la migliore raccomanzazione della giovane repubblica, che sperava di veder mitigare le condizioni di pace per via della sua qualifica di antesignana della lotta contro il bolscevismo. In effetti gli alleati, proprio per via della funzione stabilizzatrice che il governo Ebert- Noske esercitava nel cuore dell’Europa2, permisero con le loro condizioni di armistizio che la Germania continuasse a tenere le sue truppe all’Est contro la rivoluzione rossa, fino a quando non fossero sostituite da forze alleate3.

Certo, anche nel testo di Remarque mancano queste riflessioni ma, in compenso, in maniera asciutta ed efficace, i veri mostri si dimostrano essere quelli del nazionalismo o della disciplina militare prussiana, e sono mostrati nella figura del docente liceale che convince gli studenti ad arruolarsi e negli ufficiali rigidi esecutori degli ordini. E ciò basta a delineare il clima in cui Paul, Albert, Haie, Müller e Kat recitano gli ultimi imponderabili atti delle loro esistenze, prima studentesche o proletarie. Mentre uno solo sarà destinato a salvarsi, Tjaden.

Ed è proprio il finale del libro a mostrare tutta la distanza, tra il film di oggi e la scrittura di allora, nel descrivere la morte, un mese prima della fine della guerra, di Paul che ha narrato le vicende in prima persona fino a poche righe prima.

Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla sul terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi che fosse contento di finire così 4.

Ma se le differenze a livello di narrazione e drammatizzazione possono essere pienamente comprensibili e spesso condivisibili, soprattutto quando il film mette particolarmente in risalto la miseria della vita dei soldati nelle retrovie e al fronte, in special modo la fame5 e il desiderio di una donna, niente affatto comprensibile e ancor meno condivisibile è la scelta di “esaltare” la figura dei rappresentanti del nascente governo parlamentare e dei socialdemocratici.

Sia per la funzione avuta da questi ultimi, soprattutto all’inizio della guerra, nel votare i crediti governativi in appoggio al nazionalismo tedesco, sia per la funzione autenticamente controrivoluzionaria svolta da quel governo al momento della sua nascita, con la decapitazione del movimento spartachista anche per mezzo dei Freikorps6, l’instaurazione di una politica volta allo stesso tempo a garantire, per la borghesia tedesca, una “pacifica” transizione dall’Impero alla repubblica parlamentare e la sostituzione delle istanze di classe, avanzate dai consigli degli operai, dei soldati e dei marinai che si andavano formando nelle settimane a cavallo della fine della guerra, con le richieste di stabilità e continuità avanzate dalla borghesia industriale, dal comando dell’esercito e dai rappresentanti degli junker e della aristocrazia terriera e militare.

Come il nascente nazismo abbia poi ripagato i rappresentati di quell’esperienza governativa è stata la storia degli anni successivi, fino dall’elezione a cancelliere di Hitler nel 1933, a dimostrarlo. Quello che infastidisce, perciò, ancor di più nel film è il maldestro tentativo di separare con una improbabile linea netta le responsabilità politiche, militari e, perché no, morali della socialdemocrazia tedesca da quelle dell’esercito e dei governi precedenti, creando una figura di riferimento “ideale” dal punto di vista del “male” nella figura del generale che invia a poche ore dalla fine della guerra i propri soldati al massacro, In un’azione insensata, così come si vorrebbe sostenere da sempre che il nazismo non affondasse le sue radici nel nazionalismo, negli interessi economici e militari della borghesia e dell’aristocrazia tedesca, ma soltanto in una distorta e malata concezione del mondo.

Ecco allora che anche i soldati devono essere dipinti come pecoroni, ancor più che pecore, disposti ad obbedire a qualsiasi ordine, anche il più assurdo. Dimenticando, però, che proprio nei giorni finali del conflitto, durante i quali si svolge la maggior parte degli avvenimenti della seconda parte del film, i soldati e i marinai stavano insorgendo, ribellandosi proprio contro quegli ordini, quei generali e quello Stato che la socialdemocrazia fu chiamata a difendere, giuste le considerazioni svolte prima da Fischer. Ancor più, e soprattutto, dopo l’abdicazione del Kaiser e la proclamazione della Repubblica il 9 novembre 1918.

Proiettato sul momento attuale, quel fraintendimento non appare affatto casuale o non voluto. Da una parte la socialdemocrazia odierna, guidata da Olaf Scholz, dall’altra i cattivi dell’AFL, in mezzo la Germania con tutte le sue difficoltà (economiche, energetiche, militari…) che, per senso del dovere e della patria i socialdemocratici di oggi, come quelli di ieri, devono affrontare e risolvere. A costo di far precipitare ancora una volta il paese in una guerra (se a fianco della Nato o meno è ancora da decidere) indiscutibilmente “mondiale” oltre che europea.

Ecco perché allora l’opera di Berger appare non solo ambigua, ma anche servile nei confronti di interessi che sono ancora gli stessi di quelli che contribuirono a scatenare il primo e, anche, il secondo conflitto mondiale. Autentiche lacrime di coccodrillo che coprono, cercando di annebbiare lo sguardo dello spettatore, quell’atto di eroismo collettivo che andò dalle prime rivolte dei soldati e dei marinai del novembre 1918, che costrinsero governo e comandi militari ad accelerare i tempi dell’armistizio, all’insurrezione di Berlino tra il 5 e il 12 gennaio 19197. Unico, autentico barbaglio di luce in un tempo che oggi, per opportunismo intellettuale o per semplice ignoranza della Storia, si vorrebbe rappresentare soltanto come nero e oscuro.


  1. Si veda qui per i 14 punti di Wilson – NdR.  

  2. Reprimendo l’insurrezione spartachista del gennaio 1919 e ordinando l’eliminazione fisica, poi avvenuta in quei giorni, di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht- NdR.  

  3. F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi, Torino 1965, pp. 813-815  

  4. E. M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Oscar Mondadori, novembre 1965, p. 237  

  5. Ad esempio, nel romanzo di Remarque, Kat muore per una scheggia di shrapnel nel cervello invece che per aver rubato delle uova in una cascina.  

  6. Corpi franchi o milizie volontarie irregolari in cui erano arruolati ex- militari e combattenti dall’indirizzo decisamente anti-bolscevico e nazionalista  

  7. Per il susseguirsi degli eventi rivoluzionari in Germania fino al 1923, si consultino: Pierre Broué, Rivoluzione in Germania 1917-1923, Einaudi, Torino 1977; P. Frolich-R.Lindau-A. Schreiner-J. Walcher, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania 1918-1920, Edizioni Pantarei, Milano 2001; P. Frolich, Guerra e politica in Germania 1914-1918, Edizioni Pantarei, Milano 1995; A. Rosemberg, Origini della Repubblica di Weimar, Sansoni, Firenze 1972; D. Authier-J. Barrot, La Sinistra Comunista in Germania, La Salamandra, Milano 1981; E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in Occidente, Dedalo Libri, Bari 1974; V. Serge, Germania 1923. La mancata rivoluzione, Graphos, Genova 2003  

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Il razzismo, la democrazia e il male assoluto https://www.carmillaonline.com/2020/09/16/il-razzismo-la-democrazia-e-il-male-assoluto/ Wed, 16 Sep 2020 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62585 di Sandro Moiso

James Q. Whitman, Il modello americano di Hitler. Gli Stati Uniti, la Germania nazista e le leggi razziali, LEG edizioni, Gorizia 2019, pp. 180, 20,00 euro

E’ un tema spinoso, un argomento scottante e soprattutto un terreno minato quello in cui si avventura James Q. Whitman, docente di Diritto comparato presso la Yale Law School, nell’analizzare i rapporti tra le leggi razziali e razziste americane (riferibili come “leggi Jim Crow”) e l’insegnamento che ne trassero e l’uso che ne fecero i legislatori nazisti che diedero vita alle leggi di [...]]]> di Sandro Moiso

James Q. Whitman, Il modello americano di Hitler. Gli Stati Uniti, la Germania nazista e le leggi razziali, LEG edizioni, Gorizia 2019, pp. 180, 20,00 euro

E’ un tema spinoso, un argomento scottante e soprattutto un terreno minato quello in cui si avventura James Q. Whitman, docente di Diritto comparato presso la Yale Law School, nell’analizzare i rapporti tra le leggi razziali e razziste americane (riferibili come “leggi Jim Crow”) e l’insegnamento che ne trassero e l’uso che ne fecero i legislatori nazisti che diedero vita alle leggi di Norimberga nel 1935.
Molti studiosi, storici del diritto e non, avevano già in precedenza rilevato il collegamento tra i due regimi giuridici, ma, quasi tutti, hanno cercato poi di sminuirne il valore o, almeno, di separare e distanziare nettamente le due realtà, tendendo a negare che le Leggi Jim Crow possano davvero avere avuto importanza nella costituzione del modello nazista.

Invece, fin dalla Prefazione, Whitman afferma che:

Si dice spesso che il razzismo americano sia incompatibile con i valori della democrazia americana – e in particolare che lo schiavismo su base razziale abbia rappresentato una macchia sulla Fondazione, una contraddizione con le promesse della nuova repubblica. Ma […] democrazia e razzismo andavano a braccetto agli albori della storia americana […] E’ dura convincere le persone ad accettare di essere tutte uguali. Una delle strategie migliori per ottenere questo risultato, come sappiamo, è di farle unire contro un comune nemico razziale -convincendo bianchi poveri e bianchi ricchi, ad esempio, a unirsi nel disprezzo per i neri. John C. Calhoun, un personaggio oggetto di una lusinghiera biografia nazista nel 1935, descrisse i punti chiave di questa strategia nel 1821. Lo schiavismo su base razziale, diceva, era necessario in quanto si trattava della “migliore garanzia di eguaglianza fra i bianchi. Esso produce fra loro un livello di parità […]”.
Anche la politica nazista era una politica che promuoveva una forma di egualitarismo nello stile di Calhoun – egualitarismo per quelle persone che i nazisti consideravano membri del Volk, a spese di quelli che non lo erano. Quando esaminavano la mostruosa legislazione razziale americana all’inizio degli anni ’30, i giuristi nazisti stavano esaminando un qualcosa le cui fondamenta politiche non erano poi così diverse dalle loro. Entrambi i paesi erano culle di un egualitarismo fatto di risentimento razziale.1

Nelle pagine successive l’autore ci ricorda poi che, il 5 giugno 1934, i più importanti giuristi della Germania nazista si erano riuniti per progettare quelle che sarebbero poi diventate le Leggi di Norimberga, vero impianto legislativo su cui si sarebbe fondato, fino alla sua caduta, il regime.
In queste l’esclusione dai diritti dei cittadini non ariani, la loro emarginazione e successiva proibizione dei matrimoni misti, si sarebbe accompagnato ad una vera e propria definizione e creazione del “vero” cittadino nazista e della sua bandiera.

Fu una riunione importante, e uno stenografo presente produsse una trascrizione letterale, un documento che la diligentissima burocrazia nazista conservò a testimonianza di quello che era un momento cruciale nella creazione del nuovo regime razziale […] Nel corso dei minuti iniziali, il Ministro della Giustizia Gürtner presentò un promemoria sulle leggi americane sulla razza, una nota redatta con grande accuratezza dai funzionari del ministero proprio in vista di quell’incontro; e durante la discussione i partecipanti tornarono più volte ai modelli americani di legislazione nazista. E’ assolutamente sbalorditivo scoprire che tra i presenti, i nazisti più radicali fossero i più appassionati sostenitori della lezione che l’approccio americano offriva alla Germania. Questa trascrizione, inoltre, non è l’unica testimonianza dell’attenzione dei nazisti alle leggi razziali americane. Fra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 molti nazisti, fra i quali persino lo stesso Hitler, mostrarono grande interesse per la legislazione razzista degli Stati Uniti. Nel Mein Kampf Hitler lodava l’America come niente di meno che “l’unico stato” che fosse riuscito a progredire in direzione di quell’ordine razzista che le Leggi di Norimberga miravano a realizzare […] Per dirla con le parole di due storici del Sud, negli anni ’30 la Germania nazista e il Sud degli Stati Uniti si guardavano “come allo specchio”: si trattava di due regimi apertamente razzisti e di straordinaria crudeltà. Nei primi anni ’30 gli ebrei tedeschi erano braccati, picchiati e talvolta assassinati sia da bande organizzate che dallo Stato stesso. Negli stessi anni, i neri del Sud americano erano a loro volta braccati, picchiati e talvolta assassinati.2

Certo nella vulgata comune la vicinanza tra i due sistemi è una realtà negata e difficile da digerire.

Quali che siano state le analogie fra i regimi razzisti degli anni ’30, per quanto disgustosa possa essere la storia del razzismo americano, siamo abituati a pensare al nazismo come a un orrore senza precedenti. I crimini nazisti rappresentano l’abominio, l’orribile sprofondare verso quello che viene spesso definito “male radicale”.3

Eppure, eppure… la realtà è, secondo l’autore, che l’interesse dei nazisti per l’esempio americano di leggi razziali «fu duraturo, significativo e in certi casi persino entusiasta. Sicuramente volevano imparare dall’America».
Prova ne sia che appena dopo la proclamazione della Legge sulla cittadinanza del Reich, di quella sulla protezione del sangue e dell’onore tedesco e di quella sulla bandiera del Reich, quarantacinque avvocati nazisti salparono per New York sotto gli auspici dell’Associazione nazionalsocialista tedesco dei giuristi. Il viaggio fu una ricompensa per gli avvocati, che avevano codificato la filosofia legale basata sulla razza del Reich.

Lo scopo dichiarato della visita era quello di ottenere “uno speciale spaccato del funzionamento della vita legale ed economica americana attraverso studi e conferenze”. I precedenti americani ebbero così modo di informare altri cruciali testi nazisti, tra cui il Manuale socialista nazionale per la legge e la legislazione. Un saggio fondamentale in quel volume, le raccomandazioni di Herbert Kier per la legislazione razziale, dedicava un quarto delle sue pagine alla legislazione degli Stati Uniti, che andava oltre la segregazione includendo le regole che governano gli indiani d’America, i criteri di cittadinanza per filippini e portoricani e gli afroamericani, i regolamenti sull’immigrazione e divieti contro l’incrocio di razze in circa 30 stati. Nessun altro paese, nemmeno il Sudafrica, possedeva un insieme così sviluppato di leggi pertinenti.

Non si confonda quindi il lettore nel pensare agli Stati Uniti degli anni Trenta, quelli dell’età di Roosvelt e del New Deal e poi avversari del nazismo e dell’espansionismo nipponico dopo l’attacco di Pearl Harbor, come al regno della democrazia e del diritto. Il Partito Democratico aveva una buona parte delle sue radici e del suo elettorato proprio in quel Sud in cui le leggi segregazioniste erano particolarmente diffuse mentre, nello stesso periodo, anche i bianchi poveri e i piccoli contadini sfuggiti alle tempeste di polvere dell’Oklahoma avrebbero dovuto fare i conti con una nuova forma di segregazione di classe nei campi che “accoglievano” i migranti interni in California. In attesa di essere impiegati come manodopera e braccianti a bassissimo costo nelle grandi imprese agricole del Golden State.

Lavoro coatto nella sua forma schiavista (o quasi) che dagli afro-americani si era esteso al proletariato bianco, non troppo dissimile da quello che sarebbe diventato poi d’uso comune per i prigionieri di guerra e gli internati dei campi di concentramento che, nel corso del secondo macello imperialista, avrebbe caratterizzato economie e società di gran parte dei paesi belligeranti. Non soltanto in Germania.

Come afferma Whitman, l’intento della sua ricerca «è quello di raccontare una storia trascurata: la storia di come i nazisti, al momento della redazione delle Leggi di Norimberga, andarono a scavare nella legislazione americana in cerca di ispirazione. Ma è anche quello di interrogarci su cosa questo ci dica della Germania nazista, della storia moderna del razzismo, e soprattutto dell’America».

Molto spesso ricerche come quella del Whitman sono state tacciate, a torto o a ragione, di costituire una sorta di reductio ad Hitlerum, ovvero una tattica tendente a screditare qualcuno o qualcosa comparandolo ad Adolf Hitler o al nazismo tout court. Per alcuni interpreti tale tattica potrebbe poi avere, in alcuni casi, anche la funzione di ridurre le responsabilità politiche e morali del nazismo dimostrando che anche altri avrebbero operato in passato nello stesso modo.

Peccato però che anche tale interpretazione potrebbe servire a mascherare le responsabilità dei disastri militari, politici, economici e sociali (oltre che morali) tipici del modo di produzione attualmente dominante, la cui distruttività non è merito soltanto di singoli individui (Hitler o Trump, solo per citarne due fin troppo facili da indicare) o partiti, ma soprattutto delle insopprimibili regole di divisione di classe e di appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta che ne costituiscono le fondamenta, fin dal suo primo apparire nel XVI secolo.

A ben guardare, poi, è proprio l’America di oggi, quella che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni attraverso i canali televisivi e tutti gli altri media, a confermarci la ferocia del razzismo sotteso dalla libertà americana. Una pur rapida disamina dei recenti atti di violenza poliziesca nei confronti della popolazione afro-americana ci conferma infatti ancora che gli Stati Uniti, dalla loro originaria fondazione fino all’uccisione di George Floyd e a quelle successive verificatesi a Kenosha, Los Angeles e Washington, hanno fondato la loro struttura sociale su una rigida divisione etnica basata su quella che è stata definita “linea del colore” e, anche all’interno delle etnie escluse, su una ferrea divisione classista tra chi ha e chi non ha.

Lo stesso estensore della Dichiarazione di indipendenza, Thomas Jefferson, poteva infatti lanciare l’idea di una indefinita ricerca di uguaglianza e felicità cui sarebbe stato destinato il popolo americano, pur mantenendo nelle sua piantagioni 250 schiavi, dimostrando così nei fatti (nonostante la sua successiva promessa di contribuire a liberare tutti gli schiavi mai veramente andata in porto) come segregazione razziale e sfruttamento o sterminio delle altre etnie ad opera dell’uomo bianco non fossero che l’altra faccia della medaglia del progressismo liberale. Cosa che già anche Marx aveva notato, nel 1847 in Miseria della filosofia, affermando che la schiavitù del Sud degli Stati Uniti poco o nulla aveva a che fare con quella antica, mentre invece costituiva un moderno sistema di sfruttamento, peraltro indispensabile allo sviluppo del capitalismo manifatturiero inglese ed europeo4.

Anche se è pur sempre indubitabile che se gli Stati Uniti sono entrati negli anni ’30 come l’ordine razziale più consolidato del globo, i percorsi di Norimberga e le leggi Jim Crow si sono svolti in modo molto diverso, uno culminante nel genocidio di massa, l’altro, dopo molte lotte, in conquiste dei diritti civili. Ma, come ha rilevato Ira Kratznelson, politologo e storico americano specializzato nell’analisi dello stato liberale e delle disuguaglianze negli Stati Uniti presso la Columbia University, in una recensione del libro di Whitman: «nessuna di queste conquiste, nemmeno la presidenza di un afroamericano, ha rimosso le questioni di razza e cittadinanza dall’agenda politica. I dibattiti attuali su entrambi i punti ci ricordano chiaramente che i risultati positivi non sono garantiti. Le stesse regole del gioco democratico – elezioni, open media e rappresentanza politica – creano possibilità persistenti di demagogia razziale, paura ed esclusione». Per cui occorre ricordare che se Donald Trump, da un lato, minaccia l’uso della forza e delle armi per riportare l’ordine nelle città in rivolta, dall’altro il candidato “democratico” Joe Biden, nel discorso tenuto proprio alla Grace Lutheran Church di Kenosha il 3 settembre, non ha mancato di ribadire che: “Non conta quanto sei arrabbiato, se fai razzie o appicchi il fuoco, devi poi risponderne. Punto. Non puo’ essere tollerato, su tutta la linea”.

Il male, quello vero che ci attanaglia in ogni luogo e in ogni momento, ha il volto di un modo di produzione giunto alla sua fase terminale e che sopravvive grazie al mantenimento delle sue strutture più arcaiche e odiose, destinate a reprimere e dividere subdolamente la massa di coloro che dovrebbero affossarlo per sempre. Di queste strutture, ed eterne exit strategy per il capitalismo, certamente il razzismo, negli Stati Uniti di Trump e dei suoi predecessori oppure qui nell’Italietta di Salvini, Minniti, Meloni, Di Maio e Conte, costituisce ancora uno degli aspetti più insopportabili e verminosi.

N.B.
In memoria di Michael Reinoehl, “100% Antifa” come era solito definirsi, ucciso dagli agenti federali giovedì 3 settembre a Lacey, Stato di Washington, per essersi attivamente opposto alla manifestazione suprematista di Portland la settimana precedente.


  1. J.Q. Whitman, Il modello americano di Hitler, pp.11-12  

  2. J.Q. Whitman, op. cit. pp.15-16  

  3. Ivi, pag. 16  

  4. Per una più approfondita disamina dell’evoluzione del pensiero e dell’analisi di Marx sullo schiavismo si veda: J. Bellamy Foster, H. Holleman e B. Clark, Marx e la schiavitù, Monthly Review, qui  

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Istantanea di gruppo con lager: gli anarchici italiani deportati https://www.carmillaonline.com/2017/05/04/istantanea-un-gruppo-gli-anarchici-italiani-nei-lager/ Wed, 03 May 2017 22:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37997 di Sandro Moiso

RA415 Franco Bertolucci (a cura di), Gli anarchici italiani deportati in Germania durante il Secondo conflitto mondiale, in Rivista Anarchica n° 415, aprile 2017, pp.130, € 4,00

Anche se oggi un perverso gioco di rimozione e occupazione della Memoria storica sembra averlo fatto dimenticare, i campi di concentramento, prigionia ed annientamento messi in funzione dal regime nazionalsocialista nacquero, fin dal momento dell’ instaurazione di Hitler al potere, come luoghi destinati alla reclusione dei suoi avversari politici. Il primo di questi fu quello di Dachau, aperto il 22 marzo 1933, in [...]]]> di Sandro Moiso

RA415 Franco Bertolucci (a cura di), Gli anarchici italiani deportati in Germania durante il Secondo conflitto mondiale, in Rivista Anarchica n° 415, aprile 2017, pp.130, € 4,00

Anche se oggi un perverso gioco di rimozione e occupazione della Memoria storica sembra averlo fatto dimenticare, i campi di concentramento, prigionia ed annientamento messi in funzione dal regime nazionalsocialista nacquero, fin dal momento dell’ instaurazione di Hitler al potere, come luoghi destinati alla reclusione dei suoi avversari politici.
Il primo di questi fu quello di Dachau, aperto il 22 marzo 1933, in cui furono inizialmente raccolti gli oppositori di sinistra al III Reich: comunisti, sindacalisti, socialdemocratici, sovversivi in genere e anarchici.

Si calcola che, negli anni successivi e soprattutto nel biennio 1943-1945, siano stati circa 40.000 gli italiani trasferiti e reclusi in quei campi che, nel corso della costruzione del Nuovo Ordine Europeo voluto dai gerarchi tedeschi, assommarono complessivamente a 20.000. Campi di lavoro e di sterminio che, in realtà, non rappresentarono una novità assoluta per il XX secolo, che si era aperto con i campi di concentramento per i contadini cubani ribelli ideati nel 1896 dal generale e governatore spagnolo dell’isola Valeriano Weyler y Nicolau, di origine prussiana e con quelli in cui gli inglesi trasferirono dai 120.000 ai 160.000 afrikaaner – uomini, donne e bambini – per piegarne la resistenza.

Campi di prigionia e, troppo spesso, annientamento fisico che, come ben ricorda in una sintetica introduzione al suo saggio Franco Bertolucci, hanno costellato la storia del ‘900: da quelli per i cittadini di origine giapponese imprigionati dal governo degli Stati Uniti dopo Pearl Harbour al Gulag sovietico dove, non dimentichiamolo, furono racchiusi almeno 18 milioni di cittadini russi e in prevalenza oppositori del regime staliniano. Oppure, ma poi ci fermiamo perché l’elenco si rivelerebbe troppo lungo, da quelli, creati dal colonialismo italiano, in Libia e in Etiopia destinati alle popolazioni locali a quelli dei regimi autoritari e golpisti dell’America Latina degli anni settanta fino a Guantanamo e agli attuali campi, nati sulle coste del Mediterraneo, per la raccolta e identificazione dei profughi.

Nati da un sistema coloniale razzista ed esclusivo, si pensi alle riserve indiane già create negli Stati Uniti nel corso della seconda metà dell’Ottocento, avrebbero poi ripetuto il loro modello sul continente in cui il colonialismo e il razzismo avevano avuto origine. Applicandolo a milioni di persone. Modello e sistema concentrazionario che, con meticolosità ed efficienza prettamente germaniche, i lager avrebbero portato alle estreme conseguenze.

La meticolosa catalogazione dei prigionieri “andava di pari passo con la regolazione del loro tempo e delle loro mansioni nei diversi campi, fino alla loro sistematica eliminazione, fu di fattom l’estremizzazione di quell’idea di «disciplina industriale»1 introdotta fin dall’avvento della prima rivoluzione industriale e delle norme giuridiche relative ai sistemi di punizione e controllo sociale elaborate a partire, guarda caso, dal XVIII secolo.

Un gigantesco sistema di lavoro coatto, affittato alle diverse aziende tedesche che producevano per il Reich, dove la forza lavoro schiavizzata era sfruttata fino al totale esaurimento delle forze e dove i corpi potevano essere oggetto di tutte le sperimentazioni e violenze possibili. In cui il lavoro estraniato, inteso come violenza dell’uomo sull’uomo, assumeva il suo significato definitivo.
Un sistema che portò alla morte circa dieci milioni di persone tra ebrei, prigionieri di guerra sovietici, oppositori politici, omosessuali, zingari, disabili, diversi e disadattati di ogni genere, categoria e provenienza nazionale.

Dei 40.000 italiani deportati nei lager, ben 23.826 furono considerati politici, di cui 10.129 destinati a non fare ritorno a casa e a morire nei lager. “Dachau, con 9.311 persone, detiene il primato per il maggiore numero di deportati politici italiani; a seguire, oltre il già tristemente noto Mauthausen (6.615), Buchenwald (2.123), Flossenbürg (1.798), Auschwitz e Ravensbrück con lo stesso numero (847), Dora Mittelbau (794) e poi gli altri campi”.2

Tra questi detenuti politici la scrupolosa e meticolosa ricerca di Bertolucci, direttore della benemerita Biblioteca Franco Serantini di Pisa (forse il maggior centro italiano di documentazione sulla storia del movimento operaio in tutte le sue possibili declinazioni), è riuscita ad individuare 102 militanti anarchici di cui il dossier presenta le schede individuali che ne ripercorrono, sinteticamente, la vita, le scelte politiche, le condizioni lavorative, l’arresto o, ancor più spesso, gli arresti e la morte, talvolta sopraggiunta ancora a seguito delle cattive condizioni di salute ereditate dai lager, pur essendo magari riusciti a sopravvivere agli stessi.

Quasi tutti erano nati entro i primi dieci anni del secolo, a testimonianza di una crisi in cui il movimento anarchico era stato spinto dal trionfo dei regimi dittatoriali e dalla guerra mondiale, oltre che dalla crisi delle lotte proletarie seguite alle sconfitta in Spagna, Italia, Germania e Russia soprattutto. E quasi tutti erano operai di umili condizioni che pure avevano spesso scelto di far parte sia di formazioni combattenti nel corso della guerra civile spagnola che, fin dai primi giorni successivi alla caduta di Mussolini nel 1943, delle prime bande partigiane.

Tutti, arrestati in Italia o, spesso, in Francia, dove avevano trovato un precario rifugio dopo l’ascesa del fascismo oppure dopo la sconfitta della Repubblica spagnola, dalla Gestapo o dalle milizie fasciste, furono meticolosamente individuati come sovversivi e pericolosi avversari dei regimi fascisti. Fin dalla prima ora della loro comparsa. Ma, il curatore ce lo ricorda, se, già per i ««politici» “l’elenco è parziale, mancando molta documentazione, e soprattutto si riferisce in particolare agli ultimi anni di guerra (1943-45)”,3 per gli anarchici, i loro percorsi e l’esatta quantificazione di quelli che finirono nelle maglie del sistema concentrazionario gemanico molto lavoro di indagine e ricerca deve essere ancora fatto.

Ad arricchimento di questa prima inchiesta storiografica è stato inserito, nel dossier curato da Franco Bertolucci, un ampio ed interessante estratto dal diario di uno dei sopravvissuti, Antonio Dettori, il cui percorso di pubblicazione nel corso degli anni sessanta rivela come la storiografia e la “memoria” della deportazione e della lotta antifascista sia stata spesso inficiata4 da resistenze culturali, politiche, ideologiche e, talvolta, molto più semplicemente dalla superficialità dei ricercatori e degli “specialisti”. Il diario,5 di prossima pubblicazione nella sua versione integrale per le Edizioni BFS, costituisce un ‘importante testimonianza non solo per la ricostruzione delle vicende di vita di un militante antifascista libertario, ma anche dell’organizzazione del lavoro dei campi e delle sofferenze che lo accompagnavano.

Occorre infine segnalare che, nello stesso numero della Rivista Anarchica, è presente, insieme a numerosi altri articoli, anche un intervento sull’ormai inevitabile dibattito sul business delle emergenze umanitarie legate ai profughi che attraversano il Mediterraneo e alle colpe del militarismo.6


  1. pag. 71  

  2. pag. 71  

  3. pag. 70  

  4. Basterebbe ricordare ancora una volta le traversie occorse alla pubblicazione di “Se questo è un uomo “ di Primo Levi  

  5. Diario del deportato Antonio Dettori, triangolo rosso, n. 94450, pp. 99-124  

  6. Renzo Sabatini, Una finestra aperta, pp. 7-10  

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I pidocchi contro il Terzo Reich: tra ricerca scientifica e resistenza nella Polonia occupata dai nazisti https://www.carmillaonline.com/2015/08/24/i-pidocchi-contro-il-terzo-reich-tra-ricerca-scientifica-e-resistenza-nella-polonia-occupata-dai-nazisti/ Mon, 24 Aug 2015 21:30:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24468 di Armando Lancellotti

Allen - Il fantastico laboratorio cop_Noorda cop.Arthur Allen, Il fantastico laboratorio del dottor Weigl, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, 373 pagine, € 25,00

Il fantastico laboratorio del dottor Weigl, il primo libro tradotto e pubblicato in italiano di Arthur Allen, giornalista statunitense che si occupa principalmente di scienza e medicina, è tante cose insieme: è un saggio di storia della medicina e dell’immunologia in particolare, nel quale ampio spazio viene riservato anche alla riflessione epistemologica, ma è pure un volume di storia, che ricostruisce, con la precisione e la dovizia [...]]]> di Armando Lancellotti

Allen - Il fantastico laboratorio cop_Noorda cop.Arthur Allen, Il fantastico laboratorio del dottor Weigl, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, 373 pagine, € 25,00

Il fantastico laboratorio del dottor Weigl, il primo libro tradotto e pubblicato in italiano di Arthur Allen, giornalista statunitense che si occupa principalmente di scienza e medicina, è tante cose insieme: è un saggio di storia della medicina e dell’immunologia in particolare, nel quale ampio spazio viene riservato anche alla riflessione epistemologica, ma è pure un volume di storia, che ricostruisce, con la precisione e la dovizia di particolari, fatti e dati richiesta dalla scrittura storiografica, vicende accadute nei trent’anni che comprendono le due guerre mondiali ed infine è un libro che con uno stile avvincente e coinvolgente parla di persone, luoghi ed intrecci che, se non fossero realtà storica, sembrerebbero inventati dalla fertile immaginazione di un romanziere. Ed infatti il titolo del volume risulta quasi più adatto ad un romanzo che ad un saggio di Storia, filosofia e scienze sociali, che è il titolo della collana di saggistica della Bollati Boringhieri in cui l’opera compare.

Questi i protagonisti principali delle vicende: due scienziati, il dottor Rudolf Weigl e il dottor Ludwig Fleck; i pidocchi, che trasmettono il batterio Rickettsia prowazekii; il tifo petecchiale, di cui il batterio è causa e che falcidiò gli eserciti della prima guerra mondiale e che per questo motivo divenne l’oggetto principale degli studi e degli sforzi di ricerca degli scienziati e dei microbiologi tra le due guerre e soprattutto dei due sopra citati, che riuscirono a realizzare un vaccino efficace contro la malattia. A Weigl e Fleck si aggiungono poi i tanti altri ricercatori, scienziati, intellettuali ed accademici della Polonia tra le due guerre che collaborarono o comunque assistettero alle ricerche dei primi due ed anche i numerosi medici nazisti (per lo più criminali delle SS) che tentarono di sfruttare i risultati dei loro studi.
I luoghi più importanti in cui si svolsero i fatti dall’autore ricostruiti sono essenzialmente Leopoli e Buchenwald. Leopoli, o meglio Lemberg, nome tedesco della principale città della Galizia austro-ungarica, che poi divenne Lwów, dopo la prima guerra mondiale e la nascita della Repubblica polacca e in seguito ancora Lemberg, ma questa volta all’interno del Governatorato generale nazista e dopo ventidue mesi di occupazione staliniana dal 1939 al ‘41 e che, a guerra terminata, venne definitivamente inclusa nella Repubblica sovietica di Ucraina, prendendo il nome di Lviv.
Una città crogiuolo di lingue, nazionalità, fedi religiose e la cui popolazione era costituita da polacchi, ebrei ed ucraini. Particolarmente numerosa era la comunità degli ebrei di Leopoli, come accadeva in tutta la Polonia, dove gli ebrei costituivano il 10% della popolazione e soprattutto nella parte orientale del paese, dove la percentuale cresceva considerevolmente ed ebreo leopolitano era Ludwig Fleck, mentre Rudolf Weigl, nato in una città ceca della Moravia asburgica, trasferitosi a Leopoli, era un polacco di origine tedesca, che continuò a rivendicare la propria identità polacca anche quando, dopo l’arrivo della Wehrmacht, egli fu considerato dagli occupanti un Wolksdeutsche, cioè un uomo di etnia tedesca, ma di altra cittadinanza. Ed è la stessa città, Leopoli, martoriata dall’occupazione nazista, in cui alcune famiglie di ebrei riuscirono a nascondersi e a sopravvivere sotto terra, nelle fogne, per quattordici mesi, sfuggendo in tal modo allo sterminio, come racconta il bel film del 2011 di Agnieszka Holland,  W ciemności (In Darkness), tratto dal libro di Robert Marshall, In the Sewers of Lvov (1990).
Una città di quell’Europa centro-orientale che fu letteralmente fatta a pezzi sia dal primo sia dal secondo conflitto mondiale e che fu anche il teatro principale dello sterminio degli ebrei europei e così Leopoli e due importanti esponenti della sua vivace comunità scientifica assurgono a simbolo della tragica storia europea della prima metà del secolo scorso, che raggiunse l’apice della brutalità genocida proprio nei campi di sterminio e di concentramento nazisti, come a Buchenwald, dove, dopo la reclusione nel ghetto di Leopoli e una prima deportazione ad Auschwitz, arrivò Ludwig Fleck.
Due luoghi, la città allora polacca e il campo di concentramento presso Weimar, in cui, rispettivamente, Weigl, che per primo tra i due aveva realizzato un vaccino contro il tifo e una particolare procedura per produrlo e il suo collaboratore di qualche anno prima, Fleck, si sforzarono innanzi tutto ed in tutti i modi di conservare la dignità di uomini e di scienziati, in un momento storico e in circostanze belliche ed ideologico-politiche che non solo distruggevano milioni di vite umane, ma ne cancellavano pure la dignità. I due portarono avanti le ricerche dei loro laboratori e la loro professione di uomini di scienza, Weigl in libertà a Leopoli, ma sotto stretto controllo del medico ed igienista della Wehrmacht Hermann Eyer, Fleck ridotto in schiavitù a Buchenwald dal medico delle SS Erwin Ding-Schuler. Aiutarono quante più persone riuscirono a coinvolgere e ad arruolare nelle attività di studio sul tifo e di produzione del vaccino, che le autorità politiche e militari tedesche – e perfino le SS nei lager – giudicavano di primaria importanza e conseguentemente non ostacolavano. Infine ingannarono e sabotarono la Wehrmacht, le SS e le forze di occupazione naziste, ora facendo arrivare clandestinamente grossi quantitativi di vaccino al ghetto di Leopoli o di Varsavia e alla popolazione civile, ora producendo una versione depotenziata, e quindi inefficace, del vaccino stesso da inviare alle truppe tedesche impegnate sul fronte orientale. In situazioni estreme e, in particolare per l’ebreo Fleck, disperate, lottarono innanzi tutto per sopravvivere, ma al tempo stesso anche per difendere la propria identità di uomini, oltraggiata o negata e lo fecero rifugiandosi nella libertà dell’attività teoretica della ricerca scientifica, quando intorno a loro la prassi della barbarie totalitaria e dello sterminio politico e razziale travolgeva l’idea stessa di civiltà insieme a milioni di vittime e lo fecero affinché non si consumasse quel “divorzio tra la scienza e l’umanesimo”, che – come ci spiega Allen – era ciò che più preoccupava Fleck filosofo ed epistemologo, oltre che scienziato, “poiché considerava la scienza come l’attività democratica per eccellenza” (p.76).

L’autore lavora con un materiale estremamente ricco, attingendo a numerose fonti di archivio (tra gli altri Bundesarchiv, Institut d’Histoire du temps présent – Paris, National Archives – Washington, Archives de l’Institute Pasteur – Paris, Yad Vashem Archive, ecc) a cui si aggiunge la letteratura storico-medica e storico-scientifica, in particolare riguardante le malattie epidemiche e la ricerca immunologica, e ancora la letteratura storiografica sulla medicina e i medici nazisti e sulla Shoah, ma anche un’ingente quantità di testimonianze orali, alcune delle quali direttamente raccolte da Arthur Allen stesso, altre indirette, cioè rilasciate in interviste e conversazioni precedenti da parte di collaboratori, conoscenti e famigliari dei due scienziati. Ne consegue che il libro tocca molti e diversi argomenti e non solo le vicende di Weigl e Fleck, anzi si potrebbe più correttamente dire che i veri protagonisti del libro sono i pidocchi, insetti che per secoli hanno accompagnato i soldati nei loro spostamenti, accampamenti, battaglie e spesso hanno provocato più morti le “truppe” di questi artropodi dei veri e propri soldati. E Rudolf Weigl, per realizzare il suo vaccino, trasformò, per la prima volta nella storia della scienza, questo insetto in un animale da esperimento, allevando, nutrendo, facendo riprodurre, infettando con il batterio del tifo una incalcolabile quantità di pidocchi, gelosamente custoditi nel suo laboratorio.

Lo scoppio della prima guerra mondiale, racconta Allen, fece esplodere immediatamente una grande epidemia di tifo in Serbia e, in generale, fu sui fronti orientali (quello balcanico e quello russo) che la malattia falcidiò vittime come le mitragliatrici dei fanti stipati nelle trincee. Sul fronte occidentale non ci furono casi di tifo, ma di altre malattie come la cosiddetta “febbre delle trincee” o febbre dei cinque giorni o quintana, trasmessa, come il tifo, dal pidocchio, ma da un altro batterio, denominato Rickettsia quintana. I tedeschi fecero la conoscenza del tifo dopo la battaglia di Tannenberg, che vinsero contro i soldati dello zar, ma a seguito della quale si ritrovarono con un pericolosissimo “cavallo di Troia” di più di 90000 prigionieri russi e milioni di pidocchi che fecero dilagare un’epidemia di tifo nei campi di prigionia. Tra i paesi belligeranti, il più colpito dal tifo fu senza dubbio la Russia e con il ritorno dei soldati dal fronte, dopo la rivoluzione d’Ottobre e dopo la firma della pace con gli Imperi centrali, la malattia dilagò nelle città e nei villaggi delle campagne. Il caos, in cui il paese precipitò con la guerra civile tra bolscevichi e controrivoluzionari “bianchi” e con la successiva guerra contro la Polonia, non migliorò certo la situazione, come le parole pronunciate da Lenin al Consiglio dei Commissari del Popolo del 5 dicembre 1919 lasciano intendere: “Compagni, dobbiamo concentrarci per intero su questo problema. O i pidocchi sconfiggono il socialismo, oppure il socialismo sconfiggerà i pidocchi!” (p.47).
E nel 1914, Fleck e Weigl, entrambi sudditi dell’Impero austro-ungarico, furono arruolati e abbandonarono Leopoli per entrare nel corpo medico dell’esercito, per il quale Rudolf Weigl diresse il laboratorio militare di Przemyśl, dove continuò a lavorare anche a guerra conclusa e dove, nel 1919, assunse come suo collaboratore Ludwig Fleck. Arthur Allen, in modo tanto puntuale quanto coinvolgente, ricostruisce e narra le vicende biografiche e professionali dei due scienziati, che, ritornati a Leopoli, separarono le loro strade, ma l’antisemitismo via via crescente nella nuova Polonia di Piłsudski non facilitò certo la carriera professionale dell’ebreo Fleck, che si ritrovò ai margini del mondo accademico, mentre non incontrarono questo tipo di ostacolo le ricerche di Weigl, la notorietà del quale crebbe sia in patria sia a livello internazionale.

Di grande interesse storico-scientifico risultano le parti del libro che ricostruiscono il “metodo Weigl” di produzione del vaccino contro il tifo e le attività del suo laboratorio di Leopoli, dove, sia negli anni precedenti lo scoppio del secondo conflitto mondiale sia in quelli successivi al 1’ settembre 1939, il centro di gravitazione dell’intero lavoro erano proprio i pidocchi, in un bizzarro rovesciamento di ruoli tra gli addetti del laboratorio e gli insetti stessi, che di fatto fece dei primi (gli addetti) delle cavie dei secondi (i pidocchi).
A causa della difficoltà dei microbiologi del tempo di crescere in brodi di coltura artificiali o in topi ed altre cavie il batterio Rickettsia prowazekii, Weigl pensò di produrne in quantità sufficiente, prima per lo studio e poi per la produzione del vaccino, usando i pidocchi ed alimentandoli con sangue umano, sia prima sia dopo averli infettati con il batterio del tifo, inoculandolo direttamente nel corpo degli insetti stessi. In tal modo a Leopoli nacque la professione di “alimentatore di pidocchi”. “Eravamo conigli da esperimento” – disse anni dopo un “alimentatore” di Weigl – “ma non ce ne curavamo” (p.191). Ma innanzi tutto “c’erano i coltivatori, i quali allevavano i pidocchi a partire dalle uova […]. Il livello successivo della piramide era costituito dagli alimentatori, suddivisi in due categorie: gli aristocratici, che nutrivano i pidocchi infetti, e i plebei […], che nutrivano quelli sani. […] Poi venivano gli inoculatori e quindi i dissettori. In cima alla piramide stava il Professore, il gran sacerdote dell’arte magica del tifo” (p.173). Queste parole del poeta e romanziere Mirosław Żuławski, a sua volta impiegato come “alimentatore”, e riportate da Allen, rendono efficacemente l’idea di come apparisse agli occhi di un abitante di Leopoli il “fantastico laboratorio del dottor Weigl”: un luogo misterioso, ma nelle attività del quale si riponevano grandi speranze di debellare una malattia terribile; un luogo pericoloso, ma al tempo stesso un porto sicuro, perché chi vi accedeva riceveva una retribuzione (più alta nel caso di un alimentatore “aristocratico”), del cibo e soprattutto l’Ausweis, la tessera da esibire ai posti di blocco della Gestapo e che rendeva il suo possessore una persona utile allo sforzo militare tedesco e quindi lo proteggeva dall’arresto e dalla deportazione. I pidocchi, chiusi in piccole gabbiette di legno con un lato consistente in un retino/setaccio, venivano applicati alle gambe degli alimentatori e “a ciascun alimentatore era possibile attaccare fino a 44 gabbiette […]. I pidocchi succhiavano il sangue per 45 minuti al giorno per un periodo di 12 giorni. […] In media una persona nutriva 25000 mila pidocchi al mese, dalla schiusa delle uova alla maturità” (p.174). Poi intervenivano gli inoculatori che, con uno strumento pensato e realizzato dallo stesso Weigl, immobilizzavano i pidocchi e inoculavano nell’ano dell’insetto una goccia microscopica di soluzione di Rickettsia prowazekii. I pidocchi infettati dovevano, con lo stesso metodo, essere alimentati, ma da persone sopravvissute al tifo e quindi immuni ed infine venivano i dissettori, che estraevano l’intestino del pidocchio, quando la popolazione di batteri era cresciuta a sufficienza e da questo era possibile produrre il vaccino.
Il laboratorio del dottor Weigl divenne un luogo di importanza strategica nella città di Leopoli, lo era per i nazisti che fecero di esso e dell’analogo laboratorio di Cracovia, posti entrambi sotto la supervisione di Hermann Eyer, i centri di produzione del vaccino, ma lo era anche per l’intellighenzia leopolitana, in quanto Weigl fece di tutto per arruolare come collaboratori e “alimentatori”, in tal modo proteggendoli, intellettuali, scienziati, matematici, artisti, accademici. Ma anche gente comune si salvò, entrando a far parte dello staff del dottore e soprattutto uomini e donne delle resistenza polacca trovarono rifugio nel laboratorio, che dava loro protezione e una insperata possibilità di movimento relativamente sicuro. A tutto questo si aggiungano le forniture clandestine di 30000 dosi di vaccino per il ghetto di Varsavia e per altri ghetti, talvolta giunte a destinazione grazie ad atti di coraggioso eroismo e talvolta a seguito di commerci molto lucrosi di trafficanti senza scrupoli. Certamente tutto ciò fu possibile ad un prezzo: la fornitura del vaccino alle autorità della Wehrmacht che gestivano il laboratorio e che pressantemente lo pretendevano. Nonostante, nella Polonia successiva alla guerra, Weigl sia stato messo ai margini del mondo accademico e scientifico e addirittura sospettato di collaborazionismo per aver prodotto vaccino per molte miglia di soldati tedeschi, Allen ci spiega come fosse infondata ed offensiva, e forse dovuta soprattutto a rivalità e invidie accademiche, tale interpretazione dei fatti: “Il laboratorio di Weigl fu una forza benefica. Non poteva raggiungere la perfezione morale” (p.322). Una conclusione, questa dell’autore, che sembra riprendere e correttamente applicare al caso di Rudolf Weigl il profondo ed inquietante concetto della “zona grigia” elaborato da Primo Levi, che meglio di ogni altro sopravvissuto all’orrore del sistema concentrazionario nazista ha spiegato come in quei luoghi e in quelle circostanze la “perfezione morale” fosse un valore e inconcepibile e irrealizzabile, se non addirittura controproducente.
Meno convincente, nonché ormai ampiamente superata in campo storiografico, ci sembra, invece, la lettura in chiave piattamente intenzionalista che, seppur solo in un punto del libro, Allen avanza riguardo ai ghetti dai tedeschi eretti nella Polonia occupata, presentati come uno strumento predisposto per avvicinare la popolazione tedesca alla logica e alla pratica di un genocidio da sempre concepito e progettato dal regime, ma non attuabile da un giorno all’altro. Certamente condivisibile, invece, l’argomentazione che l’autore propone sulla scorta di Christopher Browning – a cui potremmo aggiungere G. L. Mosse e tanti altri – secondo la quale la tesi della (pseudo)medicina razziale nazista per cui il tifo sarebbe una malattia essenzialmente ebraica, di cui gli ebrei sarebbero, esattamente come i pidocchi con cui la propaganda antisemita li identificava sistematicamente, il vettore razziale e geografico, contribuì in modo decisivo a legittimare l’iniziativa, per dir così, di igiene e profilassi, consistente nella costruzione dei ghetti chiusi, che a loro volta produssero proprio le condizioni migliori affinché si scatenassero terribili epidemie di tifo, che sembravano confermare il pregiudizio antisemita nazista. E così “le profezie autoavverantesi dei dottori nazisti cominciarono dunque ad avverarsi” (p.146). Il ghetto quindi rendeva gli ebrei identici al volgare paradigma di loro tratteggiato dall’odio antisemita.

E a lavorare in un ospedale del ghetto di Leopoli si ritrovò Fleck, quando la città, prima occupata dai sovietici, venne conquistata dai nazisti e si scatenò la furia antisemita e non solo delle truppe tedesche e delle SS, ma anche delle squadracce dei nazionalisti ucraini, come quelle di Stepan Bandera, ultranazionalista, fascista, collaborazionista e antisemita, che proprio in questi ultimi anni e mesi è ritornato alla ribalta nell’Ucraina occidentale e la cui effige compare ripetutamente in piazza Maidan a Kiev nelle manifestazioni degli ultranazionalisti di destra antirussi (i ricorsi della storia, conseguenti alla sua ignoranza o sottovalutazione, lasciano spesso disarmati e senza parole!). Ma Fleck, per quanto ebreo polacco, era uomo prezioso per i tedeschi, soprattutto dal momento in cui Himmler dispose che tutti, anche gli ebrei e gli scienziati prigionieri in particolare, dovevano contribuire allo sforzo bellico per la vittoria del Reich millenario. Sulla base di queste disposizioni Joachim Mrugowsky, igienista capo del Reicharzt delle SS Ernst Robert Grawitz, incaricò il capitano Robert Weber di allestire e dirigere un laboratorio batteriologico ad Auschwitz. Nel febbraio del 1943 Ludwig Fleck e la sua équipe furono trasferiti nel Blocco 10 di Auschwitz. Contrariamente a quanto accadde a centinaia di migliaia di altri deportati da ogni parte d’Europa, Fleck ad Auschwitz riuscì a sfruttare a proprio vantaggio il bisogno che i tedeschi avevano delle sue competenze scientifiche. Dopo qualche mese fu trasferito nel sottocampo di Rajsko, dal nome del paesino a pochi chilometri da Oświęcim, che “paradisiaco” – questo è il significato della parola polacca rajsko – lo era veramente a confronto delle inumane condizioni di Birkenau o Buna Monowitz: nel laboratorio di Rajsko, Fleck e i suoi uomini vivevano in condizioni accettabili. Ma nel dicembre del 1943, le competenze di Fleck furono richieste dal dottor Erwin Ding-Schuler, medico sadico e criminale di Buchenwald, che intendeva produrre un vaccino contro il tifo, col quale sperava di ottenere riconoscimenti accademici ed avanzamenti di carriera.
Quando Fleck arrivò nel terribile lager nei pressi di Weimar, il laboratorio di Ding-Schuler applicava, in modo inconcludente e con esiti negativi, la procedura di produzione del vaccino Giroud, quindi non quella di Weigl, utilizzando una concatenazione di cavie da infettare e per ultimi i conigli. Solo l’arrivo di Fleck e la fornitura di materiale adeguato dal laboratorio di Cracovia di Eyer consentì infine di arrivare all’agognato risultato, che illuse Ding-Schuler di poter ottenere le promozioni sperate e che permise agli uomini del laboratorio di sopravvivere, sì da schiavi, ma in condizioni incomparabilmente migliori degli altri internati ed infine diede loro l’occasione anche di mettere in atto una clamorosa operazione di sabotaggio, ancor più temeraria di quella di Weigl e del suo laboratorio di Leopoli. Non avendo il centro di Fleck a Buchenwald la possibilità di produrre grandi quantità di vaccino, fu presa la decisione di realizzarne di due tipi ben diversi: uno efficace, prodotto in piccole quantità da utilizzare per gettare fumo negli occhi ai nazisti in occasione dei controlli di routine e per vaccinare alcuni gruppi di prigionieri del campo, l’altro del tutto inefficace e quindi inutile, prodotto nelle quantità richieste da Ding e inviato alla Wehrmacht per la vaccinazione dei soldati.

Per concludere questo excursus attraverso l’interessante e bel libro di Allen, occorre spendere qualche parola per segnalare come l’autore in più punti si soffermi a considerare le riflessioni filosofiche ed epistemologiche di Ludwig Fleck, quanto mai all’avanguardia nel contesto culturale e scientifico degli anni Venti-Quaranta e che sembrano molto vicine alle riflessioni della epistemologia popperiana e post-popperiana, in particolare a quelle di Thomas Khun.
Il nucleo centrale della sua epistemologia consiste nella convinzione circa la relatività delle conclusioni scientifiche e, più in generale, circa il carattere socio- culturale della scienza, che, lungi dall’essere il prodotto di una isolata azione geniale ed individuale di una sorta di “scienziato eroe”, si produce e progredisce grazie all’opera di collettivi di pensiero. Si tratta, pertanto, di un’indagine collettiva, inserita in un contesto sociale e culturale che la indirizza e la condiziona. Lo stesso Fleck così si esprimeva: “Ciò che pensa realmente all’interno di un individuo non è l’individuo stesso ma la sua comunità sociale. La sua mente si struttura sotto l’influenza di questo ambiente sociale sempre presente” (p.75). Potremmo dire che Fleck interpreta in senso marcatamente sociologico le acquisizioni della riflessione epistemologica contemporanea, che, abbandonando l’idea moderna della possibilità, attraverso opportune procedure e regole, di predisporre un intelletto, per dir così, assoluto e neutro in grado di porsi dinanzi alla natura per rispecchiarla, sviluppa la teoria, già kantiana, della ragione che forza la natura, imponendosi ad essa e cogliendo in essa solo ciò che intende ed è in grado di trovarvi. Ne consegue che, come i collettivi di pensiero all’interno dei quali la scienza si sviluppa e come i relativi contesti socio-culturali, anche le verità scientifiche mutano e si avvicendano nel corso della storia, proprio sotto la pressione delle richieste e delle esigenze sociali. Non esistono verità pure e le scienze naturali elaborano enunciati che sono prodotti culturali e pertanto – scrive con acutezza Fleck – quando gli scienziati “penetrano sempre più a fondo negli oggetti si trovano più distanti dalle “cose” e più vicini ai “metodi” (p. 105). I collettivi di pensiero, poi, si distinguono in gruppi esoterici, formati dagli scienziati in senso stretto, che condividono un sapere altamente specializzato, procedure, metodi, “segreti dell’arte”, ecc e gruppi essoterici, costituiti da chi specialista non è, ma nutre forti interessi verso la scienza. Ed entrambi i collettivi sono inseriti nel quadro complessivo della società di appartenenza con cui intrattengono costanti e vitali rapporti di interscambio. Il lavoro che prevalentemente la scienza opera consiste nel riportare i fatti, sempre per loro natura particolari, all’interno del generale quadro euristico di riferimento condiviso dal collettivo di pensiero della scienza stessa, almeno fino a quando questa attività risulta possibile, anche attraverso forzature e distorsioni dei dati stessi, accomodati di volta in volta al paradigma interpretativo; almeno fino a quando essa non venga messa in crisi da fenomeni ripetutamente eccentrici rispetto al quadro di riferimento.
Queste illuminanti riflessioni di Fleck furono, come è facilmente immaginabile, riprese e sviluppate da Thomas Khun, quando, negli anni ’60, elaborò la sua teoria delle rivoluzioni scientifiche.

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[Si segnala la presenza di un errore a pag. 50, dove si dice: “Nel 1917 il giovane campione della lotta contro il tifo fu presentato all’imperatore Francesco Giuseppe, giunto in visita alle fortificazioni di Przemyśl”, ma l’imperatore Francesco Giuseppe era morto il 21 novembre 1916. La svista non inficia, evidentemente, la validità del lavoro complessivo di Arthur Allen e il considerevole interesse del suo libro]. (A.L.)

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