regno della necessità – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Oct 2025 20:04:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Siamo marxisti, oltre il produttivismo c’è di più https://www.carmillaonline.com/2023/07/18/siamo-marxisti-oltre-il-produttivismo-ce-di-piu/ Tue, 18 Jul 2023 04:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77545 di Fabio Ciabatti

Kohei Saito, Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, Cambridge University Press, 2023, edizione Kindle, pp. 278, € 25,48. 

Il rapporto tra ecologia e marxismo non è mai stato molto semplice. I verdi si sono spesso cullati nell’illusione di uno sviluppo sostenibile compatibile con il capitalismo o hanno pensato l’ambientalismo come una sorta di terza via tra capitalismo e comunismo. Ci sarebbe bisogno di una buona dose di critica dell’economia politica per svegliarsi da questi pallidi sogni, ma la diffidenza ha spesso prevalso nei confronti [...]]]> di Fabio Ciabatti

Kohei Saito, Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, Cambridge University Press, 2023, edizione Kindle, pp. 278, € 25,48. 

Il rapporto tra ecologia e marxismo non è mai stato molto semplice. I verdi si sono spesso cullati nell’illusione di uno sviluppo sostenibile compatibile con il capitalismo o hanno pensato l’ambientalismo come una sorta di terza via tra capitalismo e comunismo. Ci sarebbe bisogno di una buona dose di critica dell’economia politica per svegliarsi da questi pallidi sogni, ma la diffidenza ha spesso prevalso nei confronti del pensiero di Marx perché considerato intriso di produttivismo e dunque una sorta di gemello diverso del moderno sviluppo ecologicamente devastante.
La domanda sorge spontanea: Marx era davvero un produttivista? La risposta potrebbe sembrare scontata perché per il materialismo storico, comunemente inteso, lo sviluppo delle forze produttive rappresenta il lato positivo della storia che, arrivato ad un certo punto, rompe la gabbia dei rapporti di produzione e consente di passare ad un modo di produzione più progredito. Questo è accaduto con il passaggio dal feudalesimo al capitalismo e lo stesso accadrà quando il capitalismo sarà soppiantato dal comunismo. È incontrovertibile che Marx abbia sostenuto queste posizioni. Ma è tutto qui?
Kohei Saito, marxista giapponese che ha goduto di una inaspettata fama tra il grande pubblico del suo paese, sostiene che oltre il produttivismo c’è di più. Nel suo Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, argomenta che nella biografia intellettuale del rivoluzionario tedesco è possibile trovare le tracce di uno sviluppo teorico che pone le premesse, come indica il titolo del libro, di un comunismo della decrescita. Una tesi senz’altro originale e radicale che vale la pena di conoscere, anche al di là dei suoi possibili aspetti problematici. 

Due sono i passaggi fondamentali che, secondo l’autore giapponese, mettono in luce l’importanza fondamentale di concetti come metabolismo tra uomo e natura e frattura metabolica che pur appaiono sporadicamente nel corpus marxiano: negli anni Sessanta la formulazione del concetto di “sussunzione reale” e, nel periodo successivo al 1867, anno di pubblicazione del Capitale, le estensive ricerche di Marx sui sistemi precapitalistici e sulle scienze naturali.
Partiamo dal metabolismo. A differenza delle altre specie, i rapporti degli esseri umani con la natura possono assumere differenti forme che corrispondono ai molteplici modi di produzione che si succedono nella storia. Rimane il fatto che in ogni forma sociale il lavoro deve mediare il rapporto con la natura e che, quest’ultima, pone dei limiti invalicabili per quanto essi possano essere elastici. Si può dunque parlare di unità nella separazione per quanto riguarda il rapporto tra esseri umani e natura è ciò viene espresso nel concetto marxiano di metabolismo. Fonte di valori d’uso, cioè della  ricchezza effettiva, al pari del lavoro, la natura non può essere ridotta, come pretende la logica capitalistica, a mero veicolo della valorizzazione perché possiede “una sua indipendente finalità”, indifferente alla volontà umana. L’unità nella separazione implica la possibilità di una rottura, come accade con il capitalismo che, sempre secondo Marx, genera “le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita”.1 Il rivoluzionario tedesco ha in mente la cosiddetta legge della restituzione di Justus von Liebig: secondo il chimico tedesco è necessario restituire al suolo i nutrienti che la crescita delle piante tende a sottrargli, altrimenti la terra non può rimanere fertile e assicurare rendimenti durevoli. Per Marx l’agricoltura intensiva capitalistica, votata ai rendimenti di breve periodo, e la concentrazione della popolazione nelle città impedisce un sostenibile ricambio organico tra esseri umani e natura.
L’innovazione tecnologica è uno dei modi in cui il capitale cerca di superare la frattura metabolica che esso stesso provoca. Rimanendo all’agricoltura e facendo un salto temporale oltre il periodo in cui visse Marx, l’introduzione dei fertilizzanti chimici consente di rimediare alla perdita di fertilità dei terreni sottoposti a coltura intensiva. Di fatto si tratta di uno spostamento del problema che, alla lunga, produce più difficoltà di quante ne risolva (aumento di emissioni di anidride carbonica, inquinamento delle falde acquifere, maggiore vulnerabilità delle piante a malattie e insetti ecc.). In breve, la tecnologia sviluppata dal capitalismo non consente di arrivare a un’agricoltura sostenibile. 

Alla stessa conclusione si può arrivare, in termini più generali, attraverso la teoria di Marx. E qui torniamo alla distinzione tra sussunzione formale e reale che compare nei Manoscritti del 1861-1863 ed è poi sviluppata nel Capitale, mentre non ce n’è ancora traccia nei Grundrisse, scritti alla fine degli anni Cinquanta. In quest’ultimo manoscritto abbiamo, invece, il concetto di general intellect che scomparirà successivamente e che, non a caso, ha rappresentato spesso il punto di riferimento per chi ha cercato di pensare il passaggio al post-capitalismo attraverso lo sviluppo estremo delle forze produttive. Nei Grundrisse si ipotizza infatti uno sviluppo tecnologico che determina una produttività del lavoro tale da rendere obsoleta la misurazione della produzione attraverso il tempo di lavoro. Detto altrimenti, le forze produttive possono raggiungere un livello così alto da consentire la liberazione dal lavoro in un contesto di abbondanza materiale per tutti.
Lo scenario cambia, secondo Saito, quando appare il concetto di sussunzione reale del lavoro al capitale e il conseguente concetto di “forze produttive del capitale”. Lo sviluppo tecnologico diventa inestricabilmente intrecciato con le finalità storicamente determinate del capitale, comando sul lavoro e produzione di plusvalore su scala sempre più ampia. 

In questo senso, dobbiamo capovolgere radicalmente la tradizionale visione del materialismo storico sulla relazione effettiva tra forze produttive e rapporti di produzione: «I rapporti di produzione determinano le forze produttive».2

La critica delle forze produttive, dunque,

rappresenta un cambiamento importante nella sua visione del progresso tecnologico sotto il capitalismo. Marx si rese conto che lo sviluppo capitalistico delle tecnologie non prepara necessariamente una base materiale per il post-capitalismo.3

Alla luce di questa nuova consapevolezza si possono comprendere, secondo Saito, i vasti studi cui Marx si dedicò dopo la pubblicazione del Capitale, documentati dai suoi numerosi quaderni composti di estratti dai libri letti e relativi commenti. La ricerca di Marx copre ambiti molto vasti come la geologia, la chimica, la mineralogia e la botanica e si occupa di problemi come l’eccessiva deforestazione il trattamento crudele del bestiame, lo sperpero della fonti di energia fossili e l’estinzione delle specie. Negli ultimi quindici anni della sua vita, egli riempì un terzo dei suoi quaderni di appunti, metà dei quali comprendono estratti da libri sulle scienze naturali. Contemporaneamente Marx, con un occhio attento all’agricoltura non capitalistica e ai sistemi di proprietà fondiaria, lesse libri sull’antica Roma, sull’India, sull’Algeria, sull’America Latina, sugli Irochesi in Nord america e sulla comune contadina russa.
La principale originalità dello studio di Saito sta, probabilmente, nel connettere questi due campi di indagine, legando strettamente l’abbandono da parte di Marx di ogni residuo eurocentrico e il superamento delle precedenti concezioni produttivistiche. Lo studio delle società non capitalistiche unito a quello delle scienze naturali mostra a Marx la possibilità di un ricambio organico tra umani e natura che sia al contempo egualitario e ecologicamente sostenibile. È importante, notare, infatti, che lo stato stazionario della produzione e la persistenza nel tempo delle tecniche impiegate sono alcune delle caratteristiche essenziali delle comuni agricole precapitalistiche strettamente connesse alle limitazioni nei confronti dell’appropriazione individuale delle terre e alle restrizioni relative al commercio dei prodotti al di fuori delle comunità di villaggio. Caratteristiche che, nel loro insieme, e consentono di realizzare un’economia circolare, rispettando la già citata legge della restituzione, per quanto ciò accada inconsapevolmente, cioè sulla base di tradizioni e consuetudini, e non a partire dalla conoscenza scientifica delle leggi naturali.

In altri termini,

non è soltanto che le vie al comunismo diventano plurali ma è la stessa idea del comunismo di Marx a cambiare significativamente negli anni Ottanta dell’Ottocento come risultato della sua riflessione cosciente sui precedenti difetti teorici e sulle unilateralità del materialismo storico.4

È chiaro che per questa nuova interpretazione dei testi marxiani non possono essere presentate prove definitive, ma soltanto indizi, per quanto consistenti. A sostegno della sua tesi Saito sottolinea come Marx all’inizio del 1868 legge l’opera del botanico e agronomo Carl Fraas sull’agricoltura sostenibile praticata dall’“associazione della marca” germanica e poi, visto che questo lavoro si basa sull’analisi dello storico Georg Ludwig von Maurer sulla medesima comune germanica, passa alla lettura di questo secondo autore. Da questa successione Saito conclude che “le questioni dell’ecologia e delle società precapitalistiche sono connesse sin dall’inizio”.5 Cita poi un una lettera a Engels in cui Marx parla dei due autori appena menzionati attribuendo loro “un’inconscia tendenza socialista” che implica anche la scoperta di “ciò che è più nuovo in ciò che è più vecchio”.6
Questi accenni potrebbero rimanere una mera curiosità se non venissero messi in connessione con quanto scrive Marx nel 1881, dopo aver approfondito lungamente i temi delle scienze naturali e delle società precapitalistiche. Nelle bozze preparatorie alla lettera a Vera Zasulic Marx descrive la comune russa come possibile “elemento di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime capitalistico”.7 Ipotizza, inoltre, che la crisi del capitalismo finirà “attraverso il ritorno a una forma più alta di un tipo ‘arcaico’ di proprietà e produzione collettive”.8 In ogni caso Marx non è un romantico. La comune russa per sopravvivere e diventare la leva per la rigenerazione della società deve svilupparsi acquisendo la capacità di cooperare su scala più ampia e appropriandosi delle conquiste tecnologiche del capitalismo.

Attraverso questi elementi è possibile anche leggere retroattivamente alcuni passaggi dei testi marxiani. Quando, per esempio, Marx parla di regno della libertà nel III libro del Capitale non lo identifica con il dominio sulla natura che sarebbe in grado di introdurci in un mondo di abbondanza. Nel campo della produzione materiale la libertà può consistere solo nel fatto che i produttori associati governano razionalmente il metabolismo umano con la natura lavorando in condizioni degne dell’essere umano e, cosa rilevante ai fini ecologici, con il minimo dispendio di energia. Ma questo rimane pur sempre il regno della necessità. La vera libertà inizia solo quando, su questa base, è possibile sviluppare le capacità umane come fini a se stesse.
Interpretando queste posizioni alla luce delle preoccupazioni ecologiche dell’ultimo Marx è possibile sviluppare un concetto di ricchezza che vada al di là del suo aspetto meramente quantitativo e che dunque non richiede uno sviluppo indefinito delle forze produttive. Saito, a questo proposito, è ben consapevole che sta partendo da Marx per andare oltre Marx che, sebbene negli anni Sessanta abbia chiaramente fatto sue alcune istanze ambientaliste ante litteram, non ha mai parlato esplicitamente del comunismo come connotato da uno stato stazionario dell’economia e ancor meno dalla decrescita, neanche negli ultimi anni della sua vita.
Rimane il fatto che proprio a partire da Marx si può distinguere tra una scarsità socialmente indotta e una determinata dalla natura. La prima, che è consustanziale al capitalismo, può essere superata recuperando una dimensione collettiva e cooperativa, della ricchezza e della sua produzione. La seconda, invece, non può mai essere eliminata del tutto perché la natura presenta a qualunque società umana dei limiti che non possono essere oltrepassati, pena la catastrofe ecologica.
Di certo, finché consideriamo la merce come forma naturale della ricchezza non è possibile porre limiti alla crescita. Il vero problema non è costituito dalla potenziale illimitatezza dei bisogni umani perché il fine ultimo della merce è quello di soddisfare la brama illimitata di profitto del capitale che la produce piuttosto che i desideri e le necessità di chi la consuma. Nella merce, il valore d’uso è solo il necessario supporto del “valore che si valorizza” senza posa.
All’opposto di questo tipo di ricchezza, che si può pure moltiplicare all’infinito ma non cessa mai di essere scarsa, c’è quella che Marx nella Critica del programma Gotha definisce genossenschaftlicher Reichtum. Si tratta di un termine che, nota Saito, pur comparendo una sola volta è di grande importanza. Può essere tradotto come “ricchezza comune/cooperativa/comunitaria” e richiama le modalità di produzione, di distribuzione e di rapporto con la natura tipiche delle comuni agricole. Solo quando tutte le sorgenti di questo tipo di ricchezza scorrono con abbondanza “l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato”,9 sostiene Marx. Insomma il rivoluzionario tedesco non rinuncia mai all’idea che il comunismo debba essere un regno dell’abbondanza, ma ciò non richieda la soddisfazione di desideri illimitati e una crescita infinita delle forze produttive perché “l’abbondanza non è una soglia tecnologica, ma una relazione sociale”.10 In altri termini, “l’abbondanza della ricchezza comune riguarda la condivisione e la cooperazione attraverso la distribuzione sia della ricchezza sia degli oneri più equamente e giustamente tra i membri della società”.11

Queste discussioni possono apparire il frutto di una oziosa acribia filologica, ma occorre notare come la posta in gioco sia politicamente significativa. Finché l’ambientalismo sarà sinonimo di una limitazione generalizzata dei consumi in nome della sostenibilità ecologica difficilmente potrà diventare una prassi generalizzata delle classi subalterne in un mondo caratterizzato da una enorme sperequazione nella distribuzione della ricchezza. Per vincere la battaglia nel territorio conteso dell’immaginario collettivo occorre mettere in campo una concezione completamente diversa di benessere sociale che, basandosi sull’idea di ricchezza comune, sappia coniugare equità sociale e rispetto dei limiti naturali.
Marx certamente non basta, ma senza la sua critica dell’economia politica si fatica a capire come le catastrofi ecologiche e quelle sociali hanno la medesima radice, la produzione capitalistica che si sviluppa “solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio“.12 E si corre
 il serio rischio di rimanere teoricamente disarmati di fronte all’imbroglio rappresentato dal capitalismo green, ennesimo esempio di come la borghesia sia in grado di trarre profitto dai disastri che essa stessa produce. “Après moi, le déluge! è la parola d’ordine di ogni capitalista e di ogni nazione capitalista”,13 sosteneva Marx. Oggi il diluvio è arrivato, non solo metaforicamente come dimostra il recente disastro in Emilia Romagna, ma il capitalismo è ancora qui con la sua infinita brama di profitto che gli impedisce di accettare qualsiasi limite, sociale e naturale, perché l’unico vero limite che la produzione capitalistica può riconoscere è il capitale stesso.

 


  1. Karl Marx, Il capitale, libro III, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 926. Il termine tedesco Stoffwechsel è tradizionalmente reso nelle traduzioni italiane con l’espressione “ricambio organico”, mentre Saito lo traduce con “metabolism”. 

  2. Kohei Saito, Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, Cambridge University Press, 2023, edizione Kindle, p.156. Traduzione mia, come le successive. 

  3. Ivi, p. 80. 

  4. Ivi. p. 278. 

  5. Ivi, p. 200. 

  6. K. Marx, Lettera a Engels, 25 marzo 1868, cit. in K. Saito, cit. p. 201. 

  7. Karl Marx, Lettera a Vera Zasulic, 16 febbraio 1881, in K. Marx, Russia, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 82-83. 

  8. Ivi, p. 83. 

  9. Karl Marx, Critica del programma Gotha, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 17.  

  10. K. Saito, cit., p. 232 

  11. Ibidem. 

  12. Karl Marx, Il capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 553. 

  13. Ivi, p. 305. 

]]>
Marx e la cartina di tornasole dell’autoemancipazione https://www.carmillaonline.com/2020/12/04/marx-e-la-cartina-di-tornasole-dellautoemancipazione/ Thu, 03 Dec 2020 23:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63590 di Fabio Ciabatti

Dan Swain, None So Fit to Break the Chains. Marx’s Ethics of Self-Emancipation, Haymarket Books, Chicago 2020. pp. 224, 33,00 euro.

“L’emancipazione della classe operaia deve essere opera dei lavoratori stessi”. Questa famosa affermazione di Marx appare inequivocabile. Basta però, per alimentare qualche dubbio, accostare questa citazione a un altro famoso passaggio in cui il Moro di Treviri parla dell’“organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico”. Si può così concludere che l’emancipazione della classe operaia è sostanzialmente opera del Partito comunista. Peccato che, come si evince dall’intero [...]]]> di Fabio Ciabatti

Dan Swain, None So Fit to Break the Chains. Marx’s Ethics of Self-Emancipation, Haymarket Books, Chicago 2020. pp. 224, 33,00 euro.

“L’emancipazione della classe operaia deve essere opera dei lavoratori stessi”. Questa famosa affermazione di Marx appare inequivocabile. Basta però, per alimentare qualche dubbio, accostare questa citazione a un altro famoso passaggio in cui il Moro di Treviri parla dell’“organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico”. Si può così concludere che l’emancipazione della classe operaia è sostanzialmente opera del Partito comunista. Peccato che, come si evince dall’intero corpus marxiano e come è stato chiarito esplicitamente in una lettera dal diretto interessato, Marx quando parla di partito si riferisce generalmente al partito della classe in senso eminentemente storico, non a una qualche specifica organizzazione politica.
In altri termini, il concetto di partito, almeno nella sua accezione dominante nell’opera marxiana, coincide con il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”.1 
Un movimento che si costituisce come parte, la parte proletaria in lotta con quella borghese, ponendosi l’obiettivo politico di abbattere il modo di produzione dominante e per fare ciò si cristallizza temporaneamente in specifiche organizzazioni. Saremmo però dei materialisti assai bizzarri se pensassimo che importanti sviluppi storici, come la centralità assunta dal partito nelle vicende novecentesche, siano dipesi dalla cattiva interpretazione di alcuni testi, fossero anche quelli di Marx. 

La citazione con cui abbiamo aperto testimonia che l’intera opera marxiana è pervasa da un impegno etico-politico nei confronti della rivoluzione intesa come autoemancipazione del proletariato.2 Ma stando così le cose si apre subito un problema: se la società comunista deve essere il frutto di un’autonoma attività emancipatrice del proletariato come può darsi questa attività in una società che sistematicamente la impedisce? E’ proprio a fronte di questa difficoltà teorica, ma soprattutto pratica, che si afferma la soluzione rappresentata dal primato del partito sulla classe. Che però non è la soluzione di Marx il quale nota  perentoriamente, nella terza tesi su Feuerbach, che “l’educatore stesso deve essere educato”.

È allora interessante utilizzare il principio dell’autoemancipazione del proletariato come cartina di tornasole per valutare alcuni snodi centrali dell’opera marxiana, come fa Dan Swain in un recente testo intitolato None so fit to break the chain. Marx’s ethics of self-emancipation.3 Da questa prospettiva si può comprendere meglio l’antiutopismo di Marx, laddove per utopia si intenda la costruzione di piani dettagliati per la società dell’avvenire. Se c’è qualche mente illuminata che è in grado di progettare in anticipo il futuro con dovizia di particolari, allora è chiaro che alla massa non rimane che il ruolo del mero esecutore. Addio autoemacipazione.
Però, se per utopia intendiamo semplicemente la speranza o la fiducia in una società futura radicalmente migliore di quella presente definire Marx un antiutopista è un semplice non senso. Esiste comunque una terza accezione di utopia che si incentra sulla proposta di modelli alternativi di società dal carattere esplicitamente limitato e provvisorio. Nei confronti di questi tipi di modelli Marx rimane diffidente perché ritiene possano rappresentare un elemento fuorviante rispetto alle necessità più impellenti del conflitto di classe. Un atteggiamento che ha le sue fondate ragioni, sostiene Swain, ma che da un punto di vista politico potrebbe portare a sottostimare la capacità mobilitante di un immaginario alternativo sufficientemente articolato. E ciò è vero oggi più che ai tempi di Marx, perché noi dobbiamo fare i conti con il crollo di un immaginario centrato, in un modo o nell’altro, sul socialismo realizzato di stampo sovietico. 

Poiché la nostra capacità di prevedere il futuro è limitata, prosegue Swain, l’immagine della futura società comunista deve essere concepita come una visione. Siamo cioè capaci di raffigurare la società futura allo stesso modo in cui siamo in grado di vedere, da un punto di osservazione posto in alto, un paesaggio lontano di cui possiamo scorgere solo i contorni più marcati, le figure più grandi. Quanto più cerchiamo con l’immaginazione di riempire di dettagli ciò che non possiamo osservare direttamente, tanto più siamo portati a utilizzare inconsapevolmente elementi tratti dalla nostra esperienza quotidiana. Il futuro diventa così un ombra del presente. Ciò che rimane precluso è il novum in senso forte, perché esso può essere prodotto e concepito soltanto attraverso una prassi di emancipazione di un soggetto collettivo che si trova ad operare in modo autonomo in circostanze impreviste e imprevedibili.
Non potendo eliminare la contingenza dalla nostra visione politica, cosa rimane del materialismo storico inteso come analisi scientifica del funzionamento del modo di produzione capitalistico e come capacità di prevedere le sue traiettorie di sviluppo futuro? Di certo comprendere che le leggi che governano il nostro mondo sono storicamente determinate è il primo passo necessario per capire che possono essere cambiate. Ma non è tutto. Imparare a leggere i necessari vincoli che i rapporti sociali di produzione ci pongono è un altro passo necessario per formulare concrete strategie per sovvertire le regole del gioco. In base a queste regole possiamo prevedere l’avverarsi di alcune categorie di eventi, come crisi e rivoluzioni, non i singoli eventi. Solo se l’analisi scientifica non diventa rivelazione di un futuro già scritto, profezia, essa può diventare strumento nelle mani di un soggetto collettivo che liberamente si autodetermina. 

E  qui sorge la domanda successiva. Questo soggetto che si autodetermina verso quale meta si dirige? L’autodeterminazione per Marx è possibile solo attraverso forme sociali che permettono la gestione democratica dell’attività lavorativa, l’appropriazione della totalità delle forze produttive da parte degli individui uniti. Ciò è impossibile nel mondo moderno su piccola scala e per questo è necessario esercitare una capacità di decisionalità collettiva su una scala geografica sufficientemente ampia. Quale che sia questa scala, è il lavoro stesso che deve cambiare e a tal fine è necessario superare la distinzione tra lavoro mentale e manuale, tra compiti direttivi e compiti esecutivi. Certamente Marx sostiene che il regno della libertà inizia solo dove finisce il regno della necessità. Ma se intendiamo quest’ultimo come il regno del lavoro necessario a soddisfare i bisogni della società, non c’è bisogno di pensarlo come il luogo della subordinazione e della soggezione dei lavoratori. La limitazione della giornata lavorativa per Marx è essenziale ma, sostiene Swain, rappresenta un mezzo, non un fine. Altrimenti si finirebbe per confermare la contrapposizione tra tempo libero e tempo di lavoro limitandosi ad ampliare il primo a discapito del secondo. Rimane invece vero che è necessario superare la relazione antagonistica che è storicamente esistita tra lavoro e libertà.
Questo antagonismo e lo sfruttamento che è ad esso connesso è per Marx storicamente necessario e al tempo stesso da condannare. Questa condanna non avviene però sulla base di una morale metastorica. Ogni società ha una sua giustificazione morale delle forme di sfruttamento storicamente date. Esse sono in qualche modo legittime. Questa necessità storica può essere messa in questione soltanto perché lo sfruttamento è vissuto da una parte della società come qualcosa contro cui combattere. Se ci si mette dal punto di vista degli sfruttati questa reazione non ha nulla di misterioso. Per combattere lo sfruttamento non c’è bisogno di basarsi su una qualche teoria della giusta distribuzione della ricchezza o dello scambio equo tra possessori di beni. Ciò che  in ultima istanza emerge dalla critica marxiana dello sfruttamento, afferma l’autore, è che esso rappresenta una rapporto di dominio, esercitato in primo luogo nel segreto laboratorio della produzione, in cui i capitalisti approfittano della debolezza e della mancanza di potere dei lavoratori.
In modo simile Swain sostiene che per parlare di alienazione non abbiamo bisogno di una concezione essenzialista, metastorica della natura umana che verrebbe negata dall’attuale società. E’ sufficiente focalizzarsi sulle reali esperienze di sofferenza fisica e psicologica cui sono sottoposti i lavoratori e le lavoratrici. Partendo da questa negatività possiamo sostenere che l’essenza umana è qualcosa che deve essere ancora realizzata. Parlare di alienazione è dunque un modo per denunciare una situazione economico-sociale che nega la possibilità di un’attiva partecipazione degli individui uniti alla libera costruzione dell’identità umana. 

In un modo o in un altro si torna verso la medesima conclusione: la possibilità di riempire di dettagli la visione del comunismo non dipende da standard preordinati all’azione politica, siano essi relativi alla giustizia distributiva o all’essenza umana, ma può emergere solo nell’ambito di movimenti di resistenza e reazione a specifici mali della società capitalistica. Ciò significa, tra l’altro, che la resistenza deve possedere dei caratteri prefigurativi, in grado cioè di anticipare alcuni elementi della realtà che vogliamo costruire. Deve essere in grado, mentre si pone specifici obiettivi, di proiettarsi verso un successivo stadio di sviluppo che ancora non è dato, aiutando così la trasformazione dei soggetti coinvolti, l’acquisizione di nuove capacità ed attitudini. Questo perché la coscienza comunista, almeno su larga scala, non è qualcosa di dato, ma qualcosa da costruire, da conquistare. L’autoemancipazione è cioè un processo collettivo di autoeducazione attraverso il conflitto. Solo così è possibile sviluppare pratiche sociali realmente nuove e differenti rispetto a quelle esistenti. Queste pratiche sociali devono negare alla radice la separatezza tra sfera socio-economica e sfera politico-statuale. In questo senso l’autoemancipazione è una pratica di spoliticizzazione e dunque di critica di tutte quelle forme politiche che in questa separazione trovano il loro habitat naturale. Ma, per altro verso, si tratta di una dinamica di politicizzazione radicale, nel senso che attribuisce alla decisionalità collettiva una capacità di intervento su sfere sociali, economiche e anche personali considerate oggigiorno sottoposte all’arbitrio privato o a leggi “naturali” e perciò immodificabili.
Non bisogna però dimenticare che questi processi si sviluppano nell’ambito di dinamiche conflittuali e devono fare i conti con la violenza dello relazioni sociali dominanti e dello stato. Secondo Marx nessuna rivoluzione si può dare senza che a un certo punto si ponga il problema del potere statale. Che si tratti di conquistarlo, di distruggerlo o di impadronirsene per trasformarlo in profondità i temi della violenza degli sfruttati e quello della loro organizzazione diventano ineludibili, con tutto il portato problematico che riguarda il rapporto tra efficacia dell’azione politica e principio dell’autoemancipazione, tra politica e etica rivoluzionarie. Anche per questo, pur assumendo che la coerenza tra mezzi e fini sia un problema decisivo, è semplicemente assurdo assumere che i primi debbano coincidere con i secondi. 

Alla luce di queste ultime considerazioni il tema dell’autoemancipazione, se preso sul serio, risulta essere meno “innocente” di quanto potrebbe apparire a prima vista. Ma proprio per questo un pensiero che si pretenda rivoluzionario, come sostiene Swain, deve prendere sul serio l’attualità della rivoluzione ponendosi, in ogni fase, la questione di cosa possa aiutare il proletariato a costruire e riconoscere la propria capacità di trasformare il mondo. E per fare questo non bisogna applicare schemi esterni alle lotte degli sfruttati o pretendere di educare e dirigere ex cathedra gli oppressi, ma occorre partecipare alla loro forme di resistenza cercando di far avanzare, dall’interno, i movimenti di autoemancipazione. Occorre camminare domandando per cercare collettivamente le possibili risposte, ciascuno secondo le proprie capacità e i propri bisogni. 


  1. La prima citazione è tratta K. Marx, L’Internazionale operaia, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 17, la seconda dal K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 17, la terza da K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori riuniti, Roma 1991, p. 25. La lettera cui abbiamo fatto riferimento è quella scritta da Marx a Freiligrath il 29 febbraio 1864. 

  2. Il tema dell’autoemancipazione è particolarmente presente nell’opera di Maximilien Rubel che negli anni ‘90 del secolo scorso è stata ripresa in Italia, grazie a Marco Melotti, dalla rivista Vis-à-Vis. Alcuni articoli di Rubel sono reperibili nell’archivio on line della rivista qui http://web.tiscalinet.it/visavis/

  3. Il titolo riprende la prima parte di una frase di James Connolly contenuta nel pamphlet del 1915 The Re-Conquest of Ireland: “None so fitted to break the chains as they who wear them, none so well equipped to decide what is a fetter”. Nessuno è così adatto a spezzare le catene come coloro che le indossano, nessuno così ben attrezzato per decidere cos’è una catena. 

]]>
COVID Marx, per un comunismo pandemico https://www.carmillaonline.com/2020/04/25/covid-marx-per-un-comunismo-pandemico/ Fri, 24 Apr 2020 22:05:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59581 di Fabio Ciabatti

Il distanziamento sociale cui ci costringe l’epidemia da COVID-19 si configura, a prima vista, come la versione più estrema dell’isolamento individualistico tipico della società borghese. Il mondo che stiamo vivendo ci appare popolato da atomi che evitano qualsiasi rapporto sociale con gli altri atomi, fatti salvi quelli strettamente utilitaristici, necessari a soddisfare i bisogni materiali essenziali. Stando così le cose, sembriamo proprio fottuti, intrappolati come siamo in un sogno che non è il nostro. E’ il sogno di Margaret Thatcher: “La società non esiste. Ci sono [...]]]> di Fabio Ciabatti

Il distanziamento sociale cui ci costringe l’epidemia da COVID-19 si configura, a prima vista, come la versione più estrema dell’isolamento individualistico tipico della società borghese. Il mondo che stiamo vivendo ci appare popolato da atomi che evitano qualsiasi rapporto sociale con gli altri atomi, fatti salvi quelli strettamente utilitaristici, necessari a soddisfare i bisogni materiali essenziali. Stando così le cose, sembriamo proprio fottuti, intrappolati come siamo in un sogno che non è il nostro. E’ il sogno di Margaret Thatcher: “La società non esiste. Ci sono solo gli individui, uomini e donne, e le loro famiglie”. Ma è davvero così?
Per rispondere a questa domanda partiamo da una famosa affermazione di Marx: “L’uomo è nel senso più letterale uno zoon politikon, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solamente nella società può isolarsi”. Queste parole, seppur scritte nell”800 per polemizzare con le “robinsonate” degli economisti borghesi, possono aiutarci a comprendere qualcosa della crisi attuale. Per capire come sia possibile, aggiungiamo un’altra affermazione dello stesso Marx, immediatamente precedente a quella prima citata, che riporto di seguito con una piccola variazione: “l’epoca che genera questo modo di vivere, il modo di vivere dell’individuo isolato, è proprio l’epoca dei rapporti sociali (generali da questo punto di vista) finora più sviluppati” (nell’originale al posto della parola “vivere” si trovava “vedere”).1
Quello che vorrei sostenere è che, per quanto paradossale possa sembrare, per isolarci al massimo al fine di evitare il contagio abbiamo bisogno del livello più alto possibile di sviluppo dei rapporti sociali. Non siamo in una società che si basa su piccole unità produttive sostanzialmente autosufficienti dal punto di vista della produzione dei beni di prima necessità, come poteva essere la società contadina precapitalistica. Moltissimi beni che consumiamo vengono prodotti attraverso filiere produttive lunghe e internazionalizzate. Ogni singolo bene prevede l’interazione di una molteplicità di individui, organizzazioni, unità produttive sia a livello di produzione che di distribuzione. E’ evidente che ciascuna delle interazioni umane necessarie al nostro sostentamento, anche se ci limitiamo ai beni relativamente essenziali, porta con sé rischi di contagio. Occorrerebbe allora un altissimo livello di integrazione economica, sociale e politica per far funzionare una macchina così complessa al servizio di tutti i singoli individui separatamente presi assicurando loro il benessere materiale e al contempo minimizzando l’esposizione al virus. 

Non indugiamo ulteriormente e spariamola grossa: per fare fronte efficacemente alla situazione di pandemia globale, senza dar luogo a dinamiche di pesante regressione sociale, avremmo bisogno di un sistema che iniziasse a somigliare vagamente al comunismo. Avremmo cioè bisogno di una società che cominciasse ad orientarsi in base al vecchio motto marxiano “a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità”. Stiamo parlando di una società che dovrebbe provvedere ai bisogni di tutti, sia a livello strettamente medico che a livello socio-economico: capillare assistenza attraverso una sanità organizzata sul territorio, cure adeguate nei reparti ospedalieri, sussidi dignitosi per chi ha perso reddito e lavoro, distribuzione porta a porta di beni e servizi soprattutto per le persone più a rischio e così via. Ma per rendere ciò possibile dovrebbe funzionare l’altra faccia della medaglia: da ciascuno secondo le sue capacità. Ciascuno, in altri termini, dovrebbe attivarsi senza costrizione, nei limiti delle sue attitudini e possibilità, per rispondere alle necessità collettive.
Tutto questo, ovviamente, non potrebbe prescindere da una capacità di coordinamento dei produttori associati che prevedesse strumenti di programmazione con diversi livelli di centralizzazione, adeguatamente articolati con forme di autorganizzazione a livello territoriale. Una programmazione che fosse in grado di concentrare gli sforzi sulle produzioni essenziali, di riconvertire rapidamente la macchina produttiva laddove necessario, di accorciare le filiere anche in presenza di momentanee perdite di produttività, di distribuire capillarmente e equamente i beni necessari. E visto che non ci vogliamo nascondere, il fatto che molte produzioni attuali si basano su filiere internazionali, un coordinamento come quello che stiamo immaginando andrebbe a prospettare i primi embrioni di una’autentica “comunità umana”.

Il “regno della libertà” rappresentato dalla “comunità umana” è però ancora lontanissimo. Dobbiamo ancora imparare a gestire adeguatamente il “regno della necessità”. La nostra società dimentica troppo facilmente che la produzione rimane sempre ed essenzialmente “ricambio organico tra l’uomo e la natura”. Una natura che pone limiti a ciò che possiamo fare individualmente e socialmente.  Ce ne siamo scordati perché siamo prigionieri dell’illusione di una crescita senza fine. Il singolo capitalista, da quando si è affacciato sul proscenio della storia moderna,  ha sempre avuto una sola e meschina ossessione: l’incessante autovalorizzazione del suo capitale. E l’intero sistema gli è continuamente andato appresso.  Più recentemente siamo diventati collettivamente adoratori del feticcio per eccellenza, il capitale fittizio. Stiamo parlando, per intenderci, del capitale finanziario che sembra capace di moltiplicarsi a dismisura senza doversi sporcare le mani con il mondo materiale. Denaro che produce altro denaro e niente di più. E, infine, c’è stata un’altra diffusa allucinazione, tutta postmoderna, quella della smaterializzazione degli strumenti e dei processi lavorativi.
Il COVID-19 sta lì a ricordarci che esiste una realtà oggettiva fuori del nostro controllo individuale e sociale. La pandemia ci rammenta che la natura non è un docile strumento nelle nostre mani, ma può diventare matrigna. Affrontando la diffusione del coronavirus e le sue conseguenze socio-economiche ci scontriamo dunque con un fenomeno naturale che non può essere manipolato a nostro piacimento, o immediatamente eliminato, ma soltanto parzialmente governato nei suoi effetti. In questo contesto, l’unica libertà possibile rimane quella che indicava Marx quando sosteneva che mai e poi mai si sarebbe potuto abolire il regno della necessità: 

l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa.2

D’accordo, sembra proprio che stiamo lasciando correre a briglia sciolta la fantasia. Ma si può dire che ogni crisi profonda e generale dei rapporti sociali, quale che ne sia la causa immediata, sospendendo il normale corso delle cose, apre temporaneamente alla realizzazione di inedite possibilità, a un potenziale momento di svolta storica in bilico tra rigenerazione e apocalisse. O se si preferisce tra socialismo e barbarie. Oggi, a dire il vero, sembra che sia la barbarie ad avanzare a passi rapidi. Se la società non esiste ma ci sono gli individui allora è naturale il laissez-faire all’immunità di gregge e, cioè, al darwinismo sociale allo stato puro. Ma anche il sogno  più persuasivo che i nostri governanti ci costringono a sognare deve fare i conti con il principio di realtà. La società alla fine non può che manifestarsi e finisce per assumere le caratteristiche di un Leviatano che regola autoritariamente ogni aspetto della vita individuale. Guai a chi si muove da casa!
Quanto più individuo e società appaiono come entità meccanicamente separate tanto più l’organizzazione sociale della vita individuale appare intrinsecamente oppressiva.  Un’apparenza che è reale e, al tempo stesso, ingannatrice perché nella società concreta siamo davvero tutti individui ma alcuni sono più individui di altri: il laissez-faire vale solo per l’attività di impresa mentre per il resto della vita sociale ci si deve attenere ad una ferrea regolazione sociale. 

In fin dei conti tutto ciò non dovrebbe sorprenderci. Après moi, le déluge! è la parola d’ordine di ogni capitalista e di ogni nazione capitalista. Quindi il capitale non si cura della salute o della durata della vita del lavoratore, a meno che non sia costretto dalla società”.3 Questo dovrebbe essere noto da tempo, almeno per chi ha un po’ di familiarità con le idee marxiane. Però oggi, come non mai, tutti quanti rischiamo concretamente di essere sommersi da questo diluvio. Mai come in questo momento è stato chiaro che la riproduzione del capitale è in contraddizione con la riproduzione sociale complessiva, cioè con la salute e la sopravvivenza dei singoli individui. I singoli lavoratori devono andare al lavoro anche se privi di ogni dispositivo di protezione potendosi infettare in ogni momento o devono rimanere a casa in quarantena anche quando nessuno provvede alle loro esigenze mediche o di sussistenza. E poco male se i vecchi muoiono a grappoli nelle Residenze Sanitarie Assistenziali, così risolviamo il problema delle pensioni!

Stiamo esagerando? Per prima cosa bisogna considerare che la crisi attuale ce la porteremo avanti per molto tempo ancora sia a livello di emergenza epidemiologica (“La domanda non è se ci sarà una seconda ondata, la domanda è se impareremo dalla lezione che abbiamo avuto finora” ha detto Hans Kluge, direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’Europa) sia a livello di conseguenze socio-economiche (il Fondo Monetario Internazionale prevede per questo anno una caduta del PIL del 9,1% in Italia e del 3% a livello mondiale). A posteriori veniamo a sapere che gli epidemiologi si aspettavano una pandemia già da tempo. Le condizioni che l’hanno provocato non verranno meno una volta debellato il COVID-19. La situazione potrebbe benissimo ripetersi.
Come sempre il capitale utilizza la crisi per riorganizzarsi e, scontrandosi con i suoi limiti intrinseci, cerca nuove soluzioni per soddisfare la sua infinita brama di sfruttamento. Dalla situazione attuale, dunque, usciranno profondamente mutati gli equilibri e i rapporti di forza tra le diverse fazioni del capitale. Chi ha interrotto per meno tempo la produzione, chi non lo ha fatto per niente e chi riceverà più aiuti dal proprio Stato, avrà dei forti vantaggi, alle volte decisivi, nella competizione internazionale. I padroni sono vampiri assetati di sangue, anche quando è infetto. Ma lo sono anche perché tra le singole fazioni capitalistiche è sempre in corso una guerra che per molti capitali può rivelarsi fatale. Questa però è solo una parte della storia perché saranno trasformati anche i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Solo per fare un esempio, si sta sperimentando su larga scala un utilizzo del telelavoro che aumenta lunghezza e intensità della giornata lavorativa diminuendo al contempo i costi di esercizio per il capitale. Una manna dal cielo per lor signori anche senza considerare il più che probabile utilizzo di distanziamento e tracciamento anti-contagio come strumenti di controllo sociale.
Fortunatamente ci sono anche segnali che indicano una direzione opposta: dagli scioperi spontanei nelle fabbriche a forme embrionali di autorganizzazione sul territorio per far fronte collettivamente alle prime esigenze materiali.

Di certo molti nodi stanno venendo al pettine. C’è un’esigenza di fermarsi a riflettere, di comprendere le dinamiche concrete della crisi attuale che ha caratteristiche, per molti versi, inedite. Un’esigenza che non può essere soddisfatta semplicemente applicando a una situazione nuova vecchi strumenti concettuali. Utilizzare Marx, come è stato fatto in questo articolo, di certo non basta. Però aiuta. E di aiuti abbiamo dannatamente bisogno perché ci troviamo di fronte a un’urgenza politica cui non ci si può sottrarre. La locomotiva della storia sembra aver accelerato improvvisamente senza curarsi dei pericoli sempre più concreti di deragliamento. Nessuno può scendere. Abbiamo bisogno di tirare il freno d’emergenza. Per poi ripartire verso una diversa direzione, per molti aspetti sconosciuta.

Si ringrazia Daniele Molajoli per le immagini


  1. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1997, I, p. 5. 

  2. K. Marx, Il capitale, Libro III, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 933. 

  3. K. Marx, Il capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 305. 

]]>