rapporti di produzione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Tra soggetto e oggetto, la classe operaia di Panzieri https://www.carmillaonline.com/2021/02/10/tra-soggetto-e-oggetto-la-classe-operaia-di-panzieri/ Tue, 09 Feb 2021 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64791 di Fabio Ciabatti

Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle radici del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 138, € 10,00

L’opera intellettuale e l’attività di organizzatore culturale di Raniero Panzieri (Roma 1921 – Torino 1964) sono il punto di avvio del marxismo italiano che si sviluppa al di fuori delle organizzazioni storiche della classe operaia negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e in particolare dell’operaismo, grazie soprattutto alla fondazione della rivista “Quaderni Rossi”, pubblicata dal 1961 al 1966. L’operaismo sarà successivamente associato principalmente ad altre figure intellettuali come Mario Tronti e Toni Negri, anche a causa [...]]]> di Fabio Ciabatti

Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle radici del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 138, € 10,00

L’opera intellettuale e l’attività di organizzatore culturale di Raniero Panzieri (Roma 1921 – Torino 1964) sono il punto di avvio del marxismo italiano che si sviluppa al di fuori delle organizzazioni storiche della classe operaia negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e in particolare dell’operaismo, grazie soprattutto alla fondazione della rivista “Quaderni Rossi”, pubblicata dal 1961 al 1966. L’operaismo sarà successivamente associato principalmente ad altre figure intellettuali come Mario Tronti e Toni Negri, anche a causa della prematura scomparsa di Panzieri, avvenuta all’età di 43 anni. A cento anni dalla sua nascita vale la pena recuperare il contributo originale del pensatore romano, troppo spesso relegato al ruolo di semplice precursore. A tal fine torna utile il libro scritto da Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni Rossi”. Alle origini del neomarxismo italiano, pubblicato da DeriveApprodi.
Dirigente del Partito Socialista, direttore della rivista Mondo operaio, traduttore del secondo libro de Il capitale di Marx, Panzieri si caratterizza da subito per un marxismo non ortodosso, sostenendo l’idea della democrazia diretta e la concezione del partito-strumento. La pubblicazione delle Sette tesi sul controllo operaio, scritte nel 1958 con Lucio Libertini, segna il punto di svolta nella biografia intellettuale di Panzieri e avvia il suo allontanamento dal Partito Socialista. Si trasferisce l’anno successivo a Torino dove lavora fino al 1963 per la casa Editrice Einaudi e dà vita alla rivista cui il suo nome è indissolubilmente associato. La vecchia capitale sabauda rappresenta un osservatorio privilegiato per studiare il cuore del “neocapitalismo” italiano: la grande fabbrica fordista-taylorista e la nuova composizione di classe formata da quello che sarà successivamente definito operaio massa.

Il libro di Cerotto, dopo aver delineato la biografia politico-intellettuale del pensatore romano e la storia redazionale dei “Quaderni rossi”, dedica un lungo capitolo alla ricostruzione del dibattito teorico-politico nell’ambito del marxismo italiano del dopoguerra fino alla fine degli anni Cinquanta. Il panorama è dominato dallo storicismo marxista del Partito Comunista di Togliatti che, utilizzando il pensiero di Gramsci, vuole ricongiungersi all’eredità del neoidealismo italiano per mostrare la politica della classe operaia come continuatrice e innovatrice della cultura nazionale, operazione funzionale alla predisposizione di una politica di alleanze. L’analisi del modo di produzione capitalistico e delle sue leggi segna il passo a favore della ricerca di una egemonia politica tarata sulle particolarità economico-sociali e culturali italiane. Tra le conseguenze, sul piano teorico, ci sono la sottovalutazione del grado tecnico-scientifico raggiunto dal processo di produzione e l’indifferenza verso i possibili contributi della sociologia e delle nuove scienze sociali. Lo forze produttive, nel loro sviluppo, sono considerate senz’altro il polo positivo, razionale, oggettivo, mentre i rapporti di proprietà costituiscono il polo negativo che, attraverso l’anarchia del mercato, limita e perverte le potenzialità dei progressi tecnico-produttivi. A questo si può porre rimedio con le riforme di struttura ovviando all’incapacità del capitalismo nazionale di realizzare autonomamente uno sviluppo economico accessibile a larghi strati della popolazione. Si delinea così la via italiana al socialismo.
Come si pone Panzieri nei confronti di questo articolato panorama teorico-politico?  Possiamo partire da una sua citazione, tratta da Plusvalore e pianificazione, opportunamente riportata da Cerotto.

Di fronte all’intreccio capitalistico di tecnica e potere, la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può, evidentemente, fondarsi sul rovesciamento puro e semplice dei rapporti di produzione (di proprietà), concepiti come involucro che a un certo grado dell’espansione delle forze produttive sarebbe destinato a cadere perché semplicemente divenuto troppo ristretto: i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive, queste sono state ‘plasmate’ dal capitale. E ciò consente allo sviluppo capitalistico di perpetuarsi anche dopo che l’espansione delle forze produttive ha raggiunto il suo massimo livello. 

Insomma, il dispotismo capitalistico è inestricabilmente intrecciato con esigenze razionali di tipo tecnico-produttivo. Questo rapporto si materializza concretamente nelle macchine. Esse non si sviluppano esclusivamente con il fine di aumentare la produttività del lavoro, ma con quello di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Esse sono portatrici certamente di una razionalità nell’ambito dei processi produttivi, ma di una razionalità specificamente capitalistica. In breve ogni stadio dello sviluppo tecnologico costituisce un rafforzamento del potere del capitale, del suo dispotismo sulla forza-lavoro vivente.

Questo rafforzamento significa anche, secondo Panzieri, la progressiva estensione del principio di pianificazione non solo all’interno della fabbrica, che si ingigantisce grazie ai fenomeni di concentrazione e centralizzazione del capitale, ma anche all’esterno del processo produttivo vero e proprio. La pianificazione capitalistica, sostiene Panzieri, diventa un elemento basilare per il mantenimento della struttura di potere capitalistico, superando le contraddizioni derivanti dall’anarchia del mercato, tipica della fase concorrenziale del capitalismo. Anche a discapito della ricerca immediata del massimo profitto, ciò implica la necessità di aumentare notevolmente investimenti e produttività. Questo a sua volta richiede la più completa disponibilità della forza lavoro che può essere garantita da un accordo con i sindacati e con le altre organizzazioni della classe operaia.
Secondo le elaborazioni dei “Quaderni Rossi”, la politica di piano che si sviluppa nei primi anni Sessanta del Novecento non mira a subordinare le scelte economiche al potere politico, ma assegna allo stato la responsabilità di stimolare certi investimenti privati tramite un apposito sistema di incentivi. Le punte più avanzate del capitalismo italiano, pubblico e privato, convergono a grandi linee sugli obiettivi della pianificazione e non a caso sostengono la costituzione del centro-sinistra (nel 1962 il PSI entra nell’area di governo e a fine 1963 per la prima volta partecipa direttamente all’esecutivo). I settori più arretrati si oppongono ad entrambi. La conflittualità interna al fronte capitalistico contribuisce a mascherare il riformismo subalterno delle organizzazioni operaie da politica rivoluzionaria. Anche la conflittualità operaia, se mantenuta entro un certo livello, può giovare allo sviluppo capitalistico perché impedisce ai suoi settori più arretrati di fare affidamento esclusivamente sul basso costo della forza-lavoro costringendoli a investire e innovare.
La strategia delle riforme di struttura, secondo Panzieri, non prevedendo un intervento diretto nella sfera produttiva esclude la rottura rivoluzionaria del sistema favorendo soltanto catene più dorate per tutta la classe operaia. Già nelle Sette tesi Panzieri, ponendo in evidenza i caratteri innovativi del recente sviluppo del capitalismo italiano, sostiene la necessità di spostare l’asse dell’intervento politico nei luoghi della produzione dove hanno origine le principali contraddizioni della dicotomia classista e dove risiede la reale fonte del potere. In altri termini, solo prendendo di petto il luogo dove si svelano le reali contraddizioni del sistema capitalistico, la lotta in fabbrica innalza i lavoratori a reali protagonisti della politica.

Questo spostamento comporta un doppio movimento. Da una parte, infatti, si deve indagare la sfera della produzione capitalistica che non è al suo interno indifferenziata. Essa presenta un’articolazione gerarchica. Esistono dei punti di maggior sviluppo che sono trainanti rispetto a tutto il resto. E tale articolazione del processo produttivo complessivo non è indifferente rispetto alle sorti politiche della lotta di classe. D’altra parte, con altrettanta forza, si deve affermare che il comportamento operaio non è una mera riflessione passiva della struttura del capitale. Quest’ultima condiziona lo sviluppo dell’antagonismo operaio, pone le condizioni e i limiti del suo possibile esplicarsi, ma non lo determina meccanicamente. Per questo è necessaria, utilizzando le parole di Panzieri riportate da Cerotto, “un’osservazione scientifica assolutamente a parte” sulla classe operaia. Assume cioè importanza l’inchiesta operaia, non solo come strumento di conoscenza, ma anche come strumento di intervento politico. La realtà osservata attraverso l’inchiesta non è un oggetto passivo, ma un’unità vivente che va colta nei suoi momenti di svolta, di repentino mutamento, soprattutto attraverso l’inchiesta “a caldo”, cioè quella effettuata durante i momenti più aspri del conflitto.
Proprio sulla necessità di tenere insieme questi due livelli dell’analisi e dell’intervento politico si consuma la frattura, nell’ambito della redazione dei Quaderni Rossi, tra i “sociologi di Torino”, raggruppati attorno a Panzieri, e i “filosofi di Roma”, guidati da Mario Tronti. Una rottura, argomento dell’ultimo capitolo del libro di Cerotto, che ha come oggetto immediato la valutazione degli eventi del luglio 1962 e le prospettive che si aprivano dopo la manifestazione esplicita di un elevato grado di insubordinazione della nuova classe operaia al piano del neocapitalismo.1 Per Panzieri le rivendicazioni operaie espresse nel fuoco acceso dello scontro, così come rilevate dall’inchiesta “a caldo”, contengono il massimo spirito anticapitalistico che, però, non può essere immediatamente generalizzato all’insieme della classe. Come si legge in una citazione riportata in epigrafe all’ultimo capitolo del libro di Cerotto, Panzieri accusa Tronti di sostenere una filosofia della storia hegeliana, una filosofia della classe operaia quando utilizza questi momenti alti dell’antagonismo per supportare la sua rivoluzione copernicana. Rivoluzione che consiste nella tesi, opposta a quella del marxismo classico, che è l’antagonismo della classe operaia a determinare lo sviluppo del capitale. Una tesi che giustificava la necessità di dare immediatamente espressione politica a questo nuovo soggetto operaio. Panzieri, invece, resiste all’idea di trasformare la rivista in un gruppo militante, in un nuovo partito, volendo limitare il suo contributo politico alla costruzione di un’“avanguardia interna” alla classe, dal momento che solo il susseguirsi delle lotte operaie avrebbe potuto determinare la loro progressiva organizzazione.

Personalmente sono convinto che ancora oggi sia necessario tenere insieme i due livelli di cui si è parlato a proposito di Panzieri: da una parte l’analisi della struttura del capitale quale fondamento materiale della soggettività proletaria; dall’altra la continua attenzione allo sviluppo del lato soggettivo che mantiene rispetto a questo fondamento un livello di indeterminatezza. La specifica riflessione sulle dinamiche di soggettivazione dei subalterni, aggiungo, può risultare tanto più feconda quanto più il punto di osservazione è interno ai conflitti e ai movimenti. In assenza del primo livello possiamo ottenere soltanto una una fenomenologia del conflitto che, per quanto preziosa possa risultare sul piano descrittivo, difficilmente può aiutarci a prefigurare un processo generale di ricomposizione delle disperse soggettività in campo. In assenza del secondo, invece, risorge immancabilmente lo spettro dell’autonomia del politico in cui non si dà ricomposizione, ma solo subordinazione, reale o immaginaria, delle concrete soggettività antagonistiche a una guida esterna.
Certo, se essere comunisti vuol dire essere la parte più risoluta dei partiti operai come indicava Marx nel 1848, questo significa porsi sulla frontiera più avanzata dell’antagonismo di classe, laddove si può dare la confluenza fra dimensione oggettiva e soggettiva; una frontiera a partire dalla quale, in altri termini, un soggetto collettivo è potenzialmente in grado di farsi mondo, di produrre una nuova oggettività. Da questo punto di vista è comprensibile il senso del gesto teorico di Tronti che, con la sua rivoluzione copernicana, mette al centro la classe operaia, come “motore mobile del capitale”. Gesto ripetuto in forme diverse dal successivo operaismo e post-operaismo. Ma se dimentichiamo che la tendenziale confluenza tra soggetto e oggetto si dà soltanto nei momenti più alti dell’antagonismo e pretendiamo di ritrovarla sempre e comunque nel nostro mondo dominato dal capitale, i costrutti teorico-politici che ne derivano rischiano di assomigliare sempre più a visioni lisergiche, come la moltitudine dell’ultimo Toni Negri.
Se vogliamo mantenere una presa sulla realtà e al tempo stesso non rassegnarci alla triste virtù del realismo con annessa autonomia del politico, come ben presto fece Tronti, non ci rimane che l’ostinata ricerca, pratica e teorica, delle vie sotterranee di una possibile ricomposizione delle molteplici forme di conflittualità sociali. Forme conflittuali che nella realtà continuano a darsi perché il capitalismo è un sistema basato necessariamente sull’incessante e crescente ricerca dello sfruttamento e perciò intrinsecamente antagonistico. E in questa ricerca la lezione di Panzieri ci può tornare ancora utile, 
anche ritornando a riflettere su cosa rimane oggi di una delle sue tesi fondamentali e cioè che una lotta generale contro il capitalismo non può prescindere dai conflitti che si verificano nella sfera della produzione e in particolare nei punti più avanzati dello sviluppo capitalistico.


  1. Il 7 luglio 1962, nel corso di uno sciopero dei metalmeccanici a Torino, si diffonde la voce che UIL e SIDA hanno firmato un accordo separato con la FIAT. Alcune migliaia di operai si dirigono a Piazza Statuto dove ha sede la UIL dando inizio a tre giorni di violenti scontri con la polizia. 

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Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria https://www.carmillaonline.com/2017/01/07/calibano-e-la-strega-le-donne-il-corpo-e-laccumulazione-originaria/ Fri, 06 Jan 2017 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35496 federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante [...]]]> federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante ricostruzione storica, offre un contributo fondamentale alla lettura degli attuali processi della globalizzazione.

Silvia Federici è attivista femminista, scrittrice e docente universitaria tra le protagoniste, negli anni Settanta del secolo scorso, del movimento internazionale per il Salario al Lavoro Domestico. Negli anni Novanta, dopo un periodo di insegnamento e di ricerca in Nigeria, Federici ha partecipato ai movimenti no global e contro la pena di morte negli Stati Uniti, dal 1987 al 2005 ha insegnato politica internazionale, women’s studies e filosofia politica alla Hofstra University di Hempstead (New York). Autrice di numerosi saggi di filosofia e di teoria femminista, recentemente Federici si è impegnata contro i processi di globalizzazione capitalista tenendo conferenze in ogni parte del mondo.

In coda alla Prefazione sono disponibili i link ai video di due interessanti interviste a Silvia Federici: la prima è stata realizzata dal Laboratorio Sguardi sui Generis in occasione della sua presenza in Val di Susa, la seconda (in lingua inglese) è stata effettuata da Gender Links all’uscita del saggio S.   Federici, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), uscito successivamente in lingua italiana S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona, 2014, pp. 159, € 15,00 –  ght]


Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria

di Silvia Federici

Calibano e la Strega presenta i temi principali di un progetto di ricerca sulle donne nella “transizione” dal feudalesimo al capitalismo che ho iniziato a metà degli anni ’70, in collaborazione con la femminista italiana Leopoldina Fortunati. I primi risultati sono apparsi in un libro che abbiamo pubblicato qui in Italia nel 1984: Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale.

Il mio interesse per la ricerca era motivato all’inizio dai dibattiti all’interno del movimento femminista negli Stati Uniti, vertenti sulle origini delle particolari forme di oppressione di cui le donne sono state storicamente l’oggetto e sulle strategie politiche che il movimento avrebbe dovuto adottare per la nostra liberazione. Le principali posizioni teoriche e politiche con cui ci dovevamo confrontare a questo proposito erano quelle avanzate dalle due aree più importanti del movimento delle donne: le femministe radicali e le femministe socialiste. Tuttavia, dal mio punto di vista, entrambe non fornivano una spiegazione soddisfacente sulle origini dello sfruttamento sociale ed economico delle donne. Non condividevo la tendenza delle femministe radicali a far risalire la discriminazione sessuale e il potere patriarcale a strutture culturali transtoriche che si presumevano indipendenti dai rapporti di produzione e di classe. Per contro, le femministe socialiste riconoscevano che non si può scindere la storia delle donne dalla storia dei vari sistemi di sfruttamento e nelle loro teorie analizzavano la discriminazione sessuale a partire dal lavoro che le donne svolgono nella società capitalistica. Ma il limite della loro posizione era di non riconoscere la sfera della riproduzione come fonte di sfruttamento e creazione di plusvalore e quindi di attribuire l’origine della differenza di potere tra donne e uomini all’esclusione delle donne dallo sviluppo capitalistico – un assunto che ancora una volta ci obbligava a ricorrere a schemi culturali per dar conto della sopravvivenza del sessismo nell’universo delle relazioni capitalistiche.

È in questo contesto che ha preso forma l’idea di tracciare la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. La tesi che ha ispirato questa ricerca era stata articolata da Mariarosa Dalla Costa e da Selma James, oltre che da altre attiviste del movimento per il salario al lavoro domestico, in una serie di documenti che negli anni ’70 apparivano molto controversi, ma che col tempo hanno riformulato il discorso su donne, riproduzione e capitalismo. Fra questi, i più influenti furono Potere femminile e sovversione sociale (1972) di Mariarosa Dalla Costa e Sex, Race and Class (1975) di Selma James.

Contro l’ortodossia marxista che spiegava l’“oppressione” delle donne e la loro subordinazione agli uomini come un residuo dei rapporti feudali, Dalla Costa e James affermavano che lo sfruttamento del lavoro femminile ha giocato un ruolo centrale nel processo di accumulazione capitalistica, in quanto le donne sono state le produttrici del bene più essenziale per il capitalismo: la forza-lavoro. Dalla Costa sosteneva che il lavoro domestico non retribuito svolto dalle donne è stato la colonna portante su cui si è costruita la “servitù del salario” nonché il segreto della sua produttività (Dalla Costa 1972, p. 31). La differenza di potere tra donne e uomini nella società non poteva quindi essere attribuita né all’irrilevanza del lavoro domestico per l’accumulazione capitalistica – irrilevanza contraddetta dalle strette regole a cui la vita delle donne è stata soggetta – né alla sopravvivenza di atavici schemi culturali. Doveva invece essere letta come l’effetto di un sistema sociale di produzione che non riconosce la produzione e la riproduzione del lavoratore come un’attività socio-economica e perciò come fonte di accumulazione capitalistica, ma al contrario la mistifica come risorsa naturale o servizio personale, approfittando nel contempo della mancanza di retribuzione per il lavoro svolto. Facendo derivare lo sfruttamento delle donne nella società capitalistica dalla divisione sessuale del lavoro e dal lavoro domestico non retribuito, Dalla Costa e James hanno dimostrato che è possibile superare la dicotomia tra classe e patriarcato e hanno dato a quest’ultimo un significato storico specifico, aprendo così la strada a una reinterpretazione della storia del capitalismo e della lotta di classe da un punto di vista femminista. È in questa prospettiva che, alla metà degli anni ’70, con Leopoldina Fortunati ho iniziato a studiare quella che solo eufemisticamente possiamo definire la “transizione al capitalismo”, cominciando a ricostruire una storia che non ci era stata insegnata a scuola, ma che si è dimostrata decisiva per la nostra formazione teorica e politica. È una storia che non solo ci ha permesso una comprensione teorica della genesi del lavoro domestico nelle sue principali componenti strutturali – la separazione della produzione dalla riproduzione, l’uso specifico che il capitalismo ha fatto del salario per comandare il lavoro dei non salariati e la svalutazione della posizione sociale delle donne con l’avvento del capitalismo – ma che ci ha anche fornito la genealogia dei moderni concetti di femminilità e mascolinità, permettendoci così di invalidare l’assunto postmoderno di una predisposizione quasi ontologica da parte della “cultura occidentale” a imbrigliare il genere in schemi binari. Abbiamo infatti scoperto che le gerarchie sessuali sono sempre al servizio di un progetto di dominio che si autosostiene solo dividendo, su basi continuamente rinnovate, coloro che intende dominare.

Il libro che è nato da questa prima ricerca, Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale (1984), si proponeva di ripensare l’analisi dell’accumulazione originaria di Marx da un punto di vista femminista. Ma nel corso di questo lavoro le categorie marxiane si sono rivelate inadeguate. Anzitutto, si è visto che l’identificazione da parte di Marx del capitalismo con l’avvento del lavoro salariato e del lavoratore “libero” contribuisce a nascondere e a naturalizzare la sfera della riproduzione. Il Grande Calibano criticava anche la teoria del corpo di Michel Foucault. Abbiamo infatti rilevato che l’analisi di Foucault delle tecniche del potere e delle discipline a cui il corpo è stato assoggettato ignora il processo di riproduzione, riduce le storie delle donne e degli uomini a un tutto indifferenziato e si disinteressa a tal punto della “disciplina” imposta alle donne da non menzionare uno degli attacchi più orrendi al corpo perpetrato in era moderna: la caccia alle streghe. La tesi principale sostenuta dal Grande Calibano era che, per comprendere la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, si devono analizzare i cambiamenti che il capitalismo ha introdotto nel processo della riproduzione sociale, soprattutto nella riproduzione della forza-lavoro. Il libro prendeva quindi in esame la riorganizzazione del lavoro domestico, della famiglia, della cura dei bambini, della sessualità e dei rapporti tra uomo-donna e tra produzione e riproduzione nel XVI e nel XVII secolo in Europa. La stessa analisi è riproposta nel Calibano e la strega, ma lo scopo di questo volume è diverso da quello del Grande Calibano in quanto risponde a un diverso contesto sociale e alla crescita della nostra conoscenza della storia delle donne.

Poco dopo la pubblicazione del Grande Calibano, ho lasciato temporaneamente gli Stati Uniti per insegnare all’Università di Port Harcourt in Nigeria dove, a periodi alterni, ho lavorato per quasi tre anni. Prima di partire ho sepolto i miei libri in cantina, pensando che per un po’ di tempo non mi sarebbero serviti. Ma le circostanze del mio soggiorno in Nigeria non mi hanno consentito di dimenticare questo studio. Gli anni tra il 1984 e il 1986 sono stati decisivi per la Nigeria, come per la maggior parte dei paesi africani. Erano gli anni in cui, in risposta alla crisi del debito, il governo nigeriano avviava con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale accordi che risultarono nell’adozione del programma di aggiustamento strutturale, la ricetta universale imposta dalla Banca Mondiale, nel nome della ripresa economica, ai governanti di gran parte del pianeta.

Lo scopo dichiarato di questo programma era di rendere la Nigeria competitiva sul mercato internazionale. Ma si è reso subito evidente che questo programma era lo strumento di una nuova fase di accumulazione originaria e di una razionalizzazione della riproduzione volta a distruggere le ultime vestigia di proprietà e rapporti comunitari, e imporre forme più intense di sfruttamento del lavoro. Ho visto quindi dispiegarsi sotto i miei occhi processi molto simili a quelli che avevo analizzato durante la stesura del Grande Calibano, fra cui un attacco sistematico alle terre comuni e un decisivo intervento dello stato, definito “guerra all’indisciplina”, teso a ridurre le aspettative di una popolazione considerata troppo pretenziosa in prospettiva di un suo inserimento nell’economia globale. Insieme a queste misure, ho assistito all’evolversi di una campagna misogina, che denunciava la vanità e le eccessive pretese delle donne, e allo sviluppo di un acceso dibattito, simile per molti versi alla querelle des femmes del XVII secolo, che investiva ogni aspetto della riproduzione della forza-lavoro: la famiglia (poligama vs. monogama, estesa vs. nucleare), l’educazione dei bambini, il lavoro delle donne, l’identità maschile e femminile e i rapporti tra uomini e donne.

In questo contesto il mio lavoro sulla transizione ha assunto un nuovo significato. In Nigeria ho compreso che la resistenza all’aggiustamento strutturale fa parte di una lunga lotta contro la privatizzazione della terra e contro le “recinzioni”, non solo delle terre comuni ma anche dei rapporti sociali, che risale alle origini del capitalismo. Ho anche capito che la vittoria che la disciplina del lavoro capitalistica ha ottenuto sulle popolazioni del pianeta è molto limitata e che molti ancora vedono la propria vita in modi radicalmente antagonisti ai canoni richiesti dalla produzione industriale. Per gli imprenditori, le multinazionali e gli investitori stranieri è proprio questo il problema di paesi come la Nigeria. Ma per me è stata una grande fonte di coraggio rendermi conto che nel mondo formidabili forze sociali si oppongono all’imposizione di un modo di vivere concepito solo in termini capitalistici. Devo questa nuova consapevolezza anche all’incontro con Donne in Nigeria (WIN), la prima organizzazione femminista del paese, che mi ha aiutata a comprendere le lotte che le donne nigeriane stanno sostenendo per difendere le proprie risorse e per rifiutare il nuovo modello di patriarcato, promosso dalla Banca Mondiale, che si vuole loro imporre.

Ben presto il programma di austerità adottato dal governo ha raggiunto anche il mondo accademico e, non essendo più in grado di mantenermi, nell’autunno del 1986 ho lasciato la Nigeria, se non con l’anima con il corpo. Ma non ho dimenticato l’attacco mosso contro il popolo nigeriano e, dopo il mio rientro, il desiderio di tornare a studiare la “transizione al capitalismo” non mi ha più abbandonata. Avevo letto gli eventi in Nigeria con le lenti dell’Europa del XVI secolo. Tornata negli Stati Uniti, è stato il proletariato nigeriano che mi ha riportato alle lotte per le terre comuni e contro il disciplinamento delle donne, dentro e fuori l’Europa. Dopo il mio ritorno ho iniziato anche a insegnare in un programma interdisciplinare per studenti universitari, dove ho dovuto affrontare un tipo diverso di enclosure: quella del sapere, la crescente perdita cioè, da parte delle nuove generazioni, del senso storico del nostro passato collettivo. Ecco perché nel Calibano e la strega ho ricostruito le lotte antifeudali del Medioevo e le lotte con cui il proletariato europeo ha resistito all’avvento del capitalismo. Il mio scopo non è stato solo quello di fornire ai non specialisti la documentazione su cui si basa la mia analisi; ho voluto anche far rivivere fra le giovani generazioni il ricordo di una lunga storia di resistenza che oggi corre il rischio di essere cancellata. Preservare la memoria storica è cruciale se dobbiamo trovare un’alternativa al capitalismo, perché ciò sarà possibile solo se saremo capaci di ascoltare le voci di coloro che hanno percorso lo stesso cammino.


Interviste a Silvia Federici

Il Laboratorio Sguardi sui Generis intervista Silvia Federici, in occasione della sua presenza in Val di Susa. L’intervista è in cinque parti visionabili su YouTube. Prima parte: autodeterminazione dei corpi, delle sessualità e delle scelte riproduttive. Seconda parte: i movimenti, i momenti di socialità e di riproduzione dei movimenti stessi. Terza parte: donne e movimenti. Quarta parte: Politica del Debito. Quinta parte: Femminicidio.

Gender Links recently interviewed Silvia Federici after the launch of her book, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), inspired by Federici’s organisational work in the Wages for Housework movement. In this interview she provides insight into book and shares her views on women’s on going struggle as well as gender-based violence. In this extended version of the interview she also discusses the importance of the commons, social reproduction, the need for more co-operative forms of organisation, valorising domestic work and how inequality and injustice is fueled by neo-liberal capitalism.

 

 

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