Rancière – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Dec 2025 06:13:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Al ladro! Anarchismo e filosofia di Catherine Malabou https://www.carmillaonline.com/2024/04/08/81947/ Mon, 08 Apr 2024 18:30:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81947 Elèuthera, Milano 2024, 374 pagine, 23 euro

di Marc Tibaldi

Non è un libro per gli anarchici, è per tutti, proprio perché segnala spie d’allarme, nodi da sciogliere, connessioni necessarie, che possono servire a ogni individuo o gruppo sociale che voglia agire in maniera efficace nella realtà. Qual è il nocciolo duro dell’anarchismo politico? L’anarchismo condivide con altri pensieri politici concetti, tensioni, pratiche: solidarietà, mutuo appoggio, autogestione, federalismo, non sono patrimonio esclusivo del movimento che fa riferimento a pensatori quali Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Goldman, eccetera. Quello che invece è peculiarità del solo anarchismo è la messa in discussione, la [...]]]> Elèuthera, Milano 2024, 374 pagine, 23 euro

di Marc Tibaldi

Non è un libro per gli anarchici, è per tutti, proprio perché segnala spie d’allarme, nodi da sciogliere, connessioni necessarie, che possono servire a ogni individuo o gruppo sociale che voglia agire in maniera efficace nella realtà. Qual è il nocciolo duro dell’anarchismo politico? L’anarchismo condivide con altri pensieri politici concetti, tensioni, pratiche: solidarietà, mutuo appoggio, autogestione, federalismo, non sono patrimonio esclusivo del movimento che fa riferimento a pensatori quali Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Goldman, eccetera. Quello che invece è peculiarità del solo anarchismo è la messa in discussione, la negazione, di ogni autorità, potere, dominio (su differenze e analogie tra questi concetti è ancora dirimente il saggio di Amedeo Bertolo, pubblicato nel 1983 e disponibile in “Anarchici e orgogliosi di esserlo”, Elèuthera: “Il dominio è possesso privilegiato del potere. I detentori del dominio si riservano il controllo del processo di produzione di socialità, espropriandone gli altri”). Ora, si può deridere questa idea come sogno utopico, chi invece vuole ragionare in maniera non banale, senza ripetere gli errori del passato, è obbligato a prenderla in considerazione.

Come fa questo libro che inizia con una definizione precisa dei termini “anarchia” e “anarchismo” e della loro storia, e una panoramica delle questioni politiche contemporanee che rendono necessario un ripensamento di questi termini e del loro potenziale emancipatorio. Malabou presenta la riflessione di alcuni filosofi proprio sulla questione del potere. “La mia analisi del dominio si concentra su sei pensatori cruciali per la filosofia contemporanea che hanno posto l’anarchia al centro della loro riflessione smarcandosi però dal suo esito, l’anarchismo politico. Ed è questo che accomuna l’anarchismo ontologico di Schürmann, la responsabilità anarchica di Lévinas, la decostruzione di Derrida, l’anarcheologia di Foucault, il potere destituente di Agamben e l’uguaglianza radicale di Rancière: l’aver attribuito all’anarchia filosofica un valore determinante, senza tuttavia giungere a destituire una volta per tutte il principio archico”, scrive l’autrice.

Malabou si chiede perché alcuni dei filosofi radicali del Novecento abbiano sviluppato concezioni forti di anarchia stando ben attenti a non dichiararsi anarchici, “rubando” – da qui il titolo – suggestioni e stimoli, spesso senza dichiararlo esplicitamente, al movimento ribelle nato tra la rivoluzione francese e i movimenti socialisti e di classe dell’Ottocento. Sembra quasi che l’anarchismo sia qualcosa di inconfessabile, qualcosa da occultare anche quando gli si ruba l’essenziale: la critica del dominio e della logica di governo. Questa dissociazione viene analizzata assieme alla rimozione di quello che è il nocciolo duro dell’anarchismo: la praticabilità politica dell’assenza di governo. Sebbene questi filosofi abbiano tutti concorso a smantellare il principio archico (il principio del dominio), nondimeno hanno costruito il loro discorso, nascondendo lo scippo da cui deriva e rifiutandone gli esiti.

Destituzione del paradigma archico, sì, decostruzione del dominio, sì, ma effettiva possibilità che gli uomini possano vivere senza essere governati né governare, no. Ma è appunto qui che il paradigma archico si riattiva, in questa incapacità di abbandonare l’ambito del governabile e di accedere invece allo spazio del non-governabile, ovvero del radicalmente altro, del radicalmente estraneo al rapporto comando/obbedienza.

Come ha tentato di fare l’anarchismo storico. Sostenere che l’anarchismo possa continuare a essere un movimento in continua trasformazione, che sappia trasformarsi e includere nuovi e vivaci contributi è probabilmente una – seppur ammirabile – scontata dichiarazione di volontà. Anche André Breton, che qualche stimolo all’anarchismo classico lo aveva offerto, sosteneva che il “suo” surrealismo sarebbe stato capace di inglobare in sé ogni movimento più emancipatore, ma poi non seppe vedere, anzi contrastò, la novità del situazionismo. Insomma, facile a dirsi, meno a farsi.

Il surrealismo è morto come movimento. Come sono morti tutti i movimenti, anche per l’anarchismo sarà così, infatti solo una convinzione religiosa (o identitaria, come direbbe Laplantine) potrebbe pensare il contrario. E anarchia e religione non sono mai andati molto d’accordo, si sa. L’importante è quello che lasciano in eredità per le lotte, quello che germoglierà dalle loro provocazioni a pensare e ad agire.

Si può notare in questo volume l’assenza di altri filosofi o pensatori che hanno sviluppato parte delle proprie teorie da intuizioni anarchiche. Ricordiamo almeno Paul K. Feyerabend, che in Contro il metodo coniò il concetto di anarchismo epistemologico (“giocare la partita della Ragione allo scopo di minare l’autorità della Ragione”, senza alcun metodo precostituito), o Elias Canetti, che in Massa e potere sviluppa una critica incessante al concetto di comando (“chi vuole riuscire ad aggredire il potere deve guardare negli occhi senza timore il comando e trovare i mezzi per sottrargli la sua spina”). Si potrebbe andare avanti fino ad arrivare almeno a Dominio e sottomissione di Remo Bodei, singolare panoramica a partire dalla tradizione antica della schiavitù, che arriva al preoccupante uso dell’intelligenza artificiale. E – a proposito di “non detti” – come dimenticare altri classici del Novecento che si sostanziano di intuizioni anarchiche, dalla nozione di totalitarismo di Hannah Arendt, alla messa in discussione del principio identitario di Judith Butler e Francois Laplantine, all’immanenza an-archica del Mille piani di Deleuze e Guattari. Contributi a cui i movimenti libertari e antagonisti non possono rinunciare. Invece, nel saggio della filosofa allieva di Derrida, la mancanza di riferimenti al pensiero di Noam Chomsky è certo conseguenza della sua impostazione decostruttivista, ma rivela anche una difficoltà di confronto fra pensieri contemporanei.

Ma torniamo al testo di Malbou. Definendo il “paradigma archico”, il libro cerca di contribuire a un anarchismo che presupponga una rinnovata interrogazione del suo significato originario – l’assenza di governo – alla luce di letture dei filosofi che analizza. Il caos non è necessariamente dove ci si aspetta che sia. Il buon senso statale e il perbenismo vorrebbero che l’anarchia fosse sinonimo di disordine e l’anarchismo un’ideologia che nel peggiore dei casi è sinonimo di terrorismo e nel migliore di un dolce sogno a occhi aperti. Seguendo l’esempio dei pensatori anarchici, Malabou sostiene invece che il caos è inscritto nel potere statale. Lo abbiamo visto negli ultimi anni con la gestione della crisi sanitaria legata alla pandemia e con lo stato di degrado del sistema sanitario pubblico. Questo collasso è in gran parte il risultato dello smantellamento dello stato sociale sulla scia del neoliberismo, che ora è diventato ultraliberismo, ma anche del fatto che le organizzazioni gerarchiche esautorano la base della società, rendendola così permanentemente fragile.

Malabou si interroga anche su una coesistenza, fonte di confusione, tra quello che chiama anarchismo di fatto, che mira a eliminare lo Stato in una prospettiva individualista e privatistica, sinonimo di deregolamentazione estrema (uberizzazione) e capitalismo libertario, e quello che definisce anarchismo di coscienza, che percepisce attraverso esperimenti di auto-organizzazione come gli Zad (zone da difendere) o il movimento dei Gilet Gialli. Qui la nozione di classe, pur da ripensare e ridefinire, viste le mutazioni sociali ed economiche, è necessaria per chiarire ogni possibilità di confusione tra l’anarcocapitalismo e le tendenze libertarie dei movimenti di protesta degli ultimi anni. “L’ibrida combinazione di violenza governativa e illimitata uberizzazione della vita” appare sempre più egemonica. E, ovunque, le strutture di dominio, plurali e multiformi, sembrano irrigidirsi ancora di più.

“Paradigma archico” è dunque il nome di una “struttura che, agli albori della tradizione di pensiero occidentale, lega insieme sovranità statale e governo”. Non può esistere uno Stato senza governo, né un sovrano che si sottragga alla logica principale del governo: quella del comando e dell’obbedienza. È la logica di un certo modo di agire e di intendere l’azione, una logica egemonica che affonda le sue radici nel pensiero greco, in particolare aristotelico. All’origine della filosofia politica, come della stessa storia dello Stato, il comando riesce a fondare la sua logica solo se viene preso per un inizio: per l’origine vera e affermata, la prima, che a sua volta permette di giustificare la sua eminenza gerarchica. Come se ci fossero sempre stati ordini ed esecutori obbedienti. È stato Aristotele”, ci ricorda Malabou, attingendo alle analisi di Schürmann, che “fondando in un’unità indissolubile i due significati di inizio e di comando”, il concetto di archè, parola greca che significa “principio”, ha avviato il pensiero in tutte le sue dimensioni – logiche, ontologiche e politiche – sulla strada da cui non riusciamo ancora a districarci. Malabou: “l’anarchia perseguita l’archè non appena emerge, come la sua mancanza di necessità”. L’anarchia è l’assenza di principio, l’impossibile unione di principio e comando. L’ordine pratico, politico, statale è solo contingente: il paradigma archico è contingente, soggetto a un inizio storico che non può essere giustificato. Ha potuto aver inizio solo dominando e solo allora è stato in grado, con il pretesto di governare, di trasformare gli esseri non governabili in soggetti governabili.

Il non-governabile è diverso dal governo. Non è la sua inversione, il suo riflesso negativo. Non può essere amministrato, controllato o governato. L’anarchia, l’ingovernabile, assume spesso il volto della vita, ad esempio della vita animale: non si governa un animale, lo si domina. Allo stesso modo, il filosofo cinico, dice Malabou, attingendo alla potente interpretazione dell’ultima opera di Foucault, “è quell’uomo che non è disobbediente: ha ‘qualcosa in lui [che] è assolutamente estraneo all’ordine gerarchico’. E quel ‘qualcosa’ è la vita. Niente di meno della vita”.

Dovremmo dire che l’anarchia, e quindi l’ingovernabile, è la vita? Non esattamente: è ciò che, nella vita, testimonia un’alterità originale e irriducibile al paradigma archico. L’errore dell’anarchismo storico è quindi quello di aver fatto dell’anarchia un principio. Se l’anarchia non è un principio, è un punto di esteriorità, di alterità: il supporto da cui è concepibile un fuori, che sfugge alla circolarità infinita del governabile e dell’ingovernabile. È la Terra, o la vita, alla luce delle attuali questioni ecologiche: non possiamo governare la Terra, né la vita animale, né la vita vegetale. In questo senso, Malabou sostiene che “l’anarchismo deve costantemente testimoniare la sua realtà. Deve accettare che la sua dimensione incredibile – per la coscienza comune come per la coscienza filosofica – non potrà mai essere dissipata dal fatto, dall’attualità degli avvenimenti”. Un’idea inesauribile.

La società anarchica, che deve costantemente reinventarsi per sfuggire alla sclerosi, sembra impensabile, irrappresentabile. Ma, soprattutto, rimane l’oggetto di una preoccupazione viscerale, “l’identità dell’anarchismo e l’esperienza traumatica”, riassume Malabou. Rinunciare al governo significa accettare senza garanzie la “plasticità dell’essere anarchico” e l’imprevedibilità della vita, che duemila anni di pensiero politico hanno ribadito come necessaria per arginare la marea di impulsi morbosi e distruttivi. Nessun filosofo ha preso sul serio la possibilità che la vita senza governo possa svolgersi non come auto-annullamento ma come spontaneo “mutuo soccorso”, per citare Kropotkin. Ci vuole coraggio per fare il passo in più che Malabou ci invita a fare: il passo verso una società fondata sul “rifiuto di qualsiasi ordine” – che, forse, sta già bussando alla porta.

Dopo la lettura del libro, per iniziare un dibattito, si potrebbe rilanciare con un aspetto che
Malabou volutamente non prende in considerazione: la prassi, l’azione. L’anarchismo
infatti non è solo analisi e riflessione sui sistemi di dominanza, ma ribellione ad essi. Anzi
è proprio il confronto tra pensiero e azione che può dare nuovi frutti concettuali e nuove
pratiche di lotta.

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Immagini del conflitto / Spazi https://www.carmillaonline.com/2018/06/21/immagini-del-conflitto-spazi/ Wed, 20 Jun 2018 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46243 di Gioacchino Toni

Di pari passo alla propagazione delle nuove tecnologie digitali di comunicazione si è diffusa tra gli esseri umani la sensazione di trovarsi di fronte a nuovi spazi abitativi. Del carattere politico-conflittuale di tali universi – ciberspazio, web, infosfera… – si occupa il libro di Antonio Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), volume di cui abbiamo già avuto modo [su Carmilla] di approfondire la sezione che dedica alla trasformazione del corpo in un orizzonte post-umano.

La questione del carattere politico del nuovo mondo tecnologico con cui ci troviamo a [...]]]> di Gioacchino Toni

Di pari passo alla propagazione delle nuove tecnologie digitali di comunicazione si è diffusa tra gli esseri umani la sensazione di trovarsi di fronte a nuovi spazi abitativi. Del carattere politico-conflittuale di tali universi – ciberspazio, web, infosfera… – si occupa il libro di Antonio Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), volume di cui abbiamo già avuto modo [su Carmilla] di approfondire la sezione che dedica alla trasformazione del corpo in un orizzonte post-umano.

La questione del carattere politico del nuovo mondo tecnologico con cui ci troviamo a fare i conti viene affrontata da Tursi recuperando alcuni celebri esempi di narrazione di “mondi nuovi” del passato per poterli confrontare con i nuovi scenari contemporanei. L’analisi prende il via dalla constatazione di come a partire dalle grandi scoperte geografiche cinquecentesche si originino due grandi narrazioni metaforiche caratterizzate da differenti connotazioni socio-politiche: «da un lato, verso il consolidamento di un utopismo popolare, soprattutto contadino, che aveva radici nel medievale Paese di Bengodi e che si manifestava nelle tante variazioni sull’antico tema del Paese di Cuccagna; dall’altro, verso l’elaborazione di costruzioni colte e moderne come l’Utopia di Tommaso Moro e la Città del Sole di Tommaso Campanella» (p. 101). La prima direzione, che si protrae addirittura fino all’epoca illuminista con Candido e l’Eldorado, insiste con il descrivere utopisticamente un mondo paradisiaco. Per quanto riguarda il secondo filone lo studioso si sofferma sul celebre Libellus relativo all’isola di Utopia di Moro in cui il mundus novus, nella sua volontà di neutralizzare ogni tipo di “lotta di parte”, «si pone come tramite tra la Repubblica disegnata da Platone […] e il Leviatano di Hobbes» (p. 106).

Dopo tali premesse storiche Tursi approda al romanzo di genere distopico di Aldous Huxley, Brave New World (1932), in cui si narra di uno Stato Mondiale che genera i suoi abitanti in provetta per poi collocarli in rigide caste pianificandoli ed educandoli a mantenere e desiderare l’ordine stabilito. In ossequio all’obiettivo della stabilità sociale, in cambio dell’apatia a questi cittadini del nuovo mondo, prodotti attraverso una sorta di catena di montaggio, viene garantita la felicità materiale e fisica. Huxley avrà modo, diverso tempo dopo aver steso il romanzo, di puntualizzare il ruolo della comunicazione di massa e dell’intrattenimento nel creare e soddisfare gli appetiti dell’uomo moderno soffocandone ogni minima propensione politica.

Attraverso queste tappe lo studioso giunge a ragionare sulla definizione di Metaverso proposta da Neal Stephenson nel suo romanzo Snow Crash (1992), opera che tocca questioni che hanno a che fare con l’intrecciarsi di arcaico e contemporaneo, con i linguaggi, la religione, i cyborg, i migranti, la cultura popolare e le urgenze ambientali. Ad essere preso in esame è soprattutto il rapporto tra «realtà (o meglio ciò che siamo abituati a considerare tale) e Metaverso, tra territorio e nuovo mondo virtuale per cogliere il tracciamento politico di entrambe queste dimensioni [al fine di comprendere] la cifra politica che emerge dal loro inestricabile intreccio» (p. 114-115). Diversamente dalle utopie e dalle distopie moderne, «il Metaverso (o ciberspazio) richiede una pratica politico-polemica proprio perché non è scisso degli spazi della nostra vita quotidiana» (p. 115). Rispetto alle narrazioni utopiche e distopiche della modernità in questo caso occorre fare i conti con l’ambiguità del rapporto tra il territorio e la simulazione del ciberspazio.

Snow Crash a cui fa riferimento il titolo è tanto un virus informatico che si propaga in rete provocando “l’effetto neve” sui monitor, quanto un virus mentale che, propagandosi attraverso i liquidi corporei e gli agenti atmosferici, colpisce “la carne viva” degli esseri umani imponendo loro di obbedire agli ordini ricevuti attraverso un codice sotto forma di linguaggio monosillabico. Il medesimo virus neurolinguistico può dunque attaccare nel Metaverso e nella realtà incidendo tanto sugli avatar quanto sui corpi. «Sin nel titolo, dunque, è racchiuso il rapporto stretto e inscindibile tra quella che siamo soliti considerare realtà e il nuovo spazio dei flussi informativi, tra mondo materiale e mondo del codice digitale. Unico è lo strumento di cui avvalersi per dominare in entrambe queste dimensioni: il virus Snow Crash. Unico perché queste dimensioni sono sempre più interconnesse» (p. 116).

Le vicende narrate da Stephenson sono collocate in uno scenario futuro postatomico e postnazionale in un territorio corrispondente agli attuali Stati Uniti ma smembrato in una miriade di autonome enclave recintate e protette. Soltanto alcuni luoghi sottostanno al governo federale degli Stati Uniti mentre i restanti appartengano alle più svariate entità: «il territorio non è più lo spazio in cui si manifesta il potere assoluto del governo statale bensì un patchwork di micropoteri privati, extraterritoriali, conflittuali e instabili. […] Quello che resta, dunque, non è più uno Stato e forse neppure, più genericamente, una unità politica di qualsiasi tipo. Eppure in questo patchwork frastagliato, che tende a isolare spazi chiusi, si tessono legami, alleanze, comunanze» (p. 118).

Il Metaverso di cui narra nel romanzo è invece “un mondo di simulazione” ove gli utenti accedono connettendosi attraverso il web. Il romanzo descrive l’aspetto e la funzionalità di questi spazi in cui gli individui si presentano e agiscono attraverso degli avatar. «Del linguaggio-macchina che controlla i computer e dunque il Metaverso, gli hacker […] sono a tal punto esperti da averlo interiorizzato nelle strutture profonde del proprio cervello, nei propri percorsi neurolinguistici, nel proprio bioware. Questo li rende adatti a gestire il linguaggio di programmazione ma anche particolarmente vulnerabili al virus neurolinguistico Snow Crash. Ma dov’è il pericolo anche ciò che salva cresce. Gli hacker combattono approntando da sé i mezzi di produzione-lotta. […] Questa élite tecnologica non si caratterizza solo per una abilità tecnica ma anche per un nuovo paradigma di legame sociale. Ci che contraddistingue gli hacker, infatti, è lo spirito altruistico di condivisione […] Ciò che gli hacker mostrano è prima di tutto una nuova etica» (pp. 121-122).

Nel romanzo si confrontano una tendenza all’appropriazione ed una alla condivisione. «Di fatto gli scontri nel Metaverso non sono altro che scontri tra software e capacità di gestirli. […] “Il Metaverso è una struttura fittizia costruita con un linguaggio di programmazione. E il linguaggio di programmazione non è che una forma del discorso – quella comprensibile ai computer”. Dunque, lo scontro è innanzitutto uno scontro discorsivo, uno scontro tra capacità di farsi ascoltare (attraverso la mediazione del linguaggio di programmazione) e volontà di non ascoltare e di non far ascoltare (simbolicamente resa dal barbuglio insensato delle vittime di Snow Crash)» (p. 124). La comunità degli hacker non ricalca le comunità nazionali e non è nemmeno una era e propria classe sociale omogenea.

In realtà, ci troviamo di fronte una comunità che non ha nome proprio e dunque potrebbe averne molti. Nel racconto di Stephenson, significativamente e nello stesso tempo paradossalmente, gli hacker assurgono a nome proprio di quella “comunità immaginata” che riconosciamo come gli States. Un riconoscimento che per i protagonisti del romanzo è nostalgia di una comunità ormai polverizzata negli spazi frammentati del territorio-patchwork. In questo modo, la memoria di una comunità ormai disgregata resiste sorprendentemente nella nuova comunità dispersa degli hacker […] In generale, quello degli hacker è “un nome improprio” attraverso il quale un processo di soggettivazione politica può aver luogo nel nuovo spazio dei flussi informativi. […] Gli hacker non sono una comunità che combatte solo per sé, per una rivendicazione particolaristica. Come i poveri nell’antichità greca e il proletariato nell’Europa moderna, gli hacker combattono per un proprio (per sopravvivere al virus neurolinguistico, per affermare la loro etica di condivisione) ma anche e soprattutto per un comune, per preservare un comune, uno spazio del comune: e cioè l’anarchia sostanziale rispetto al tentativo del potente magnate dei media di imporre il suo dominio pervasivo sul territorio così come sul Metaverso. […] Il conflitto nel Metaverso serve a preservare un luogo comune, nel quale riconoscere una comunità degli eguali, una comunità che dà voce tanto all’élite tecnologica quanto agli immigrati disperati e ridotti a essere parlati da un barbuglio insensato. Questo conflitto è politico perché [per dirla con Rancière] “la politica esiste nel momento in cui l’ordine naturale del dominio viene interrotto dall’istituzione di una parte dei senza-parte”. Una parte la cui funzione è politica perché è precipuamente quella di dispiegare una scena comune, cosa che gli hacker fanno letteralmente con il loro lavoro di programmazione. Affermare, cioè, un mondo comune del senso e della visibilità rispetto al precedente e ‘naturale’ mondo sotterraneo dei rumori confusi. In altri termini, rompere una certa configurazione del sensibile, ridefinendo il campo dell’esperienza e facendo balenare una pluralità del sensibile prima invisibile (pp. 126-128).

Dunque, sostiene Tursi, «l’attività politica si rivela essere quell’attività che permette a un corpo di dislocarsi, di uscire fuori dal luogo che gli era stato assegnato, ovvero quell’attività che cambia la destinazione prefissata di un luogo. In questo modo, però, nessun luogo può ritenersi un luogo irenico, bensì sempre un luogo di con-divisione» (p. 129). Moro, Huxley e Stephenson, continua lo studioso, attraverso i loro racconti ci invitano a guardare il nostro mondo nella sua contingenza che non esclude quell’altrimenti che è l’essenza di ogni decisione politica.

Una parte del libro è dedicata all’architettura della/nella trilogia di Matrix dei fratelli Larry e Andy Wachowski in cui Tursi individua «una struttura narrativa chiasmica […] percepibile già visivamente: si passa dal primo The Matrix (Usa, 1999) a Matrix Revolutions (Usa, 2003), capovolgendo il rapporto tra visione della simulazione del culmine della civiltà occidentale e visione del mondo postconflitto di un non determinato futuro. Così, se nel primo episodio almeno due terzi delle scene mostrano la simulazione di una metropoli in cui si potrà riconoscere New York o anche altre città nordamericane, come per esempio Atlanta, in Matrix Revolutions due terzi delle scene mostrano invece luoghi postmetropolitani, quali Zion e la Città delle macchine, poco, narrativamente e visivamente, frequentati in precedenza. Il capovolgimento è operato dall’equilibrato Matrix Reloaded (Usa, 2003): è il secondo episodio che non solo inverte in termini visivi ciò che si era affermato in precedenza ma complica la lettura della narrazione filmica. Infatti, mentre l’episodio iniziale ci permette di leggere una ontologia – e quindi, una estetica e una mediologia – definibile come della scissione, Matrix Reloaded indebolisce questa visione unitaria» (pp. 133-134).

Tursi si occupa dunque degli aspetti estetici legati all’architettura degli spazi metropolitani e postmetropolitani con l’intenzione di delineare «un’estetica-architettura della scissione e, soprattutto, un’estetica-architettura della connessione» (p. 134).

L’ultima parte del volume è dedicata alla «ridislocazione del conflitto» nell’opera letteraria di William Gibson che, sbrigativamente, viene solitamente suddivisa in due periodi distinti. Al primo sarebbero riconducibili la celebre trilogia “sprawl” composta da Neuromante (1984), Count Zero (1986) e Monna Lisa Overdrive (1988) a cui vengono aggiunte le opere Virtual Linght (1993), Idoru (1996) e All Tomorrow’s Parties (1999). Del secondo periodo farebbero invece parte Pattern Recognition (2003), Spook Country (2007) e Zero History (2010). Se le opere del primo periodo si proiettano verso un futuro che, per quanto ormai prossimo, rivela importanti cambiamenti rispetto al presente (del periodo in cui scrive), i romanzi del secondo periodo palesano una inflessione sul presente.

Tursi pone l’accento su come Gibson, pur spostando lo sfondo dei suoi romanzi dalla tecnologia futuribile, soprattutto relativa ai mezzi di comunicazione, nelle prime opere, alle merci del consumo globale, nelle successive, occorre «rilevare come queste merci del consumo globale non siano che il portato della diffusione globale di quelle allucinazioni che le tecnologie di comunicazione hanno indotto e veicolato negli ultimi decenni. Di converso, anche gli immaginifici mezzi di comunicazione utilizzati [dai] cowboy della consolle non sono mai stati altro che merci, qualcosa di acquistabile e vendibile nello “sprawl” disegnato da Gibson negli anni Ottanta» (p. 159).

Insomma, secondo lo studioso Gibson «ha sempre lavorato su un’unica matassa, su quell’immaginario che è condensazione di tecnologie e consumo, […] con la materia di cui sono fatti i sogni» (p. 159), sapendo «cogliere il carattere allucinatorio di quella rappresentazione grafica di informazioni ricavate da ogni computer del sistema umano, di quelle linee di luce allineate nel non-spazio della mente, di quegli ammassi e costellazioni di dati. Dove l’allucinazione segna uno scarto rispetto alla realtà nella quale abitiamo abitualmente. E, nello stesso tempo, l’apertura di un altro spazio dell’abitare. Uno spazio vivo e vitale proprio perché vissuto e dunque costruito e agito consensualmente, oltre che quotidianamente. Uno spazio dell’immaginario “esteriorizzato” o “oggettivato” […] fuori della nostra mente. E dunque non più un immaginario individuale ma condiviso. E non più alla maniera permessa dai mass media come la televisione ma in maniera più articolata e complessa» (p. 160).

Secondo Gibson «comprendere l’immaginario come spazio del conflitto non significa smaterializzare il conflitto o, ancor oltre, disincarnarlo» (p. 171); nelle opere dello scrittore il conflitto resta dunque incorporato e «si gioca in ambiti differenti rispetto alle geografie del moderno, in ambiti transpolitici, e tra soggettività diverse rispetto a quelle del passato, soggettività riconosciute ibride e post-umane. Ma continua a riguardare concretissimi interessi materiali, di corpi vivi, rispetto ai quali poteri e contropoteri si confrontano anche nel nuovo inner space che Gibson ha esplorato e che ci ha fatto intravvedere» (p. 174).

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