Raffaello Cortina Editore – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 30 Dec 2025 23:01:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Dal gusto al disgusto https://www.carmillaonline.com/2015/10/15/dal-gusto-al-disgusto/ Thu, 15 Oct 2015 21:00:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24872 di Gioacchino Toni

gusto disgustoMaddalena Mazzocut-Mis (a cura di), Dal gusto al disgusto. L’estetica del pasto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 205 pagine, € 19,00

Il saggio curato da Maddalena Mazzocut-Mis indaga il rapporto fra gusto e disgusto a cavallo tra estetica ed alimentazione passando in rassegna diverse epoche storiche. Mentre i sensi come la vista e l’udito hanno goduto di una speciale considerazione nel pensiero occidentale in quanto considerati vie privilegiate di accesso alla conoscenza, il gusto è invece stato frequentemente relegato ad un livello decisamente inferiore. Platone, collegando il gusto [...]]]> di Gioacchino Toni

gusto disgustoMaddalena Mazzocut-Mis (a cura di), Dal gusto al disgusto. L’estetica del pasto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 205 pagine, € 19,00

Il saggio curato da Maddalena Mazzocut-Mis indaga il rapporto fra gusto e disgusto a cavallo tra estetica ed alimentazione passando in rassegna diverse epoche storiche. Mentre i sensi come la vista e l’udito hanno goduto di una speciale considerazione nel pensiero occidentale in quanto considerati vie privilegiate di accesso alla conoscenza, il gusto è invece stato frequentemente relegato ad un livello decisamente inferiore. Platone, collegando il gusto al basso piacere dell’alimentazione, lo indica addirittura come nemico dell’attività intellettuale. È tra il Sei e Settecento che si ha una sorta di riabilitazione del gusto pur senza affrancarlo dalla carnalità sensoriale attivata dall’alimentazione.

Tenendo in considerazione l’incidenza delle trasformazioni sociali sulla dimensione culturale, i diversi contributi di Maddalena Mazzocut-Mis, Paola Vincenzi, Claudio Rozzoni e Serena Feloj, analizzano, a partire dalle premesse rinascimentali, i mutamenti del gusto in ambito culinario, in particolare nel corso del Sei e Settecento, passando in rassegna la trattatistica relativa alla scienza culinaria, le credenze mediche, la messa in scena dei banchetti e l’aspetto decorativo delle vivande nel passaggio “dal commestibile al godibile”. Una parte della trattazione è dedicata alla ricerca settecentesca di giungere ad una convincente definizione di “piacere” ed al binomio appagamento sessuale-soddisfacimento dello stomaco che rappresenta una costante del pensiero libertino dell’epoca.

Nel secolo dei Lumi, il gusto ha a che fare con la “capacità di discernerne la bellezza artistica e naturale”, pertanto esso si offre come strumento in grado di ampliare le possibilità di entrare in rapporto con le cose. In linea con i principi dell’Encyclopédie, l’individuo non può lasciarsi guidare dal gusto senza che quest’ultimo sia stato educato; occorre fornire al soggetto la capacità di gestire quanto potrebbe disturbarlo o corromperlo nel corpo e nell’intelletto. “L’amore disordinato della buona tavola va di pari passo con la degradazione dei costumi ed è considerato alla stregua dei vizi corruttori dell’animo umano”.

Particolare attenzione viene riservata alle trasformazioni del gusto in rapporto alla mobilità sociale della Francia settecentesca; l’ascesa borghese determina, ovviamente, anche a tavola, nuovi riti di socializzazione e nuove modalità di consumo del cibo dando luogo ad un tipo di alimentazione sempre più lontano dalla secentesca opulenza aristocratica. Dall’analisi dei testi di cucina dell’epoca si comprende, inoltre, come il nuovo gusto francese, affrancatosi degli interdetti religiosi del secolo precedente, sia rivolto ad una “fruizione degustativa regolata”, in linea con lo spirito illuminista.

Nel corso del XVIII secolo, il disgusto si configura come minaccia al piacere estetico derivata dalla sensazione fisica di nausea di fronte al cibo. L’indagine del rapporto tra estetica ed alimentazione introduce alla questione del disgusto. Nell’Encyclopédie il disgusto viene affrontato dal punto di vista medico, non tanto come degenerazione del gusto ma come malfunzionamento della degustazione che porta alla mancanza di appetito. Il Settecento non ammette una fruizione estetica del disgusto, essendo trattato come mera devianza patologica. “Il disgusto è una sensazione chiusa all’interno di una negatività che non porta mai verso un piacere. Non ha mai i tratti dell’ambivalenza e dell’illusorietà, e non entra nel circuito di ciò che può, a vario titolo, essere considerato artistico”. Nel secolo dei Lumi, sostiene la curatrice del saggio, il disgusto non deve essere confuso col brutto, non è il contrario del bello, “se l’irrappresentabile è al limite di una rappresentazione, l’orrore è ancora al di qua del confine, il disgusto è già al di là”. Mentre il sublime “respingendo attrae”, all’opposto il disgusto risulta repellente, allontana dalla fonte disgustosa. Il saggio si sofferma sulla svolta kantiana che esplicita il legame tra estetica e moralità e, successivamente, analizza la filosofia postkantiana ove il disgusto inizia ad essere inteso come “parte di una generale inclusione del brutto, del grottesco e del nauseante nell’estetica”.

the brood 022 cronembergIl contributo di Michele Bertolini si occupa invece dello spazio conquistato dal disgusto nel panorama artistico e cinematografico a partire dalla frattura fra arte e bellezza sancita dalle avanguardie del primo Novecento. L’autore decide di affrontare l’ambito artistico riprendendo la proposta marxiana di intendere il consumo come modalità di produzione: “L’idea dell’arte come merce da consumare e del consumo come forma di produzione, come trasformazione produttiva della realtà e non semplice digestione passiva, che progressivamente s’impone a partire dal ready-made di Duchamp, può costituire un efficace punto di partenza per un approccio generale all’arte del Novecento”. A partire da tale premessa Bertolini sostiene che il ready-made duchampiano può essere interpretato come una modalità di consumo produttivo che apre nuove strade all’arte contemporanea. Facendo riferimento soprattutto agli happening che strutturano banchetti a cui il pubblico è invitato a partecipare, Bertolini sostiene che “l’artista contemporaneo sembra rivolgersi al dispositivo formale della distribuzione, del consumo e della lavorazione del cibo come a un generatore di processi sociali e di scambi interpersonali locali che possono opporsi al sistema dell’economia ‘globale’ e al dominio invisibile e smaterializzato del mercato”. Mentre la produzione artistica relazionale negli anni ’60 e ’70 mirava ad un ampliamento dei limiti, ai giorni nostri, secondo l’autore, si tende maggiormente alla costruzione di modelli di socialità provvisori; è come se fosse caduta ogni possibilità di ambire a trasformazioni durature e via via sempre più allargate. Il contemporaneo sembra non riuscire ad andare oltre la creazione di forme di convivialità e socialità temporanee, accontentandosi di sperimentare e vivere momenti relazionali significativi ma effimeri.

Dalla preparazione e dal consumo conviviale dei cibi al loro utilizzo invasivo ed avariato, il passo è breve e, per tale via, si giunge facilmente all’introduzione del disgusto in ambito artistico. Secondo l’autore, nell’età contemporanea, il disgusto non deve essere considerato il contrario del buon gusto, ma come una consapevole e volontaria reazione nei suoi confronti. I tanti casi in cui l’arte ed il cinema costringono lo spettatore a confrontarsi con reazioni fisiologiche estreme possono essere interpretati come rigetto dell’estetica del buon gusto. Nell’ipotesi di Bertolini, il disgusto, così come l’informe, nel suo far saltare la distinzione tra interno ed esterno di corpi, tra uomo ed animale, si presenta come movimento di degradazione che può tradursi in espressione artistica quando sovverte “le possibilità interpretative di un’estetica giudicatrice, di un’estetica della forma e del buon gusto”. Il disgusto sovverte la distinzione tra interno ed esterno di corpi attraverso due processi opposti: dall’interno all’esterno e dall’esterno all’interno. Il primo caso evoca “forme di apertura del corpo”, il secondo replica in una forma nauseante il consumo del cibo. Il corpo viene smembrato e dato a vedere anche nei suoi anfratti più nascosti. L’estroflessione dell’interno del corpo e la violazione della sua integrità comportano un movimento in direzione dell’informe “che può essere interpretato come una paradossale apertura alle metamorfosi, alle infinite possibilità della forma”, come avviene nel film The Brood (Brood – La covata malefica) del 1979 di David Cronemberg, ove una donna dall’utero estroflesso genera esseri mostruosi. L’autore sottolinea come il cinema cronemberghiano della “bellezza interiore” e dalla “nuova carne” (derivata da ibridazioni fra specie ed organismi e fra corpo biologico e protesi tecnologiche) rimandi all’idea di disgusto proposta da Aurel Kolnai ad inizio Novecento, così riassunta da Bertolini: “un eccesso distruttivo e perverso di vita, irriducibile a qualsiasi forma stabile, che invade e attraversa perfino la morte sotto l’aspetto di una vita putrida, senza riuscire a morire”.

the brood 005 cronembergIn ambito artistico la categoria del disgusto ha avuto negli ultimi decenni grande diffusione soprattutto tra i cosiddetti “giovani artisti britannici” che hanno esposto più volte cadaveri, deformità, elementi in decomposizione, ibridazioni tra organico ed inorganico ecc. Tali proposte artistiche non hanno a che fare con una “poetica del realismo estremo”, occorre piuttosto, sostiene l’autore, “scorgere nel cuore dello spettacolo estetico (la mostra, il mercato e il sistema dell’arte) l’imposizione violenta ai sensi di un disgusto che richiede la nostra adesione e che tuttavia non può essere contemplato o guardato come uno spettacolo”.

Dopo aver analizzato le differenze tanto a livello teorico, quanto a livello di pratiche artistiche, dei concetti di informe, abiezione ed osceno, determinanti diverse diramazioni del disgusto, Bertolini si interroga circa la possibilità di un’estetica del disgusto. “Il disgusto è un processo, un movimento funzionale al suo superamento, alla liberazione dal nauseante (come nel caso del vomito), a una riconquista della purezza perduta, o viceversa al riconoscimento del basso materiale, della dimensione naturale che ci appartiene?”. La produzione artistica novecentesca che ha proposto rappresentazioni del disgusto e del nauseante più estreme, sposta, senza cancellarlo, il limite nella raffigurazione del disgusto obbligando l’estetica contemporanea ad interrogarsi circa la variabilità e la mobilità della frontiera tra presentabile ed irrappresentabile.
“Il disgusto ‘artistico’ è quindi inserito all’interno di un processo di fruizione che non deve necessariamente addomesticarlo, neutralizzarlo o riscattarlo: esso può (…) fermarsi all’informe, senza cedere alla tentazione di un’arte dell’abiezione che finisce per feticizzare i proprio oggetti, le sostanze escrementizie (…) o i temi (…), e quindi per irrigidirsi in significati fissi, pietrificati, in una cornice semantica a priori, oppure giocare tra diverse categorie (…) spostando l’attenzione dall’oggetto, da ciò che genera disgusto, al rapporto totalizzante che l’opera impone al nostro corpo, ai nostri sensi, al di là o al di qua della rappresentazione”. Di fronte ad operazioni artistiche giocate sul disgusto si impone un deciso cambiamento alle modalità di fruizione, non può più trattarsi di un rapporto di tipo contemplativo, ma di un vero e proprio coinvolgimento totale che comporta “un abbandono al dolore e allo choc come unica possibilità di ricezione richiesta dall’opera d’arte, nella rinuncia a qualsiasi, pur minima, distanza di sicurezza”.

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L’atto iconico secondo Horst Bredekamp. Le immagini che ci cambiano https://www.carmillaonline.com/2015/08/10/latto-iconico-secondo-horst-bredekamp-le-immagini-che-ci-cambiano/ Mon, 10 Aug 2015 21:30:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23130 di Gioacchino Toni

Bredekamp atto iconicoHorst Bredekamp, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015, 382 pagine, € 29,00

Secondo Bredekamp si possono cogliere almeno cinque motivi principali per spiegare il moltiplicarsi, negli ultimi decenni, degli studi concernenti le immagini. Il primo motivo, per certi versi il più ovvio, deriva dall’incredibile quantità di immagini presenti nella civiltà contemporanea, soprattutto ad opera dell’industria dell’intrattenimento. Il secondo motivo ha a che fare con l’utilizzo politico delle immagini, con la rappresentazione del potere. L’utilizzo militare delle immagini rappresenta il terzo grande [...]]]> di Gioacchino Toni

Bredekamp atto iconicoHorst Bredekamp, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015, 382 pagine, € 29,00

Secondo Bredekamp si possono cogliere almeno cinque motivi principali per spiegare il moltiplicarsi, negli ultimi decenni, degli studi concernenti le immagini. Il primo motivo, per certi versi il più ovvio, deriva dall’incredibile quantità di immagini presenti nella civiltà contemporanea, soprattutto ad opera dell’industria dell’intrattenimento. Il secondo motivo ha a che fare con l’utilizzo politico delle immagini, con la rappresentazione del potere. L’utilizzo militare delle immagini rappresenta il terzo grande motivo, tanto che, sostiene l’autore, sotto il segno della guerra asimmetrica, “le immagini sono assurte ad armi primarie: utilizzate dai media o in Internet esse assolvono alla funzione di estendere per via ottica il dominio della lotta e innescare processi mentali capaci di influenzare molto più direttamente che in passato l’impiego di armi vere e proprie, arrivando persino a sostituirlo”. Il quarto motivo trova spazio nell’ambito delle scienze naturali ove, le immagini, non vengono più utilizzate come mero strumento illustrativo ma come “strumento analitico in sé”. L’ultimo motivo, il quinto, ha a che fare con la regolamentazione giuridica delle immagini, ora percepite come elementi primari della vita esteriore e non più come fenomeni secondari.

Secondo l’autore, di questi tempi, a proposito dello status delle immagini, non solo persiste ma si aggrava il conflitto tra “l’ipotesi che la conoscenza sia fondata solo al di fuori del campo sensoriale e visivo, e la convinzione che le immagini non diano solo forma al pensiero, bensì creino anche sensibilità a comportamenti”. Il corposo saggio di Bredekamp si è sviluppato a partire da un ciclo di lezioni (Adorno-Vorlesungen 2007) organizzate dall’Institut für Sozialforschung di Francoforte, pertanto, risulta facile coglierne la continuità rispetto alle analisi di Horkheimer ed Adorno a proposito della dialettica di mito ed illuminismo. Se l’epopea illuminista ha rimosso la questione della soggettività dell’immagine, secondo Bredekamp, è giunto il momento di riconoscere l’autonomia vivente dell’immagine nel convincimento che “le immagini non subiscono, bensì producono esperienze percettive e comportamenti”. Occorre, pertanto, “superare il gigantesco smarrimento che l’epoca moderna ha prodotto nel privilegiare il soggetto quale creatore del mondo. L’io si rafforza solo relativizzandosi alla luce dell’attività intrinseca delle immagini. Le immagini non possono essere collocate davanti o dietro la realtà, poiché esse contribuiscono a costruirla. Non sono una sua emanazione, ma una sua condizione necessaria”. È su tali premesse che l’autore sviluppa la sua teoria dell’atto iconico.

bildaktsIl titolo originale dell’opera, Theorie des Bildakts (Suhrkamp, 2010), nell’ottima edizione italiana è diventato Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, associato ad un’immagine di copertina del celebre Ritratto d’uomo (1475 ca.) di Antonello da Messina. La copertina italiana, pur pregevole, nel suggerire un rimando tra lo sguardo rivolto verso l’osservatore dell’uomo effigiato e la titolazione “immagini che ci guardano”, rischia di trarre in inganno, suggerendo una portata limitata dell’atto iconico rispetto a quanto argomentato nella trattazione. L’atto dell’immagine, secondo l’autore, non si limita ad osservarci, esso contribuisce a cambiarci, a modificarci in sensibilità e comportamenti e per far ciò non è necessario che nell’immagine vi sia un volto, né, tantomeno, che questo ci osservi, come potrebbe suggerire il binomio immagine-titolo nella versione italiana. Nell’edizione originale del saggio, l’immagine di copertina riproduce un dipinto che “non ci guarda”: il Ritratto dell’arcivescovo Filippo Archinto (1551-1562) di Tiziano, nella versione “velata”, conservata presso il Philadelphia Museum of Art. Tale opera viene trattata dallo stesso Bredekamp nel contesto del ragionamento suggerito dal famoso mottetto scritto da Leonardo: “Non iscoprire se libertà / t’è cara ché ‘l volto mio / è charciere d’amore”, riferendosi all’usanza di velare le statue per poi scoprirle in occasioni particolari. Una sorta di esortazione che l’opera stessa rivolge all’osservatore per metterlo in guardia da un’eventuale visione perché ne resterebbe cambiato. Leonardo sembra proporre l’opera come soggetto attivo e non come mero oggetto passivo in balia dello sguardo umano. A partire dalle parole leonardesche, l’autore intende dimostrare il ruolo attivo delle immagini, non delle sole opere d’arte, nel costruire al realtà, come esse non siano soltanto una sua “semplice emanazione, ma una sua condizione necessaria”. Le immagini, insomma, più che guardarci, ci modificano.

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Estetiche del potere. Sacrari militari e propaganda https://www.carmillaonline.com/2015/06/02/estetiche-del-potere-sacrari-militari-e-propaganda/ Tue, 02 Jun 2015 07:02:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22759 di Gioacchino Toni  

memorie di pietra monumenti dittatureGian Piero Piretto (a cura di), Memorie di pietra. I monumenti delle dittature, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, 272 pagine, € 25.00

Il volume affronta la questione della monumentalità in una selezione di sistemi totalitari novecenteschi diversi; tra questi vengono passati in rassegna esempi dell’Italia fascista, della Germania nazista e del blocco sovietico. Le tipologie di monumento analizzate dal saggio sono varie e diversificate, pur focalizzando l’attenzione, in questa sede, sull’utilizzo dei sacrari militari nella propaganda fascista, vale la pena riassumere, seppur brevemente, le diverse questioni trattate [...]]]> di Gioacchino Toni  

memorie di pietra monumenti dittatureGian Piero Piretto (a cura di), Memorie di pietra. I monumenti delle dittature, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, 272 pagine, € 25.00

Il volume affronta la questione della monumentalità in una selezione di sistemi totalitari novecenteschi diversi; tra questi vengono passati in rassegna esempi dell’Italia fascista, della Germania nazista e del blocco sovietico. Le tipologie di monumento analizzate dal saggio sono varie e diversificate, pur focalizzando l’attenzione, in questa sede, sull’utilizzo dei sacrari militari nella propaganda fascista, vale la pena riassumere, seppur brevemente, le diverse questioni trattate dal saggio curato da Gian Piero Piretto.

Per quanto riguarda l’epopea dell’Italia fascista, Andrea d’Agostino si occupa della risignificazione dell’antichità romana operata dal fascismo, in particolare ricostruendo l’uso del Mausoleo di Augusto e dell’Ara Pacis al fine di rafforzare il binomio Augusto-Mussolini. Sempre restando nell’ambito del ventennio mussoliniano, Stefano Taiss propone un interessante studio, sul quale si focalizzerà l’attenzione in tale scritto, dei memoriali fascisti analizzandone le caratteristiche stilistiche e le sottese finalità. Il saggio di Elena Pirazzoli passa in rassegna la Germania hitleriana occupandosi, in particolare, di alcune realizzazioni finalizzate alla gestione delle masse in vacanza. Diversi sono gli interventi che riguardano il “blocco sovietico”, a partire dal saggio del curatore dell’opera, Gian Piero Piretto, che analizza le peculiarità del memoriale dedicato alle vittime dell’Armata Rossa edificato a Berlino nel 1949. Massimo Tria passa in rassegna i film, la letteratura ed altri testi artistici e culturali sviluppati attorno al carro armato sovietico a Praga. L’architettura monumentale della repubblica Democratica Tedesca è affrontata da Luca Zenobi nel suo ruolo di strumento politico ed ideologico. L’intervento di Eric Gobetti studia l’impressionante proliferazione seriale di monumenti partigiani edificati nella Jugoslavia di Tito con l’intenzione di supportare una lettura del conflitto imperniata sull’unità del popolo jugoslavo nella guerra di liberazione. Lo scritto di Francesco Vietti tratta in parallelo l’Albania e la Corea del Nord nel loro essere accomunate dalla creazione di un confine impenetrabile associato alla monumentalità delle costruzioni come elementi di supporto all’autarchia. Infine, Liza Candidi T.C., passando in rassegna i monumenti cubani e l’immaginario rivoluzionario, giunge alla definizione di “ipermonumento” con riferimento alla Tribuna anti-imperialista José Martí, realizzata nel 2000 di fronte alla Sezione di interessi statunitense, sede di rappresentanza americana, indicando con tale termine “un monumento che ne riflette un altro (la sede statunitense e i suoi simboli) e lo doppia, assorbendone la provocazione e contrastandone significato e retorica”.

I diversi scritti presenti nel volume sono preceduti dal saggio di Andrea Pinotti “Antitotalitarismo e antimonumentalità” in cui, l’autore, partendo da una definizione generale di monumento, che lo vuole oggetto di grandi dimensioni, di materiale durevole e volto alla commemorazione di eventi od individui importanti per la memoria e l’identità sociale di una collettività, segnala come esso leghi l’esercizio del potere e l’esperienza della morte. Il monumento sepolcrale, con il suo segnare l’assenza del morto, diviene il “campo d’indagine privilegiato sia per la genesi storica della produzione di immagini come risposta al trauma della morte (…) sia per l’originarsi sempre di nuovo ripetuto del gesto che produce immagini come supplementi a compensazione di una mancanza”.
Nato con l’intento di esternare ed eternare la memoria, non di rado il monumento finisce col promuovere l’oblio; affidando il ricordo ad un supporto esterno, diviene possibile dimenticarlo. Se il monumento tradizionale finisce col fallire il suo obiettivo iniziale, si potrebbero invertire le sue “proprietà costitutive” al fine di ottenere il risultato voluto. Da tale ragionamento, a partire dagli anni Settanta, prende piede l’idea di invertire le polarità costitutive il monumento: all’esigenza di una visibilità invadente si sostituisce la tendenza all’invisibilità, ai materiali che esibiscono imponenza e durata si preferiscono materiali leggeri ed effimeri e così via. Se “la monumentalità totalitaria spinge all’estremo i contrassegni della monumentalità tradizionale (…) tanto più efficaci risulteranno l’inversione e il ribaltamento di tali contrassegni nella monumentalizzazione memoriale di coloro che da quei regimi sono stati schiacciati”.
Tra gli esempi riportati dall’autore vale la pena ricordare il Monumento contro il fascismo, la guerra, la violenza, per la pace e i diritti umani realizzato da Jochen Gerz ed Esther Shalev-Gerz, nel 1986, ad Amburgo. Si tratta di un pilastro di una dozzina di metri in piombo eretto in un quartiere periferico della città sul quale i cittadini sono invitati ad intervenire apponendo messaggi e riflessioni. Il pilastro è progettato per abbassarsi progressivamente con il coprirsi delle iscrizioni tracciate dai cittadini fino ad interrarsi. La struttura può essere letta come una sorta di “specchio sociale” che riflette, nel bene e nel male, i pensieri ed i sentimenti della popolazione. L’idea è quella di rendere i cittadini fautori della scomparsa del pilastro smuovendo il loro senso di responsabilità condivisa nel mantenere viva la memoria. Una volta sotterrata, dopo sette anni dall’inaugurazione, restano sul luogo soltanto le “istruzioni per l’uso” redatte in sette lingue: il monumento diviene assenza, la conservazione della memoria non spetta più ad esso ma alle persone che lo hanno sotterrato.

sacrario mostra rivoluzione fascistaIl saggio di Stefano Taiss “Presente! I memoriali del fascismo italiano”, sottolinea in apertura come anche i monumenti ai caduti di epoca mussoliniana rientrino nella logica del monumento fascista così come sintetizzata da Sironi, ovvero il suo essere, contemporaneamente, costruzione volta a ribadire un ordine, materializzazione della fede littoria ed espressione di potenza. I sacrari militari rappresentano una delle macchine di propaganda più potenti al fine di ribadire le finalità del regime; dapprima vengono utilizzati per trasformare l’eroe di guerra in eroe fascista, in una sorta di “fascistizzazione postuma” dei caduti della Grande guerra e, successivamente, servono per riformulare l’idea di guerra e morte eroica. Tali monumenti nascono non tanto per tramandare, quanto per riformulare la memoria del primo conflitto mondiale e della guerra tout court, in linea con la pedagogia della guerra tanto cara al regime. I sacrari nel corso del Ventennio diventano i santuari del misticismo fascista; essendo luoghi-ponte tra vita e morte, essi servono a dotare di significati soprannaturali il rito lì officiato tra capi e popolo.
La ricerca ossessiva dell’eternità, impone non solo materiali non deperibili, ma anche scelte stilistiche volte ad eliminare ogni naturalismo in favore di una sempre maggiore astrazione, utile ad evitare l’identificazione temporale. L’ordine geometrico permette di rendere visibile “l’intervento umano sul materiale, risultato dell’azione dell’uomo di fede che, con la propria volontà, impone all’elemento naturale una forma che non gli appartiene”.
Taiss individua importanti cambiamenti stilistici nell’edificazione dei sacrari fascisti; le costruzioni successive alle prime grandi azioni militari risultano ben diverse da quelle erette tra il 1926 e l’inizio degli anni Trenta. Nel 1930 il regime sceglie di realizzare tali costruzioni in località extraurbane facilmente accessibili, trasformando il canonico cimitero di guerra in santuario. Ben presto i sacrari vengono consapevolmente finalizzati a divenire meta di “sacro turismo”, proponendosi come luoghi in cui convivono scopi ricreativi e dovere civile. Il cimitero di guerra monumentalizzato si trasforma dunque in sacrario. Tra i criteri indicati dalle linee guida del regime abbiamo: criteri di individualità (rappresentata ricorrendo a loculi e lapidi uguali in termini di materiale e forma in cui risulta individuabile un nome ed un cognome preciso), perpetuità (attraverso materiatali durevoli) e monumentalità (data dall’imponenza delle dimensioni e dalla semplicità formale).
sacrario monte grappaUna vera e propria omogeneità stilistica risulta ravvisabile soltanto a partire dal 1932, anno della mostra romana del decennale della rivoluzione, vero e proprio punto di svolta per l’edificazione dei sacrari. La grande mostra viene allestita in modo tale da imporre al pubblico un percorso di avvicinamento segnato dalle varie tappe della presa del potere fascista, tale percorso culmina nel sacrario dedicato ai caduti per la rivoluzione. Al centro della sala si innalza una grande croce di ferro al fine di unificare religione cattolica e religione fascista, in linea con la retorica cristologica del sacrificio. Attorno alla croce sei grandi anelli riportano ripetutamente la parola “Presente”, attestando, simbolicamente, una garanzia di continuità spirituale oltre la vita fisica.
Sarà proprio l’impianto di tale sala a divenire il modello della successiva architettura commemorativa: predilezione di spazi circolari, metafora della ciclicità del tempo, dell’eternità e dell’immutabilità fascista, purezza geometrica e materiali indistruttibili. In generale le nuove strutture devono prevedere un percorso che renda dinamico il visitatore tra i caduti, una scultura tendenzialmente ridotta ai simboli del regime (gladio, fascio littorio, fiaccola…), sobrietà architettonica, il legame col territorio (sacrari costruiti in luoghi dotati di suggestione storica e paesaggistica) ed isolamento della struttura dalla vegetazione e dalle edificazioni circostanti, possibilmente collocata su un’altura.

Nel 1932, l’architetto Giovanni Greppi e lo scultore Giannino Castiglioni vengono incaricati di realizzare il Sacrario del Monte Grappa, dando vita probabilmente alla prova più coerente ai nuovi precetti. Qui diviene evidente l’idea di mettere in relazione l’ascensione verso il Cielo dell’ideale con la permanenza sulla Terra delle spoglie mortali, dove il visitatore è circondato dai fieri caduti e dai nomi delle battaglie passate, che lo pongono automaticamente in una condizione di rispetto e vigilanza.

Redipuglia2Nel 1938, nell’ambito delle celebrazioni del ventennale della Vittoria, viene inaugurato in provincia di Gorizia, sempre per opera di Greppi e Castiglioni, l’enorme Sacrario di Redipuglia composto da tre parti principali. La prima sezione consiste in una grande piazza al cui centro una serie di targhe ricordano i diversi luoghi di guerra dell’Isonzo. La seconda parte è costituita da uno spazio con al centro la tomba di Emanuele Filiberto duca d’Aosta in marmo rosso e, poco lontane, le tombe in marmo bianco dei generali e comandanti della Terza Armata. La sezione finale dell’opera monumentale consiste nell’immensa scalinata che, in ventidue gradoni, raccoglie le salme di circa quarantamila caduti identificati, di cui viene inciso il nome su una lastra in bronzo. Nell’ultimo gradone, in due grandi tombe comuni, ai lati della cappella votiva, sono collocate le salme dei quasi sessantamila caduti ignoti. Sulla sommità, infine, troneggiano tre imponenti croci. Su tutti i gradoni campeggia, ripetuta all’infinito, la parla “Presente”, richiamando il solito rito dell’appello caro al fascismo. I centomila caduti qui sepolti sono in tal modo “arruolati a posteriori” al fascismo, centomila fascisti a loro insaputa.
Il ricorso all’orizzontalità, alla serialità ed alla prospettiva trasforma, Redipuglia in un luogo della fierezza e dell’esaltazione, non più luogo di rievocazione della tragedia della Grande guerra. “A Redipuglia non è sepolta una massa confusa e caotica, altrimenti nulla la differenzierebbe da una fossa comune. La collocazione dei loculi è un geometrico disporsi, come dei ranghi da cui riecheggia il rito dell’appello”. L’impressione di ordine, di disciplina, emanato dalla costruzione tende a negare il dolore e, nonostante che dei quarantamila noti venga indicato il nome, l’individualità tende ad essere annullata nella totalità dell’ideale unificante anche grazie alle centinaia e centinaia di “Presente”, termine scolpito e ripetuto ossessivamente.

KONICA MINOLTA DIGITAL CAMERACome tutti i monumenti, anche questi possono essere analizzati sia allo scopo di cogliere come il potere intenda autorappresentarsi, esibirsi in immagine, che per verificare come essi, nell’essere a loro volta immagine, inducano reazioni e risposte in chi li osserva. I sacrari militari obbediscono in pieno a quella definizione, riportata in precedenza, di monumento fascista perfettamente sintetizzata da Sironi, ossia l’essere allo stesso tempo costruzione volta a ribadire un ordine, materializzazione della fede littoria ed espressione di potenza. I sacrari militari rappresentano davvero una potente macchina di propaganda fascista, tanto da riuscire a riscrivere la storia dei caduti della Grande guerra. Viene da chiedersi per quanto tempo, tale macchina di riscrittura della storia, è stata in grado di funzionare oltre alla fine del Ventennio, per quanto tempo ancora, dopo la Liberazione, i visitatori dei sacrari della Prima guerra mondiale hanno continuato a subire una storia riscritta in cui i defunti, e forse non solo loro, si sono trovati arruolati a posteriori. I sacrari militari hanno garantito, in questo paese, una fascistizzazione postuma dura a morire.

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso)

– Copertina del volume
– Sala della Mostra del decennale della rivoluzione (1932), Roma
– Panoramica del Sacrario del Monte Grappa
– Panoramica del Sacrario di Redipuglia
– Particoalre del Sacrario di Redipuglia

 

 

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