racconto – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 18 Sep 2025 12:52:28 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La quiete dopo la tempesta https://www.carmillaonline.com/2025/07/31/la-quiete-dopo-la-tempesta/ Thu, 31 Jul 2025 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89779 di Emanuela Monti

“No, grazie, per me niente. Non mangio mai fuori pasto.” “Ma via, Signor Valenzano, solo per oggi! La festa aziendale c’è una volta all’anno! Faccia uno strappo alla regola!” insiste l’usciere. “No, davvero. Non posso. Dopo sto male.” L’usciere mi sorride, fingendosi comprensivo, ma si vede benissimo che non capisce. Del resto, chi ha mai capito? Neanche mia madre c’è riuscita. Anzi, soprattutto lei. Non faceva che ingozzarmi di cibo, a tutte le ore. Aveva la mania delle merende. “I bambini hanno bisogno di mangiare spesso, non hanno mica lo stomaco grande come gli adulti!” Poco e spesso, [...]]]> di Emanuela Monti

“No, grazie, per me niente. Non mangio mai fuori pasto.”
“Ma via, Signor Valenzano, solo per oggi! La festa aziendale c’è una volta all’anno! Faccia uno strappo alla regola!” insiste l’usciere.
“No, davvero. Non posso. Dopo sto male.”
L’usciere mi sorride, fingendosi comprensivo, ma si vede benissimo che non capisce. Del resto, chi ha mai capito? Neanche mia madre c’è riuscita. Anzi, soprattutto lei. Non faceva che ingozzarmi di cibo, a tutte le ore. Aveva la mania delle merende. “I bambini hanno bisogno di mangiare spesso, non hanno mica lo stomaco grande come gli adulti!”
Poco e spesso, mamma. Non tanto e spesso. Almeno, non mezzo chilo di pane con tre etti di affettato a intervalli di due ore. Dall’alto dei tuoi novanta chili – di cui almeno trenta concentrati nei rotoli di grasso in cui si perdevano il tuo stomaco, la tua pancia e il tuo inguine – tu certo potevi reggere merende di questa portata. E in effetti te le concedevi con serenità ogni volta che per me scoccava l’ora della merenda. “Guarda, mangio anch’io con te! Dai, è più bello mangiare in compagnia”, dicevi.
Io però ero un bambino gracile e inappetente e sono sempre stato sottopeso. Lo sono ancora. Neanche nella statura ho preso da te. Piuttosto da papà. Anche lui è piccolo, segaligno, nonostante abbia molta più energia di me.
Almeno io ho sempre pensato che ne avesse molta, se non altro per soddisfare una donna come te. E quando scoprii come si accoppiavano gli adulti, la prima cosa che mi chiesi fu come l’affarino di papà riuscisse a penetrare oltre la cintura di castità che gli strati di grasso formavano sul tuo bassoventre. Quanto all’affarino, non glielo avevo mai visto, ma, ignorando allora la credenza popolare sui nani, lo immaginavo proporzionato alle sue dimensioni. Così, per tutta l’adolescenza ho pensato che papà fosse capace di acrobazie eccezionali. E che fosse dotato di energie altrettanto fuori dal comune.
Io invece mi sono sempre stancato per un nonnulla.
Anche adesso risento subito degli sforzi fisici e se non mi imponessi di andare ogni sera in palestra sono certo che non riuscirei a sostenere la fatica delle mie giornate.
Checché ne dicesse Matilde, la mia ex moglie.
Sì, perché lei era convinta che se mi fossi lasciato andare un po’ di più ai piaceri della vita non avrei avuto bisogno di ammazzarmi in palestra per irrobustirmi e dare un po’ di tono alla muscolatura.
Matilde! Lei certo non aveva bisogno di rinvigorirsi. Era quello che si dice una ragazza florida. Era talmente florida che, per quanto non fosse bella, aveva sempre uno stuolo di corteggiatori intorno. Tutto ciò che è vitale esercita infatti una grande attrazione sugli esseri umani, soprattutto sui maschi.
Lei invece, chissà perché, era stata attratta da me.
Matilde diceva che le facevo tenerezza, che le sembravo una formichina soldato, ostinatamente impegnata nella difesa del nido. Che ogni tanto sporgevo la testa fuori dalla mia fessura per poi ritrarla in modo repentino, ma che rimanevo lì, subito dietro la soglia, senza mai smontare la guardia. Secondo lei avevo uno spiccato senso militare, proprio come si addice a una formica soldato. E mi prendeva in giro perché, con il ferro da stiro, facevo la piega ai jeans: “Ma dai! Stiri anche i jeans? Lo so che il tuo sogno sarebbe stato indossare l’uniforme, ma a tutto c’è un limite!”
Che sciocca! Figurarsi se avrei voluto mettermi l’uniforme!
Ho fatto i salti di gioia quando mi hanno riformato per scarsità toracica! E quanto alla formica nel nido, non poteva trovare un paragone meno calzante!
Non sono certo uno che se ne sta chiuso in casa! Ogni tanto esco con i colleghi di ufficio e in palestra ho fatto amicizia con un ragazzo separato come me. Senza contare che un paio di volte all’anno mi sento ancora con Gianluca e Paolo, i miei compagni di liceo.
Piuttosto, Matilde non aveva tutti i torti a dire che lei era come una bimba dispettosa e un po’ sadica. Che quando, all’inizio, si era divertita a provocarmi, ci aveva provato lo stesso gusto che da piccola sentiva nell’infilare gli aghi di pino nei formicai per catturare qualche preda che poi trasportava lontano e lasciava cadere dall’alto su un terreno sconosciuto, per vedere come se la sarebbe cavata.
Le piaceva disorientarmi, diceva. E ci riusciva, devo ammettere. Perché Matilde era una somma di contraddizioni.
Pur essendo stata educata da una famiglia di cattolici bigotti e pur frequentando regolarmente la chiesa e la gente dell’oratorio, non aveva alcun freno inibitorio. Peccava con assoluta serenità. Era capace di uscire da uno dei cori religiosi a cui partecipava il mercoledì sera, ancora con la chitarra in spalla, di salire in macchina e di mettermi una mano tra le gambe, lì, davanti al sagrato della chiesa, mentre la gente la salutava.
Per non parlare dei peccati di gola. Una volta, per Pasqua, aveva fatto fuori in dieci minuti l’uovo di cioccolato da un chilo che avevano regalato al fratellino. Ed era già una donna sposata. Era già la Signora Valenzano, allora.
Io ero arrossito per lei quando, alla fine del pranzo pasquale, avevano mandato il bimbo a cercare l’uovo e questo era tornato a mani vuote, piagnucolando che non aveva trovato nulla. Matilde era scoppiata a ridere e senza battere ciglio aveva confessato davanti a tutti che lo aveva mangiato lei.
“Non ho saputo resistere, Tommy. Dai, non te la prendere, domani te lo ricompro più grande.” E il buffo è che tutti si erano messi a ridere e neanche il bambino aveva fatto storie. Perché Matilde sapeva come prendersi le cose: senza tanti complimenti e senza che nessuno si sentisse in diritto di lamentarsi.
Quanto a questo io avevo cercato di opporle resistenza, ma era stato inutile. Dopo solo due giorni di convivenza Matilde si depilava le gambe con i miei rasoi blu, anche se le avevo spiegato che per lei c’erano quelli rosa. Li avevo comprati apposta i silk-epil e li avevo messi dentro all’armadietto del bagno, sul lato sinistro, vicino ai pacchetti di assorbenti, ai dischetti di ovatta per il trucco e ai prodotti per l’igiene intima femminile. Sul lato destro invece avevo sistemato la mia roba. Ma niente da fare. Matilde aveva subito mischiato ogni cosa. E quanto ai rasoi, le piacevano quelli blu, così come le piaceva il mio profumo, sebbene il muschio bianco abbia “una fragranza decisamente maschile”, come aveva detto la commessa. E appena usciva dalla doccia, grondante di acqua, Matilde si infilava il mio accappatoio, perché “Quando siamo innamorati è naturale condividere le cose. Quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio”. Con il risultato che l’accappatoio non faceva mai in tempo ad asciugare del tutto e sapeva costantemente di lezzo.
Puzzava anche durante gli ultimi mesi di convivenza, perché Matilde ha continuato fino all’ultimo a infilarsi il mio accappatoio, così come ha continuato a usare i miei rasoi blu e a innaffiarsi il collo e le spalle del mio profumo al muschio bianco. Anche se non era più innamorata di me. Anche se, a rigor di logica, quello che era suo non era più mio e quello che era mio non era più suo.
In effetti quello che era suo non era più mio da un bel pezzo. Erano almeno un paio di anni che si era fatta venire gli scrupoli.
Diceva che si era pentita di aver fatto l’amore prima del matrimonio, che si sentiva in colpa per il passato e non voleva ricascarci.
“Ma ora siamo sposati Matilde! Siamo sposati da quattro anni! Che c’entra quello che abbiamo fatto prima?”
Per lei c’entrava. C’entrava eccome. “Ora devo purificarmi. E comunque l’amore da oggi in poi lo faremo solo per fare figli. Come dice Don Lorenzo, il sesso deve essere finalizzato alla procreazione” aveva spiegato. Non avrebbe mai ammesso che non le andava più.
Riusciva a perdonarsi tutto, ma non la mancanza di slanci.
Al di là di quello che le avevano insegnato al catechismo, l’unico comandamento che Matilde riconoscesse nel profondo era “soddisfa l’istinto”. E non sopportava che il suo istinto ora si fosse assopito.
Era diventata pallida, smunta, con due occhiaie nere sotto agli occhi. La mattina faceva fatica ad alzarsi e non aveva più voglia di mangiare: si limitava a spilluzzicare qualche foglia di insalata. In pratica si nutriva solo di frutta e verdura, lei, che era sempre stata una carnivora e aveva dato il colpo di grazia al mio fegato a furia di intingoli e soffritti.
Ma poi si è iscritta al corso di Spagnolo. In breve tempo è rifiorita. Le occhiaie nere sono sparite e la sua carnagione è tornata luminosa come prima. Ha ricominciato a ridere di gusto per ogni sciocchezza.
Ho subito immaginato che la sua rinascita avesse a che fare con Alberto. Infatti ormai lui l’accompagnava a casa ogni volta che c’era lezione di spagnolo.
“Com’è che sei già tornata, Matilde?”, le avevo chiesto la prima volta.
“Ho fatto presto perché sono venuta in macchina. Mi ha portato Alberto, sai, quello che fa il corso insieme a me”, aveva detto distratta, tenendo gli occhi sul fondo della borsa, intenta a cercarvi qualcosa.
Con il tempo ha cominciato a ritardare. Rimaneva in macchina a chiacchierare con Alberto, sotto casa. Finché una sera, mentre stavo nascosto dietro alla tenda del soggiorno e spiavo l’interno della macchina di Alberto, nel trapezio che la luce del lampione rendeva visibile, ho visto la mano di Matilde tra le gambe di lui.
Allora abbiamo deciso di separarci e un paio di settimane dopo io mi sono preso un bilocale in periferia, vicino al lavoro.
La casa è piccola ma nuova, con le piastrelle di ceramica che si puliscono in fretta e gli infissi di alluminio che non lasciano penetrare gli spifferi.
Il bagno è minuscolo ma ho trovato un armadietto molto funzionale, diviso in scomparti: gli asciugamani a sinistra, le scorte di carta igienica al centro e i prodotti per la barba a destra, vicino al lavabo.
La cucina è a vista, con numerosi pensili, in cui tengo due pacchetti di ogni prodotto, per non restare mai senza. In frigo non c’è altro che frutta e verdura, perché sono diventato vegetariano o, per essere precisi, macrobiotico.
Ormai lo sanno tutti, anche al lavoro.
L’usciere che ha, allora, da fissarmi? Non mangio tramezzini di pollo impiastricciati di salsa cocktail. E, soprattutto, non mangio mai fuori pasto.

]]>
Pezzi di vetro https://www.carmillaonline.com/2025/03/07/pezzi-di-vetro/ Fri, 07 Mar 2025 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87253 di Serena Penni

Avrei voglia di piangere, lo sai? Ma sento che se adesso inizio non smetto più. Del resto, le mie lacrime ti hanno sempre messo a disagio. La pioggia batte contro i vetri delle finestre e contro il tetto: sembra che voglia seppellirci. Magari potessimo sparire in un mare d’acqua. Magari queste montagne che ci circondano potessero accoglierci nel loro ventre. Mi guardo intorno, nel mio soggiorno ordinato, arredato con cura, dove le tende sono intonate con i cuscini del divano, dove i mobili sono stati scelti uno per uno dall’antiquario più famoso di Milano, dove una vetrina ospita [...]]]> di Serena Penni

Avrei voglia di piangere, lo sai? Ma sento che se adesso inizio non smetto più. Del resto, le mie lacrime ti hanno sempre messo a disagio. La pioggia batte contro i vetri delle finestre e contro il tetto: sembra che voglia seppellirci. Magari potessimo sparire in un mare d’acqua. Magari queste montagne che ci circondano potessero accoglierci nel loro ventre. Mi guardo intorno, nel mio soggiorno ordinato, arredato con cura, dove le tende sono intonate con i cuscini del divano, dove i mobili sono stati scelti uno per uno dall’antiquario più famoso di Milano, dove una vetrina ospita la mia collezione di animali di cristallo. Mi guardo intorno e non credo a questo vuoto. Persino tu, ormai, non mi sembri altro che un fantasma. Mi chiedo dove abbiamo sbagliato. Le mie mani sono le stesse di quelle che da bambina costruivano insieme a te castelli di sabbia sempre troppo alti per stare in piedi, e che finivano per crollare prima di essere conclusi.

Ora tu vuoi farmi un sacco di domande. Te le leggo tutte in quei tuoi occhi azzurri, confusi e atterriti. Vorresti chiedermi cosa sapevo di Stefano. Vorresti chiedermi se mi ricordo cosa è successo veramente quella notte. Vorresti chiedermi quando mi sono accorta che il bambino aveva qualcosa che non andava. Sono le stesse domande che mi hanno fatto durante gli interrogatori. Me le hanno fatte più e più volte, di continuo, dopo molte ore che non dormivo e alla mattina presto – immaginando forse che avessi potuto riposare. Le mie risposte non sono cambiate. Ho ripetuto come un pappagallo la verità che avevo imparato a raccontarmi, ma a te darò un’altra versione. Perché a te non ha senso mentire. Sono settimane che scambio il giorno con la notte, che mangio senza regole, che mi muovo come una bambola caricata per il mio appartamento. Ho abbandonato i sonniferi. Non ho mai sonno, passo le notti a guardare le vette che ci circondano e le poche macchine che percorrono i tornanti. Ogni tanto, però, mi assale una stanchezza devastante, un torpore improvviso che mi taglia le gambe e mi fa accasciare in un angolo, sul divano, sul letto oppure anche per terra, sul tappeto o sul pavimento di legno. Stasera sei venuta a trovarmi senza preavviso. Non sono stata io a invitarti, e per essere qui non hai disdetto nessun appuntamento. Appena hai varcato la porta di casa, ti sei guardata intorno con aria schifata e sei andata a spalancare la finestra. Ma non credo che tu ti sia illusa che il puzzo se ne sarebbe andato. Questo è il mio odore, è l’odore tuo, di Stefano, del bambino; è l’odore della nostra storia, imprigionata per sempre in questo appartamento, attaccata alle pareti, ai mobili, alla tappezzeria. Perché sei venuta? Per chi hai indossato quel tailleur bordeaux? Sei mia sorella, e allora? Volevi vedere come stavo? E ora che lo hai visto, cambia qualcosa? Fanno forse la differenza le mie unghie rovinate, i capelli in disordine, gli occhi gonfi? Inizierò dall’ultima delle domande che, per paura della risposta, non mi hai fatto. Quando mi sono accorta che il bambino aveva qualcosa che non andava. Potrei dirti che l’ho scoperto un giorno in cui eravamo ai giardini pubblici e lui si è messo a urlare come un ossesso, ma non sarebbe la verità. Certo, quel pomeriggio d’autunno, in un parco con l’altalena gialla e lo scivolo di metallo che rifletteva il grigio del cielo, non lo scorderò mai. In un attimo mi si è spezzato il cuore. Se mi concentro, sento ancora la musica jazz, malinconica e amara, che proveniva dal locale di dubbio gusto, con le poltroncine foderate di velluto rosso già mezzo consumate, di fronte all’entrata principale del giardino. Ma in realtà, ho sempre saputo che il bambino nascondeva un segreto. Da quando l’ho attaccato al seno la prima volta e mi ha fatto troppo male per essere così piccolo, così indifeso. Il dolore che ho sentito me l’ha reso estraneo, ma subito dopo ho provato per lui compassione perché appunto aveva sul piccolo viso, sui minuscoli occhi, nelle microscopiche orecchie, il marchio di uno sbaglio. Il suo destino era segnato perché persino io, sua madre, non riuscivo ad amarlo.

Vorresti chiedermi quando mi sono resa conto che anche in Stefano qualcosa si era rotto. È successo un po’ alla volta, e tutto è culminato in quella notte maledetta. Mi ricordo che un pomeriggio stavo parlando al telefono quando mi è caduto l’occhio sulle bottiglie di superalcolici che tengo in soggiorno. Quelle che ti ho appena offerto, esatto. Mi sono accorta che erano tutte vuote. La mia mente ha registrato il dato senza darci importanza. Me ne sono ricordata solo alcune settimane dopo, quando ho visto Stefano piangere la mattina presto seduto in cucina, davanti a un caffè che continuava a portarsi alle labbra ma che non riusciva a bere. Singhiozzava in silenzio e con la mano sinistra si teneva la fronte. Lo ho osservato per qualche istante poi sono tornata a letto.

Stefano è diventato di giorno in giorno più stanco, più scostante, più assente. Una sera sono tornata tardi dal lavoro perché una paziente aveva avuto una reazione allergica al botox; lui, appena ho varcato la porta di casa, mi ha detto: “dove cazzo eri finita? Tuo figlio ha fame”. Non sono state tanto le sue parole a stupirmi, ma il suono stesso della sua voce, che era del tutto diverso da quello che conoscevo. Era acuto, quasi femminile. Gli ho spiegato cosa era capitato. Lui è rimasto in silenzio per un po’, poi ha iniziato con la storia che avrei dovuto lasciare l’ambulatorio, perché così non si poteva andare avanti. Ma io amavo troppo il mio lavoro per poterci rinunciare. Eppure, ora non mi sembra che una delle tante cose che ho perso, e neppure la più importante.

Nel giro di qualche mese, la situazione con Stefano è precipitata, ma non voglio annoiarti. Arriviamo a quella notte. Tu eri venuta a trovarmi per parlarmi di una delle tue stupidaggini, che adesso non ricordo più. Stefano è tornato a casa tardi. Aveva bevuto molto vino, si sentiva dal suo alito. Io gli sono andata incontro e lui mi ha spinto dicendomi: “Spostati troia”. Il bambino, allora ha cominciato a ridere e a ripetere troia senza sapere cosa stava dicendo. Stefano è andato a chiudersi nel suo studio, tu sei andata sul balcone a fumare: non volevi immischiarti in disagi che non ti appartenevano. Sei sempre stata così, ed è proprio per questo, solo per farti un dispetto, che stasera ti racconto finalmente la verità.

Ero nella mia cucina moderna e perfettamente ordinata, con un figlio che non riconoscevo, che rideva e che mi chiamava troia perché lo aveva sentito dal padre. Per lui tutto ciò che il padre diceva o faceva era meraviglioso. A un tratto, io e il bambino abbiamo alzato lo sguardo e sono stata certa che tutti e due nello stesso momento abbiamo visto le montagne fissarci con occhi enormi, gialli e cattivi. Abbiamo anche sentito la loro voce – profonda, baritonale – che si faceva strada tra le rocce. Era un richiamo verso la morte, verso la fine di tutte le cose. Il bambino si è girato nella mia direzione. Continuava a ridere e a ripetere troia ma il suo sguardo ora era terrorizzato. Una forza oscura ci aveva trascinato altrove. Dopo pochi istanti, eravamo già in un inferno freddo e buio. Ho supplicato ancora una volta quel mio figlio sbagliato di stare zitto. Non mi ha ascoltato. I suoi occhi, la sua voce si confondevano con quelli della montagna. Non so perché si sia seduto sulla finestra, ma posso dirti che sono stata io a farlo precipitare nel vuoto. Quando ha raggiunto il terreno, alle mie orecchie è arrivato il rumore di un vaso che si rompe in mille pezzi. Ho pensato che fosse anche lui di vetro come i miei soprammobili. Poi ho sentito il mio urlo. Tu, senza lasciare la sigaretta che ancora tenevi in mano, hai chiamato i soccorsi. Tutti hanno creduto che si fosse trattato di un incidente; sono riuscita a mentire ai giudici perché prima di tutto ho mentito a me stessa. Ci hanno creduto tutti tranne Stefano, che al funerale stava in disparte e che, da quella notte, non mi ha più parlato. Quando è sparito, non ero stupita né preoccupata, ma solo arrabbiata. Se ne è andato senza dirmi addio, senza nemmeno salutarmi. È stata una vigliaccata, dopo tanti anni passati insieme, dopo tante parole buttate al vento. La vigilia di Natale ho ricevuto una telefonata anonima che mi ha rivelato che era entrato in un brutto giro di scommesse e di gioco d’azzardo. Ma anche questo in fondo non mi ha sorpreso.

Ora sono sola. Non ho più un figlio, né un marito, né amici, né un lavoro. A farmi compagnia ci sono abiti maschili che nessuno più indossa, giocattoli che nessuno più guarda. Ci sei tu, con i tuoi ritagli di tempo, le tue sigarette e i tuoi abiti troppo eleganti per il paesino sperduto in cui viviamo. Ci sono le montagne che, chissà, forse un giorno mi parleranno di nuovo. Se ripenso alla mia vita, capisco che sono stata felice, a tratti, forse, ma in fondo non ho mai creduto del tutto alla felicità.

]]>
L’annunciazione https://www.carmillaonline.com/2025/02/17/lannunciazione/ Mon, 17 Feb 2025 21:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87013 di Emanuela Monti

“Un lavoro temporaneo come standista”. “Dove?” “Alla mostra per l’“Incoronazione della Vergine” di Botticelli. Agli Uffizi, per una quindicina di giorni. Ti interessa?”, mi chiese un amico che si occupava dell’organizzazione di eventi. “Certo che mi interessa, ho bisogno di soldi e poi agli Uffizi, scherzi?” Accettai subito il lavoro e non me ne pentii. Come avevo immaginato, mi rendeva felice entrare in Piazza della Signoria prima delle otto del mattino, percorrere il selciato di pietra serena fino alla Loggia dei Lanzi, svoltare l’angolo e trovarmi di fronte le simmetrie rinascimentali degli edifici progettati dal Vasari. Firenze, la [...]]]> di Emanuela Monti

“Un lavoro temporaneo come standista”.
“Dove?”
“Alla mostra per l’“Incoronazione della Vergine” di Botticelli. Agli Uffizi, per una quindicina di giorni. Ti interessa?”, mi chiese un amico che si occupava dell’organizzazione di eventi.
“Certo che mi interessa, ho bisogno di soldi e poi agli Uffizi, scherzi?”
Accettai subito il lavoro e non me ne pentii. Come avevo immaginato, mi rendeva felice entrare in Piazza della Signoria prima delle otto del mattino, percorrere il selciato di pietra serena fino alla Loggia dei Lanzi, svoltare l’angolo e trovarmi di fronte le simmetrie rinascimentali degli edifici progettati dal Vasari. Firenze, la città in cui avevo scelto di vivere, che avevo voluto con determinazione, mi appariva in tutto il suo splendore. E mi sentivo un’eletta quando facevo il mio ingresso agli Uffizi, percorrevo l’atrio e la teoria di sale fino a quella che era stata allestita per celebrare il restauro del quadro di Botticelli.
Fuori faceva caldo, ma all’interno le mura cinquecentesche garantivano una gradevole sensazione di fresco. Ovunque girassi lo sguardo coglievo un tripudio di bellezza.
I visitatori si concentravano in alcune ore del giorno; prendevano d’assalto il bancone, chiedendomi informazioni, sfogliando monografie e cataloghi e arraffando cartoline, non solo quella dell’“Incoronazione della Vergine” di Botticelli, che era stata riprodotta in innumerevoli copie, ma anche quelle dei capolavori degli altri artisti che si potevano ammirare agli Uffizi. Nelle ore morte leggevo o mi lasciavo andare al flusso dei pensieri, mentre mi godevo il silenzio ovattato della sala. Inevitabilmente tornavo a pensare alla proposta che aveva ventilato qualche tempo prima il mio professore: un dottorato in Letteratura comparata negli Stati Uniti.
Peccato che poi non si fosse più fatto vivo. Erano passate parecchie settimane da quando mi aveva prospettato quella possibilità e io mi ero ben guardata dall’importunarlo.
Ora però cominciavo a sentire che avrei dovuto fare qualcosa. Non appartenevo a quella schiera di studenti che sgomitavano per accaparrarsi privilegi o anche solo per farsi notare dai professori; non ero mai stata capace di arruffianarmi e detestavo chiedere e ancor più piatire. Tuttavia, per quanto amassi Firenze, avevo voglia di esplorare nuove realtà, orizzonti più ampi, soprattutto all’estero e poi un dottorato in Letteratura comparata, ovvero la possibilità di lavorare nell’ambito della letteratura, la passione della mia vita, rappresentava più di quanto avessi mai osato sperare.
Un dottorato in Letteratura comparata negli stati Uniti, un’occasione che non mi sarebbe probabilmente mai più capitata, come potevo farmela sfuggire? Eppure non riuscivo a immaginare un modo per rammentare al professore quella promessa senza sentirmi a disagio. I giorni passavano e mi dibattevo tra il desiderio che quell’idea si concretizzasse e il timore di apparire petulante.
Finché una turista americana fece incetta della cartolina dell’“Annunciazione” di Leonardo da Vinci.
Ne prese una ventina, svuotando il reparto dell’espositore, quindi, con aria afflitta mi chiese: “Don’t you have any other postcards like this?”
“No, I’m sorry. Tomorrow maybe. Tomorrow they should bring more postcards”
“Tomorrow I am leaving very early. What a pity! It is my favourite painting!”
Avevo visto e ammirato più volte l’“Annunciazione” di Leonardo, quel giorno però fui contagiata dall’entusiasmo della turista americana e durante la pausa pranzo tornai a guardarlo con un’attenzione particolare. Rimasi incantata a osservare i dettagli botanici del prato, lo sfondo sfumato al di là degli eleganti cipressi, la delicatezza dei tratti dell’angelo e della Vergine, il panneggio delle vesti, l’armonia del colore, della luce e delle ombre. Il quadro mi emozionò così tanto che il giorno dopo, quando rifornirono l’espositore che si trovava in un angolo del bancone, pur senza eguagliare gli eccessi della turista americana, mi accaparrai diverse cartoline con l’immagine leonardesca.
Una l’avrei fatta incorniciare a giorno e l’avrei attaccata alla parete dell’ingresso, sopra alla consolle. Le altre le avrei spedite ai vari amici sparsi per il mondo, magari quando avessi avuto qualcosa di bello da annunciare. Sì, sarebbe stato un modo perfetto per annunciare una bella notizia. Magari la mia partenza per il dottorato in Letteratura comparata negli Stati Uniti, quel dottorato cui agognavo, ma che rischiava di restare confinato tra i sogni non realizzati, alla mercé del capriccio di un professore troppo occupato e della mia ostinata riluttanza a chiedere.
Ma proprio allora mi balenò l’idea di usare quell’immagine per contattare il professore. Sarebbe stato un modo non troppo invadente e allo stesso tempo inusuale per ricordargli la promessa. Così, d’impulso, sul retro della cartolina vergai queste parole: “Un saluto dagli Uffizi e dall’Annunciazione di Leonardo. P. S. Purtroppo non ho nulla da annunciarle. Magari lei invece sì.”
L’espediente funzionò. Il professore mi rispose a stretto giro posta chiedendomi di andare a trovarlo per definire i dettagli del progetto di studio all’estero.
Ci incontrammo poco tempo dopo e il professore si mostrò molto disponibile e organizzato. Mi scrisse una lettera di referenze, mi raccomandò di procuramene altre e mi spiegò a chi avrei dovuto inviare la mia application, che tuttavia sarebbe stato un atto formale, poiché in pratica era già cosa fatta. Il dottorato si sarebbe svolto a Tucson e il mio relatore sarebbe stato il prof. Anthony Rastrello, il quale, per una fortunata combinazione, sarebbe venuto a Firenze qualche giorno dopo per una breve vacanza.
Nell’attesa di incontrare il professore americano continuai a lavorare come standista alla mostra dell’ “Incoronazione della Vergine” del Botticelli, a elargire informazioni e consigli ai visitatori, a vendere libri e cartoline. Chi chiedeva L’“Annunciazione” di Leonardo mi strappava sistematicamente un sorriso, perché provavo una subitanea complicità con l’acquirente, e dovevo reprimere la tentazione di dirgli che quel quadro aveva dato una svolta alla mia vita. Era grazie all’“Annunciazione” di Leonardo se ora avevo davvero qualcosa di bello, anzi, di fantastico, da annunciare agli amici e al mondo intero.
Era grazie a quel quadro se presto sarei partita per gli Stati Uniti e avrei intrapreso una carriera universitaria di tutto rispetto. Certo, Tucson non era proprio la destinazione che avrei preferito. Una città in mezzo al deserto dell’Arizona, meta privilegiata di ricchi pensionati, non poteva certo competere con le vibranti metropoli degli Stati Uniti, come New York o Los Angeles, in cui avevo soggiornato nel mio viaggio dopo la laurea.
Ma l’importante era partire, iniziare una nuova avventura e soprattutto muovere i primi passi nella carriera universitaria, in un ambito, quello della letteratura comparata, che da sempre aveva suscitato il mio interesse. Almanaccavo sul mio futuro accademico ed esistenziale; in un lampo dell’immaginazione mi vidi perfino scendere una scalinata neoclassica con un vestito di chiffon color tea e un improbabile cappello a tese larghe, come la Daisy del Grande Gatsby interpretata da Mia Farrow, una donna di mezza età bella ed elegante, ma una Daisy colta, una Daisy col cervello, che non avrebbe avuto alcun bisogno dei soldi degli uomini per sentirsi realizzata e felice.
La mostra dell’“Incoronazione della Vergine” si concluse e lasciai quell’occupazione agli Uffizi a malincuore. Era stata una parentesi, un’attività così diversa rispetto a quelle tra cui mi barcamenavo per riuscire a mantenermi, che aveva avuto il sapore di una vacanza. Restare immersa nella bellezza per giorni interi mi aveva fatto bene. E poi mi aveva regalato quella splendida opportunità. Mi aveva donato l’“annunciazione” di una nuova vita. E io ero pronta ad accoglierla; di più, ero bramosa di afferrarla.
Avevo già appeso la cartolina incorniciata a giorno nell’ingresso e ogni volta che rincasavo e vedevo la riproduzione in miniatura del quadro di Leonardo mi sentivo invadere da un’ondata di positività. La bellezza di quel quadro mi suscitava ogni volta un rinnovato stupore, mi riempiva di meraviglia e aveva il potere di infondere al mio futuro la luce soffusa della speranza.
Finalmente arrivò il giorno dell’appuntamento con il professor Anthony Rastrello.
Mi accolse in un’ampia sala semivuota del Dipartimento, in cui si perdeva una cattedra degli anni Quaranta, dietro alla quale si scorgevano le spalliere di due sedie massicce. Alle finestre erano appese delle veneziane sudicie e sbilenche. Una era anzi decisamente rotta e i listelli pendevano obliqui su un solo lato della finestra. Il sole filtrava attraverso le veneziane mettendo in evidenza il pulviscolo che aleggiava nell’aria stantia. In un angolo della stanza c’era un cestino che traboccava di carta straccia e che nessuno si era preso la briga di svuotare.
Il professore doveva avere una sessantina d’anni, era tarchiato, aveva i capelli radi e un inguardabile riporto sulla chierica. Indossava un vestito grigio dal taglio impreciso e dal tessuto scadente. Aveva tutta l’aria dell’italo-americano di terza o quarta generazione, i cui antenati fossero emigrati in qualche sperduta provincia degli Stati Uniti, dove i canoni dell’eleganza, i dettami della moda e la perizia sartoriale non erano mai approdati. Mi invitò ad accomodarmi con fare mellifluo, quindi si sedette a fianco a me e poiché lo spazio sotto alla cattedra, tra una cassettiera e l’altra, era piuttosto angusto, infilò a fatica le gambe corte all’interno del vano, attaccando il ginocchio al mio.
Ritrassi subito il ginocchio, ma non c’era spazio nel vano sotto alla cattedra ed era impossibile evitare il contatto. Il professore iniziò a spiegarmi il sistema che vigeva nell’università di Tucson. Parlava molto in fretta, mischiando l’inglese a un italiano dal forte accento americano, quasi che con quel flusso inarrestabile di parole cercasse di confondermi o almeno di deviare la mia attenzione da quella pressione che nel frattempo esercitava con sempre più intensità sul mio ginocchio.
Avrei potuto spostare la sedia più indietro e liberarmi da quel contatto sgradevole, ma se l’avessi fatto avrei dovuto assumere una posizione innaturale, troppo distante dalla cattedra e dai documenti che il professore mi mostrava. Soprattutto, il mio spostamento non sarebbe passato inosservato. Sarebbe stato come dichiarare che la vicinanza del professore mi infastidiva e, cosa ancor più grave, sarebbe equivalso ad accusarlo di spingere intenzionalmente il suo ginocchio contro al mio. Avrebbe provato la mia consapevolezza del teatrino che stava inscenando, del fatto che, al di là di quella raffica di parole, di quella spiegazione dettagliata su argomenti accademici, del tutto in linea con il suo ruolo professionale, in realtà mirasse soltanto a soddisfare le sue voglie di vecchio porco. E se invece non ci fosse stata alcuna intenzione? Se il professore non si fosse reso conto di spingere con forza sproporzionata il suo ginocchio contro il mio, preso com’era dal suo discorso torrenziale? Che figura avrei fatto? Si sarebbe senz’altro offeso. E chissà come avrebbe reagito l’altro professore, che avrei messo in una situazione di estremo imbarazzo! Pensieri contrastanti si affastellavano nella mia mente, mentre mi sforzavo di seguire quello che diceva il professore, perché una parte di me voleva credere a quella possibilità, si attaccava alla speranza in una vita fatta su misura, si rifiutava di ammettere che tutti i sogni dell’ultimo periodo potessero infrangersi così, d’un tratto – prima ancora che avessi potuto assaporarli concretamente – in una desolata stanza della facoltà, per via di un ginocchio tozzo che continuava a premere con prepotenza sul mio. Eppure il mio istinto aveva già fatto centro. Rimasi immobile fino all’ultimo, fingendo che non stesse succedendo proprio nulla, senza mostrare alcun turbamento. Ascoltai con fatica crescente le frasi del professore, che mi arrivavano sempre più smozzicate, mentre una vena di tristezza si insinuava dentro di me, per poi dilagare. Nel congedarmi, il professor Anthony Rastrello mi invitò a cena e, mentre mi stringeva la mano, dalla sua sentii emanare inequivocabilmente il calore dell’eccitazione. Ebbi la prontezza di trovare una scusa; gli dissi che proprio la sera stessa dovevo partire per una vacanza. “Accetterò molto volentieri l’invito quando sarò a Tucson”, gli risposi. Negli occhi del professore luccicò un bagliore libidinoso. Lo lasciai pregustare il piacere dei sensi per quell’incontro che non ci sarebbe mai stato. Mentre lo salutavo, avevo già deciso. Non sarei mai partita per Tucson. Non ci sarebbe stato alcun dottorato in Letteratura comparata, non avrei mai intrapreso una carriera universitaria e tanto meno avrei indossato un vestito di chiffon color tea, scendendo una scalinata neoclassica.
Quando rincasai, nonostante il profondo sconforto, l’“Annunciazione” di Leonardo mi accolse anche quella sera come una promessa di gioia. Sapevo che avrei dovuto continuare a fare i salti mortali tra i lavori più disparati e ben poco gratificanti per sopravvivere. Sentivo che la strada sarebbe stata lunga. Niente era mai stato e sarebbe mai stato facile, per me. Ma la bellezza esisteva. La speranza anche. Le avrei trovate altrove, un giorno. Il quadro di Leonardo sarebbe rimasto lì a ricordarmelo.

]]>
L’anno nuovo di donna Catarina https://www.carmillaonline.com/2025/01/16/lanno-nuovo-di-donna-catarina/ Thu, 16 Jan 2025 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86363 di Giovanni Iozzoli

Succede in un malinconico giorno di fine 2024. C’è un freddo cane, qualche luminaria triste sulle vetrine dei negozi, niente neve. La periferia consuma i suoi piccoli rituali natalizi senza frenesia, in un tempo vagamente sospeso. E succede che sei al bar, a berti il primo caffè di questa mattinata gelida – il bar dei cinesi, col calendario New Fava Motors e la tele sempre accesa su MTV dalle sei del mattino. E succede che entra una signora anziana, piccola come un elfo rotondetto, caracollante, che saluta gentilmente a destra e sinistra, evidentemente conosciuta dai pochi avventori e [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Succede in un malinconico giorno di fine 2024. C’è un freddo cane, qualche luminaria triste sulle vetrine dei negozi, niente neve. La periferia consuma i suoi piccoli rituali natalizi senza frenesia, in un tempo vagamente sospeso. E succede che sei al bar, a berti il primo caffè di questa mattinata gelida – il bar dei cinesi, col calendario New Fava Motors e la tele sempre accesa su MTV dalle sei del mattino. E succede che entra una signora anziana, piccola come un elfo rotondetto, caracollante, che saluta gentilmente a destra e sinistra, evidentemente conosciuta dai pochi avventori e dalla barista. Approfitta per scaldarsi un po’ e prendersi anche lei un caffettino. Intanto chiacchiera con un altro anziano che era già dentro, un vicino, suppongo. Io non le presto molta attenzione, sto leggendo sulla Gazzetta dello Sport del mistero di Douglas Luiz. Mia moglie invece ascolta quello che la signora sta dicendo, lì nel tavolino a fianco al nostro e ogni tanto mi guarda un po’ perplessa. Io sono sempre concentrato sui cinquantadue milioni spesi per Douglas Luiz. Cinquantadue milioni in panchina. Minchia, Elkann: noi gli paghiamo la cassa eterna a Mirafiori e lui butta i soldi così.

Mia moglie allora mi allunga una gomitata – di quelle leggere, per attirare l’attenzione e mi dice:
– le diamo un passaggio?
– Per dove? A chi?
– La signora, quella lì bassina. Deve andare al cimitero.

Boh, va bene. Non abbiamo urgenze, sono le otto di mattina di un giorno festivo. Il cimitero è lungo la strada di casa. In macchina ci si mette cinque minuti, ma a piedi la signora, con le gambette corte e storte e questo freddo fetente, impiegherebbe tre quarti d’ora. Allora mia moglie, che con gli anziani e i cani è sempre molto premurosa, si avvicina alla donna-elfo e le chiede se vuole un passaggio verso il camposanto. Temo che lei declini l’invito, per la paura di salire in macchina con due sconosciuti in questi brutti tempi. Ma in realtà – me lo spiegherà dopo la mia signora – mia moglie e l’anziana si conoscono già, anche se solo di vista.

Perché mia moglie l’ha incontrata dalle parti nostre diverse volte, negli anni, che girava con un cane bianco bello grosso e un marito più vecchio di lei, zoppicante, un po’ scalcagnato, ma grosso pure lui. Portavano il loro cane nel nostro parchetto a fare il suo giro quotidiano e mia moglie li vedeva da lontano, tutt’e tre. Poi un bel giorno non ha visto più il cane; e qualche mese dopo non ha visto più neanche il marito. Lei ha continuato per un po’ di tempo a gironzolare da sola lungo lo stesso tragitto che prima facevano in tre.

– Signora, noi andiamo verso il cimitero, le diamo un passaggio? – fa mia moglie con la voce più gentile e rassicurante possibile.
L’anziana accetta subito – Grazzie, grazzie assai.
Paghiamo e usciamo verso la macchina.

La facciamo accomodare davanti e adesso che ce l’ho vicino la guardo bene. I capelli bianchi bianchi sono ricci, curati. La pelle ricorda un po’ il cuoio, ma non è incartapecorita; ha un viso proporzionato e un aspetto inequivocabilmente contadino e meridiano, come la parlata. E’ una bella anziana – penso – dalla faccia simpatica e pulita. Non è intimidita, parla con naturalezza, risponde alle domande di cortesia che le facciamo. Ci dice che abita là in zona, e che si: come aveva intuito mia moglie, è rimasta vedova da poco; prima le è morto il cane e poi il marito. Non ha un tono lagnoso. Ne parla come chi ha definitivamente capito che così vanno le cose, si viene al mondo e si va, non ci sono trucchi, misteri e scappatoie.
– Si era ammalato, era anziano pure lui, poverino. Ormai era solo sofferenza.
Io non so se sta parlando del cane, del marito o di tutt’e due.

Mia moglie non vuole intristirla con l’argomento vedovanza, quindi le chiede del cane, se era affezionata, se era buono, quelle cose così che si dicono quando si parla di bestie.
– Sì era un bravo cagnolone, di cumpagnia. Però era ladro. Non potevi lasciare niente sulla tavola. Un giorno avevo preparato tre belle cotolette e le avevo messe in tavola, mi giro un attimo e ne vedo solo due; allora sono andata da mio marito e ci ho chiesto: te la sei mangiata tu la cutuletta? E invece era stato il cane, zitto zitto. Era ladro.
– Da dove venite signora?
– Sono calabrese – e adesso a guardarla mi sembra proprio che la faccia e la provenienza coincidano: potrebbe essere solo calabrese, non siciliana o altro –, perché i lineamenti hanno qualcosa di minerale, di carbonico, come di asprezza appenninica.
– Sono tanti anni che siamo a Modena, siamo venuti nel ‘72. Io, mio marito e mia suocera.
– Dove lavorava vostro marito?
– Alla Fiat Trattori.

Una storia comune a migliaia di altri anziani cittadini modenesi giunti in quegli anni da ogni mezzogiorno possibile. Il mio quartiere è pieno. Molti finirono proprio alla Fiat, che aveva dei canali privilegiati di assunzione che agivano proprio dai paesini del sud. Si cercavano bravi campagnoli obbedienti e rispettosi, magari con la garanzia dei parroci o dei patronati bianchi. Poi quando arrivavano sulla linea di produzione le cose cambiavano, ci si sindacalizzava e del parroco ti dimenticavi presto. Il signor Tonino (non so perché immagino che il defunto marito si chiamasse così) sbarca a Modena nel ‘72, dopo aver viaggiato tutta la notte su qualche lurido accelerato partito da Reggio Calabria; la sua storia sarà stata simile a quella di tutti gli altri di quella generazione; appena arrivato sistema precariamente la vecchia mamma e la moglie in qualche stamberga o presso parenti e comincia a montare motori e scocche di trattori, in un fabbricone freddo, pieno di morchia e fumi di saldatura. Intanto bisogna imparare a parlare italiano decentemente, se no il capo turno non ti capisce; bisogna imparare a muoversi in città (in bicicletta, in mezzo alle nebbie) e piano piano cercare anche la fatica alla signora, perché con uno stipendio solo non ci campi e far lavorare la moglie qui non è vergogna.

– Signora, voi dove lavoravate (mi comincio ad appassionare)?
– Io? Eh, figlio mio. Quello che non ho fatto io. Tutto ho fatto. All’inizio andavo a casa delle signore modenesi, la mattina, cu la bicicletta. Dove mi chiamavano là andavo, pulivo, lavavo, stiravo, mi guadagnavo i miei soldini. Poi dopo sono passata “sotto al Comune”, sempre pulizzie. Poi dopo “sotto al Policlinico”, sempre pulizzie. Anni e anni.

Qui il racconto si fa un po’ ingarbugliato. La signora parla quasi tra sé: ricorda una polemica col direttore del Policlinico (così mi pare) che la giudicava troppo bassina per pulire le ragnatele in alto e lei che lo tranquillizzava, gli diceva di non preoccuparsi perché il mestiere suo lo sapeva fare. Le pulizzie.
Penso con tenerezza che quella vecchia ha pulito con scrupolo migliaia di cessi emiliani, pubblici e privati, nella sua instancabile biografia operaia.

– Andate a trovare vostro marito al cimitero?
– Eh… non solo mio marito. Anche mia figlia. Mia figlia femmina.

Mia moglie si rabbuia. Non vuole che vada troppo oltre con le domande. Si rischia di toccare qualche nervo scoperto. Ma la signora non pare ipersensibile. Si mette a raccontare lei, da donna pratica, che non ha paura dei brutti ricordi, perché tanto ormai il peggio è passato e la vita sta andando.
– Mia figlia è morta nel ‘79. C’aveva otto anni. Un tumore al cervello. Povera criatura. Mò tenesse 45 anni. Mia figlia.
Rimaniamo un po’ zitti, cosa dici davanti a una roba così? Lei abbozza anche un amarissimo leggero sorriso. Guarda avanti a sé, un improvviso spicchio di sole riflesso sul parabrezza le fa stringere gli occhi. Forse un lampo, un ricordo.
– E che bambina intelligente che era. Una volta ci ho chiesto (e qui non ho capito bene cosa le avesse chiesto, qualcosa della scuola mi pare) e lei mi ha risposto: mamma questi sono affari miei. A 8 anni! Ti sapeva rispondere così. Andava bene a scuola. Ancora me la piango. Povera criatura. Erano anni difficili. Lavoro, lavoro, sempre lavoro. Mia suocera poi era tirribile. La prima notte di nozze era venuta anche a controllare le lenzuola, all’epoca giù si faceva così. E poi è arrivata la mia bambina. E’ arrivata e subito se ne è andata.

Cala una cappa di tristezza in macchina. Siamo quasi arrivati.
– Ma avete altri figli, signora?
– Si. Il maschio. Che mò tiene 42 anni. Sta a Maranello.
– Ah bene. Così per le feste state coi nipoti.
– None. Niente nipoti. E’ separato, mio figlio – e ne parla che è tutto un sospiro.

Si capisce che il secondo, il maschio, è un po’ scapestrato, non ha seguito la retta via che sicuramente avrebbe intrapreso la bella bimba primogenita, se fosse sopravvissuta al suo destino. Immagino che questo secondogenito sia cresciuto all’ombra della sorella morta, delle aspettative deluse, delle foto bagnate di lacrime e delle memorie tristi che la sua dipartita aveva accumulato in quella casa. Magari gli era toccato dormire dentro la stessa stanza della sorella morta, piena di ricordi di lei. Anche qui immagino un presente da eterno irrisolto. Un ragazzone grosso come il padre, magari con un buon lavoro in Ferrari, ma sempre un po’ in crisi, un po’ esistenzialmente precario.
– La cumpagna così, da la sera alla mattina gli ha detto: io non ti voglio più, così, così, così e così. E se n’è andata. E l’ha lasciato solo. Il ragazzo è bravo ma si è un po’ sbandato.

Ormai siamo arrivati davanti al camposanto di San Cataldo, che ho scoperto da poco essere un cimitero monumentale, seriamente studiato da chi si occupa di questo settore di architettura (a me è sempre sembrato brutto e insignificante, con i suoi palazzoni di loculi a 4 piani color paglierino-cacarella). La signora deve scendere. Fa un po’ fatica. Mia moglie le porge la mano, le fa gli auguri e le chiede il suo nome (non ci siamo ancora presentati):
– Catarina, tanto piacere.

E dice proprio così, con due “a”, come fosse una Katarina moldava o russa. Ci fa un bel sorriso e ci ringrazia. Ai piedi porta una specie di polacchine con i calzettoni arrotolati fino alla tibia sulle calze. Potremo anche aspettarla e darle un passaggio per il ritorno, ma non vogliamo metterle fretta. Deve parlare con il suo Tonino e salutare la sua bimba adorata. Che oggi avrebbe 45 anni e sarebbe una maestra o un’impiegata del Comune, o la direttrice del vicino ufficetto postale, e parlerebbe con un mirabile accento emiliano e avrebbe anche scodellato un paio di nipotini alla vecchia signora.

Catarina passerà il capodanno in compagnia? Il figlio un po’ sbandato andrà a stare con lei almeno quella sera infame che ti assalgono tutti insieme i ricordi di 83 anni di memorie e delusioni? E se fosse rimasta nel suo paesino appenninico (non mi ha detto quale) oggi come sarebbe stata la sua vita? Quanti cessi si sarebbe risparmiata? Quanta fatica, quanta strada, per ritrovarsi da sola, sradicata da ogni idea di comunità, ad aspettare la morte in polacchine? I sufi dicono che la via del “se avessi…” conduce all’inferno. Vuol dire molla i rimpianti, quel che è stato è stato, il destino è uno, le scelte sono miraggi, illusioni ottiche. E poi cosa farebbe in Calabria, la signora? Ormai saranno andati anche tutti i suoi vecchi parenti, giù nel suo paesino dell’appennino dove magari è rimasta in piedi una vecchia casa di famiglia, tutta pietre e vento, che nessuno ristrutturerà mai. Auguri Catarina.

]]>
Marte distruggerà la Terra / Guerre stellari preventive https://www.carmillaonline.com/2024/08/26/marte-distruggera-la-terra-guerre-stellari-preventive/ Sun, 25 Aug 2024 22:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83897 di Valerio Evangelisti

[Viene di seguito riproposto un racconto di Valerio Evangelisti pubblicato su “Carmilla online” il 26 Agosto 2003 (Marte distruggerà la Terra) ed uscito originariamente su “Il manifesto” il 17 agosto 2003 (Guerre stellari preventive)]

«Ci hanno ingannati sistematicamente, per quasi un cinquantennio. Sono riusciti a sfuggire alle nostre ricerche, hanno eluso le ispezioni, hanno fornito immagini artefatte.» Il segretario alla Difesa Burke era tutto sudato mentre, al termine di un discorso di un’ora e mezzo corredato da riprese satellitari, fotografie e mappe, menava di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite l’affondo decisivo. «Perché [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Viene di seguito riproposto un racconto di Valerio Evangelisti pubblicato su “Carmilla online” il 26 Agosto 2003 (Marte distruggerà la Terra) ed uscito originariamente su “Il manifesto” il 17 agosto 2003 (Guerre stellari preventive)]

«Ci hanno ingannati sistematicamente, per quasi un cinquantennio. Sono riusciti a sfuggire alle nostre ricerche, hanno eluso le ispezioni, hanno fornito immagini artefatte.» Il segretario alla Difesa Burke era tutto sudato mentre, al termine di un discorso di un’ora e mezzo corredato da riprese satellitari, fotografie e mappe, menava di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite l’affondo decisivo. «Perché tanto accanimento nella menzogna? Perché una cortina fumogena così impressionante? Non c’è che una risposta logica. Non volevano farci sapere quale potenza avevano accumulato nelle loro grinfie. E a quale scopo?»
Il rappresentante della Russia guardò l’orologio. «Ce lo dica lei, signor Burke. Noi abbiamo pazientato abbastanza. Venga alle conclusioni.»
Burke trasse dal taschino un fazzoletto e se lo passò sul faccione nero. Oltre a essere affaticato, era incollerito dal palese scetticismo degli astanti. «Le conclusioni? Sono presto dette. Dobbiamo intervenire, e subito. Altrimenti Marte distruggerà la terra.»

Ci fu un lungo silenzio, mentre i consiglieri si guardavano increduli. Poi il rappresentante della Francia si alzò in piedi, afferrò il rapporto che aveva in mano e lo sbatté sul banco. «È pazzesco. Semplicemente pazzesco. Quell’uomo ci prende per idioti. Ma io ne ho abbastanza di questa farsa. Me ne vado.»
Burke fece una risatina sardonica, che però risentiva della fatica per la battaglia sostenuta. «Noto che il mio collega Rousselet non si convince nemmeno di fronte all’evidenza. Ha visto le foto e i filmati. Non riesco a capire perché metta in dubbio con tanta arroganza la buona fede degli Stati Uniti e la mia personale. Mi dia un buon motivo.»
Rousselet era già lontano dal proprio banco. Si chinò su quello del collega cinese e si servì del suo microfono. «Il motivo è uno solo. Su Marte non c’è vita. Proprio le sonde americane ce lo hanno dimostrato, e così le osservazioni al telescopio, più ogni altro dato scientifico disponibile. Dove sarebbero i marziani che dovremmo temere tanto?»
Vi fu un brusio che crebbe di intensità. Burke, ormai fradicio di sudore, afferrò il proprio microfono con due mani. «Si nascondono nei canali!» vi urlò dentro. «Marte è tutto solcato da canali!»
Scoppiò un putiferio. Rousselet alzò le spalle e lasciò la sala. Il rappresentante cinese si rivolse alla presidenza. «Prego il segretario Mubele di indagare se il signor Burke ci ha offerto questa recita assurda di iniziativa propria, o se parla per davvero a nome del presidente degli Stati Uniti. In quest’aula nessuno crede a una sola parola di quello che ci ha detto.»
«Io ci credo.» Era stato il posato sir Jeremy Rollins, incaricato degli affari esteri della Gran Bretagna, a pronunciare quella fase. Cadde un silenzio esterrefatto. «Il governo britannico ha prove del tutto analoghe a quelle illustrate dal signor Burke. I marziani esistono, e sono cattivi. O si agisce in fretta, o sono in grado di distruggere la terra in appena 45 minuti.»

Ne avevo abbastanza delle cautele e delle frasi elusive del professor Steven O’Bannion. Sono un uomo d’azione, e il solo vedere uno scienziato che se ne sta in poltrona tutto il santo giorno, a leggere rapporti o a guardare dentro un telescopio, mi fa prudere le mani. O’Bannion, poi, aveva occhialetti, pizzo, naso lungo e orecchie a sventola, per non dire delle spalle rachitiche e della posa da gobbo. Il più brutto e sgradevole dei nostri consulenti a Greenwich.
Poiché seguitava a tentennare, feci ricorso alla lealtà di partito. «Ascolti, professore. Lei sa che il Labour Party è in crisi profonda. La base si ribella, un terzo dei parlamentari non obbedisce più. Lei è laburista da sempre. Ha letto gli ultimi sondaggi? Guardi qua…»
Frugai in tasca alla ricerca di un articolo di giornale che sapevo di non avere. Stavo comunque dicendo la verità. La base laburista aveva mal digerito, ai tempi del governo Blair, la proposta di privatizzare le prigioni e gli orfanotrofi. Adesso che il nuovo premier Gideon suggeriva di unificare le due amministrazioni, mettendo gli orfani in prigione, era rivolta aperta in tutto il Regno Unito. I sondaggi gli attribuivano un grado di popolarità inferiore al 2%.
«Ora non trovo l’articolo» continuai, dopo avere frugato un poco «ma sono cose che sa anche lei. Vogliamo ritrovarci sotto un governo conservatore? E’ un destino che non vorrei per i miei figli, se ne avessi. Lei ne ha. Pensi a loro.»
O’Bannion torse le mani scheletriche, che gli avrei spezzato volentieri. Piagnucolò: «Mi chiedete una cosa impossibile! Quando ho sentito sir Rollins parlare al Consiglio di Sicurezza, ho pensato che si fondasse su prove che possedeva già. Poco verosimili, però con una qualche base documentaria. Mai avrei immaginato che vi sareste rivolti a me per fabbricarle!»
«”Fabbricarle” non è il termine giusto» lo corressi, severo. «Guardi che mi sono documentato. Di prove ne esistono a bizzeffe. Magari dimenticate, magari finite in un trafiletto secondario di una rivista di divulgazione scientifica. Del resto, le pare che il segretario alla Difesa della più grande potenza mondiale possa parlare a vanvera? Che si presenti davanti al Consiglio di Sicurezza e spari la prima balla che gli viene in mente? Via, non scherziamo. Quando parla un uomo così, lo fa davanti al mondo.»
«Infatti il mondo sta ancora ridendo.»
«Lei si sbaglia, professore. Già molti paesi, oltre al Regno Unito, reclamano una guerra preventiva contro Marte.» Elencai quelli che mi venivano in mente. «L’Estonia, la Liberia, l’Italia, il Sultanato del Brunei, la Repubblica di Aruba.»
O’Bannion strabuzzò quei suoi occhi vacui. «La Repubblica di Aruba? Che cosa sarebbe?»
«Fino all’anno scorso era un governatorato olandese. Adesso è uno Stato indipendente. Paese piccolo, ma importante per il turismo.»
Notai che lo scienziato rimaneva scettico. Era il momento di passare alle maniere forti. Lo feci con gusto. «Mi ascolti bene, professore. Lei lavora per l’MI6 già da quindici anni. Deve a noi la carriera e la posizione che ricopre ora. E’ tempo di ricambiare tutto ciò che abbiamo fatto per lei. Che cosa le chiediamo, in fondo? Solo di dimostrare che su Marte ci sono i marziani, a tramare nei loro canali la conquista della terra. Sarebbe un peccato se, dopo averla allevata nella bambagia, ci vedessimo costretti a toglierle tutto ciò che ha.»
Lo vidi impallidire. Buon segno. «Ma su Marte non ci sono né canali né forme di vita! Dove vado a trovare le prove che vi servono?»
«Glielo devo dire io?» Feci l’occhiolino. «Lei avrà pure dei colleghi americani che lavorano per il governo, no? Ecco, se fossi in lei non starei tanto a faticare. Le prove le chiederei a loro.»

Ralph Rupert, dell’osservatorio di Monte Palomar, stava sorseggiando una birra Colt 45, più alcolica di un bourbon, e intanto guardava la tv. Il presidente Bruce Maynard spiegava da quasi un’ora come distruggere i marziani fosse nell’interesse dei marziani stessi: per ciò che si sapeva della loro società, vivevano sotto un’orrenda dittatura colpevole di quotidiane violazioni dei diritti umani. Disse proprio così: “diritti umani”. Rupert ammirò la sottigliezza dello staff che scriveva i discorsi del presidente. Se avesse parlato di “diritti marziani”, l’impatto emotivo sui telespettatori sarebbe stato molto minore.
Il telefono prese a squillare, e Rupert si precipitò a sollevare la cornetta. Sperava che fosse la bella Astrid, la ricercatrice a cui faceva la corte da una settimana circa. Invece era quell’insopportabile lagnoso di O’Bannion, che lo chiamava da Greenwich. Pazienza: una volta detto il proprio nome, era impossibile riattaccare.
Per un poco, Rupert ascoltò il collega. Quindi disse: «Steven, so che tutta la questione sembra puro delirio. Però il presidente Maynard ha appena confermato le parole del segretario Burke, punto per punto. Ha anche aggiunto del suo. Il vostro premier può anche mentire in pubblico, ma il nostro presidente no. Sai cosa è capitato ai suoi predecessori che lo hanno fatto. Maynard è certo mezzo scemo, ma non è un disonesto e parla col cuore. Tutta l’America è con lui. Ciò significa una cosa sola: noi astronomi ci eravamo sbagliati. E così i nostri colleghi che si sono occupati di Marte.»
Rupert rimase in attesa per udire la replica dell’interlocutore, che fu lunga. Alla fine sbuffò. «Parliamoci chiaro, Steven. In fondo cosa sappiamo di Marte? Quanti metri quadrati hanno percorso le nostre sonde? Nota: parlo di metri quadrati! D’accordo, ci sono le foto dall’alto e non mostrano nessun canale. Be’, potrebbe trattarsi di canaletti. Credi che un qualche satellite sarebbe capace di fotografare il rigagnolo che irriga il tuo giardino di casa? Magari sì, ma non se ne prenderebbe la briga. La verità è che noi i canali non li abbiamo mai cercati sul serio, e nemmeno i marziani. Chi pensava che se ne stessero nascosti nei loro fiumiciattoli, con gli occhi avidi da insetto puntati sulla terra? Eppure, chissà da quanto tempo ci spiavano.»
Altra pausa, e nuova risposta di Rupert. «Mi ha contattato solo la National Security Agency, ai massimi livelli. Voleva sapere qual era l’aspetto presumibile dei marziani. Non ho la mia relazione sotto mano, ma ho detto che si poteva scartare tutta la fauna di John Carter di Marte, di Edgar Rice Burroughs. Giganti e bestie alti tre o quattro metri li avremmo visti. Meglio le creature piccole e ripugnanti de La guerra dei mondi, di H.G. Welles. Però hanno macchine enormi, e avremmo visto anche quelle. Più credibili le creature di Cronache marziane, di Ray Bradbury. Fantasmi di una razza perduta, che manipolano i ricordi degli uomini. Il problema è che robe così non sembrano una gran minaccia…»
Fu tanta la veemenza dell’obiezione che Rupert dovette staccare la cornetta dall’orecchio. Gli cadde persino la lattina di birra. Quando riuscì a parlare di nuovo, era ormai esasperato. «Lo so anch’io che quella è narrativa! Ma se mi chiedono una tipologia del marziano medio, dove la trovo? Solo nella fantascienza, libri e cinema. Meglio il cinema: da un certo momento in poi si è fatto strada il preconcetto che su Marte non ci fosse vita, e gli scrittori ne hanno parlato sempre meno. A chi potevano interessare quattro sassi sotto un cielo rosa? Per fortuna il cinema è andato avanti col tema qualche anno in più. Sai quanti film scadenti mi sono visto, nelle ultime settimane? Tutta l’idea che ancora ci facciamo di Marte come pianeta rosso e vivo viene da lì.»
Rupert ascoltò il commento di O’Bannion, e finalmente sorrise. «Vedo che capisci. Bene, per la tua relazione guardati tutti i film che puoi, eccetto Mars attacks, che è demistificante e induce al disfattismo. Dimentica invece ufo, rapimenti da parte di alieni e cerchi nel grano. Fanno riferimento a pianeti molto più lontani… Lo vuoi un consiglio da amico? Per la parte astronomica del rapporto, punta sulla cosiddetta Sfinge di Marte. E’ un viso femminile. Senz’altro un omaggio a una qualche regina tirannica. Sì, abbiamo detto che si trattava di un gioco di ombre e di luci su montagne di pietre e sabbia. Allora però non sapevamo che i marziani esistevano per davvero.»
Ultimo silenzio, mentre ci si avviava al congedo. «Sì, Steven. Anch’io ho pensato a una scena simile. La Sfinge che crolla, colpita dai nostri missili, mentre i marzianini fanno festa e celebrano la libertà ritrovata. Prima che altri missili arrivino. Una bella immagine per chiudere il tuo rapporto… Oh, non ringraziarmi. Tra colleghi ci si aiuta. A presto.»

Già provavo stima per il nostro primo ministro Gideon. Diventò ammirazione sconfinata quando, in tv, lo vidi additare alla Camera dei Comuni un immaginario corpo astrale rosso fuoco e scandire, solenne: «Lassù c’è Marte, il dio della guerra. Per me, uomo di lotta, ha sempre avuto un’attrazione irresistibile. Abbattere Marte, ci pensate? Quale compito più degno può unire il popolo britannico e il popolo americano? Ditemi voi: quale?»
Pochi riconobbero un passo del rapporto segreto di O’Bannion, a sua volta ricalcato sulle prime righe di John Carter di Marte. Gideon raccolse il primo applauso scrosciante dopo mesi di fischi ininterrotti. La sua proposta di privatizzare le amministrazioni municipali e di vendere la carica di sindaco al maggior offerente aveva scontentato molti, dentro e fuori il partito. Ma adesso, con la guerra ai marziani imminente, la popolarità del premier nei sondaggi stava risalendo. Aveva già superato il 6%, e continuava a crescere.
Come uomo dei servizi segreti non avevo più molto da fare, a parte scovare eventuali agenti filomarziani nei ranghi dell’esercito o nei ministeri (ne trovai pochissimi). L’unico incarico di rilievo fu spingere O’Bannion a impiccarsi, dopo la consegna del suo rapporto. Si temeva che potesse rivelare a qualche ficcanaso della BBC che aveva ricevuto l’imbeccata da noi e che si era basato su romanzi e film, sulla traccia di una bibliografia fornita da Monte Palomar. Poiché O’Bannion non collaborava lo impiccai io stesso, nel giardino di casa sua. Odio gli scienziati.
Forse fu inutile, perché la BBC si comportò assai bene, specie dopo che il governo Gideon l’ebbe venduta al gruppo Fox. Di continuo ritrasmetteva pellicole come La guerra dei mondi, Il vampiro del pianeta rosso e, soprattutto, Marte distruggerà la terra. Le immagini finali di quest’ultimo, in cui una specie di asparago con tre occhi bisbigliava truce “Attenti, terrestri, attenti. Siete spiritualmente ed emotivamente infantili. State lontani da noi, altrimenti…” era in coda a tutti i telegiornali. Anche Independence Day funzionava: poiché non si sapeva da dove venissero gli alieni, poteva benissimo trattarsi di Marte.
Intanto la battaglia del segretario Burke al Consiglio di Sicurezza volgeva al peggio. Mi telefonò il capo del MI6 in persona. «Ci sarebbe da fare pressione sulla Repubblica di Aruba. Pare che si sia pentita della propria adesione alla coalizione contro Marte. Gideon e il presidente Maynard stanno per andare là in visita ufficiale. Ti senti di accompagnare la nostra delegazione?»
«Certamente.»

In realtà, scoprii ad Aruba, si trattava di una semplice questione di quattrini, facile da risolvere. «E’ vero» sentii dire il presidente Maynard, stravaccato in una sedia a sdraio sulla spiaggia, sotto un ombrellone a stelle e strisce. «Il veicolo che abbiamo studiato per fare scoppiare Marte richiede una quantità spaventosa di combustibile. Ci siamo voluti ispirare ad H.G. Wells: per questo avrà la forma di un grande cilindro. Per sparare in aria una cosa così serve un bel po’ di carburante, e ancora di più ne occorre per mandarla sul bersaglio.»
Io ero in piedi dietro Gideon che, in costume da bagno, esponeva le costole al sole e sorseggiava una granita. Attorno c’erano una ventina di agenti della CIA, tutti in completo nero e camicia bianca. Invece nessuna guardia sorvegliava il presidente di Aruba: un ometto in canottiera, con un berretto da marinaio sulla testa calva.
Pareva molto preoccupato. «Io capisco il primo cilindro, ma non gli altri nove carichi di aiuti umanitari da lanciargli dietro. Per chi sono gli aiuti, visto che si prevede lo sterminio totale dei marziani? Se gli Stati della coalizione devono partecipare alle spese, Aruba rischia la rovina.»
Maynard e Gideon si guardarono e scoppiarono a ridere. Fu l’americano che rispose, appena riuscì a tornare serio: «Il ruolo di Aruba è un altro. Più cilindri spariamo, più soldi vi entreranno in tasca. Qual è la società petrolifera che ha qui il suo più grande deposito al mondo?»
L’arubiano spalancò la bocca, colto da folgorazione: «Volete dire la…»
«Esatto. Quella.» Maynard rise ancora, imitato da Gideon.
L’ometto si batté la mano sulla fronte. «Che stupido! Non ci avevo pensato!… E il consiglio di amministrazione della società è presieduto dal segretario alla Difesa Burke!»
Maynard e Gideon avevano le lacrime agli occhi dal gran ridere. «Bravo! Ci siete arrivato!» dissero quasi assieme.
Adesso anche il presidente di Aruba sghignazzava. «Comincio a pensare che tutta la storia dei marziani e dei canali sia una patacca.»
Maynard e Gideon non riuscirono nemmeno a rispondere, piegati in due com’erano.

Quando tornai nella mia camera d’albergo accesi subito il televisore, sintonizzato sulla BBC, per ascoltare un notiziario. Invece stavano trasmettendo ancora una volta Marte distruggerà la terra. Si era alle battute finali, e l’asparago gigante stava per pronunciare la sua arringa. Lasciai acceso e andai in bagno.
Solo là mi venne in mente che l’asparago che ricordavo io aveva tre occhi, di cui uno in mezzo alla fronte. Quello appena visto ne aveva due, ed era senza antenne. Inoltre nel film originale le scene su Marte erano colorate di rosso, non di verde scuro.
Tornai di corsa davanti al televisore, in tempo per ascoltare la minaccia: «Attenti, terrestri, attenti. Siete spiritualmente ed emotivamente infantili. State lontani da noi, altrimenti Marte distruggerà la terra!» Le parole successive non le avevo mai udite: «Sapete cosa potete fare con i vostri cilindri?»
Udii un coro di grida venire dall’esterno. Corsi sulla terrazza. La spiaggia era piena di gente che, angosciata, guardava il cielo.

]]>
Il professor Wang https://www.carmillaonline.com/2024/07/30/il-professor-wang/ Tue, 30 Jul 2024 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83688 di Giovanni Iozzoli

Non riusciva proprio a ricordare che cattedra occupasse. Cioè, cosa concretamente insegnasse, il dott. Wang F. Ross. Era qualcosa che aveva a che fare con la filosofia, sicuramente, ma a lui non era mai entrato in testa nulla del complicatissimo cursus accademico di suo figlio. Sapeva solo che era diventato un docente importante – un pezzo grosso, diceva ai suoi amici con un filo d’ironia, alludendo al fisico mingherlino del ragazzo -, ma la parte concreta della carriera e della vita del figlio, gli era sempre rimasta più o meno ignota. A diciotto anni il giovanotto aveva preso [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Non riusciva proprio a ricordare che cattedra occupasse. Cioè, cosa concretamente insegnasse, il dott. Wang F. Ross. Era qualcosa che aveva a che fare con la filosofia, sicuramente, ma a lui non era mai entrato in testa nulla del complicatissimo cursus accademico di suo figlio. Sapeva solo che era diventato un docente importante – un pezzo grosso, diceva ai suoi amici con un filo d’ironia, alludendo al fisico mingherlino del ragazzo -, ma la parte concreta della carriera e della vita del figlio, gli era sempre rimasta più o meno ignota. A diciotto anni il giovanotto aveva preso la via del college e poi era partito – testardo, solitario e orgoglioso – a percorrere quella sua insondabile carriera di professorone.

Adesso Mr. Ross guardava un po’ titubante il cartellino sulla porta di mogano. C’era anche una tabella con gli orari dei ricevimenti. Bussare o no? Forse sarebbe stata più opportuna una telefonata, prima della visita? Ormai era tardi per avere ripensamenti. E del resto non c’era niente di disdicevole nel passare a salutare brevemente un figlio sul lavoro.

– Salve, desidera qualcosa? – la voce gracchiante lo fece sussultare, come se lo avessero colto in fallo in una situazione poco chiara.  Era un tizio in pullover, dall’aspetto e dall’accento ispanico, con un faldone o qualcosa del genere sotto al braccio.

– Buongiorno, sono il papà del prof. Wang; sono passato un attimo per un saluto. Posso…?

Il viso dell’uomo si illuminò di un sorriso cordiale.

– Ah, ma certo, lei è il papà del professore… Mr. Ross… mi scusi la riconosco solo ora… è un piacere averla qui. Come va Mr. Ross? Ero un suo grande ammiratore… sta bene?”

– Bene, grazie… posso bussare allora?

– Certo, prego… il professore dovrebbe esserci, si è trattenuto in ufficio e non l’ho ancora visto uscire… si accomodi… se è ancora dentro le aprirà.

– Grazie.

Mr. Ross si decise finalmente a bussare, con un pudico sfioramento di nocche. Per quanto provasse a tranquillizzare le sue ansie, non era ancora sicuro di fare qualcosa di opportuno o di corretto. Il fatto è che là dentro, dietro quella porta, non avrebbe trovato il suo bambino – il piccolo occhialuto, amabile Wang – ma un austero professore, un uomo ancora giovane d’età ma che a tutti dava l’idea di un precoce invecchiamento nello spirito. Non lo vedeva da quattro o cinque mesi – non riusciva neanche a ricordare bene da quando. Forse era passato da loro, a Santa Monica, nel week end del Ringraziamento. Una delle sue solite visite frettolose. Ormai da molti anni avevano smesso di avere un vero e proprio rapporto padre-figlio. Il professore semplicemente faceva la sua vita e non manifestava il minimo interesse per quella dei genitori.

Dall’altra parte della porta nessuno rispondeva. La targhetta Prof. Wang J. Ross stava lì sulla porta, a fissarlo. Filosofia morale: cazzo, ecco cosa insegnava il piccolo Wang. Filosofia morale. Ci aveva scritto anche un paio di libri, che teneva in casa, da qualche parte. E che roba era, la filosofia morale? Boh. Di sicuro non glielo aveva mai chiesto. Non aveva neanche mai aperto i libri scritti dal figlio. Cose ostiche.

Bussò ancora, questa volta in modo più deciso. Quella specie di bidello gli aveva detto che probabilmente il professore era ancora dentro. Appoggiò l’orecchio alla porta. E fu a quel punto che riconobbe la voce antipatica di suo figlio: – chi è? Avanti!

Il tono sembrava infastidito. Aveva un che di metallico, come una voce pre-registrata; e un fondo stridulo, respingente. Era la voce che aveva acquisito nell’adolescenza e che continuava a portarsi dietro nella sua maturità ingrigita. Avrebbe voluto dire qualcosa prima di aprire quella porta, tipo: sono io, tuo padre. Ma gli sembrava inutile e posticcio. Aprì direttamente e si presentò con il suo sorriso più volenteroso.

Infilò dentro la testa prima del corpo e rimase meravigliato. L’ufficio era disadorno e disordinato, ma gli sembrò enorme. Il piccolo Wang era davvero diventato un pezzo grosso, per meritare un simile camerone tutto per sé. La stanza era piena di libri e armadietti che parevano vecchi schedari metallici. E due computer accesi troneggiavano su altrettante scrivanie. Le finestre alte e opache non avevano tende. E in un angolo, seduto ad una delle due scrivanie, un quarantenne dai tratti chiaramente asiatici, lo sguardo miope e un’espressione tra l’ostile e il sorpreso, accoglieva il visitatore senza alcuna cordialità.

– Frank…? Tu? Che ci fai qui?

– Scusa Wang, ti disturbo?  Sono venuto in città per un colloquio di lavoro e ho pensato di farti una sorpresa. Accidenti… che bell’ufficio… vedo che ti sei piazzato bene, qui.

– Non è tutto mio. Lo condivido con gli assistenti… il ricevimento studenti. E altre cose. Hai… hai fatto un buon viaggio? Quando riparti?

Mr. Ross si avvicinava alla scrivania a piccoli passi titubanti, guardandosi intorno, come aspettasse qualche parola di benvenuto che potesse legittimare la sua presenza dentro quella stanza. Ma il prof. Wang continuava a guardarlo con quella sua espressione indecifrabile…

– Sono passato solo per un saluto e scappo all’aeroporto, alle 17 ho il volo. Non ci vediamo mai. Hai mangiato? Ti offro il pranzo, un caffè?

Fu a quel punto che il prof. Wang si alzò – piuttosto bruscamente – e si decise a intercettare suo padre prima che la presenza di quell’intruso nel suo ufficio diventasse troppo invasiva. Lasciò la sua postazione e gli si parò davanti, porgendogli la mano, come avrebbe fatto con un rappresentante di libri o un collega di lavoro. Indossava una giacca elegante e sotto una camicia bianca e linda, senza cravatta.

– La mamma come sta?

– Mah… il solito… lo sai… vi siete parlati qualche giorno fa, no?

– Ti sei rimesso al lavoro, dunque?

– Più che altro sto cercando di capire qualcosa circa un’offerta… una cosa ancora non ben definita… vediamo se diventerà una proposta concreta… intanto sono andato a parlare con la produzione… si tratta di una particina, in ogni caso. Una cosa piccola. Tanto per tenermi impegnato. La noia della vita da pensionato alla lunga diventa pesante… lo sai, io ho sempre lavorato…

Parlava del suo lavoro di attore con modestia, minimizzandolo. Per motivi a lui insondabili il piccolo Wang, invece di essere orgoglioso di un padre attore (per quanto attore comico) aveva sempre vissuto con una qualche segreta insofferenza, quel mestiere di artista. Forse avrebbe preferito un padre idraulico, o postino. Chissà perché. Lo sguardo di Wang si manteneva guardingo, come uno che stesse ricevendo la visita di un creditore o di un agente del fisco.

Frank Solomon Ross, attore brillante e in gioventù anche cabarettista e improvvisatore, conservava nel suo repertorio una infinità di storielle, battute, motteggi su ogni genere di circostanze della vita (funerali compresi). Questo deposito di spiritosaggini lo aveva spesso aiutato in situazioni complicate o imbarazzanti. Ma davanti ad un figlio dai modi così austeri, non si azzardava più a esercitare la sua vocazione naturale di uomo simpatico, ruolo a cui il suo Dna pareva averlo destinato. Il prof. Wang decisamente non amava le facezie. E Mr. Ross non aveva mai capito se questo atteggiamento di esagerata sobrietà Wang lo riservasse solo a suo padre o in generale a tutte le cose effimere dell’umana esperienza.

Allora, Wang, hai già pranzato? Hai tempo per mangiare insieme?

– No, grazie… io a quest’ora non mangio…

-Sei a dieta?

– No, è solo un orario buono per il lavoro e non voglio sprecare tempo.

La frase raggelò il povero Mr. Ross. Il figlio professore non avrebbe potuto essere più esplicito: la visita paterna rappresentava per lui solo una perdita di tempo.

Provò una forte delusione, per se stesso e per le sue illusioni. In fondo al cuore sapeva di non essere in cima al gradimento di quel ragazzo. Ma in lui albergava sempre la speranza che forse un giorno – entrando lui nella vecchiaia e il figliolo nella piena maturità – il loro dialogo così complicato avrebbe potuto finalmente distendersi. Adesso si sentiva uno stupido, ad aver nutrito simili aspettative. Il filosofo dott. Wang era uno stronzo, ecco tutto. Suo figlio era stronzo. Un ragazzo cresciuto male con la sola attenuante della sua infanzia difficile. Per bilanciare questa amarezza, Mr. Ross provò a evocare il ricordo dell’arrivo del piccolo Wang, a 5 anni, con una minuscola sacca su una spalla, insieme alla sorellina Lulù poco più grande. Li videro la prima volta nella sala arrivi dell’aeroporto di Los Angeles, accompagnati da una funzionaria dell’Immigrazione. Lui e sua moglie Rose si innamorarono subito di quei due angioletti vietnamiti. E loro guardavano spaesati l’immensa America riflessa negli occhi di quei due strani genitori adottivi, grassi, pallidi e sorridenti, che li aspettavano carichi di aspettative e piccoli regali. Quand’è esattamente che il piccolo adorabile Wang si era trasformato in un maledetto stronzo ingrato?

– Sei sempre stato un ragazzino così serio. Filosofia morale. È vero che ti sei specializzato in quella cosa lì?

Wang lo guardava quasi scandalizzato: cos’era questa intrusione nel suo regno perfetto di libri e teorie?

– Con chi ne hai parlato, di filosofia morale? Con Oprah Winfrey?

Anche nell’ironia il ragazzo era acido e spiacevole. Mr. Ross sorrise suo malgrado.

– Ah… ricordi ancora quando fui ospite da Oprah. Sono passati tanti anni.

– Si, vagamente. Ricordo tutte quelle domande sul cane. Il cane del telefilm. Che poi era il protagonista, no?

– Ah… beh… il mio Spike… ci lavoravo con quello. Era il periodo d’oro di “Detective Spike”. Ti piaceva quel telefilm. Ti piaceva anche Oprah, non ricordi?

– Ricordo che durante l’intervista Oprah sembrava più interessata al cane che a te, quello me lo ricordo.

– Hai sempre questo tono, con me. Mi dai un sacco di dispiacere… anche a tua madre… certe volte ci chiediamo dov’è che abbiamo sbagliato… in che cosa abbiamo mancato, con te e tua sorella per meritare un simile atteggiamento…

Il prof. Wang alzò una mano con decisione, come a bloccare sul nascere il rischio di una conversazione troppo intima. Non aveva nessuna voglia di tornare sulle annose memorie familiari.

– Non c’è niente che non va… tu e la mamma non avete niente da rimproverarvi… va tutto bene. Io e mia sorella stiamo facendo la nostra vita e grazie di tutto.

– Ma Lulù la senti ogni tanto? Vi vedete?

– Lascia stare. Sono affari nostri. Siamo fratelli e sorella, ricordi? E poi non si chiama Lulù. Si chiama Lu. Dopo 30 anni potreste anche ricordarvi del suo vero nome. Comunque nel gestire i nostri rapporti non abbiamo bisogno di intrusioni esterne.

– Ah, adesso io sarei un estraneo intruso?! – E finalmente Mr. Ross, il co-protagonista di “Detective Spike”, che tra il 1985 e il 1992  rappresentò per l’America  il prototipo dell’amabilità – il simpatico zio grassottello e arguto che tutti avrebbero voluto avere in famiglia, il simpatico vicesceriffo che rassicurava la contea, il simpatico preside amato dai suoi studenti, il simpatico meccanico de Il Maggiolino Tutto Matto, nonché il simpaticissimo detective privato che faceva da spalla al cane Spike – ebbene il poliedrico Mr. Ross stava quasi per tirare fuori tutte le spiacevolezze e le amarezze che aveva faticosamente represso negli anni. Avrebbe voluto dire al filoso morale Wang: brutto ingrato bastardo, ti abbiamo preso da profugo e sei diventato un cazzo di luminare della NYU, ti abbiamo nutrito e cresciuto con l’amore e la cura più totale, ti abbiamo sostenuto in ogni tua scelta senza mai condizionarti, e adesso tu ci tratti come estranei, brutto muso giallo rachitico e antipatico? Il cane Spike dava mille volte più soddisfazioni della tua filosofia morale del cazzo! – questo pensava Mr. Ross e questo avrebbe voluto sputare in faccia al suo figliolo.

Ma naturalmente non disse niente di tutto questo. Aveva imparato da tempo che l’arte principale dei genitori è imparare tacere. E per i genitori adottivi questo era ancora più vero. Mostrava solo un sorriso triste e deluso che era la maschera dietro cui nascondeva tutti i suoi rimpianti, il povero Mr. Ross.

– Senti Wang, non sono venuto qui per litigare. Volevo solo salutarti. Non vogliamo nulla da te. Sai dove siamo e ti auguriamo sempre il meglio per la tua vita. Diamoci la mano e me ne vado a prendere l’aereo.

Ma mentre Mr. Ross stava per fare un altro passo avanti, verso il centro dell’ufficio, suo figlio gli andò incontro a sua volta in modo un po’ goffo, come a sbarrargli il passo. Quasi a evitare che si avvicinasse troppo al suo tavolo di lavoro ingombro di carte. E senza volere, in quel preciso istante, Mr. Ross intravide dietro al piede della scrivania, qualcosa che assomigliava molto ad una scarpa femminile rossa. Gli sembrò proprio di vederne la punta. Una scarpa da donna dietro la scrivania del prof. Wang. Mr. Ross si fermò lì, mentre il figlio gli porgeva la mano con un movimento che somigliava più ad un invito a indietreggiare, che ad un cordiale saluto.

– Fai buon viaggio Frank e salutami la mamma.

– Fatti… fatti vivo… mi raccomando, Wang. Ciao.

Mr. Ross uscì e si chiuse la porta dietro le spalle. Rimase un attimo fermo impietrito nel corridoio. Dall’interno non proveniva alcun rumore. Era passato dalla rabbia mal controllata verso Wang ad una sensazione di sincero stupore. Sarebbe stata una bella scena degna di uno dei suoi telefilm. Recitandola avrebbe esibito la sua faccia più buffa e meravigliata. Ma qua c’era poco da esibire. Aveva davvero visto una scarpa da donna rossa dietro l’angolo destro della scrivania? E che diavolo poteva significare? C’era una collega o una sua studentessa nascosta là dentro, da qualche parte? Magari sotto la scrivania? E Wang l’aveva occultata lì, sperando che il visitatore occasionale sparisse presto per ritornare al suo tête-à-tête ? Era questo il vero motivo del malumore del figliolo filosofo? Era stato disturbato in un momento delicato?

Questo cambiava tutto. Ricollocava quello stronzo del prof. Wang entro una dimensione più umana. Salutò educatamente il bidello-assistente ispanico, che volle a tutti i costi stringergli la mano e augurargli buon viaggio, e ridiscese le scale, ridacchiando e facendo ballonzolare il ventre abbondante. Il suo figliolo adottivo non era Socrate. I travagli dei sensi lo colpivano come tutti. Aveva voglia a fare la faccia austera. Con sua moglie stasera avrebbe ironizzato un bel po’ su quel ragazzotto saputello. Tutto sommato avevano fatto un buon lavoro con lui. Un geniaccio ma anche un mandrillo. Cercava il modo giusto per raccontarlo a sua moglie, senza scadere in volgarità ma…accidenti. Si fermò di nuovo, dopo la prima rampa di scale: – e se quelle maledette scarpe fossero le sue, di Wang? Se fosse uno di quei tipi che in privato indossano vestiti femminili?

Una specie di depravato, in pratica. Ne aveva già conosciuti, soprattutto nel suo ambiente. Era un vezzo americano, da Ed Wood a Hoover. Forse Wang era di quella tribù. Certo sembravano proprio scarpette da donna, piccoline, un po’ a punta. Ma anche Wang aveva dei piedini piccoli da asiatico. Si sforzava di ricordare il numero di scarpe di suo figlio che però non viveva più con loro da quando aveva 18 anni. A quei tempi gli pareva di ricordare un numero 38. Ma cresce ancora il piede dopo i diciotto?

Effettivamente Wang non aveva mai presentato ai genitori una fidanzata o una compagna o una futura moglie. Forse aveva avuto qualche simpatia al liceo, o qualche piccolo flirt da adolescente; ma era molto timido, bloccato, imbranato e anche bruttino. Da giovane somigliava un po’ all’imperatore Hiro Hito. Insomma, donne zero. Però questo non voleva dire niente, perché Wang era il non plus ultra della riservatezza. Non avrebbe mai esibito le sue eventuali conquiste ai genitori. Ma si trattava davvero solo di riservatezza? O semplicemente al figlio non interessava granché l’articolo? E non poteva mica dirla così, alla moglie, soprattutto nelle condizioni di salute in cui la povera donna si trovava ormai da un anno. Non è che puoi dire ad una madre adottiva: sai che tuo figlio si veste da donna? Quali sensi di colpa avresti scatenato nel suo intimo? Ci mancava solo questo.

Ma poi era davvero di una scarpa rossa, quella punta delicata che aveva intravisto? O era solo un oggetto d’ufficio di colore rosso caduto per terra, che dalla sua prospettiva poteva sembrare una calzatura? Non è che ci aveva ricamato lui di fantasia? Boh: sembrava proprio una scarpa. Sua moglie doveva averne un paio uguali, dello stesso colore. Un rosso opaco. Quasi rosa. Mentre era fermo nel corridoio del piano inferiore vide la porta dell’ufficio di Wang che si apriva. Mr. Ross si nascose dietro a una colonna e provò a sbirciare verso alto.

Dall’ufficio uscì il solo Wang e si incamminò a passo lesto lungo il corridoio, nella direzione opposta alle scale. Ma il filosofo diede a suo padre l’idea di aver indugiato un momento di troppo sulla soglia, prima di chiuderla: come se avesse detto qualcosa a qualcuno (o qualcuna?) che era rimasto dentro l’ufficio. Quindi c’era davvero qualcun altro? Mr. Ross fu tentato dal tornare al piano di sopra, appena Wang fosse andato via, per bussare di nuovo a quella porta e capire qualcosa di più di quello che succedeva là dentro. Il suo desiderio era solo tornare a casa dalla moglie e raccontarle finalmente di aver trovato il figliolo felice, realizzato, magari con una bella ragazza al suo fianco. Una bionda wasp che avrebbe risolto tutti i suoi eterni complessi di immigrato adottato. Ma se invece gli avesse aperto la porta un omaccione barbuto? Oddio. No. Ma le scarpette rosse non potevano essere mica di un omaccione: o erano di una donna o erano di Wang. Che casino. Che ridda di supposizioni. Il piccolo Wang avrebbe rappresentato per sempre un enigma irresolubile; meglio mettersi l’anima in pace: sarebbero morti senza capire niente di quello spirito aggrovigliato. Alla moglie non avrebbe detto niente. Solo che aveva incontrato il prof. Wang e che si erano cordialmente salutati. E che aveva davvero un bell’ufficio.

]]>
Il lignaggio https://www.carmillaonline.com/2024/03/31/il-lignaggio/ Sun, 31 Mar 2024 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81620 di Giovanni Iozzoli

– Pronto… fratello… sei tu? Dammi notizie. – Non buone, Omar. Non buone. Nostro padre ha avuto un crollo. Mi dice il dottore che ormai si può parlare di pre-coma. – Co…sa? Pre-coma? Ma me lo dici così? Eravamo rimasti d’accordo che mi avresti avvisato in anticipo su eventuali peggioramenti… – Sì… certo… ma fino a ieri sera eravamo ancora speranzosi, si era anche ripreso un po’. Ci siamo detti: non facciamo di nuovo correre Omar da Miami, aspettiamo che la situazione sia più chiara. Poi stanotte è stato di nuovo male. Si lamentava mentre dormiva… si svegliava [...]]]> di Giovanni Iozzoli

– Pronto… fratello… sei tu? Dammi notizie.
– Non buone, Omar. Non buone. Nostro padre ha avuto un crollo. Mi dice il dottore che ormai si può parlare di pre-coma.
– Co…sa? Pre-coma? Ma me lo dici così? Eravamo rimasti d’accordo che mi avresti avvisato in anticipo su eventuali peggioramenti…
– Sì… certo… ma fino a ieri sera eravamo ancora speranzosi, si era anche ripreso un po’. Ci siamo detti: non facciamo di nuovo correre Omar da Miami, aspettiamo che la situazione sia più chiara. Poi stanotte è stato di nuovo male. Si lamentava mentre dormiva… si svegliava di soprassalto… pregava un po’… piangeva… aveva dei dolori, con tutta quella morfina in corpo. Adesso qua sono le nove e la situazione è quella che è. Nessuno ha più speranze. Il vecchio stavolta ci sta proprio lasciando. Stanno arrivando anche i giornalisti…
– Arrivano i giornalisti prima del figlio maggiore, che vergogna… dovevo partire ieri… adesso sarei già lì. Comunque ora attivo subito la segretaria dello studio, è una ragazza sveglia, ci metterà poco a trovarmi un biglietto… Prendo il primo volo per Istanbul, all’arrivo mi mandi tuo figlio all’aeroporto o qualcun altro… ci metterò una giornata, maledizione… dovevate avvisarmi prima.
– Ma è successo stanotte… un po’ alla volta… adesso la situazione sta precipitando e ti ho chiamato subito. Che altro dovevo fare?
– Vado a casa a preparare una valigia.
– Aspetta… aspetta un attimo… devo dirti un’altra cosa… è meglio che lo sai prima.
– Cioè? Cosa devo sapere prima?
– Qualche giorno fa nostro padre ti ha scritto una lettera.
– A me? Una lettera?
– Sì, l’aveva chiusa in una busta senza farla leggere a nessuno e la teneva sul comodino. Era indirizzata a te ma non l’aveva fatta ancora spedire.
– E allora?
– L’altro ieri, l’ultimo giorno che era stato lucido, ha preso la lettera e ha chiesto a Fatima di spedirtela con un corriere espresso, lì da te, al tuo indirizzo di casa a Miami.
– …
– Omar, sei lì?
– Sì… sono… qui.
– Ascolta fratello, io non so che cosa abbia scritto là dentro; non lo sa Fatima né zio Abdullah… nessuno l’ha letta. Però è meglio che ti prepari. Psicologicamente dico… perché sai cosa poterebbe essere…
– …
– Omar, mi senti? Hai capito quello che sto dicendo?
– Ho capito… ma se nessuno l’ha letta… come fai a dire quello che stai dicendo? Forse era una lettera d’addio. Un saluto. Si sentiva mancare le forze. Lui non era tipo da telefonate, lo sai.
– Appunto. Non era tipo da telefonarti o da mandarti una mail per dirti quello che penso ci sia scritto là dentro. Lui faceva le cose sempre nel vecchio stile. E ci voleva un pezzo di carta firmato. Lo sai come funziona.
– Mashallah…
– Intendiamoci… è una mia supposizione… però credo sia plausibile, anzi probabile.
– Non… non è possibile. Sarebbe una pazzia. Il vecchio aveva una testa eccelsa. Come avrebbe mai potuto fare una scelta del genere? Lui non amava le improvvisazioni o le eccentricità.
– Non sarebbe né l’una né l’altra cosa, lo sai. Anzi, sarebbe il naturale svolgimento delle cose…
– Ma che svolgimento? Io sono a Miami da dieci anni. Faccio il chirurgo. Come si può pensare che…? Sono sposato con un’americana.
– Lo so. Ma sei il fratello maggiore.
– Io avevo pensato che sarebbe toccato a te, a zio Abdullah, a Sheik Kurban… ce ne sono di figure degne, adeguate, ben più del sottoscritto.
– Adesso non esagerare. Hai studiato 15 anni nelle migliori madrasse della Turchia, non sei mica uno di passaggio.
– Io faccio il chirurgo! Lo capite o no?
– E allora, che ci sarebbe di male?
– Io non ho mai neanche spiegato bene a nostro padre il mio mestiere qual è…
– Certo. E’ un mestiere nobile. Sei un chirurgo plastico.
– Sai cosa significa vero?
– Svolgi un lavoro utilissimo. Non operi mica le attrici. Tu aiuti i bambini ustionati a rimarginare le loro…
– Anche le attrici. Lavoro in uno studio. Faccio tutto quello che mi dicono.
– Astaghfirullah. Non lo sapevo. Comunque non c’entra nulla, il lavoro che uno faceva prima…
– Ma prima di che? Insomma, la mia vita è qua. Adesso fammi andare, devo preparare la valigia, avvisare mia moglie… però attenzione… tu sei sicuro che nessuno di voi abbia letto quella lettera?
– Si, sono sicuro.
– Aspetta, però. Ma se io vengo là e la lettera arriva qua, io non saprò neanche cosa c’è scritto. A meno che non abbia lasciato istruzioni orali a qualcuno…
– No. Le avrebbe lasciate a me.
– E io mentre sono in volo per Istanbul, come faccio a sapere quello che c’è nella lettera?
– Non lo puoi sapere.
– Ma non è mica un dettaglio.
– Magari il corriere arriva che tu sei ancora lì.
– Non credo. Vedrai che arriverà mentre sarò in viaggio o magari già in Turchia.
– Comunque è facile: quando arriva la lettera a casa tua, chiedi a tua moglie di aprirla, fa una foto e te la gira.
– No… no. Se c’è scritto quello che pensi tu, non voglio che lo impari così… devo gestirla io la faccenda.
– Ma tua moglie è di Miami, mica legge il turco? No?
– Lei no, ma la bambinaia si.
– Hai una bambinaia?
– Certo mia moglie è una dottoressa anche lei, chi le seguirebbe le bambine?
– E la bambinaia legge e capisce il turco?
– Si è una ragazza turca che era senza lavoro e l’abbiamo presa a casa. Ora: se la lettera arriva a mio nome, mia moglie non l’aprirebbe mai; ma se le chiedo di aprirla e di fotografarla, ci sono molte possibilità che chieda alla bambinaia di leggergliela. Intuirebbe che è qualcosa di importante. Qualcosa che riguarda la famiglia. Aspetta fratello… bussano alla porta… ti richiamo tra poco, dimmi se ci sono aggiornamenti… sulla salute del vecchio… sulla lettera… su tutto… adesso attacco, a dopo. Chi è?… avanti…
– Caro Omar, buongiorno, si può? Stai lavorando? Ti disturbo?
– Dottor Murray, prego, si accomodi, venga, venga dentro, stavo ricevendo proprio ora brutte notizie da mio padre… penso ci sia un aggravamento… credo che dovrò scappare… ma stia tranquillo, non avevo interventi in calendario per questa settimana, ho controllato l’agenda. Solo qualche appuntamento che posso spostare.
– Ma caro Omar, non stare a preoccuparti. Mi dispiace tanto per il tuo papà, so che gli eri molto affezionato. So anche che è una persona importante dalle vostre parti, è giusto che tu corra subito da lui. La famiglia viene prima di tutto, lo sai quali sono i nostri valori. Puoi tranquillamente staccare, per una settimana. E speriamo che tutto si aggiusti per il meglio. Sarà anche l’occasione per riflettere su una proposta che adesso ti anticipo brevemente. Mi rendo conto che non è il momento migliore, ma magari stare lontano ti aiuterà a valutarla meglio.
– Che… che proposta?
– Ne ho parlato anche con Levinsky e con gli altri. E sono tutti d’accordo. Omar, noi ti vogliamo dentro.
– Come dentro?
– Dentro la società, con noi. Anche se sei qui da soli tre anni, valutando il tuo curriculum, la tua professionalità e soprattutto la persona che abbiamo avuto modo di apprezzare, ti chiediamo di diventare socio.
– Ma io non so… se…
– No, non devi rispondere adesso. Mi rendo conto della tua sorpresa e capisco che è una responsabilità importante. Ma secondo noi tu sei pronto per assumerla. Non stare a preoccuparti della parte finanziaria, quello è l’ultimo problema e lo gestiremo con le banche. A noi, che stiamo invecchiando, interessa avere un giovane di valore che porti avanti la storia di questo studio medico quando noi non ci saremo più o quando saremo semplicemente pronti per uscire di scena. Tu sei il profilo giusto, non abbiamo dubbi. E’ un onere certo, ma anche (mi permetto di dirtelo) un grande onore. Sai che siamo tra i primi in Florida, conosci il giro d’affari, sai tutto. Tu hai l’età giusta per fare questo passo, l’età della maturità. Ti vedo perplesso, lo capisco bene. Sarà anche per via delle brutte notizie che arrivano dalla Turchia. Non ti preoccupare. Parti, pure, va dal tuo vecchio padre, speriamo che vada tutto per il meglio e poi tra una settimana, al tuo ritorno, ci sediamo al tavolo con gli altri soci e ne parliamo con calma. Va bene?
– Va… bene… grazie… adesso sono un po’ confuso… mi scusi…
– Torno al mio lavoro, ciao Omar, auguri per il tuo papà.

Omar si accasciò sulla scrivania che odorava di disinfettante, come tutto il resto del suo studio. Le donne delle pulizie esageravano sempre con i prodotti detergenti. Avvertiva un prurito fortissimo alla base dei capelli ma resisteva e non si grattava, perché sentiva che avrebbe peggiorato le cose. Il dott. Murray, dopo solo due anni di impiego nel loro studio, lo aveva appena invitato a diventarne socio. Non riusciva a crederci. Una cosa addirittura inconcepibile, fino a pochi giorni prima. Ma anche la preannunciata lettera di suo padre, sarebbe stata da considerare nel novero delle cose inconcepibili. Forse era solo lui che in tutti questi anni aveva rimosso il problema, facendo finta di ignorare quella che era una possibilità concreta che era sempre stata nel suo futuro. Cominciava una leggera emicrania. Doveva scuotersi da questo eccesso di emozioni che lo paralizzava. Chiamò la segretaria e le chiese di prenotare il primo volo per Istanbul disponibile. Non aveva però ancora risolto il problema della delicata missiva in arrivo. Come fare a leggerne il contenuto mentre era in viaggio? Voleva richiamare la moglie, ma mentre stava componendo il numero, suo fratello ritelefonò.

– Omar… eccoci… si, ti confermo che la situazione è irreversibile, adesso è stabilizzato e respira senza ossigeno, ma non si sa quanto durerà.
– E l’altra cosa?
– Quale?
– La lettera.
– Ti ho detto che non ne sa nulla nessuno. Lo sai che su queste cose il vecchio non si consultava con nessuno. Prendeva le decisioni e via. Ascolta, adesso devo andare, c’è già la folla dei murid e stanno arrivando i giornalisti, la televisione… è un manicomio e devo gestire tutto io… Fatima e zio Abdullah piangono sempre, che Dio li perdoni. Sai già a che ora arriverai a Istanbul?
– No… sto aspettando notizie sui voli disponibili. Non ti preoccupare. Ti mando un messaggio appena so qualcosa. Volevo chiederti l’ultima cosa… ma aspetta… vedo il numero di mia moglie… meglio che risponda… scusa metto giù e poi ti richiamo..
– Pronto Omar. E’ un po’ che chiamo non mi rispondi mai.
– Scusa ero in linea con mio fratello. Devo correre a Istanbul. Le cose stanno precipitando.
– Lo so. Me lo ha detto la baby sitter, ha detto che ha sentito la notizia su Al Jazeera turca.
– Eh si, è pieno di giornalisti. Vorresti venire anche tu, vuoi che prenoto un posto anche per te?
– Scherzi? Come farei col mio studio? E le bambine? Mica posso lasciarle a questa qui che non parla neanche bene inglese.
– Non insisto, lo so. Dico a tutti che sei indisposta…
– Non c’è bisogno. Di la verità, che avevo dei lavori in sospeso che non potevo piantare lì. Non sono una casalinga. Sono un’oncologa. Non faccio lifting.
– Adesso passo da casa a prendere un po’ di roba e vado.
– Ascolta, so che non è il momento ma tu lo sai io come sono fatta, non riesco a procrastinare come fai tu… Questa mania che avete voi orientali di girarci intorno, ai problemi. Quando torni da Istanbul bisogna che parliamo.
– Di cosa, Debbie? Di cosa dobbiamo parlare? Ti sembra questo…
– Dobbiamo parlare di un matrimonio che è finito da un pezzo. E della responsabilità che finalmente devi assumerti, rispetto a due bambine che stanno crescendo con un padre assente. Noi due dobbiamo prenderci un periodo di pausa e riflettere sul da farsi; ma nel frattempo tu dovrai stare con le tue figlie di più. Se ci separiamo, il tempo e l’attenzione per le bambine si divide tutto a metà, sia chiaro. Adesso il fatto che stai partendo magari ti aiuta a riflettere meglio sulla situazione. Non voglio assillarti, ma comincia a pensare a come riorganizzare la nostra vita… soprattutto metti al centro di tutti i tuoi ragionamenti le bimbe…
– Possiamo riparlarne al mio ritorno? Io non sono in condizione di pensare serenamente a niente… stamattina c’è una confusione tremenda nella mia testa. Anche il dott. Murray, prima, è venuto a farmi una proposta…
– Che proposta?
– Di diventare socio.
– Mi congratulo con te per i tuoi successi professionali. Ma quelli sono affari tuoi. Quello che a me preme è che tu ti assuma più responsabilità con le tue figlie. E che possibilmente non mandi a puttane la mia, di carriera professionale.
– Fammi andare. Ne riparleremo presto. Devo scappare. Tu dove sei adesso, al lavoro? Io passo un attimo per casa, preparo la valigia e parto. Ciao.

Omar guardava il cielo sereno dalla finestra grigia. Ma il telefono era implacabile: era Murray che lo richiamava:

– Omar, scusami, non voglio assillarti con i problemi del lavoro. Hai detto che la prossima settimana avevi degli appuntamenti che potevi spostare. Va bene, però fai attenzione al piccolo Ortega, quello dell’incidente. Sono profughi, il sindaco ci ha messo la faccia, ci tiene molto, per tutte le loro benemerite campagne. Mi raccomando, appena rientri convoca subito la famiglia e programma l’intervento. E’ una cosa facile, lo hai già visitato, no?
– Certo, mi ricordo. Stia tranquillo. Grazie dott. Murray. Ci sentiamo al mio ritorno.

Neanche il tempo di posare il cordless, che squillò il suo cellulare.

– Dott. Omar, sono Nancy. Buon giorno, la disturbo?
– No… dica Nancy… sto partendo ma le posso dedicare qualche minuto prima di uscire…
– La trattengo poco, non si preoccupi. Non voglio rubarle tempo. Anzi, non la chiamerei affatto, se non avessimo quel problema in comune, io e lei.
Nancy… guardi… tutto si può affrontare… ne abbiamo già parlato, sono un chirurgo e sono abituato ai contrattempi. Non voglio assolutamente evitare la discussione. Se abbiamo fatto degli errori, siamo pronti ad assumercene la responsabilità e porvi rimedio…
– Se avete fatto errori? Se avete fatto? Ci mette anche il se, davanti? Ma con un orecchio ridotto in questo stato, lei pensa ancora di assumere un tono dubitativo? Lo sa che questo maledetto orecchio mi sta marcendo?
– Stia calma Nancy, le ho già spiegato diverse volte, che quella situazione è interamente addebitabile a problemi post-operatori, che significa gestione ambulatoriale della ferita…
– Inutile girarci intorno…io i soldi li ho dati a voi. E da voi esigo piena soddisfazione…
– Ma la cura antibiotica la sta facendo?
– Lasci stare l’antibiotico, dottore… glielo anticipo verbalmente poi ci penseranno gli avvocati: io ho intenzione di chiedere 500.000 dollari di danni a lei e allo studio. Ho già perso due scritture, per questo dannato orecchio, chiaro?
– Mi scusi Nancy… ma proprio non riesco a trattenermi oltre. Se lei ha già deciso di procedere, la questione passa ad avvocati e assicuratori.
– Vada al diavolo. Avrei dovuto esigere un chirurgo americano fin dall’inizio…
– Arrivederci, Nancy… mi scusi ma devo proprio mettere giù.

Mentre parlava un gabbiano si era fermato per qualche secondo sul davanzale e lui gli aveva sorriso. Com’era fortunato quel pennuto; nessuno voleva niente da lui. Si strofinò la faccia, come a spremere via la stanchezza e la confusione dalla sua testa. Chiamò la segretaria e chiese se avesse prenotato il volo, poi uscì senza salutare nessuno, scese nel grande garage interrato, in cui ancora gli capitava di smarrirsi, montò sulla sua Toyota e corse verso Spring Garden, il sobborgo dove abitava, a circa un’ora da lì. Durante il viaggio non riusciva a focalizzare nessun pensiero, tutti gli sfuggivano davanti come gli svincoli, le sopraelevate e i quartieri che si lasciava alla spalle. Arrivò e parcheggiò l’auto nel suo curatissimo vialetto. La casa era vuota, fortunatamente. La bambinaia era andata a recuperare le piccole a scuola, mentre la moglie era nel suo prezioso ambulatorio, da cui non sarebbe tornata prima delle 20. Si guardava intorno stranito, continuando a stringere le chiavi di casa nel pugno; le foto di tutti i familiari ammiccavano dalle mensole e lungo le pareti bianche, come una finzione di felicità. Tra poco avrebbe dovuto essere in aeroporto, non c’era il tempo di rimuginare, ma i dubbi lo maceravano impietosamente.

– Cosa ci sarà in quella lettera? Cosa voleva il vecchio cheick da questo chirurgo plastico imbolsito, da questo figlio in eterna fuga? Forse lo imparerò al ritorno. Forse non è quello che crede mio fratello. Nessuno vuole quell’eredità. Tutti sperano che tocchi a qualcun altro. E mia moglie? Cosa devo fare con mia moglie? E Murray, col suo maledetto studio? Dio mi aiuti. La testa mi scoppia.

Aveva già tirato fuori la valigia e l’aveva appoggiata sul letto, quando sentì suonare al citofono. Non stette troppo a pensarci e scese veloce ad aprire. Un presentimento vertiginoso lo fece traballare lungo le scale. Appena aperto il cancelletto, la prima cosa che vide fu la scritta sul giubbino arancione dell’uomo: FedEx. Il corriere era davanti alla sua porta. La lettera da Istanbul era finalmente arrivata. Firmò, con la mano un po’ tremante e la prese in consegna. Riconobbe persino la calligrafia ordinatissima di sua sorella Fatima, che aveva personalmente compilato il talloncino del pacco. I brividi gli correvano su e giù lungo la schiena. Avrebbe potuto rifiutarla, quella lettera. O farla in mille pezzi. Si, sarebbe stata una soluzione possibile; se nessuno aveva letto quella lettera, eliminandola si sarebbe semplicemente fatta sparire ogni traccia di quell’eredità. Del resto è legittimo rifiutare un’eredità. Conosceva anche qualcuno che lo aveva fatto, magari per ragioni fiscali. Perché non poteva anche lui sottrarsi a quel lascito non richiesto? Se avesse fatto a pezzettini quella lettera, chi avrebbe potuto reclamarne il contenuto? La teneva in mano e la soppesava, senza decidersi ad aprirla. Forse là dentro c’era il suo destino, leggerissimo, appoggiato sul palmo della sua mano.

Rientrò nella villetta, appoggiò delicatamente la busta sul tavolinetto, slacciò la cravatta e si accasciò sul divano. Non ci fu bisogno di aprirlo, quel messaggio. Sapeva perfettamente cosa fosse. Guardò di nuovo le foto delle bimbe e della sua bella moglie americana, che troneggiavano intorno a lui; e i mille piccoli segni dell’eccellenza, di quei dieci anni di insediamento americano – quadri, mobili bianchi, attestati professionali. Tutto sembrava vacuo, trasparente, inconsistente, fatto della stessa materia dei sogni. Quella vita era stata una parentesi sognata – né brutta né bella, solo passata e ormai lontana.

Accettava l’eredità. Non sarebbe stato neanche possibile immaginare il contrario. Toccava a lui. Sarebbe stato il ventisettesimo successore del venerato lignaggio Saiddya. Il dott. Omar Beloglu, stimato chirurgo americano, era morto esattamente nel momento in cui un anonimo fattorino FedEx aveva suonato a quel citofono. Il lignaggio era salvo. Della casa, della moglie, persino delle bambine, non era il momento di occuparsi. Il nuovo cheik doveva correre al capezzale del suo predecessore, onorarlo e raccogliere il suo bastone. L’aereo sarebbe partito fra quattro ore.

]]>
Sguardi offesi https://www.carmillaonline.com/2024/03/25/sguardi-offesi/ Mon, 25 Mar 2024 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81830 di Serena Penni

“Mai come mia madre” urlò la figlia sbattendo la porta, e in un attimo si perse nella notte senza stelle né luna. Lo aveva detto già tante volte, a voce bassissima, rivolta solo a sé stessa. L’aveva detto quando, da bambina, aveva messo in un sacchetto tutti i suoi vestitini pieni di fiocchi e di pizzi e li aveva regalati a una compagna. La madre, quando l’aveva scoperto, era andata su tutte le furie e aveva preteso che gli abiti le venissero restituiti, ma poi erano rimasti in una busta in fondo all’armadio. L’aveva detto il giorno in cui [...]]]> di Serena Penni

“Mai come mia madre” urlò la figlia sbattendo la porta, e in un attimo si perse nella notte senza stelle né luna. Lo aveva detto già tante volte, a voce bassissima, rivolta solo a sé stessa. L’aveva detto quando, da bambina, aveva messo in un sacchetto tutti i suoi vestitini pieni di fiocchi e di pizzi e li aveva regalati a una compagna. La madre, quando l’aveva scoperto, era andata su tutte le furie e aveva preteso che gli abiti le venissero restituiti, ma poi erano rimasti in una busta in fondo all’armadio. L’aveva detto il giorno in cui la madre aveva portato a casa un’enorme bistecca insanguinata. Erika, alla vista del pezzo di carne, che le pareva un misero cadavere, una cosa inerte, fragile e straziata, era stata colta da un conato di vomito ed era scappata via. Quella frase Erika l’aveva detta ogni volta che aveva visto la madre rincasare dopo un appuntamento da uno specialista di medicina estetica, col viso più disteso e l’espressione più disperata. L’aveva detta ogni volta che aveva guardato la madre prepararsi con troppa cura per una festa. Ogni volta che aveva scorto gli occhi di ghiaccio della madre che si posavano su di loro mentre sedevano a tavola. Prima sul padre, un uomo giovanile, abbronzato, con l’aria sempre annoiata, di chi avrebbe voluto essere altrove. Poi su un punto indefinito, appena sopra una sedia di legno scuro appoggiata alla parete. Erika immaginava che quello fosse il posto del bambino mai nato, del figlio che nella mente della madre avrebbe dovuto ripagarla di tutti i torti subiti. Dopo la nascita di Erika, c’erano stati quattro aborti, tutti accompagnati da tanto sangue e da altrettante lacrime, gonfie di rabbia e di amarezza. Durante le prime settimane di gravidanza, prima che tutto andasse in frantumi, Erika aveva sentito spesso la madre bisbigliare all’orecchio di un’amica, della sorella, della governante: “questa volta è un maschio, me lo sento”.

Poi, se proprio non ne poteva fare a meno, se non trovava una farfalla da inseguire, una briciola di pane da spostare dalla tovaglia, una piega sulla manica della camicia, lo sguardo della madre cadeva su Erika, la figlia difettosa. Era uno sguardo che avrebbe voluto scivolare via, non vedere, essere cieco. Eppure non ci riusciva. La figlia difettosa attirava i suoi occhi di ghiaccio come una calamita. Nessuna delle due avrebbe voluto che ciò accadesse. Non la madre, che di quella creatura avrebbe preferito dimenticarsi. Perché vestiva sempre male, non si truccava, non parlava quasi mai, si abbuffava di mollica di pane e di biscotti del Mulino Bianco. Poi c’era il suo difetto che, secondo la madre, Erika avrebbe potuto nascondere e che invece sembrava ostentare quanto più poteva, quasi volesse dirle: “guarda, mi hai fatto nascere così, dentro sei malata, anche tu”. Non lo avrebbe voluto Erika, che, ogni volta che percepiva lo sguardo della madre abbattersi su di lei, si sentiva come se qualcuno le avesse strappato i vestiti di dosso e, davanti a una folla sterminata, la picchiasse e la deridesse.

Troppo spesso Erika si era guardata con gli occhi della madre e, esattamente come la madre, aveva provato, per il suo difetto, attrazione e repulsione, aveva desiderato dimenticarsene ma, al tempo stesso, non era riuscita a non lasciarsene catturare. La madre era molto bella e di difetti non ne aveva. Erika pensava che non meritasse una simile fortuna, perché non riusciva a essere felice. “Mai come mia madre” Erika lo aveva detto ogni volta che l’aveva vista, negli anni, tornare a casa a tarda notte da una serata con il padre. La sentiva camminare sicura sui suoi tacchi alti, ridere e parlare, poi la spiava mentre si struccava davanti al grande specchio del bagno e vedeva il suo bel viso, incorniciato da lunghi capelli d’un biondo ramato, farsi sempre più triste, più stanco, più vecchio.

Eppure la madre, nel suo sogno di felicità, ci si era buttata anima e corpo. Si era sposata all’età giusta, con un avvocato di un paio d’anni più vecchio di lei. Avevano comprato una casa grande e accogliente, che un tempo lei aveva passato giornate intere ad arredare, perché nulla sembrasse fuori posto, nulla fosse troppo vistoso o troppo misero. Avevano avuto una figlia. Peccato che la casa desse l’impressione di un sepolcro che cadeva a pezzi; si disfaceva in silenzio senza che nessuno se ne accorgesse tranne lei, Erika. Peccato che il marito un giorno avesse iniziato a staccarsi da quel matrimonio senza amore. Peccato che il figlio maschio non fosse mai nato. Soprattutto, peccato che la figlia femmina fosse lei, Erika, vestita da stracciona e che non mangiava la bistecca. Lei che aveva un difetto. Evidente, macroscopico. Un difetto di cui ogni tanto, nelle sere di primavera, quando l’aria sapeva di erba tagliata, o nelle mattine d’inverno, quando il freddo tagliava le guance e faceva colare il naso, Erika si dimenticava. Allora si sentiva normale, una bambina come tante, una ragazzina come tante, una giovane donna come tante. Ma l’incanto durava poco: se ne ricordava non appena incrociava il proprio sguardo con quello di un passante e vi vedeva riflesso per decine, centinaia, migliaia di volte, quello della madre.

La madre aveva inseguito la perfezione fin da piccola e, per ripagarla, il destino le aveva mandato una figlia imperfetta. Era arrabbiata con il destino e con Erika. Erika nonostante tutto le voleva bene. Era la persona che aveva asciugato il suo moccio quando era una bambina, era la figura elegante e slanciata che la aspettava all’uscita di scuola. Era la donna di cui Erika era stata orgogliosa davanti agli insegnanti e ai compagni di classe. Per anni, la madre era stata il suo mondo.

La madre, Erika lo sapeva, aveva girato il Paese in lungo e in largo in cerca di risposte. In cerca di qualcuno che potesse spiegarle la causa del difetto di quella sua figlia altrimenti così graziosa. Aveva parlato con i medici, loro l’avevano rassicurata. Non era colpa sua, era stato solo il caso. Era stato il destino, le avevano detto gli esseri inquietanti cui si era rivolta qualche tempo dopo, quando Erika aveva già cinque o sei anni, e lei ancora non si dava pace. Erano maghi, sensitivi, chiromanti, sciamani. Erano uomini e donne senza età, di etnia nebulosa, che parlavano l’italiano con un lieve accento straniero. Le accoglievamo in stanze che odoravano di incenso, con molte candele. Guardavano Erika, la sfioravano, le stringevano forte la mano sinistra, le passavano una bacchetta sulla spalla destra. La madre ascoltava poi parlava a sua volta, anche lei bisbigliando, come i suoi interlocutori; spesso piangeva e allora quelle persone le passavano un fazzoletto di stoffa con cui, pensava Erika, si erano già asciugati le lacrime in molti.

“Mai come mia madre” Erika lo aveva detto, rivolgendosi per l’ultima volta solo a sé stessa, la mattina del suo ventiduesimo compleanno, quando aveva visto la madre affacciarsi alla porta della sua camera con gli occhi lucidi e dei fogli in mano. “Dobbiamo pensarci per tempo” – aveva esclamato la donna. Le avevano sempre detto tutti che non era colpa sua, ma lei non ci aveva mai creduto – “Adesso dici che non vuoi avere figli, ma magari cambierai idea. Sei cresciuta in un soffio, presto troverai un ragazzo che ti piace. Lo dico per te, devi fare delle analisi. Non vorrei mai che tu rivivessi il mio inferno”. Si riferiva al suo difetto, ma non lo nominava mai. Era ottobre e le foglie sugli alberi erano del colore del sangue. Erika alzò gli occhi dal romanzo che stava leggendo. La madre le fece pena. Si chiese quando aveva iniziato a essere così infelice. Forse quando lei era venuta al mondo, con il suo difetto. Sulle prime non gliel’avevano nemmeno fatta vedere. Le avevano detto che era una bambina, che stava bene, e in un attimo le erano scorse davanti agli occhi immagini di trecce dal colore biondo ramato, come i suoi capelli, da sciogliere alla sera, prima di andare a dormire, nella penombra di una lampada di stoffa pesante, segreti bisbigliati all’orecchio, passeggiate fatte mano nella mano con una sé stessa in miniatura. Era giovane allora, la madre, e non particolarmente segnata dalla vita: quel giorno aveva ancora potuto sognare. Poi un medico le aveva parlato, le aveva detto che la neonata aveva un difetto. Ma l’uomo aveva gli occhi troppo azzurri, il sorriso troppo sincero per portare cattive notizie. Così, la madre non si era preoccupata. Sul mobile della stanza di ospedale, di fronte al suo letto, c’era un enorme mazzo di rose rosse. Quelle rose, l’odore intenso che sprigionavano, la musica classica che si spandeva per la stanza grazie a un altoparlante posizionato in un angolo del soffitto, il raggio di sole pallido che penetrava dalla finestra socchiusa e disegnava una linea diagonale sul pavimento di linoleum verde, formavano, nella mente della madre, l’ultimo momento gioioso della sua vita. Poi era entrata nella stanza una donna. Era possibile che fosse vestita di nero? Nel suo ricordo, la madre l’avrebbe rivista così. Le aveva portato una bambina avvolta in un asciugamano, rossa per lo sforzo della nascita e forse per la vergogna di essere difettosa; la madre sulle prime non si era accorta di nulla, l’aveva presa in braccio e l’aveva stretta a sé. Poi aveva visto il suo difetto: all’inizio non ci aveva creduto. Aveva pensato che i suoi occhi la ingannassero. Allora aveva toccato, e alle sue mani aveva prestato fede. In quello stesso istante, era sprofondata in un pozzo profondo dal quale non sarebbe riemersa mai più.

La sera del suo ventiduesimo compleanno, Erika capì, all’improvviso, di essere grande abbastanza per smettere di essere figlia. Indossò il cappotto più lungo che aveva e si diresse verso la porta di casa. Intravide la sala da pranzo: erano rimasti sulla tavola i piatti sporchi, una bottiglia di vetro verde e le due candeline a forma di 2. “Mai come mia madre” disse andandosene, e finalmente non si rivolse più solo a sé stessa. Il suo grido di addio fece vibrare l’aria come un vento carico di speranza e di libertà. Aveva con sé una sacca di stoffa con dentro un po’ di soldi, qualche libro e pochi abiti di ricambio. Guardò il vuoto nella manica del suo cappotto, dal gomito destro in giù. Lo soppesò. Per la prima volta, le parve leggero, sopportabile. Erika era triste. Ma adesso per lei l’aria odorava di cibo buono cotto alla griglia e accoglieva le luci variopinte di un futuro possibile.

]]>
Tutto quello che avreste voluto sapere sullo Struthionidae e non avete mai osato chiedere https://www.carmillaonline.com/2024/01/14/tutto-quello-che-avreste-voluto-sapere-sullo-struthionidae-e-non-avete-mai-osato-chiedere/ Sun, 14 Jan 2024 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80692 di Giovanni Iozzoli

Proviamo oggi ad occuparci di una legittima curiosità che interessa molti lettori di Carmilla: come può essere gestita concretamente la convivenza tra l’essere umano e lo struzzo? E segnatamente: cosa comporta allevare lo struzzo? Attenzione, non stiamo evocando lo struzzo come figura metaforica – quello che nasconde la testa sotto la sabbia, etc etc – ma parliamo proprio dello struzzo comune, il simpatico pennuto che a molti è capitato di ammirare al circo o al giardino zoologico.

Sfatiamo subito un equivoco assai comune che molti di noi si portano dietro sin dall’infanzia. L’antagonista di Willi Coyote non è [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Proviamo oggi ad occuparci di una legittima curiosità che interessa molti lettori di Carmilla: come può essere gestita concretamente la convivenza tra l’essere umano e lo struzzo? E segnatamente: cosa comporta allevare lo struzzo? Attenzione, non stiamo evocando lo struzzo come figura metaforica – quello che nasconde la testa sotto la sabbia, etc etc – ma parliamo proprio dello struzzo comune, il simpatico pennuto che a molti è capitato di ammirare al circo o al giardino zoologico.

Sfatiamo subito un equivoco assai comune che molti di noi si portano dietro sin dall’infanzia. L’antagonista di Willi Coyote non è “uno struzzo” ma un Geococcyx californianus, un piccolo velocissimo bipede della famiglia dei Cuculiformi . Ci chiarisce questo punto essenziale il signor L.L. (per ragioni di riservatezza preferisce l’anonimato), il quale può essere considerato un autentico esperto di struzzi. Infatti, per circa un decennio ha gestito un allevamento di questi superbi animali e ne conosce a menadito virtù e difetti.

D. Allora signor L., come è nata questa sua intrigante passione per lo struzzo?

R. Boh… non è che c’avessi una grande passione. E’ mio padre che si era incaponito, è partito lui con questa cosa dell’allevamento e ha coinvolto anche me. Io non è che mi fossi mai interessato agli struzzi. Mai, prima.

D. Allevamento, va bene. Ma perché proprio di struzzi, ci domandiamo.

R. Mio padre era così, non ce la faceva a stare fermo, aveva gestito bar, macellerie, ristorazione, si inventava di tutto. Un giorno aveva visto un suo amico, su nel rovigotto, mi pare, che c’aveva due struzzi in campagna e si invaghì di ‘ste beste. Gli dissero che l’affare era buono e lui ci si buttò a capofitto.

D: Che anno era?

R. Mi pare il ’97. Giravano soldi, lavoro, era prima dell’euro, altri tempi. Comprammo un bel pezzo di terra in campagna, tra Modena e Bologna, cinque ettari, che dovevamo farci i gabbiozzi in cemento, tutto un bel progettino. Poi, non mi ricordo bene, arrivò una stracciacazzi di un’associazione… boh… insomma ci bloccò i lavori, perché eravamo proprio al confine col parco naturalistico, una cosa del genere. Così ci siamo limitati alle strutture in legno, perché comunque c’è bisogno di un bel recinto alto e tosto, di ambienti coperti per la riproduzione; insomma, un investimento della Madonna.

D. Ma guardiamo l’aspetto umano: quando suo padre le disse che voleva cominciare ad allevare struzzi, lei che reazione ha avuto?

R. Boh. Niente di particolare. Noi siamo di campagna. Struzzi o altro, allevi quello che c’è. Mi fidavo di mio padre, perché lui c’aveva il pallino per queste cose.

D. All’epoca lei dove lavorava?

R: Ma non facevo niente, ero tornato da poco dalla Thailandia, dove ero stato ospite di amici, perché cinque o sei mesi prima mi ero ribaltato con il muletto e mi ero rotto una gamba, ero andato in causa con la Cooperativa dove lavoravo e così mi ero preso una vacanza lunga, tanto all’epoca di lavoro ce n’era in abbondanza. Quando sono tornato non avevo niente di definito per le mani e allora mi sono messo ad aiutare mio padre nell’allevamento.

D. Quindi, preparato il terreno e le strutture, suo padre ha fatto arrivare i primi esemplari?

R. Si, prima sono arrivati 20 pulcinotti.

D. Sono come i pulcini normali?

R. Teniamo presente che nascono da uova che pesano anche un chilo e mezzo. Sono già grossi come gallinelle. In un anno diventano 100 kg.

D. Azz… e che gli davate da mangiare?

R. Erba medica, fieno, certi mangimi speciali che comprava mio padre. Ma crescono che è uno spettacolo. Che poi sono meravigliosi, hanno tutto un piumaggio tipo ghepardato multicolore. E beccano in continuazione. Come il cane annusa, lo struzzo becca, fin da pulcino. Sono fatti così.

D. Quindi un adulto diventa 100 Kg?

R. Si, sono bestie che possono superare i 2 metri di altezza e pesare 100 anche 150 kg, però da vivi. La carne utile è circa il 35%. Perché non bisogna considerare il piumaggio. Si usano coscia, sottocoscia, tutta quella zona lì; il petto poco, lì hanno poca carne. Ma in generale lo struzzo è utile perché non si butta via niente, anche meglio del maiale: la pelle è pregiata, perché quando lo spiumi e restano i peduncoli dove prima c’erano le piume, viene fuori un specie di decorazione naturale già pronta per farci borsette, portafogli etc; le piume le usi per tutto, quelle belle bianche, sotto le ali, ci fai i cappelli delle majorettes; persino i gusci delle uova non fecondate le vendevamo agli artigiani a 7/8 mila lire: li svuotavamo, li pulivamo e loro li pitturavano o ci facevano dell’oggettistica.

D. Questa parte un po’ truce, che può urtare la sensibilità del lettore di Carmilla, che generalmente è di condizione urbana e di inclinazione raffinata, credo che non la riporteremo. Non vorrei urtare sensibilità diffuse.

R. Vabbé, che lo facevamo a fare l’allevamento, per tenerli come animali da compagnia? Chiaro che li vendevamo ai macellatori. Qualcuno lo macellavamo anche noi, per uso interno. Ma è come l’agnello, la gallina o tutte le altre bestie. Non è che lo struzzo sia diverso. Il contadino come ammazza il maiale, ammazza anche lo struzzo. Se gli dai la giraffa, per dire, ammazza pure quella.

D. Torniamo al principio. Il primo impatto con la nobile bestia, come fu?

R. E chi l’aveva mai visto uno struzzo adulto? I pulcini erano carini etc, ma poi arrivarono gli adulti per la riproduzione, quattro femmine e un maschio. Cazzo che bestie. Rimasi un po’ a bocca aperta. Erano razza Afrikan Black. In corsa potevano arrivare anche a 2 metri e mezzo di altezza. Ce li scaricarono nel recinto e da quel momento si doveva iniziare a gestirli.

D. Il trasporto fu facile, sono docili?

R. Si, abbastanza, perché gli infilano una calza sulla testa e loro si mettono tranquilli. Perché non sono mica bestie da scherzarci. Di cervello è come una gallina, solo che è una gallina che il suo garrese ti arriva al petto. Sai com’è, un bestione così se ti si fionda di corsa addosso, con i suoi 100 / 120 kg, facendo 50 mt in 5 secondi, è come andare sotto a un camion. Ti possono accoppare.

D. Ti ammazzano a colpi di becco?

R. No, non è il becco la parte pericolosa; sono le zampe, che se ti danno un calcio, hanno due unghioni grossi come una mano umana che ti sventrano.

D. E lei all’inizio era preoccupato, suppongo.

R. Sempre, bisognava starci attento. Il primo giorno gli abbiamo tolto la calza e hanno cominciato a correre di qua e di là, per sfogarsi. Avevano un recinto lungo 50 metri a disposizione. Il momento pericoloso era quando andavi a prendergli le uova, là si incazzavano; io giravo sempre con un bastone lungo due metri, li tenevo lontani. Raccolte le uova si vedeva se erano fecondate oppure no. Quelle fecondate le mettevamo in incubatrice e facevamo nascere il pulcino e con le altre ci facevi una frittatina, che con un uovo solo ci potevano mangiare quindici persone. Non sono animali aggressivi. Fino ai 10 mesi sono innocui; poi dopo bisogna cominciare a stare attenti. Sono anche animali ingenui; sono attratti dalle cose lucenti, orologi, braccialetti, vanno subito a beccarli, per provare a prenderli…

D. Come le gazze!

R. Boh. Si, una specie. Ma hanno meno malizia.

D. Com’è considerata la carne di struzzo?

R. E’ magnifica. Secondo me la migliore in giro. Perché a bassissimo contenuto di grassi. In Svizzera la danno ai vecchi nelle case di riposo, per il colesterolo e quelle cose lì. Veramente una bella carne rossa pregiata. Solo che qua faceva fatica ad attecchire. All’epoca finì anche in qualche punto vendita Coop. Però costava troppo, anche 18.000 lire al Kg. Ci potevi fare di tutto, il filetto con l’aceto buonissimo; lo spezzatino, il ragù. Pero qui abbiamo dei limiti mentali, parliamoci chiaro: questa è la terra del maiale, la gente è fissata. Qua neanche il tacchino ha mai veramente messo radici. C’è molto conservatorismo, non li smuovi, gli proponi una cosa nuova, anche migliore, ma loro sono fissati col prosciutto, la coppa e il cotechino. Pensa che noi alla carne di struzzo aggiungevamo il grasso di maiale e ci facevamo anche il salame artigianale, perché la gente è abituata a quella pesantezza lì, una carne con lo 0,2% dei grassi non dava soddisfazione.

D. Bisognerebbe denunciare, queste attitudini conservatrici e retrograde. Bisogna lottare più efficacemente contro il colesterolo. Ma mi spieghi bene come avviene la macellazione, evitando per favore descrizioni crude o termini truci.

R. Mah, bisogna darci una bella botta in testa col cricco. O anche con un martelletto. Perché loro sulla testina (che hanno una testina così piccola piccola, come certe persone) hanno una roba molliccia, tipo una membrana. Se li becchi là, con un colpo li accoppi. Noi di solito non macellavamo, li vendevamo vivi ai macellatori. Qualcuno ogni tanto lo ammazzavamo noi, internamente, così, per uso domestico.

D. E loro grandi e grossi si facevano ammazzare così facilmente?

R. Mica era facile. Io avevo un bastone a uncino. Dovevi prendere la bestia per il collo, atterrarla, avere già la calza pronta in mano. Poi appena morta gli facevi un taglio sulla orta e sotto al collo, per far uscire il…

D. Va bene, va bene, sorvoliamo sui dettagli macabri. Piuttosto, Amore e Morte: parliamo dell’accoppiamento. Anche qui, magari, privilegiando gli aspetti meno volgari…

R. Ah, quello è uno spettacolo. Perché il maschio c’ha un bagaglio di 30, 35 centimetri, tutto viscido, che sembra un serpentone. E’ entroflesso, cioè è nascosto da qualche parte là sotto, nell’addome, e viene fuori solo quando serve. Come il gallo, per dire, e tutti i pennuti.

D. Ah, anche il Buddha, si legge nelle antiche scritture, avesse questa caratteristica fisica. Che poi a che serve? Sarà pure fastidioso. Lei è stato in Thailandia, aveva sentito questa cosa del Buddha?

R. No. Comunque il maschio quando è pronto monta la femmina da dietro e in pochi secondi la feconda. Ne può sistemare anche quattro o cinque. Zac zac. Fa presto.

D. Certo questa è la meccanica (che magari al lettore di Carmilla non interessa), ma io pensavo a qualcosa di più curioso o aneddotico, un rituale di accoppiamento, tipo il pavone e la pavonessa.

R. Ah si c’è anche quello. Lo fanno. Quando il maschio è pronto, che ha voglia, comincia una specie di corteggiamento, non so come dire, cioè si mette a fare un balletto assurdo, si abbassa con tutte le ali aperte, poi gonfia il collo che sembra stia per scoppiare ed emette un suono tipo: UUUUHH, cioè proprio come il suono di una nave, ma forte, proprio tipo sirena. Io la prima volta che l’ho visto ho pensato: oddio, questo sta per scoppiare, perché il collo gli era diventato tipo il doppio di diametro e poi oscillava tutto con le ali aperte. Quello è il corteggiamento. Poi si buttano uno addosso all’altro e diventa una bella massa da 200 Kg e passa.

D. Poi com’è andata con l’allevamento?

R. Mah… la resa non era granché… siamo arrivati ad avere 120 esemplari, ma il mercato non tirava. Poi si è ammalato mio padre e abbiamo venduto le bestie e tutto.

D. Tutto qua?

R. Tutto qua.

D. Ma non è che sia venuto fuori tutto questo materiale interessante, sugli struzzi. Alla fine è un normale allevamento, come avere i polli; solo che sono polli giganti.

R. Eh… questo è… che ti aspettavi?

D. L’accoppiamento l’abbiamo detto…le piume…le uova…basta? Speravo in qualche dettaglio pittoresco, letterario.

R. Letterario? Quelli sono struzzi. Che letterario?

D. Va bé. Tu che fai adesso?

R. Lavoro in fabbrica. Una multinazionale francese. Macchine di movimentazione e sollevamento, autogru. Roba grossa. Due stabilimenti. Brevetti internazionali.

D. Quanti siete?

R. 600 persone, metà produzione, metà area tecnica commerciale.

D. Tu che fai?

R. Sto sulla linea di montaggio, coordino le postazioni perché ormai sono vecchio del mestiere. Io, modestamente, se mi dai la scocca nuda, ti saprei montare da solo tutta l’autogru, dalla parte idraulica fino ai collegamenti elettrici. Poi non ho fatto una gran carriera perché sono un delegato cacacazzi, ho sempre da dire la mia e non mi faccio comandare, specie sulla sicurezza.

D. Com’è il rapporto con la proprietà?

R. Mah, dipende. Va a periodi. Noi come RSU facciamo sempre il nostro dovere, con la contrattazione e tutto. Poi la provincia italiana si sa com’è: sei dentro una multinazionale ma magari ti trovi il direttore dello stabilimento la sera in compagnia nello stesso bar e quindi ci sono anche i rapporti personali e quelle cose lì.

D. E’ cambiato il clima in fabbrica?

R. Cazzo se è cambiato. E’ peggiorato tutto. Adesso c’è una frammentazione che fa schifo. Fino al 2008 eravamo più uniti; quando si scioperava uscivano fuori anche i capetti. Tieni presente che ormai c’è un 40% di interinali, poi ci sono quelli in staff leasing, la cooperativa che ha in appalto la logistica, i tirocinanti. Siamo tutti frammentati. Anche con trattamenti individuali, premialità ai singoli, avanzamenti di carriera basati sulla fedeltà, più che sul merito. Dentro questa divisione noi delegati facciamo quello che possiamo, teniamo i collegamenti, ma sotto gli stessi capannoni ci sono cinque o sei situazioni contrattuali diverse. Adesso stiamo cercando di far avere l’accesso alla mensa interna anche a quelli della cooperativa dei facchini che ha in appalto il magazzino, così almeno mangiamo insieme. Ma è complicato. Poi l’anno sta cominciando male. Ci sono esuberi sulle linee. Parecchi interinali non verranno confermati.

D. Devo trovare una conclusione, che per coerenza del pezzo, dentro bisogna metterci sto cazzo di struzzo: che scrivo? Una cosa tipo: “in fabbrica molti lavoratori sono come gli struzzi che infilano la testa sotto la sabbia” – così, tanto per fare un finale carino?

R. No, non è vera quella cosa.

D. Dei lavoratori, dici?

R. No degli struzzi, non è vero che infilano la testa sotto terra e stanno col culo in aria. Mai visti in 10 anni, fare una cosa simile.

D. A posto. Chiudiamo così, che è meglio.

]]>
La bottega dell’intagliatore https://www.carmillaonline.com/2023/12/21/la-bottega-dellintagliatore-2/ Thu, 21 Dec 2023 22:14:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80511 di Cesare Battisti

Se avesse saputo che non sarebbe più tornato, avrebbe scelto una ad una le parole prima di partire. Le avrebbe cercate nel dizionario dell’amore e fatte stampare a lettere dorate. Avrebbe atteso un istante in più sulla soglia, per dire a suo figlio io ti amo come non l’aveva detto mai. Invece di andarsene così per strada, senza sapere neppure dove andava. Nel cuore il peso del silenzio, alto in cielo un sole indifferente.

Ci fu un momento in cui credette di aver dimenticato l’essenziale. Esitò davanti alla bottega dell’intagliatore. Sembrava volesse tornare indietro, si tastò le tasche, niente [...]]]> di Cesare Battisti

Se avesse saputo che non sarebbe più tornato, avrebbe scelto una ad una le parole prima di partire. Le avrebbe cercate nel dizionario dell’amore e fatte stampare a lettere dorate. Avrebbe atteso un istante in più sulla soglia, per dire a suo figlio io ti amo come non l’aveva detto mai. Invece di andarsene così per strada, senza sapere neppure dove andava. Nel cuore il peso del silenzio, alto in cielo un sole indifferente.

Ci fu un momento in cui credette di aver dimenticato l’essenziale. Esitò davanti alla bottega dell’intagliatore. Sembrava volesse tornare indietro, si tastò le tasche, niente che avesse potuto lasciare in casa. Riprese allora a camminare, deciso a non pensare più alle parole.

Non ditemi quello che faccio, non lo voglio sapere. Così aveva risposto il piccolo ad un rimprovero, il padre non aveva saputo più che dire. Di solito, le repliche migliori vengono sempre dopo. Ma non quando i passi sul selciato hanno smesso di far rumore. O con un sole appena nato e già pronto a morire. Se si fosse ogni volta interrogato su quello che stava facendo, non avrebbe trovato una ragione buona. Egli sapeva solo che doveva farlo. Così agiscono anche i bambini, ma nei loro occhi la vita arde, sfavilla la determinazione.

Se l’avesse saputo, che quello non era un giorno qualunque, ma il primo in un mondo in cui le anime non si vendono più al diavolo ma alla regola. Se suo figlio glielo avesse detto chiaro, con parole che capirebbe anche un bambino, egli avrebbe lasciato in casa il cuore e consegnato al carcere solo la mente ottusa. Ed ora non starebbe fissando un muro, come fosse la vetrina dell’intagliatore, che il bimbo non si stancava mai di ammirare.

Non starebbe accarezzando le macchie brune, né scambiando sospiri con parole. Quelle che non seppe cogliere quel mattino, nel giardino rigoglioso di suo figlio. Quando il tempo non si ammazzava con l’inganno, chiedendo ai muri brontoloni perché solo gli eroi vanno in paradiso. E sentirsi dire che è per penetrare il cuore della gente, che bisogna indossare il costume buono.

Convincersi che l’urlo del silenzio non sia dolore, ma un grido di amore e di speranza. Decorare il mondo dei sospiri con sorrisi di bimbi allevati negli anni di prigione. O confondere il rumore di passi sempre uguali con voci capaci di attraversare il mare. Non ascoltare più i penitenti, le loro litanie del passato. Accaniti a rinnegare l’evidenza che il proibito è sempre il meglio che ci è dato. Ciò che fa d’ogni adulto un condannato.

Suo figlio tutto questo lo ignora e aspetta in casa che il cielo si ricongiunga con la terra. Implora luce per le menti chiuse e un po’ d’amore per le ombre orfane di sole. Prega Dio, che fulmini le guerre. E quando la sera per il giorno è il miglior fine, il prigioniero si raccoglie e vola. Va da suo figlio che lo aspetta, davanti alla bottega dell’intagliatore.

 

(Illustrazione di Nico Maccentelli)

]]>