Putin – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Dec 2025 06:13:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 31 – Le guerre del Nord e il futuro degli equilibri geopolitici ed economici mondiali https://www.carmillaonline.com/2025/12/10/il-nuovo-disordine-mondiale-31-le-guerre-del-nord-e-il-futuro-degli-equilibri-geopolitici-ed-economici-mondiali/ Wed, 10 Dec 2025 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91754 di Sandro Moiso

Mary Thompson-Jones, La legge del Nord. La conquista dell’artico e il nuovo dominio mondiale, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 340, 22 euro

Il titolo scelto dalla Luiss University Press per la traduzione italiana della ricerca di Mary Thompson-Jones, pubblicata negli Stati Uniti con il titolo America in the Arctic: Foreign Policy and Competition in the Melting North, evoca più un romanzo di Jack London che non un saggio di geopolitica quale in effetti è. A ben guardare, però, lo scontro apertosi ormai da anni, per il controllo delle rotte artiche e delle materie prime custodite dal [...]]]> di Sandro Moiso

Mary Thompson-Jones, La legge del Nord. La conquista dell’artico e il nuovo dominio mondiale, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 340, 22 euro

Il titolo scelto dalla Luiss University Press per la traduzione italiana della ricerca di Mary Thompson-Jones, pubblicata negli Stati Uniti con il titolo America in the Arctic: Foreign Policy and Competition in the Melting North, evoca più un romanzo di Jack London che non un saggio di geopolitica quale in effetti è. A ben guardare, però, lo scontro apertosi ormai da anni, per il controllo delle rotte artiche e delle materie prime custodite dal mare di ghiaccio che corrisponde al nome di Artico ricorda per più di un motivo la saga della corsa all’oro del Grande Nord che l’autore americano narrò oppure utilizzò come sfondo in molti dei suoi romanzi e racconti.

Un Nord gelido, al limite della sopravvivenza umana, che nasconde grandi tesori verso cui uomini (un tempo) e governi avidi di ricchezze e risorse (in quello attuale) indirizzano i propri sforzi e la propria forza muscolare oppure militare al fine di appropriarsene. In questo facilitati e stimolati, oggi, dal generale riscaldamento climatico che ha definitivamente reso possibili tali iniziative o perlomeno i tentativi di realizzarle.

Infatti, secondo le più recenti analisi del Copernicus Climate Change Service, il 2025 è destinato a classificarsi come il secondo anno più caldo mai registrato insieme al 2023, subito dopo il 2024. Analisi che hanno evidenziato come la media triennale 2023-2025 stia per superare la soglia critica di 1,5 gradi. Un risultato che non rappresenta un semplice dato statistico, ma la conferma di un riscaldamento globale sempre più veloce. Cosa che ha contribuito a far rilevare come il mese di novembre abbia visto registrare anomalie di caldo particolarmente marcate in Canada settentrionale e lungo l’Oceano Artico, dove il ghiaccio marino artico ha mostrato una riduzione del 12% rispetto alla media di riferimento, il secondo valore più basso mai osservato per lo stesso mese1.

Così i buoni e i cattivi di oggi, nel nuovo grande romanzo della conquista del Nord polare, non sono più i desperados, i nativi americani, i violenti e i famelici, ma spesso sfortunati, cercatori d’oro che hanno animato le pagine e le vicende vissute in prima persona e poi narrate romanzescamente da London tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. No, i protagonisti di La legge del Nord sono prima di tutto gli Stati Uniti con i loro attuali interessi globali insieme a Canada, Islanda, Groenlandia, Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia, Russia e, in una più ampia e dinamica prospettiva, la Cina.

Tutti stati che si affacciano sull’Artico e la cui estensione territoriale potrebbe definire le dimensioni delle fette di torta, proporzionali alle parti di territorio di ognuno degli stessi compreso al di là del circolo polare artico, destinate a spartire le ricchezze di quel continente. E anche se la Cina non confina con l’area interessata, sicuramente è enormemente interessata alle nuove rotte marittime che il riscaldamento globale già permette e sempre più permetterà di aprire nel prossimo futuro.

Rotte che abbrevieranno di parecchie settimane il trasporto delle merci da un capo all’altro del mondo, così come già è successo con l’utilizzo delle rotte tracciate sul settentrione del pianeta per il traffico aereo destinato al trasporto di merci e passeggeri. Una autentica rivoluzione marittima che potrebbe avere gli stessi effetti sull’Europa, in particolare mediterranea, che già ebbe quasi sei secoli fa l’apertura delle rotte atlantiche per i traffici e i commerci intercontinentali.

L’autrice, Mary Thompson-Jones, è tra le massime esperte mondiali di sicurezza nazionale, con esperienza nel campo della marina militare e della geopolitica delle rotte oceaniche. Già Foreign Service Officer ha ricevuto incarichi diplomatici in Canada, Guatemala e Spagna. Professoressa in Sicurezza nazionale presso l’U.S. Naval War College, e il testo appena pubblicato dalla Luiss University Press è il suo primo libro tradotto in italiano.

Il curriculum professionale dell’autrice indica già di per sé che lo sguardo sulla questione è impostato a partire dagli interessi nazionali, economici e militari, degli USA, ma questo non inficia affatto la lettura che la relatrice dà delle forze e delle contraddizioni in atto in quell’area che, da marginale quale poteva essere considerata dalla politica internazionale, si è trasformata in uno dei possibili epicentri dei conflitti, anche militari, a venire.

Infatti, il rapido scioglimento dei ghiacci artici sta riscrivendo la geografia del potere globale. Sotto questo punto di vista il Grande Nord non è più quello remoto e impenetrabile dei romanzi d’avventura, ma la nuova frontiera della geopolitica contemporanea: una scacchiera dove si intrecciano rotte commerciali, ambizioni militari e crisi climatica. Il disgelo impone una diversa geografia del pianeta, apre passaggi tra continenti e porta alla luce giacimenti di gas e terre rare.

Non è certo un caso che il primo atto strategico del Cremlino dopo l’inizio della guerra in Ucraina nel 2022 sia stato il varo della nuova «dottrina marittima» del luglio di quell’anno, il cui punto essenziale non riguardava affatto il Mar Nero, ma l’Artico. Senza quel testo, gli obiettivi che esso esplicita e i rapporti con la Cina che implica, sarebbe più difficile comprendere le insistenti pretese di Donald Trump sulla Groenlandia.

La posta in gioco commerciale è potenzialmente immensa, considerato che ancora nel 2018 si pensava che la via artica aperta dal cambio climatico potesse essere navigabile, al massimo, tre o quattro mesi all’anno, mentre l’accelerarsi del riscaldamento globale permette a Mosca, che ha la più potente flotta di rompighiaccio al mondo, di puntare a tenere quella via sempre aperta.

Per questo Pechino ora mira a consolidare nella regione la relazione con Mosca, considerato che già dal 2018 un «Libro bianco» del governo definisce la Cina «uno Stato quasi-artico» e un’«importante parte in causa» nell’area. L’obiettivo è ottenere dal Cremlino un diritto esclusivo di transito, condiviso solo con i russi e in cambio di contenute commissioni, per trasportare prodotti cinesi verso l’Europa e l’Atlantico a costi più che competitivi nei confronti di tutti gli altri concorrenti commerciali.

Secondo il linguaggio ufficiale del governo cinese si aprirebbe così una «Via della Seta polare» fondata sul rapporto privilegiato fra Xi Jinping e Vladimir Putin. Uno dei vantaggi per la grande potenza asiatica, peraltro, sarebbe in direzione opposta: avere una rotta nordica completamente navigabile significa, per la Repubblica popolare, poter portare gas liquefatto e greggio russi verso Shanghai, Shenzhen o Hong Kong senza temere l’eventuale strangolamento occidentale all’altezza dello Stretto di Malacca. Del resto, era stato proprio il blocco anglo-americano di quello snodo nell’Asia del Sud-Est a indebolire fatalmente il Giappone nella Seconda guerra mondiale2.

Il confine tra cooperazione e conflitto è più sottile del ghiaccio che si frantuma e Thompson-Jones andando oltre la cronaca, intrecciando mito e realtà in un fragile equilibrio tra sicurezza, diplomazia e giustizia climatica, fa sì che La legge del Nord dimostri come, tra i ghiacci che si ritirano, si stia decidendo il vero futuro del dominio mondiale.

Questa impostazione permette di interpretare meglio le affermazioni del «Wall Street Journal» che vede gli accordi possibili tra Trump e Putin sulla questione ucraina ruotare, oltre che sul controllo dei giacimenti minerari ucraini, anche sullo sfruttamento dei giacimenti situati in area polare3, ma anche di andare al di là delle semplicistiche letture filo-europeistiche o monotonamente antimperialiste antiamericane fatte a proposito delle “minacce” trumpiane alla Groenlandia e per il suo controllo. Mentre, allo stesso tempo, può anche aiutare a comprendere la centralità che i paesi dell’Europa del Nord hanno assunto in ambito Nato e nello svolgimento del conflitto ucraino.

In realtà però, per quanto riguarda gli spazi e le rotte marittime, si tratta di questioni che risalgono alle origini delle società imperiali, per le quali il dominio dei mari ha sempre rappresentato un enorme vantaggio, tanto da far parlare gli storici di autentiche talassocrazie a proposito di quelle come Atene, Roma, Portogallo, Spagna, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti e magari domani la Cina, considerato il numero e la qualità delle portaerei già varate oppure messe in cantiere dalla marina militare della Repubblica popolare, che in epoche successive hanno fondato e sviluppato la propria espansione e la propria potenza, sia economica che militare, sul controllo e il dominio, prima, del Mediterraneo e, successivamente, degli oceani.

Una questione che fin dagli inizi del Novecento e, successivamente, per tutto il XX secolo si era spesso identificata nella divisione principale tra due grandi aree geopolitiche del continente euroasiatico: l’Heartland (letteralmente: il Cuore della Terra) e Rimland (la fascia marittima e costiera che circonda l’Eurasia e che si divide in tre zone: zona della costa europea, zona del Medio Oriente e zona asiatica).

L’ideatore del concetto di Heartland era stato un generale britannico, Sir Halford Mackinder, che lo sottopose alla Royal Geographical Society nel 1904. Il termine derivava dal fatto che tale vastissimo territorio era delimitato ad ovest dal Volga, ad est dal Fiume Azzurro, a nord dall’Artico e a sud dalle cime più occidentali dell’Himalaya. Per Mackinder, che basava la sua teoria sulla contrapposizione tra mare e terra, l’Heartland costituiva il “cuore” di tutte le civiltà di terra, in quanto logisticamente inavvicinabile da qualunque talassocrazia.

A “coglierne” in pieno il significato politico fu il generale, geografo e politologo tedesco Karl Haushofer che sottolineò, a partire dagli anni ’20 nella rivista “Zeitschrift für Geopolitik”, come le potenze marittime (la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti) avessero costruito una sorta di “anello” per soffocare le potenze continentali. A suo avviso le potenze marittime si ergevano come custodi dello status quo non solo attraverso il colonialismo inglese e francese, ma anche tramite l’ideologia wilsoniana che, attraverso il diritto all’autodeterminazione dei popoli, aveva contribuito allo smantellamento dell’impero austro-ungarico e del Reich guglielmino e alla creazione di una serie di stati cuscinetto destinati a contenere il risorgere della potenza tedesca e l’espansione bolscevica in Europa, compromettendo seriamente “il diritto classico dei popoli”. Entrambi i temi, quello dell’inevitabile scontro tra potenze marittime e terrestri e quello del soffocamento dello jus publicum europeo, sarebbero poi stati ripresi da Carl Schmitt, giurista e filosofo tedesco accusato di essere vicino al regime hitleriano, negli anni precedenti e successivi al secondo conflitto mondiale4.

Il concetto di Rimland invece è frutto delle teorie elaborate da Alfred Thayer Mahan (1840 – 1914), che nel 1890, con il suo studio The Influence of Sea Power in History, definì la dottrina marittima degli Stati Uniti andando oltre la Dottrina di Monroe che, nel 1823, aveva già delineato una prima area di interesse statunitense su tutto il continente americano dal Canada alla Terra del Fuoco. Tale teoria sarebbe poi stata ripresa ed impugnata con forza da Nicholas Spykman che, pur essendo di origini olandesi, sarebbe diventato il padre della geopolitica statunitense.

Spykman negli anni trenta rivisitò la geopolitica così come era stata concepita da Mackinder. Contrariamente al geografo britannico, Spykman non credeva che il “cuore”, il perno geografica del mondo, come un focus economico e territoriale, dovesse essere situato nell’Europa Centrale o in Russia, ma sulle coste. Secondo lui, il centro del mondo era formato dalle regioni costiere, che egli definiva “terra di confine” o “terre anello”, il Rimland per l’appunto. Spykman pensava che gli USA, in un modo o nell’altro, dovessero controllare questo Rimland, al fine di imporsi come una superpotenza, e quindi dominare il mondo.

La teoria di Spykman fu adottata dagli strateghi americani sia nel corso del secondo conflitto mondiale che durante la Guerra Fredda e fu alla base della politica di contenimento messa in atto nei confronti dell’Unione Sovietica e nulla impedisce di cogliere come tale teoria sia valida ancora oggi per gli Stati Uniti, dal mar della Cina e dal Pacifico orientale fino al Medio Oriente attuale. Sia in chiave anti-russa e anti-cinese che anti- europea.

Ma è chiaro che la situazione cui si accennava più sopra, venutasi a creare con lo scioglimento dei ghiacci polari artici, richieda una sorta di cambio di strategia transcontinentale e marittima da parte degli USA. Motivo per cui le apparenti “smargiassate” di Donald Trump, sul Canada come 51° stato dell’Unione o dell’occupazione della Groenlandia a discapito della Danimarca, rispondono in realtà alla necessità di una nuova strategia difensiva-offensiva.

Sicuramente uno degli elementi che spingono in tale direzione è costituito dal riscaldamento delle acque settentrionali della Russia, cosa che ha fatto sì che Putin e i suoi strateghi, nonostante le sanzioni imposte ai suoi commerci successivamente all’invasione dei territori ucraini, abbiano potuto ipotizzare e sperimentare:

una rotta che permette di navigare dall’Asia all’Europa risparmiando tempo e denaro, la rotta marina artica russa (o rotta del Nord – Northern Sea Route, Nsr). La Nsr va dallo stretto di Bering al mare di Barents, per una distanza di circa 5470 km. In condizioni ottimali, riduce distanza e durata del viaggio dal 35 al 40% rispetto alla consueta rotta attraverso il canale di Suez. Per esempio, il viaggio di una nave dalla Corea del Sud alla Germania non durerebbe più 34 giorni, ma 23.
La Nsr nonè una novità. Già negli anni Ottanta dell’Ottocento, una nave finanziata da Svezia e Russia riuscì a percorrerla. Nel 1934, i sovietici vi mandarono una nave rompighiaccio, e continuarono a navigarla soprattutto per piccoli spostamenti da un avamposto artico all’altro, finché gradualmente non venne accantonata. «Con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, l’utilizzo della rotta terminò quasi del tutto, e il tonnellaggio dei carichi calò a picco, persino tra una città russa e l’altra. Oggi, con l’aumento delle temperature, ci si aspetta che la costa nord, un tempo una frontiera ghiacciata, possa diventare un’animata rotta per la navigazione5 »6.

Osservazioni dell’autrice del libro cui, però, vanno aggiunte quelle recentissime di Mauro De Bonis, giornalista esperto di Russia e paesi ex-sovietici, sul numero 10, ottobre 2025 di «Limes»:

La via d’acqua polare lavora attualmente a basso regime. Oltre alle turbolenze geopolitiche dovute al non roseo rapporto russo-occidentale, la rotta è ancora poco navigabile e quando lo è resta soggetta a regole e vincoli che scoraggiano le compagnie straniere dall’utilizzarla. La Federazione Russa, in base all’articolo 234 della convenzione Onu sul diritto del mare, ne regolamenta la navigazione visto che il percorso si snoda all’interno delle acque comprese nella propria Zona economica esclusiva. Mosca concepisce dunque la rotta come un sistema di trasporto nazionale unificato e storicamente consolidato. E ne stabilisce le regole di utilizzo, come il dovere di preavviso per navi militari di altri paesi che intendano percorrerla e conseguente autorizzazione. Oppure un sistema di tariffe a oggi meno conveniente di quello applicato a Suez ola norma sancita da Rosatom7 che costringe i cargo di passaggio a utilizzare il supporto di navi rompighiaccio. Inutile dire che Stati Uniti e satelliti europei rifiutano la lettura russa della gestione artica, e che le compagnie di navigazione occidentali ne trascurano per il momento la convenienza.
Così, a solcare il tragitto artico, oltre alle russe, restano le navi cinesi, che nel 2024 hanno raddoppiato la presenza e rappresentato il 95% dei carichi in transito. L’anno passato ha registrtao 37,9 milioni di tonnellate di merci trasportate lungo quelle acque polari, tonnellate che dovranno diventare 109 entro il 2030 secondo quanto stabilito dal Cremlino. Obiettivo ambizioso ma raggiungibile, almeno stando ai dati snocciolati da Maksim Kulinko, della direzione rotte marittime di Rosatom, sicuro che proprio entro fine decennio il trasporto attraverso itinerari artici diventerà consuetudine, con un tempo medio di transito garantito per l’intero arco dell’anno di soli dieci giorni. A salvaguardia di questo tesoro d’acqua, della sovranità sulla Zona economica esclusiva, dei suoi interessi economici, delle ricchezze minerarie e aree contese nella regione, daMosca si procede a un rafforzamento della capacità militare presente lungo la rotta e al necessario aumento della flotta di navi rompighiaccio8.

Alla luce di quanto fin qui scritto, diventa più facile individuare alcuni dei motivi che hanno fatto sì che l’incontro ufficiale tra Trump e Putin sia avvenuto il 15 agosto 2025 nella base militare di Elmendorf-Richardson ad Anchorage, in Alaska, e questo rende anche evidente come tale incontro al suo interno abbia obbligatoriamente affrontato temi che sono andati ben al di là della questione ucraina. Considerata anche l’irrilevanza numerica della flotta di navi rompighiaccio statunitensi a fronte di quella già attuale russa, quasi interamente composta da navi a propulsione nucleare, e il problema rappresentato, già ora e non soltanto in prospettiva, dal traffico navale artico cinese.

Problemi e prospettive, sia di accordo che di conflitto, che sicuramente la potenza, pur declinante, statunitense preferisce trattare con il gigante russo accantonando i nani europei. Come Mara Morini che, sulle colonne del «Domani», ha sottolineato: «i due presidenti (Putin e Trump) sono in sintonia perfetta nell’accerchiare e isolare l’Unione europea senza alcuno scrupolo»9. Sintonia dovuta non solo a una scelta di Trump e del suo entourage, ma derivante dalla storia della strategia americana di condivisione di prospettive geopolitiche, militari ed economiche con la Russia, oggi, e l’Unione Sovietica, ieri, che risale, al di là delle leggende narrate dopo il 19455 e in età, altrettanto leggendaria, di “Guerra fredda”, almeno ai rapporti instauratisi tra Roosevelt e Stalin già durante il secondo conflitto mondiale, sia durante le conferenze di Teheran (1944)10 che di Yalta (1945).

Il testo edito dalla Luiss University Press si rileva, proprio per questi motivi e molti altri, una lettura utilissima; ricca di dati, osservazioni e commenti indispensabili per chiunque voglia avvicinarsi ai problemi di quello che abbiamo da tempo definito, proprio su queste pagine, il nuovo disordine mondiale.


  1. Clima, il 2025 potrà essere il secondo anno più caldo mai registrato, «Il Messaggero», 9 dicembre 2025.  

  2. F. Fubini, La «rotta artica» di Russia e Cina: ecco perché Trump vuole la Groenlandia (e a Xi va bene il climate change), «Corriere della sera», 10 gennaio 2025.  

  3. In proposito si veda, tra i tanti, A. Simoni, Il patto tra Usa e Mosca dettato solo dagli affari, «La Stampa», 3 dicembre 2025, oppure il più recente articolo di Alan Friedman, ancora su «La Stampa» del 7 dicembre 2025: Se Putin diventa il partner di Trump.  

  4. C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Edizioni Adelphi, Milano 2002 e C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum», Adelphi, Milano 1991.  

  5. K. Hille, Russia’s Arctic Obsession, “Financial Times”, 21 ottobre 201.  

  6. M. Thompson-Jones, La legge del Nord. La conquista dell’artico e il nuovo dominio mondiale, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 245-246.  

  7. Rosatom acronimo della Corporazione statale russa per l’energia atomica  

  8. M. De Bonis, Per Mosca l’Artico è russo, in Tutti contro tutti, «Limes», numero 10, ottobre 2025 pp. 66-67.  

  9. M. Morini, La strategia di Putin e Trump. Accerchiare Kiev (e pure l’Ue), «Domani», 4 dicembre 2025.  

  10. Si veda in proposito: J. Dimbleby, 1944. Finale di partita. Come Stalin vinse la guerra, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2025, in particolare il capitolo 5 – I Due Grandi, più uno, pp. 122-138.  

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Il nuovo disordine mondiale / 28: l’antifascismo europeista e la diplomazia delle armi https://www.carmillaonline.com/2025/03/26/il-nuovo-disordine-mondiale-28-lantifascismo-europeista-e-la-politica-delle-armi/ Wed, 26 Mar 2025 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87454 di Sandro Moiso

“Il nazismo è una forma di colonizzazione dell’uomo bianco sull’uomo bianco, uno choc di ritorno per gli europei colonizzatori: una civiltà che giustifica la colonizzazione […] chiama il suo Hitler, voglio dire il suo castigo. (Hitler) ha applicato all’Europa dei processi colonialisti afferenti, fino a quel momento, solo agli arabi d’Algeria, ai servi dell’India e ai negri d’Africa” (Aimé Césaire)

“L’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo” (Amadeo Bordiga)

La vera novità del nuovo giro di valzer di “The Donald 2.0” e dai suoi cavalieri dell’Apocalisse hi-tech è rappresentata dall’aggressività di carattere economico, ma [...]]]> di Sandro Moiso

“Il nazismo è una forma di colonizzazione dell’uomo bianco sull’uomo bianco, uno choc di ritorno per gli europei colonizzatori: una civiltà che giustifica la colonizzazione […] chiama il suo Hitler, voglio dire il suo castigo. (Hitler) ha applicato all’Europa dei processi colonialisti afferenti, fino a quel momento, solo agli arabi d’Algeria, ai servi dell’India e ai negri d’Africa” (Aimé Césaire)

“L’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo” (Amadeo Bordiga)

La vera novità del nuovo giro di valzer di “The Donald 2.0” e dai suoi cavalieri dell’Apocalisse hi-tech è rappresentata dall’aggressività di carattere economico, ma anche politico, nei confronti degli “alleati” europei e non solo. Da lì deriva lo smarrimento manifestato da editorialisti, opinionisti, rappresentati politici e pennivendoli di vario livello di fronte ad un’America che rischierebbe di perdere le sue prerogative di custode dell’ordine liberal-democratico occidentale e, quindi, planetario.

Ecco allora alzarsi, dal World Economic Forum di Davos o dall’aula parlamentare di Bruxelles per voce di Ursula von der Leyen così come dalle pagine di «Repubblica», del «Corriere della sera » o dalla penna di uno stagionato rappresentante dei nouveaux philosophes come Bernard-Henri Lévy, un autentico peana per l’età dell’oro perduta e di rimpianto per quando l’America, gli States, la Land of Freedom svolgevano davvero il lavoro affidatogli dal Manifest Destiny1 ovvero proteggere e sviluppare gli interessi occidentali, quindi anche europei, in tutto il mondo.

Purtroppo, però, per gli autori di questi plaidoyer per i principi e i diritti perduti, l’attuale politica americana porta alla luce ciò che ha sempre sotteso la democrazia bianca e liberale trionfante nel corso del secolo americano. Una politica di feroci disuguaglianze all’interno e all’estero, di repressione indiscriminata nei confronti di qualsiasi opposizione o resistenza, una politica imperiale sapientemente divisa tra il big stick delle armi, delle flotte e dei bombardamenti indiscriminati e la carota degli aiuti “umanitari” e dei dollari distribuiti a pioggia tra gli alleati più fedeli a garanzia dell’ordine imperiale mondiale.

Tanto da spingere la giornalista italo-marocchina Karima Moual a chiedere provocatoriamente ai politici italiani ed europei: «Come ci si sente se Trump tratta l’Europa da debole? Come ci si sente se i diritti e la giustizia sono sottomessi al business? Tutto questo lo conoscono bene e da tante tempo i popoli arabi e quelli dell’Africa»2.

Certo, c’è da dire, le posizioni espresse dall’attuale amministrazione americana, dal possibile ritiro dall’impegno militare in Europa e nella Nato fino ai dazi sui prodotti europei e canadesi (oltre che cinesi) e al disconoscimento di organizzazioni internazionali ormai fallimentari come l’ONU o il tribunale penale internazionale dell’Aja o l’estromissione dei maggiori paesi europei da qualsiasi trattativa diplomatica riguardante le sorti dell’Ucraina, non sono, come molta stampa liberaldemocratica vorrebbe far credere, frutto di decisioni improvvise e inaspettate. Piuttosto, invece, sono il frutto obbligato di una crisi dell’Occidente che ha finito, inevitabilmente, col riflettersi nel voto americano, prima, e nel sistema delle alleanze interne allo stesso ordine occidentale, dopo.

In fin dei conti la brutalità e la “mancanza di tatto” del presidente statunitense, la nuova ricerca di una nuova condivisione del governo del mondo, successivo al tanto agognato nuovo ordine mondiale ventilato fin dalla caduta del muro, e il rifiuto di coinvolgere ancora l’Europa e i suoi rappresentanti nelle politiche globali, ha almeno un pregio: quello di togliere il velo che nascondeva la finzione insita nelle roboanti dichiarazioni atlantiste e liberali sul ruolo dell’Occidente e di un’Europa sempre più evanescente sulla scena politica mondiale, dell’ONU e degli altri organismi internazionali nel governo democratico del mondo e sulla diffusione di valori e diritti liberali dati per scontati, ma scarsamente condivisi in diverse aree del globo.

Per ll destino del nostro continente il segnale era stato dato immediatamente dal fatto che Trump avesse nominato come nuovo ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Europea Andrew Puzder, ex-dirigente di alcune delle più note catene di fast food in America, come dire che il buongiorno si vede fin dalla colazione. Il tutto poi aggravato dalle dichiarazioni rilasciate, al canale televisivo Fox News, dal mediatore per la guerra in Ucraina Steve Witkoff, che ha definito i leader europei come dei sempliciotti, “tutti convinti di essere dei nuovi Churchill”3. O, ancor peggio, i giudizi espressi in una comunicazione che avrebbe dovuto rimanere riservata tra J.D. Vance e Pete Hegseth, capo del Pentagono, a proposito di un possibile intervento militare contro gli Houthi dello Yemen, portato a termine nei giorni successivi4.

Anche per questi motivi gli europei e gli europeisti si son trovati di fronte al dilemma di come sopperire al venir meno della protezione prima offerta dal fratello maggiore, optando naturalmente per un piano di riarmo che dovrebbe contribuire sia a proteggere l’Europa dalla novella barbarie asiatica di Putin che a rilanciare la stagnante economia europea. Basata principalmente su un antiquato modello guidato dal settore dell’automotive come si è già sottolineato in un precedente articolo (qui).

Forse mai come in questo periodo lo stretto legame tra crisi dell’imperialismo (economica e politica), corsa agli armamenti e guerra è stato dichiarato, da Draghi a Ursula “bomber” Layen, così apertamente e chiaramente. Passando, altrettanto, dall’inossidabile rampollo della famiglia Agnelli, John Elkann, che nei giorni scorsi ha chiarito, con uno straordinario giro di parole e di non detti, che la riconversione bellica non sarà la soluzione dei problemi dell’industria automobilistica, ma che quest’ultima, nella sua incarnazione in Stellantis, si adeguerà ai flussi di investimenti destinati a risollevarne le sorti. Ovvero che il piano ReArm Europe sarà alla fine il solo disponibile, sia nella sua forma “europea” che in quella degli interessi nazionali.

Sì perché, intanto, ancora una volta si è palesato il fatto che il vero ostacolo alla tanto strombazzata necessità di costruzione di una difesa europea non è rappresentato per ora dall’opposizione politica, o autodefinentesi tale senza alcun merito, né dalla protervia del nuovo babau americano o dall’aggressività russa, ma semplicemente dal fatto che gli interessi del capitale europeo restano comunque nazionali ed ognuno cercherà di tirare l’acqua al proprio mulino in termini di investimenti, raccolta di flussi finanziari e produzione di armi e mezzi corazzati, aerei, droni, sistemi elettronici e navi. Così come rivelano anche le divisioni, manifestatesi nel più recente vertice europeo del 20 marzo, a proposito di debito comune, eurobond, invio delle truppe in Ucraina e politiche nei confronti dei dazi, della Nato e degli Stai Uniti.

Una scelta, quella del riarmo, che comunque, nell’intento generale espresso da von der Leyen e Kaja Kallas, ha escluso i produttori di armi degli Stati Uniti dal nuovo massiccio piano di spesa per la difesa dell’Unione Europea, in cui precedentemente gli stessi avevano ormai raggiunto una quota del 64% della stessa, e dal quale anche il Regno Unito è stato, per ora, escluso.

“Dobbiamo comprare di più europeo. Perché ciò significa rafforzare la base tecnologica e industriale della difesa europea”, ha dichiarato la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Peccato, però, che nel tentativo di rafforzare i legami con gli alleati, Bruxelles abbia coinvolto paesi come la Corea del Sud e il Giappone e l’Associazione europea di libero scambio (EFTA) nel suo programma che potrebbe arrivare a una spesa di 800 miliardi di euro per la difesa.

Fino ad ora, circa due terzi degli ordini di approvvigionamento dell’UE sono andati a industrie belliche statunitensi, ma il cambiamento radicale dell’ordine internazionale indotto dalle scelte di Trump e dal suo nuovo rapporto “privilegiato” con la Russia di Putin ha fatto dire a Kaja Kallas, il massimo rappresentante diplomatico dell’UE, che «Non lo stiamo facendo per andare in guerra, ma per prepararci al peggio e difendere la pace in Europa»

La proposta più concreta è l’impegno della Commissione a prestare fino a 150 miliardi di euro ai paesi membri da spendere per la difesa nell’ambito del cosiddetto strumento SAFE.
Mentre i prestiti saranno disponibili solo per i paesi dell’UE, anche gli stati amici al di fuori del blocco potrebbero prendere parte all’acquisto congiunto di armi.
L’aggiudicazione congiunta nell’ambito della proposta SAFE è aperta all’Ucraina; Norvegia, Svizzera, Islanda e Liechtenstein dell’EFTA; nonché “i paesi in via di adesione, i paesi candidati e potenziali candidati, nonché i paesi terzi con i quali l’Unione [europea] ha concluso un partenariato per la sicurezza e la difesa”.
Alla fine di gennaio, l’UE aveva sei partenariati di difesa e sicurezza con Norvegia, Moldavia, Corea del Sud, Giappone, Albania e Macedonia del Nord. Anche la Turchia e la Serbia, in qualità di paesi candidati all’adesione all’UE, potrebbero potenzialmente aderire.
Ciò lascia fuori gli Stati Uniti e il Regno Unito, anche se lo status della Gran Bretagna potrebbe cambiare […] Il Canada ha anche chiarito di volere relazioni di sicurezza più strette con l’UE. Mercoledì la Commissione ha anche proposto una maggiore cooperazione in materia di difesa con Australia, Nuova Zelanda e India. «Ci sono molte richieste in tutto il mondo di cooperare con noi», ha detto un alto funzionario dell’UE5.

Un invito ad un banchetto finanziario che nasconde come a tale punto di crisi e necessità di riconversione bellica si sia giunti dopo tre anni di conflitto in Ucraina che hanno visto i paladini della democrazia, del liberalismo e dell’antiautoritarismo europeo sposare la causa della guerra e, soprattutto, delle sanzioni alla Russia di Putin senza mai chiedersi quanto tutto questo potesse gravare, così come è stato, sull’economia e le società del continente. Il dato di fatto è talmente visibile da non meritare certo altre contorte considerazioni, se non la sottolineatura del fatto che quegli stessi stati democratici hanno saputo, e tutt’ora sanno, soltanto dichiarare che per ottenere la pace non serve la diplomazia, ma soltanto preparare la guerra.

In un’autentica orgia di dichiarazioni belliciste una gran parte degli imprenditori europei, e non solo, ha fiutato l’odore dei soldi e del sangue, mentre, senza alcuna vergogna, i governanti si son precipitati a dichiarare l’inevitabilità della guerra, compresa quella nucleare. “La Polonia deve perseguire le capacità più avanzate, comprese le armi nucleari e le moderne armi non convenzionali. Questa è una gara seria – una gara per la sicurezza, non per la guerra” ha dichiarato il primo ministro polacco Donald Tusk al parlamento di Varsavia all’inizio di questo mese6.

Anche se il dibattito sull’ombrello nucleare europeo ha contribuito a mettere in risalto la differenza di interessi tra Macron, Starmer e dell’avatar di Olaf Scholz che già governa la Germania pur non avendo ancora messo in piedi un vero governo, Friedrich Merz. Oltre che le stesse difficoltà insite nel programma di allargamento del programma nucleare militare ad altri paesi europei, mentre «l’obiettivo di Parigi potrebbe essere quello di scaricare le spese per l’ombrello nucleare sui Partner comunitari, liberando risorse per le spese nazionali […] Parlare poi di buy European in assenza di una politica sulle materie prime fa semplicemente sorridere. Secondo le stime di JP Morgan, il consumo europeo di acciaio derivante dal solo piano di riarmo tedesco registrerà un balzo annuo dell’8-12%, oltre le 10mila tonnellate; ma forse non tutti sanno che oggi in Europa esiste un solo produttore certificato di acciai balistici, il che pone un problema serio di dipendenza. La guerra del rame in corso tra Washington e Pechino potrebbe inoltre creare forti carenze nel mercato dell’ottone, ostacolando i piani di produzione (e di ripristino delle scorte) di munizionamento»7.

Secondo Fabian Rene Hoffmann, ricercatore presso l’Oslo Nuclear Project, anche se una delle potenze europee della Nato fosse intenzionata a sviluppare armi nucleari proprie, anziché semplicemente ospitarle, si troverebbe a partire da zero.
“Il problema principale che i Paesi europei si trovano ad affrontare è che non dispongono di infrastrutture nucleari civili per avviare un programma di armi nucleari o, se dispongono di infrastrutture nucleari civili, che sono altamente ‘resistenti alla proliferazione'”, ha dichiarato a Euronews.
“Per esempio, Finlandia e Svezia hanno solo reattori ad acqua leggera, che non sono adatti alla produzione di plutonio per armi. Inoltre, nessuno di questi Paesi ha impianti di ritrattamento chimico, necessari per separare gli isotopi ricercati da quelli indesiderati nella produzione di materiale fissile”, ha poi spiegato l’esperto.
“Quindi, anche se volessero lanciare un programma nucleare, non potrebbero farlo con le infrastrutture esistenti, almeno nel breve periodo. Questo è il caso di tutti gli Stati europei non dotati di armi nucleari con un programma nucleare civile in questo momento”. Hoffman ha riconosciuto una discutibile eccezione: la Germania.
“Sebbene non disponga più di un’infrastruttura nucleare civile significativa, ha una grande scorta di uranio altamente arricchito per scopi di ricerca”, ha spiegato. “In teoria, queste scorte potrebbero essere riutilizzate per creare materiale fissile per le armi”.
“Ma anche in questo caso sarebbe sufficiente solo per circa 5-15 testate nucleari, quindi non sarebbe sufficiente per dispiegare quello che chiamiamo un deterrente nucleare “robusto””, ha poi detto Hoffman8.

In un contesto in cui anche il concetto di “volenterosi” inventato dal premier inglese si fa di giorno in giorno più ambiguo. Considerata anche la diffusione da parte della testata tedesca «Welt am Sonntag» di una fake news sull’offerta cinese di invio di truppe in Ucraina per garantire la pace, smentita dal portavoce del ministero degli Esteri cinese, Guo Jiakun9.

Naturalmente mentre l’italietta meloniana, ancor più inconsistente della falange comune europea, si adegua al motto secolare: «Franza, America o Alemagna pur che se magna». Travestendo il tutto da raffinata tattica politica e diplomatica, con l’Italia ponte tra Europa, America e Nato, oppure cercando di nascondere l’autentico gioco delle tre carte portato avanti dal ministro dell’economia Giorgetti rispetto al debito italiano e possibilità di investimenti privati nel settore della difesa. Sì, se non ci fosse di mezzo il pericolo, ormai quasi certo, del deflagrare di un nuovo macello imperialista mondiale, ci sarebbe soltanto da ridere.

La risvegliata, ma tutt’ora esanime armata Brancaleobe europea deve, però, fare i conti con un altro problema, rappresentato proprio dalle società che si intendono governare e trascinare nei conflitti a venire e si parla qui di conflitti e non di conflitto poiché, come già sottolineava Trockji nei suoi scritti sulla guerra oppure in altri scritti comparsi anche qui su Carmilla, una volta che la guerra è nell’aria l’unica cosa sicura è che ci sarà, ma su quali saranno alla fine i veri contendenti o i fattori scatenanti sarà solo il disordinato e caotico divenire degli eventi a dirlo.

Infatti, per tornare a quanto si diceva della società europee, è proprio la ritrosia che si manifesta in gran parte dei cittadini delle stesse ad impugnare le armi per cause non meglio definite, ma sicuramente contrarie agli interessi vitali ed economici degli stessi, a sabotare quello che i maggiorenti delle istituzioni europee vorrebbero vendere come unico percorso possibile per uscire dalla crisi dell’Occidente e dei suoi “valori”, oltre che da quella economica e di rappresentanza politica e diplomatica.

Un recente sondaggio dell’istituto Gallup ha infatti rivelato che, a partire dalla Polonia, dove la percentuale di coloro favorevoli alla difesa in divisa della propria nazione, nonostante i propositi sempre bellicosi di Tusk, è del 45 per cento, la medesima percentuale scende rapidamente negli stati i cui governanti con tanta facilità sembrano volersi impegnare in un conflitto. In Germania con il 23 per cento, mentre in Belgio si dice disponibile solo il 19 per cento. Nei Paesi Bassi ancora meno, il 15 per cento. Risale in Francia e Spagna con un 29 per cento e in Austria il 20 per cento e ancora in Gran Bretagna con il 33 per cento. Ultima viene l’Italia con il 14 per cento. Considerati anche gli stati “più combattivi” (Finlandia 74%, Grecia 54 % e Ucraina 62%) si giunge ad una media europea del 34% ben distante da una entusiastica risposta ad una mobilitazione generale10.

Occorre poi ancora sottolineare come il dato ucraino sia poco affidabile, considerata la diffusa resistenza alla leva manifestatasi negli ultimi anni e nell’ultimo periodo che ha visto almeno un milione di uomini di età arruolabile lasciare clandestinamente il paese, mentre numerosi soldati, circa 1.700, dei 5.800 inviati in Francia per essere addestrati hanno preferito disertare una volta giunti lì. Esattamente come hanno fatto, fino ad ora, almeno 100.000 soldati ucraini incriminati per diserzione11. Cui bisogna ancora aggiungere il provvedimento di Zelensky per impedire a giornalisti e artisti di abbandonare l’Ucraina con permessi speciali di cui facevano buon uso non ritornando in patria e la sempre più forte resistenza all’arruolamento forzato dei giovani che ha visto assalti agli uffici di arruolamento e, in alcuni casi, l’omicidio degli ufficiali incaricati dell’arruolamento da parte di parenti dei giovani cercati per essere inviati al fronte12.

In Germania, dove il progetto di riarmo sembra voler riportare la nazione mitteleuropea ai suoi nefasti splendori militareschi del Primo e Secondo macello imperialista, la resistenza della cosiddetta “Gen Z”, i nati dopo il 1997 che oggi sarebbero i primi reclutati dalla leva, è evidentissima. Lo dimostrano i dati degli obiettori di coscienza (coloro che dopo essersi arruolati hanno poi lasciato le forze armate) che sono aumentati del 500% nel 2023 dopo lo scoppio del conflitto ucraino. Nel dettaglio 1 su 4 dei 18.810 uomini e donne che si erano arruolati nel 2023 hanno lasciato le forze armate entro 6 mesi. Dati guardati con preoccupazione da parte del ministero della Difesa in un momento in cui la Germania punta sempre di più sul rafforzamento della difesa nazionale e che potrebbe prevedere una leva obbligatoria sia per gli uomini che per le donne.

Da quando la Russia ha lanciato la sua invasione su larga scala dell’Ucraina nel febbraio 2022, la Germania ha avviato uno sforzo di riarmo su vasta scala. L’esercito tedesco può contare su 181mila soldati, con un’età media di 34 anni (Più dell’Italia che conta 161mila effettivi, mentre la Francia ne ha circa 260mila). Tuttavia un ultimo rapporto ufficiale evidenzia alcune criticità, il 28% delle posizioni nei ranghi più bassi non sono coperte e mancano il 20% degli ufficiali che sarebbero necessari. A questo si aggiungono gli alti numeri delle defezioni del 2023 (il 25% dei neo-assunti). Anche per far fronte a questi problemi in parlamento si è tornato a discutere di leva obbligatoria. La proposta è arrivata dal parlamentare Florian Hahn che ha dichiarato alla Bild che “Già da quest’anno i primi soldati di leva devono entrare nelle caserme”. Ricordando che il mondo è diventato più insicuro e la Germania «ha bisogno di un deterrente credibile dato proprio dalla capacità di aumentare gli effettivi. Obiettivo che può essere raggiunto anche attraverso cittadini in uniforme siano essi volontari o di leva». In Germania il servizio militare obbligatorio è stato abolito nel 2011. Era stato istituito nel 1956. Tuttavia né la minaccia russa né il crescente clima di tensione internazionale sembrano motivare i giovani tedeschi ad arruolarsi, tanto che, come riporta il Financial Times in un reportage l’esercito ha “Sempre più difficoltà a trovare giovani della Gen Z pronti per la guerra”. «Meglio sotto occupazione che morto», la frase pronunciata da Ole Nymoen, giornalista freelance ventisettenne tedesco, sta facendo discutere la Germania insieme al suo libro dall’eloquente titolo “Perché non combatterei mai per il mio paese”. Il saggio è uscito questa settimana e analizza il punto di vista di molti ragazzi: «La nazione si trasfigura in una grande comunità solidale, che tutti devono servire con gioia. E questo dopo decenni di desolidarizzazione, durante i quali i politici neoliberisti hanno dichiarato che l’impoverimento di ampie fasce della popolazione era l’unica opzione»13.

E adesso, proprio mentre l’America di Trump dimostra, con la sua politica che cerca di ristabilire una equilibrata ripartizione del mondo oggi con la Russia di Putin, ma in un ancora incerto futuro, forse, anche con la stessa Cina, di essere giunta a un punto di non ritorno della sua pretesa egemonia mondiale e i governi europei sbandano dandosi come unico “obiettivo” comune quello di entrare in un’economia di guerra, si riattivano anche i corifei dei diritti umani, delle liberà, delle democrazie solo e sempre parlamentari e dell’antifascismo europeista tornano a dimostrare l’esattezza dell’assunto di Amadeo Bordiga secondo il quale: Il peggior prodotto del fascismo è l’antifascismo. Un’affermazione che va però inserita in una più ampia riflessione sulle caratteristiche del fascismo che vale la pena qui di riportare:

Il fascismo venne da noi considerato come soltanto una delle forme nelle quali lo Stato capitalistico borghese attua il suo dominio, alternandolo, secondo le convenienze delle classi dominanti, con la forma della democrazia liberale, ossia con le forme parlamentari, anche più idonee in date situazioni storiche ad investirsi degli interessi dei ceti privilegiati. L’adozione della maniera forte e degli eccessi polizieschi e repressivi, ha offerto proprio in Italia eloquenti esempi: gli episodi legati ai nomi di Crispi, di Pelloux, e tanti altri in cui convenne allo Stato borghese calpestare i vantati diritti statutari alla libertà di propaganda e di organizzazione. I precedenti storici, anche sanguinari, di questo metodo sopraffattore delle classi inferiori, provano dunque che la ricetta non fu inventata e lanciata dai fascisti o dal loro capo, Mussolini, ma era ben più antica.[…] Divergendo dalle teorie elaborate da Gramsci e dai centristi del Partito italiano, noi contestammo che il fascismo potesse spiegarsi come una contesa tra la borghesia agraria, terriera e redditiera dei possessi immobiliari, contro la più moderna borghesia industriale e commerciale. Indubbiamente, la borghesia agraria si può considerare legata a movimenti italiani di destra, come lo erano i cattolici o clerico-moderati, mentre la borghesia industriale si può considerare più prossima ai partiti della sinistra politica che si era usi chiamare laica. Il movimento fascista non era certo orientato contro uno di quei due poli, ma si prefiggeva d’impedire la riscossa del proletariato rivoluzionario lottando per la conservazione di tutte le forme sociali dell’economia privata. Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che dal fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici14.

Ecco allora arrivare oggi alle nostre orecchie lo schiamazzo osceno di chi, non sapendo in quale altro modo chiamare i giovani e le società intere al massacro bellico, non può far altro che riscoprire un antiamericanismo di maniera, patriottico e nazionalista, oppure il richiamo all’antiautoritarismo liberale in difesa della democrazia offesa dall’autocrate Putin, con manifestazioni di piazza e chiamate alle armi velenose e subdole. Degne sì di essere chiamate fasciste e contrarie a qualsiasi altro interesse di classe e della specie, visto che le posizioni espresse dalla Schlein su difesa europea e debito comune sono molto simili a quelle espresse dalla Meloni e dal suo governo. Oppure, come hanno fatto i verdi tedeschi, si ammanta l’approvazione dello sforzo bellico con la necessità di una “transizione ecologica” o ancora, com’è successo l’estate scorsa in Francia, con il voto della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon ai candidati di Macron, il principe dei guerrafondai europei tenuto a freno solo dalle considerazioni di carattere economico della Banca di Francia, per opporsi a Marine Le Pen.

Mobilitazioni di carattere principalmente ideologico cui, però, fa da corollario il piano della commissione europea che, mescolando tra di loro i pericoli rappresentati da guerre, pandemie e disastri ambientali affiancati alle politiche securitarie portate avanti da tutti i governi nel corso degli ultimi decenni, è stato presentato in bozza a Bruxelles per una “Strategia di preparazione dell’Unione” o di “Vigilanza” che formula la necessità per le famiglie di accumulare scorte di medicine, batterie e cibo per resistere 72 ore in caso di guerra e per le scuole e gli insegnanti di preparare gli allievi ai “pericoli” della guerra, non certo in chiave antimilitarista (qui e qui).


  1. Il Destino manifesto è un’espressione che indica la convinzione che gli Stati Uniti d’America abbiano la missione di espandersi, diffondendo la loro forma di libertà e democrazia. La frase “destino manifesto” venne all’inizio usata principalmente dai sostenitori della democrazia jacksoniana negli anni 1840, per promuovere l’annessione di buona parte di quelli che oggi sono gli Stati Uniti d’America occidentali (il Territorio dell’Oregon, l’Annessione texana e la Cessione messicana) a partire dalla presidenza di James Knox Polk. Il termine venne riesumato negli anni 1890, questa volta dai sostenitori repubblicani, come giustificazione teorica per l’espansione statunitense al di fuori del Nord America e alcuni commentatori ritengono che questi aspetti del destino manifesto, in particolare il credo in una “missione” statunitense per promuovere e difendere la democrazia in tutto il mondo, abbia continuato a lungo a influenzare la politica statunitense e la sua narrazione, in patria e fuori.  

  2. K. Moual, Hey, amici, come ci si sente con la Ue trattata come uno staterello africano?, Huffington Post, 20 Febbraio 2025.  

  3. E. Franceschini, “Putin super intelligente, Ucraina falso Paese”. L’assurda intervista di Witkoff, inviato di Trump, «la Repubblica», 24 marzo 2025.  

  4. JD. Vance: «Penso che stiamo commettendo un errore: solo il 3% del commercio Usa passa dal Canale di Suez, contro il 40% di quello europeo. C’è il rischio reale che il (nostro) pubblico non capisca perché questa azione sia necessaria […] Se ritenete che dovremmo comunque farlo, allora andiamo. Però detesto l’idea di salvare gli europei ancora una volta».
    P. Hegseth: «Condivido in pieno la tua critica degli approfittatori europei. E’ patetico.» in R. Fabbri, Vance-Hegseth e l’odio per l’Ue. La chat segreta, «Il Giornale», 25 marzo 2025.

     

  5. Si veda: G. Sorgi, J. Barigazzi e G. Faggionato, EU slams the door on US in colossal defense plan, «Politico» 19 marzo 2025.  

  6. A. Naughtie, Un altro Paese europeo potrebbe sviluppare le proprie armi nucleari?, «Euronews», 23 marzo 2025.  

  7. G. Torlizzi, Armi, il piano di Parigi per escludere l’Italia, «Il Giornale», 26 marzo 2025.  

  8. A. Naughtie, art. cit.  

  9. Cfr: Cina: “Le nostre truppe di peacekeeping in Ucraina? Fake news”, «la Repubblica», 24 marzo 2025. 

  10. Per tutto quanto riguarda i risultati del sondaggio dell’istituto Gallup, si vedano: Se scoppiasse una guerra, combatteresti? Cosa farebbero gli italiani, Adnkronos, 18 marzo 2025 e E. Pitzianti, Combatteresti per il tuo Paese? Ecco la risposta degli italiani, Esquire Italia, 7 marzo 2025.  

  11. Si vedano: F. Kunkle, S. Korolchuk, Ukraine cracks down on draft-dodging as it struggles to find troops, «The Washington Post», 8 dicembre 2024; A. D’Amato, I soldati ucraini che hanno disertato in Francia: «Erano nelle caserme, avevano diritto di uscire», «Open.online», 7 gennaio 2025; Ucraina diserzioni, 19mila soldati hanno già abbandonato. Kiev depenalizza il reato per chi lascia la prima volta: l’altro fronte odioso della guerra, «Il Messaggero», 8 settembre 2024; D. Bellamy, Decine di migliaia di soldati hanno disertato dall’esercito ucraino, «Euronews», 30 novembre 2024.  

  12. N. Scavo, Agguati contro i reclutatori. Kiev teme la rivolta interna, «Avvenire», 4 marzo 2025.  

  13. Leva obbligatoria, la Germania vuole reintrodurla ma la Gen Z si rifiuta: «Meglio sotto occupazione che morto», «Il Messaggero», 18 marzo 2025.  

  14. Edek Osser, Un’intervista a Amadeo Bordiga, giugno 1970 (qui)  

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Nei labirinti della guerra https://www.carmillaonline.com/2024/09/11/un-generale-nei-labirinti-della-guerra/ Wed, 11 Sep 2024 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84253 di Sandro Moiso

Gen. David Petraeus, Andrew Roberts, L’arte della guerra contemporanea. Dalla caduta del nazismo al conflitto in Ucraina, UTET 2024, pp. 650, 34 euro

Se, anche troppo spesso, le spiegazioni per le cause delle guerre moderne sono state riduttive e perfino evanescenti nell’appoggiarsi a questa o quella ideologia (da quella che ne indica la causa in quella della difesa della libertà e della democrazia a quella che ne individua l’origine nelle necessità o nella crisi dell’imperialismo, soprattutto occidentale), il loro sviluppo e svolgimento ha rivelato come quasi sempre queste finiscano con l’avvilupparsi in autentici labirinti di contraddizioni, menzogne, [...]]]> di Sandro Moiso

Gen. David Petraeus, Andrew Roberts, L’arte della guerra contemporanea. Dalla caduta del nazismo al conflitto in Ucraina, UTET 2024, pp. 650, 34 euro

Se, anche troppo spesso, le spiegazioni per le cause delle guerre moderne sono state riduttive e perfino evanescenti nell’appoggiarsi a questa o quella ideologia (da quella che ne indica la causa in quella della difesa della libertà e della democrazia a quella che ne individua l’origine nelle necessità o nella crisi dell’imperialismo, soprattutto occidentale), il loro sviluppo e svolgimento ha rivelato come quasi sempre queste finiscano con l’avvilupparsi in autentici labirinti di contraddizioni, menzogne, disastri e massacri in cui gli stessi responsabili iniziali rimangono imprigionati e faticano a districarsi.

Winston Churchill, al tempo del secondo conflitto mondiale, aveva già potuto affermare che «in guerra la verità deve essere sepolta sotto un cumulo di menzogne», ma oggi si potrebbe tranquillamente affermare che sotto alle menzogne non vi è più alcuna verità e che soltanto le bugie delle parti in causa rimangono a spiegare le motivazioni, le scelte e le azioni che le determinano.

Valga come esempio per tutte l’attuale conflitto russo-ucraino con le reciproche accuse di terrorismo e nazismo che i due principali protagonisti si rimpallano ormai da più di due anni. Chi scrive non si aspetta certo altro da personaggi del calibro di Zelensky e Putin, ma almeno un po’ di dignità dovrebbe spingerli a dire che ciò che accade è una guerra, non un’operazione militare speciale o un’perazione di polizia o altro, e che non vi è altro modo di condurre una guerra, in età moderna, se non ricorrendo a bombardamenti massicci sia sugli obiettivi militari che civili, l’invio al fronte di soldati sempre più numerosi e sempre meno motivati destinati a diventare carne da cannone nel giro di poco tempo e a tecnologie sempre più micidiali nell’opera di distruzione.

Il buon vecchio, ma sempre vituperato, Céline, in tutta onestà, aveva definito tutto questo come “il tritacarne”, mentre oggi politici, finti pacifisti e giornalisti da strapazzo parlano a sproposito di “crimini di guerra”, indicando nell’avversario l’autentico mostro che occorre distruggere con il massimo impiego di violenza e tecnologia della devastazione, giustamente e opportunamente distribuite per poter giungere ad una pace “giusta”.

Motivo per cui tutto viene giustificato quando si tratta di infliggere colpi al nemico e, grazie ai social media e alla loro diffusione, trasmesso attraverso uno sguardo sulla morte altrui degno dei peggiori snuff movie. Ciò che colpisce la parte che si vuole difendere è sempre visto come orribile stragismo, disgustoso e sintomo delle malevoli intenzioni dell’avversario, mentre i colpi portati allo stesso sembrano sempre essere “giusti”, meritati e auspicabili in forme sempre più devastanti.

Così anche il surreale dibattito sulle armi che è possibile utilizzare sul territorio ucraino oppure sul territorio della Federazione russa, come anche l’eterna questione di lana caprina tesa a definire e a separare i concetti di “difesa” e “attacco”, soprattutto quando la costruzione di sempre nuove basi militari NATO ai confini della Russia oppure l’incursione ucraina in direzione di Kursk vengono considerate scelte “difensive”, rivelano l’ipocrisia di una rappresentazione della guerra che mira soltanto a nasconderne i limiti e le finalità dei contendenti. Peccato, però, che in mezzo a tutto ciò ci siano i civili, gli adulti, i bambini, le donne, gli anziani e anche i soldati che muoiono davvero o riportano ferite e mutilazioni, oltre che traumi psicologici, spesso orribili e irreparabili.

Per uscire da questa rappresentazione ipocrita e binaria della guerra, in cui l’intelligenza diventa artificiale non solo in virtù degli strumenti elettronici usati, ma grazie soprattutto al soffocamento di qualsiasi capacità individuale di interpretare e reagire con disgusto allo spettacolo osceno della morte rappresentata soltanto come un evento dovuto alla malvagità dell’avversario oppure alla bontà della causa rappresentata è, talvolta, meglio affidarsi alle riflessioni di chi la guerra la fa, per così dire, “per mestiere” e, proprio per questo, si trova costretto a non condirne l’immagine con troppi imbellettamenti o, al contrario, con un eccessivo imbarbarimento del nemico.

Strumento spesso usato in politica per rendere l’avversario degno soltanto di odio, avversione e distruzione (più o meno programmata). Strumento che, più le guerre vanno avanti trascinandosi in situazione sempre più complesse, confuse, imprevedibili e devastanti, diventa quasi sempre, come si accennava già all’inizio, l’unico per spiegarne l’utilità ai propri cittadini e alleati da parte dei governi e delle forze politico-economiche e militari coinvolte.

Ecco dunque il motivo per cui vale la pena di affrontare la lettura del testo del generale David Petraeus edito dalla UTET. Un generale che certo non potremmo catalogare tra i “nostri”, ma che per la lunga esperienza, anche là dove si lascia più facilmente trasportare dall’orgoglio del ruolo di difendere le libertà garantite dal sistema dei diritti di stampo occidentale e statunitense, deve, per forza di cose, render ragione delle scelte fatte sul campo, le difficoltà incontrate dagli attori delle guerre e le conseguenze, spesso impreviste, delle stesse. Sempre a partire dalle armi utilizzate, dalle tattiche adottate e dalle strategie messe in atto negli scenari di guerra.

Esperto di “guerra concreta”, il generale, insieme al coautore Andrew Roberts, storico e giornalista specializzato in biografie quali quelle di Napoleone e Churchill (personaggi in cui ruolo politico e militare risultano inseparabili), ci guida nei labirinti delle numerose guerre che hanno devastato il mondo successivamente al secondo conflitto mondiale, contribuendo a ridefinirne spazi geo-politici e, talvolta, i rapporti tra le classi sia a livello nazionale che internazionale. Poiché, ed è questa piena convinzione di chi scrive, la guerra non è un errore, un fatale incidente che, con altre scelte, avrebbe potuto essere evitato se solo i governi e le forze politiche lo avessero voluto, ma è parte integrante della storia delle società divise in classi e del loro sviluppo, ascesa o caduta. Potremmo definirla come la massima rappresentazione, formale e sostanziale allo stesso tempo, di ciò che certa storiografia si ostina a definire come “civiltà”.

Non a caso, per lungo tempo e ancora oggi, ad ogni svolta militare dei rapporti tra gli stati e le classi, tra oppressori e oppressi, tra potenze in ascesa e altre in declino, si è parlato e ancora si parla di “scontro di civiltà”, Che si tratti del vecchio conflitto tra USA e URSS ai tempi della mai calda davvero “guerra fredda”, del confronto possibile domani tra Stati Uniti e Cina, oppure di quello Medio Orientale che ha sempre come epicentro la presenza militare e politica israeliana mentre di volta in volta gli avversari possono cambiare (Lega Araba, Egitto di Nasser, Hezbollah libanesi, Iran e palestinesi espropriati delle loro terre e dei loro diritti minimi, solo per citarne alcuni), o, ancora, quello sempre attuale come esempio (per i teorici dello scontro di civiltà), ancora a distanza di quasi duemilacinquecento anni, tra Atene e Sparta e l’impero persiano. Che poi quarant’anni dopo la vittoria greca sull’impero asiatico, le due città vincitrici si impegnassero in una guerra distruttiva tra di loro, durata quasi trent’anni, per chi dovesse dominare sul Peloponneso è storia che viene tenuta in disparte dalla prima, anche se di grande interesse per chi voglia studiare le contraddizioni e gli interessi che creano alleanza oppure le disfano trasformandole in nuovi fattori di guerra.

David Petraeus (n. 1952), va detto subito, è un ex generale dell’esercito degli Stati Uniti ed ex direttore della CIA (dal settembre 2011 al novembre 2012), e ha guidato i contingenti americani in Iraq (dal febbraio 2007 al settembre 2008) e in Afghanistan (dal luglio 2010 al luglio 2011). Complessivamente ha servito per trentasette anni nelle forze armate statunitensi ed oggi è considerato, a livello internazionale, un esperto di scienza bellica mentre è attualmente Senior Fellow e Lecturer presso l’Università di Yale.

Un curricolo che certo non lo rende appetibile per gran parte dei lettori di Carmilla, ma che pure ne rende interessanti le osservazioni sulle decine di conflitti che hanno insanguinato il mondo dalla guerra di Corea fino all’attuale confronto russo-ucraino, passando per le guerre di decolonizzazione, a quelle in Vietnam, Medio Oriente, Falkland, Iraq e Afganistan. Tutte analizzate dal punto di vista delle scelte strategiche e tattiche e dei conseguenti errori di valutazione oppure di accelerazione in direzione della vittoria o della sconfitta dei protagonisti. Fattori determinati spesso dalle tecnologie e dalle armi a disposizione dei combattenti e, molto spesso, dal morale delle truppe e delle popolazioni coinvolte. Tutte guerre, comunque, in cui la presenza degli interessi statunitensi è passata di volta in volta dal ruolo di semplice giocatore-ombra a quello di protagonista.

L’immagine di copertina, in cui compaiono sia un Kalašnikov Ak-47 che un drone di ultima generazione, riassume abbastanza significativamente le evoluzioni delle tecniche e degli strumenti di distruzione che hanno sempre più caratterizzato i conflitti dalla seconda metà del ‘900 fino ai nostri giorni. Cui andrebbero aggiunti gli strumenti della cosiddetta “guerra ibrida”, basata sull’uso o sul disturbo degli apparati e dei dispositivi elettronici e della rete, affiancati dall’uso del terrorismo diretto e indiretto (il secondo soprattutto su scala mediatica).

Un’evoluzione che, invece di ridurre l’importanza dei soldati sul campo di battaglia, ha fatto sì che gli eserciti abbiano dovuto sviluppare competenze e specializzazioni prima inimmaginabili. Trasformando in potenziale arma letale qualsiasi strumento o competenza dell’agire quotidiano e, contemporaneamente, in potenziale obiettivo militare strategico qualsiasi struttura (reale o virtuale), edificio o attività sociale, di ordine economico, sanitario e logistico. In un gioco al massacro dell’avversario in cui, pur di evitare l’uso dell’arma nucleare che comunque non appare mai esclusa dall’orizzonte della guerra, si amplificano e moltiplicano i danni e le sofferenze portate alle popolazioni civili e ai combattenti coinvolti nei conflitti. Su una scala un tempo impensabile.

L’illusione delle guerre rapide, travestite da operazioni di polizia sostenute da piccoli contingenti militari, come anche l’ultima scatenata da Putin in Ucraina, sembra essere definitivamente tramontata, rivelando che il numero dei soldati impegnati sul campo e nella logistica sia destinato a diventare sempre più grande. Fattore che oggi pesa enormemente non soltanto sulle scelte politiche occidentali nel possibile rilancio e utilizzo degli eserciti di leva1, ma sulla stessa politica militare russa che dei fanti trasformati in carne da cannone fino all’esaurimento delle scorte di munizioni degli avversari ha fatto il suo punto forza fin dal secondo conflitto mondiale.

Quello della crescita numerica degli eserciti, che in un campo di battaglia come quello ucraino si affianca alla necessità di tornare ad attuare nuovamente tattiche ereditate fin dalla prima guerra mondiale (trincee, uso delle forze corazzate su vasta scala, tentativo di dominare i cieli con l’uso dell’aviazione e azioni marittime di varia portata destinate al controllo delle vie d’acqua, dei porti e dei mari) tenendo conto di nuovi e micidiali strumenti (quali droni e missili e bombe capaci di cercare da sé i bersagli) messi a disposizione dalla più recente tecnologia bellica, comprende però anche sempre quello del morale delle truppe.

Tema cui Petraeus dedica molte pagine nel contesto di svariate guerre, sottolineando indirettamente come la rivolta dei soldati sia sempre possibile, come conseguenza delle sempre peggiori condizioni in cui questi vengono a trovarsi durante l’evoluzione dei conflitti e degli strumenti bellici adottati dalle parti in causa. Motivo per cui se lo storico militare Norman Keegan aveva sottolineato come nelle trincee della prima guerra mondiale si fossero realizzate le peggiori e maggiormente paurose condizioni di combattimento e sopravvivenza dei soldati2, fattore inseparabile dagli eventi che portarono alle rivolte nelle trincee del 1917 e alla successiva ondata rivoluzionaria iniziatasi in Russia, ma che oggi vedono un ulteriore peggioramento delle stesse con un aumento repentino dei morti sia militari che civili nei conflitti.

Nel dicembre 2022, sottolinea Petraeus, i membri della 155ma brigata di fanteria navale russa avevano inviato una lettera aperta a Oleg Kožemjako, governatore della regione del Territorio del Litorale, denunciando un’offensiva cui avevano partecipato:

«In conseguenza all’offensiva pianificata “con cura” dai “grandi generali”, i quattro giorni abbiamo perso circa trecento uomini tra morti, feriti e dispersi, oltre a metà dell’equipaggiamento». Persino inviare una lettera del genere equivaleva ad ammutinamento. In quella fase della guerra, ormai gli ucraini trovavano cadaveri di ufficiali russi cui i loro uomini avevavo sparato alle spalle, pratica che ricordava gli episodi di fragging, cioè l’uccisione intenzionale di un ufficiale, nell’esercito statunitense in Vietnam3

Se Petraeus si sofferma sul dilagare della demoralizzazione tra i soldati, come elemento di difficoltà per l’esercito di Putin, è altresì vero che anche Zelensky ha dovuto fare i conti con lo stesso problema, a partire dal rifiuto, talvolta sostenuto dai civili presenti, all’arruolamento forzato da parte dei giovani e delle giovani ucraine,

Nei soli primi 4 mesi dell’anno, i procuratori ucraini hanno avviato procedimenti penali contro quasi 19mila soldati che hanno abbandonato le loro posizioni o hanno disertato. Lo scrive la Cnn in un servizio dedicato alla situazione delle truppe ucraine sul fronte. «Sono dati impressionanti», commenta l’emittente, diffondendoli. E molto probabilmente incompleti: diversi comandanti hanno infatti dichiarato che molti ufficiali non segnalano le diserzioni e le assenze non autorizzate, sperando di convincere le truppe a rientrare volontariamente, senza incorrere in punizioni. Questo approccio è diventato così comune che l’Ucraina ha cambiato la legge per depenalizzare la diserzione e le assenze senza permesso, se commesse per la prima volta. L’emittente ha parlato con 6 comandanti ed ufficiali che sono ancora o sono stati fino a poco tempo fa sul fronte impegnati a combattere o coordinare le unità dislocate nell’area. Tutti loro hanno parlato di diserzione e insubordinazione come di problemi diffusi, soprattutto tra le reclute4.

Quello delle tecnologie obsolete oppure avanzate è un altro elemento che serve a valutare gli andamenti delle guerre, anche se in determinati contesti, come ad esempio in Afghanistan, tecnologie piuttosto antiquate hanno validamente tenuto testa a quelle più avanzate messe in campo dall’esercito statunitense. Tecnologie, quelle più avanzate in cui intelligence e azioni dei droni servono ad eliminare singoli soggetti (da comandanti di settore oppure generali e dirigenti politico-militari), ma falliscono nel controllo completo del territorio, Che, ancora una volta, può essere tale soltanto mettendo sul terreno, boots on the ground, un numero elevatissimo di soldati con il rischio di perdite enormi e difficilmente sopportabili dalle opinioni pubbliche coinvolte.

Ecco allora che la combinazione di Kalašnikov Ak-47 e droni o aereo a guida remota MQ-I Predator, come quello rappresentato sulla copertina del libro, possono diventare egualmente importanti sul campo di battaglia moderno, finendo anche col limitare l’efficacia delle forze corazzate e della stessa aviazione militare tradizionale.

Per il resto, tecnologie e potenza delle reti in termini di Giga e diffusione, controllo dallo spazio e dall’alto delle mosse del nemico, possono contribuire ulteriormente al successo o meno delle campagne militari. Anche se, in ambienti più ristretti di confronto militare, l’uso dei pizzini da parte dei responsabili politici e militari (Osama Bin Laden o Yahya Sinwar ad esempio) possono mettere al sicuro sia la persone fisiche che le reti di trasmissione degli ordini dei comandanti.

Così un‘eccessiva fiducia nell’uso dei telefonini ha tradito molti generali ed alti ufficiali russi e pure i loro contingenti, esponendoli a micidiali e precisi attacchi, di cui anche la guerra mediorientale è altrettanto stata teatro. Teatri di guerra in cui, per ora, la tecnologia statunitense sembra mantenere ancora una certa superiorità, non comprovata però da effettive conquiste territoriali per le quali sarebbe necessario, lo si ricorda ancora una volta, impiegare un numero enorme di soldati ed aumentare il rischio di un confronto armato con la Russia (o con la Cina).

Per questo motivo il generale americano si sofferma in chiusura sulle possibili evoluzioni delle guerre di domani, in cui il tentativo di evita e confronti di caratter enucleare potrebbe comunque portare a scenari altrettanto paurosi. In cui accanto all’omicidio mirato dei responsabili della ricerca nucleare o tecnologica. Si affianca una maggiore attenzione per la guerra asimmetrica e ibrida.

Citando l’esperto in controinsurrezione David Kilcullen, Petraeus sottolinea ancora come l’azione decisiva possa avvenire altrove, in un ambito che non si considera di guerra guerreggiata:

per mezzo della manipolazione del trasferimento tecnologico, l’influenza della guerra cibernetica esercitata da attori civili, il controllo di risorse minerarie fondamentali5, o l’acquisto di beni immobili strategici. Simultaneamente, ai margini, la Cina6 ha fatto progressi rapidi e significativi in ambiti (come le telecomunicazioni cellulari a 5G, le operazioni cibernetiche , le nanotecnologie, l’intelligenza artificiale, la robotica, il potenziamento dell’azione umana, il calcolo quantistico, la guerra politica genomica e biotecnologica, oltre alla manipolazione finanziaria) che vanno oltre la comprensione di chi in Occidente si occupa di guerra, e quindi trovano scarsa competizione militare diretta7.

Al di là dell’allarme, sicuramente strumentale, lanciato da Kilcullen e sottolineato da Petraeus, di sicuro ed evidente rimane il fatto che ormai nessuna attività di ricerca scientifica e tecnologica, economica o “criminale” sfugge ad una possibile applicazione di stampo bellico. Anche se l’attitudine a tradire anche gli alleati rimane una costante sullo sfondo, come Petraeus dimostra nelle pagine dedicate al conflitto per le isole Falkland tra Gran Bretagna e Argentina, in cui la vittoria del contingente militare aereo-navale inglese, piuttosto ridotto e a migliaia di chilometri di distanza dalla madre patria, fu reso possibile non solo dallo scoramento delle truppe di terra argentine, ma anche, e forse soprattutto, dal contributo e dall’aiuto ricevuto in termini di intelligence e sorveglianza dal cielo con gli aerei Awacs forniti dagli Stati Uniti e dalla loro intelligence. Stati Uniti che pure avevano in precedenza sostenuto il regime sanguinario dei colonnelli argentini, ma che pure preferivano mantenere intatta l’immagine del domino anglo-americano di quella parte del mondo, pur apparentemente così poco importante sotto tutti i punti di vista.

L’impiego di tecnologie avanzate non elimina però ancora la necessità di mantenere un grande numero di uomini e donne sotto le armi, poiché come si sottolinea ancora nel libro:

In modo un po’ paradossale, i sistemi senza pèilota controllati da remoto richiedono una gestione umana significativa. L’aviazione americana valuta che per un’unica orbita senza interruzione di un solo Predator UAV sia necessario un equipaggio di 168 militari addetti all’efficientamento di armi, carburante, riparazioni a terra e n volo verso e dall’obiettivo, oltre che per elaborare, sfruttare, analizzare, immagazzinare e diffonder l’intelligence che raccoglie. Il Reaper 180 e il Global Hawk, veicoli senza pilota più grandi, richiedono ben 300 persone per orbita. «Il primo problema di pilotaggio dell’aeronautica statunitense è di pilotare le nostre piattaforme senza pilota» afferma uno dei suoi generali8.

Si assiste così ad una crescita esponenziale della spesa militare e del personale coinvolto nelle attività militari, magari pur vestendo abiti civili, vista anche l’importanza che cibernetica e IA assumeranno sempre più nella conduzione delle guerre future.

Grazie alla capacità di computer sempre più sofisticati di valutare grandi quantità di dati, è probabile che gli assassinii guidati da intelligenza artificiale diventeranno molto comuni nel corso di questo secolo […] per usare le parole di Henry Kissinger, l’intelligenza artificiale aumenta la facoltà degli stati di «attivare macchine e sistemi che impiegano rapidamente la logica e un comportamento emergente e in sviluppo per attaccare, difendere, controllare e diffondere la disinformazione» ma anche per «individuarsi e neutralizzarsi a vicenda». […] L’AI è già stata utilizzata nella guerra russo-ucraina in vasti settori, come il software per il riconoscimento facciale, l’ottimizzazione delle catene di rifornimento militari e la produzione di video deepfake, e possiamo essere certi che continuerà a progredire in questo e altri campi9.

A delineare e suggerire il panorama futuro più allarmante è stato però Peter Warren Singer che, capacità, autonomie e ee nel suo libro Wired War, ha scritto:

Le guerre del futuro avranno una vasta gamma di robot diversi per misure, design e intelligenza. I piani, le strategie e le tattiche impiegati in questi futuri conflitti saranno costruiti partendo da nuove dottrine che si stanno appena creando e che coinvolgeranno praticamente tutto, dalle ammiraglie robotizzate e gli sciami di droni autonomi a combattenti a tavolino che gestiranno la guerra a distanza […] In queste battaglie le macchine assumeranno ruoli più significativi, non solo eseguendo missioni, ma pianificandole. […] Le nostre creazioni robotiche stanno generando nuove dimensioni e nuove dinamiche per le guerre e le politiche umane che stiamo appena cominciando a immaginare10.

Affermazioni che hanno fatto sì che lo storico militare Max Boot sia giunto a chiedersi se «un giorno le guerre saranno combattute con macchine tipo Terminator?»11, Riflessione che, per chi conosca la saga fantascientifica basata sulla ribellione delle macchine guidate dalla rete Skynet, pur non abolendo la possibilità dell’uso dell’arma nucleare, contribuisce a delineare un futuro sempre più fosco e labirintico per le guerre in corso e a venire e per la specie umana.


  1. Mentre anche per l’arruolamento volontario si parla apertamente di crisi, proprio a partire dagli Stati uniti. Cfr. D. Bartoccini, Gli Stati uniti non trovano soldati. Cosa sta succedendo?, “il Giornale”, 31 agosto 2024.  

  2. N. Keegan, Il volto della battaglia, il Saggiatore, Milano 2005.  

  3. D. Petraeus, A. Roberts, L’arte della guerra contemporanea. Dalla caduta del nazismo al conflitto in Ucraina, UTET 2024, p. 476.  

  4. C. Guasco, Guerra, Ucraina in grave difficoltà: 19mila soldati hanno già disertato (e il morale crolla), “Il Messaggero”, 8 settembre 2024.  

  5. Si pensi soltanto a quello delle “terre rare” di cui la Cina sembra detenere, insieme alla Russia, il monopolio, o quasi.  

  6. Autentica ossessione per la difesa, l’economia e le attività controinsurrezionali statunitensi. 

  7. D. Kilcullen, The Dragon and the Snakes. How the Rest Learned to Fight the West, Oxford University Press, New Yok 2020, p. 29, Ora citato in D. Petraeus, A. Roberts, op. cit., pp. 516-517.  

  8. Ibidem, p. 520.  

  9. Ivi, p. 518.  

  10. P. W. Singer, Wired War. The Robotic Revolution and Conflict in the 21st Century, Penguin, Nee York 2009, p. 430, ora in D. Petraeus, A. Roberts, op. cit., p. 519.  

  11. Cit, in Petraeus, Roberts, op. cit., p.519. 

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Guerra o pace https://www.carmillaonline.com/2023/06/18/guerra-o-pace/ Sun, 18 Jun 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77350 di Sandro Moiso

Lev Tolstoj, Patriottismo o pace?, Mattioli 1885, 2023, pp. 128, euro 10,00

Ancora guerra. Ancora sofferenze immotivate, delle quali nessuno beneficia; ancora menzogne; ancora gente inebetita e inferocita (Ravvedetevi! – Lev Tostoj, 1904)

Il titolo di questa recensione ricalca il titolo del capolavoro maggiore di Lev Tolstoj (1828-1910), proprio per sottolineare come non possa esistere una linea intermedia tra la prima e la seconda per chi, davvero, intenda rifiutare i grandi macelli nazionalisti e imperialisti come modo per promuovere la seconda oppure per “difenderla”. Questo soprattutto alla luce del fatto che il grande autore russo, che proprio [...]]]> di Sandro Moiso

Lev Tolstoj, Patriottismo o pace?, Mattioli 1885, 2023, pp. 128, euro 10,00

Ancora guerra. Ancora sofferenze immotivate, delle quali nessuno beneficia; ancora menzogne; ancora gente inebetita e inferocita (Ravvedetevi! – Lev Tostoj, 1904)

Il titolo di questa recensione ricalca il titolo del capolavoro maggiore di Lev Tolstoj (1828-1910), proprio per sottolineare come non possa esistere una linea intermedia tra la prima e la seconda per chi, davvero, intenda rifiutare i grandi macelli nazionalisti e imperialisti come modo per promuovere la seconda oppure per “difenderla”. Questo soprattutto alla luce del fatto che il grande autore russo, che proprio al tema della guerra dedicò alcune delle sue opere più importanti fin dai suoi esordi letterari, nei tre testi selezionati da Verdiana Neglia per il volumetto pubblicato da Mattioli, cerca di disvelare le menzogne del patriottismo, del difesismo e del pacifismo “armato” che servono solo e sempre a giustificare l’espansionismo imperiale, il revanscismo nazionalista e l’odio per un “nemico” spesso costruito a tavolino e servito bell’e pronto per l’immaginario collettivo e la sua manipolazione in chiave bellicista.

I tre testi: Ravvedetevi! (1904), Le due guerre (1898) e Patriottismo o pace? (1896) appartengono all’ultimo periodo della vita dello scrittore e si riferiscono a momenti ed episodi diversi. Il primo, che è anche il più recente, scritto in occasione dello scoppio del conflitto russo-giapponese; il secondo in occasione del conflitto ispano-americano che avrebbe portato all’espansione dell’imperialismo americano nel Mar dei Caraibi e nel Pacifico e, infine, il terzo, in occasione del conflitto che rischiò di esplodere tra Stati Uniti e Regno Unito a proposito dei confini del Venezuela nel 1895.

In tutti e tre i casi Tolstoj, nel manifestare il suo pacifismo integrale di stampo cristiano, rivolge la sua critica sia all’uso delle armi come strumento di risoluzione delle vertenza internazionali, sia, e forse soprattutto, alle mire imperiali ed espansionistiche che tutte quelle chiamate alla armi celavano dietro a roboanti discorsi anelanti alla libertà e alla giustizia oppure ad una pace “più giusta”.

Non fa sconti lo scrittore né all’imperialismo zarista né, tanto meno, a quello delle altre potenze principali dell’epoca, che da lì a poco, dopo la morte di Tolstoj, si sarebbero confrontate nell’immane carneficina della Prima guerra mondiale. Ma soprattutto non fa sconti agli intellettuali, ai pennivendoli, ai politici presunti “illuminati” che diffondono ed esaltano il verbo di una guerra cui loro, però, prendono parte soltanto a parole.

[…] come possono i cosiddetti uomini illuminati predicare la guerra, promuoverla, parteciparvi senza minimamente esporsi ai pericoli (è questa la cosa peggiore), fomentarla e mandarvi incontro i propri fratelli, infelici e ingannati? […] La maggior parte di loro ha scritto o discusso di questo argomento. […] Tutte queste persone illuminate sono consapevoli che l’armamento generale degli Stati l’uno contro l’altro conduce, senza fallo, a guerre interminabili, o alla bancarotta generale, o a entrambe le cose; sanno che, oltre allo spreco sciocco e insensato di miliardi – ossia di una grande quantità di risorse umane – per prepararsi al conflitto, periscono milioni di uomini energici e vigorosi nel momento della loro vita più adatto a svolgere un lavoro produttivo (le guerre del secolo scorso hanno portato a una perdita di quattordici milioni di uomini). […] Tutti sanno – non possono non saperlo – che le guerre suscitano nelle persone le passioni più depravate e animalesche, le corrompono, le brutalizzano. Tutti conoscono la natura poco convincente delle argomentazioni a favore della guerra […] ma all’improvviso scoppia una guerra e dimenticano ogni cosa. Coloro che fino a ieri sottolineavano la crudeltà, l’inutilità, la follia delle guerre, ora pensano, parlano e scrivono solo di come sconfiggere il maggior numero possibile di avversari, rovinare e distruggere le opere dell’ingegno umano e come fomentare il più possibile la misantropia delle persone pacifiche, innocue e laboriose che con il loro lavoro sfamano, vestono e sostengono proprio questi soggetti pseudo-illuminati, gli stessi che le costringono a commettere atti terribili1.

Non c’è una parola, tra quelle riportate, non un esempio che non sia direttamente riferibile alla guerra in corso in Ucraina e all’atteggiamento che governi, media e intellettuali di regime hanno assunto nei suoi confronti, da una parte e dall’altra dei due schieramenti. E questo rivela anche come l’attuale russofobia, sul lato occidentale e nelle istituzioni politiche e culturali nostrane, cerchi di cancellare contributi di una letteratura, quella russa dell’Ottocento e del Novecento, che forse più di tante altre ha ben conosciuto e combattuto l’ipocrisia del potere e la sua intrinseca violenza.

Non a caso, forse, la prefazione al testo è stata affidata a Paolo Nori, docente, traduttore dal russo, scrittore e saggista2 cui subito, all’inizio della guerra, nel marzo del 2022 fu impedito di tenere un corso su Fëdor M. Dostoevskij all’Università Bicocca di Milano. Eppure, eppure… l’Italia e l’Occidente vantano la superiorità morale del proprio sistema liberal-democratico rispetto al dispotico Putin, che diventa così esempio dell’illiberalità e della violenza di un intero popolo e di un’intera cultura. C’è forse qualcosa che è ancora necessario aggiungere?

Sì, forse proprio la risposta che lo stesso Nori ha dato ad un lettore che accusava Tolstoj di mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti: “Tolstoj lo faceva sempre, era un po’ un disgraziato”. Continuando poi con l’affermare:

E quando sempre in Ravvedetevi!, Tolstoj scrive: «Ieri è arrivata ala notizia dell’affondamento delle corazzate giapponesi e nelle cosiddette sfere altolocate della nobiltà russa, ricca e intelligente, senza alcun rimorso di coscienza, ci si è rallegrati per la fine di migliaia di vite umane» (p.99), a me viene in mente Kurt Vonnegut quando in Mattatoio n. 5 – il romanzo che ha dedicato al bombardamento di Dresda, del quale è stato involontariamente protagonista (era a Dresda, prigioniero dei tedeschi) – scrive: «Ho detto ai miei figli che non devono, in nessuna circostanza, partecipare ad un massacro, e che le notizie di massacri compiuti tra i nemici non devono riempirli di soddisfazione o di gioia»3.

Come sembra invece accadere, ancora oggi, nei salotti mediatici e politici e sulle prime pagine dei giornali e dei notiziari, dove la conta dei danni arrecati agli avversari sembra rasentare la necrofilia e la pornografia della morte. Continuando invece, ancora una volta da una parte e dall’altra, a trattare le azioni nemiche solo e sempre come specifici atti criminali oppure di terrorismo, nascondendo il “semplice” fatto che proprio la guerra di per sé già li comprende e produce entrambi. Così come pensava il sempre attuale, ammirevole, umanamente testardo e inamovibile Lev Nikolàevič Tolstòj.


  1. L. Tolstoj, Ravvedetevi! Ora in L. Tostoj, Patriottismo o pace?, Mattioli 1885, 2023, pp. 17-19  

  2. Tra i suoi titoli: Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori 2021, e I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991, UTET, 2019.  

  3. P. Nori, Modernità, testardaggine, semplicità, prefazione a L. Tolstoj, op. cit., pp. 10-11  

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Storie da una terra imbevuta di sangue e tradimenti https://www.carmillaonline.com/2023/04/20/storie-da-una-terra-imbevuta-di-sangue-e-tradimenti/ Thu, 20 Apr 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76882 di Sandro Moiso

Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro

E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi [...]]]> di Sandro Moiso

Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro

E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi luoghi.

Jósef Marian Franciszek Hutten-Czapski (1896- 1993), polacco e fervente cattolico, è stato un artista, scrittore e critico. Ma è stato anche ufficiale dell’esercito polacco proprio nel momento dell’invasione della Polonia nel 1939, sia da parte dell’esercito tedesco (1° settembre) che dell’esercito sovietico (17 settembre dello stesso anno), poco meno di un mese dopo la firma del trattato di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania, meglio noto come Patto Molotov-Ribbentrop, avvenuta il 23 agosto di quell’anno, che in un «protocollo segreto» aveva stabilito la spartizione della Polonia .

I fatti narrati nel libro iniziano al momento della liberazione di Czapski, all’inizio del settembre 1941, dal campo di prigionia di Grjazovec, dove era stato internato come prigioniero di guerra dei russi dopo esser passato per quello di Starobel’sk nell’autunno del 1939. La novità era costituita dal fatto che, dopo l’aggressione tedesca all’Unione Sovietica del 22 giugno 1941, il 14 agosto era stato firmato un accordo tra Stalin e Sikorski1 per la costituzione, sul territorio dell’URSS, di un’armata polacca composta da soldati in precedenza fatti prigionieri dai sovietici e deportati.

E’ proprio nel corso del servizio prestato in tal senso che l’autore delle memorie pubblicate da Adelphi giunge a conoscenza del massacro, perpetrato ai danni degli ufficiali dell’esercito polacco, a Katyn sullo stesso suolo della Polonia ad opera della Ceka e dei reparti dell’Armata rossa. Sono gli ufficiali che nel conteggio, in previsione della ricostituita armata polacco, mancano. Esclusi “ragionevolmente” (ma può essere ragionevole un conteggio del genere?) coloro che potevano essere morti di stenti durante la prigionia o per le ferite riportate in battaglia e malamente curate nei campi di detenzione sovietici, gli assenti risultavano infatti essere ancora troppi.

Come scriverà lo stesso Czapski in un articolo comparso in Francia nel 1948:

Ecco i fatti e le date che hanno fatto da sfondo al crimine: dal momento in cui invasero il territorio polacco nel diciottesimo giorno della nostra lotta contro l’aggressore nazista2, le truppe sovietiche fecero prigionieri circa duecentomila soldati, successivamente smistati in centinaia di campi sparsi su tutto il territorio sovietico.
Quasi tutti gli ufficiali e qualche migliaio di soldati catturati armi in pugno nel settembre del 1939 passarono, fra l’ottobre del 1939 e il maggio del 1940, da tre campi ricavati da monasteri abbandonati, a Starobel’sk, Kozel’sk e Ostaškov.
Il 5 aprile del 1940, nelle tre località suddette si trovavano 15.000, fra cui 8700 ufficiali. Di questi, solo 448 fra ufficiali e soldati sono sopravvissuti. Dopo l’evacuazione dei campi erano stati trasferiti a Grjazovec e nelle prigioni di Mosca, da dove furono successivamente rilasciati dopo l’inizio della guerra tedesco-sovietica e la stipula dell’accordo tra Stalin e Sikorski.
Il resto, un numero compreso fra i 14.500 e i 15.000 uomini, è scomparso.
[…] Le notizie già rare che costoro riuscivano a inviare in patria alle famiglie avevano smesso del tutto di arrivare verso la fine di marzo del 1940. Da allora nessuno dei prigionieri dispersi aveva più dato segni di vita.
Dopo che, nel 1941, furono ripristinati i rapporti diplomatici russo-polacchi, le nostre autorità intrapresero numerosi tentativi volti almeno a rintracciare i dispersi. In quanto ex prigioniero di Starobel’sk dall’ottobre del 1939, liberato poi dal campo d’internamento di Grjazovec nell’estate del 1941, nell’ottobre di quell’anno fui posto a capo dell’Ufficio ricerche scomparsi3.

A complicare le cose, dopo che Czapski aveva dovuto abbandonare le ricerche perché trasferito ad altro incarico e sede nel 1942, fu il fatto che a rivelare la scoperta delle fosse di Katyn’, in cui i cadaveri degli scomparsi erano stati sepolti e nascosti, fossero proprio gli “avversari” tedeschi che nell’aprile del 1943, via radio, annunciarono al mondo la macabra scoperta. Come sottolinea, ancora nello stesso articolo, l’autore:

Così la propaganda tedesca fu la prima a dare informazioni sull’eccidio di Katyn’. La notizia trasmessa da Goebbels4 mi raggiunse direttamente via radio in Iraq, dove mi trovavo insieme all’armata polacca che si preparava all’offensiva sul territorio italiano. La notizia non era che la conferma di ciò che a me era chiaro già da un anno, in seguito ai miei sforzi di ritrovare i compagni scomparsi5.

La diatriba sull’effettiva responsabilità del massacro andò avanti fino alla fine della guerra e ancora oltre, con tedeschi e sovietici che sembravano rimpallarsi la colpa del massacro, ma quello che più colpisce, ancora a distanza di decenni, è il fatto che le stesse nazioni che utilizzavano la ricostituita armata polacca fuori dai confini orientali d’Europa, dove avrebbe potuto costituire motivo di intralcio alle mire espansionistiche di Stalin, poi definite nelle conferenze di Teheran (28 novembre – 1° dicembre 1943) e di Jalta (4-11 febbraio 1945), invitassero i polacchi ad astenersi dal commentare il fatto, anche se il governo inglese «sapeva da tempo chi era responsabile dell’eccidio, perché sin da subito gli erano stati trasmessi tutti i documenti riguardanti la vicenda»6. Motivo per cui Czapski si vedeva costretto a ricordare come:

Seguendo le raccomandazioni della propaganda di guerra, tutta la stampa inglese, salvo rare eccezioni, troppo a lungo ha taciuto sulle fosse di Katyn’. Non si poteva certo imputare un simile crimine ai russi, allora considerati l’incarnazione della democrazia e della giustizia.[…] «Non risusciterete le vittime parlandone» avrebbe detto a uno dei nostri rappresentanti un eminente politico inglese. Pareva si dovesse stendere un velo sull’intera faccenda. La stampa inglese dava perfino motivo ai suoi lettori di trarre false conclusioni, presentando i polacchi come gente che metteva in giro notizie assurde7.

Come ha scritto recentemente, in un suo libro sulla guerra, Edgar Morin:

Se il nazismo fu giustamente giudicato e condannato nel processo di Norimberga, questo occultava ipso facto i crimini dello stalinismo, e ciò tanto più perché uno dei procuratoti di quel tribunale fu Andrej Vyšinskij, già procuratore dei processi di Mosca del 1935-1937, che condannò non solo a morte, ma anche all’abiezione le vittime innocenti delle sue false accuse di tradimento e di spionaggio. […] E così come occultammo la barbarie dei bombardamenti americani, occultammo quella dello stalinismo: l’orrore dei campi hitleriani che scoprimmo sul posto ci impedì di vedere o ci fece ignorare l’orrore del Gulag sovietico8.

E di Katyn’, si potrebbe certamente aggiungere.
Senza contare che, al momento della chiusura della prima edizione del libro di Czapski, le vittime certe di Katyn’ parevano essere non meno di 4143. Di queste era stato possibile identificarne 2919, ovvero «l’ottanta per cento dei nomi che figuravano nella prima lista di 3845 ufficiali scomparsi che era stata presentata da Sikorski a Stalin e in quelle supplementari redatte in seguito»9. Di modo che l’autore, dopo aver rilevato che le salme erano soltanto quelle degli ufficiali scomparsi dal campo di Kozel’sk, era costretto ancora a domandarsi:

Se le vittime di Katyn’ sono i prigionieri di guerra di Kozel’sk, è inevitabile chiedersi che fine abbiano fatto i prigionieri dei campi di Starobel’sk e di Ostaškov. Nessuno di loro è stato ritrovato a Katyn’, ma nessuno di loro ha neppure mai dato alcun segno di vita. […] La sorte dei prigionieri di Starobel’sk e di Ostaškov è ancora ignota, e le fosse di Katyn’ non chiariscono il mistero della loro sparizione. Le autorità sovietiche non ce li hanno mai riconsegnati e non ci hanno mai fornito alcuna informazione sulla loro sorte10.

Forse non avrebbe mai potuto immaginare che le vittime totali di quel massacro, come appurato dalle indagini degli anni seguenti, ma già basate sulle analisi della commissione internazionale che aveva operato a Katyn’ in precedenza, ammontassero a 22mila. Solo alcuni decenni più tardi, infatti, furono scoperti a Kharkov e a Mednoe i luoghi dove erano stati uccisi e sepolti i prigionieri di Starobel’sk e Ostaškov, a cui dovevano essere aggiunti altri 7300 polacchi uccisi nelle prigioni ucraine e bielorusse11.

Dopo la decapitazione dell’esercito polacco e la distribuzione dei reparti della rinnovata armata su più fronti ad opera degli “alleati”, il successivo il fallimento dell’insurrezione del ghetto ebraico di Varsavia (19 aprile – 16 maggio 1943), cui le forze nazionaliste polacche non diedero il minimo sostegno militare12, e dell’insurrezione di Varsavia (1° agosto – 2 ottobre 1944), cui invece la presenza di un’armata polacca su quel fronte avrebbe potuto dare un consistente aiuto, ma che fu violentemente repressa dalle forze della Wermacht, senza che l’armata rossa, già schierata alle porte della città, intervenisse prima che la rivolta fosse definitivamente schiacciata13, la Polonia fu integrata, con confini diversi da quelli precedenti il conflitto, nell’Europa Orientale ristrutturata geopoliticamente secondo gli interessi di Mosca (e Washington).

Oltre a ciò, va qui segnalata una straordinaria similitudine tra il silenzio occidentale su Katyn e quello sulle notizie provenienti dai lager nazisti a proposito del trattamento riservato agli ebrei prigionieri14. La stessa ipocrisia regolò i rapporti tra le potenze, alleate e non, sia in un caso che nell’altro. Ipocrisia che su tutti i fronti anima e giustifica ancora l’attuale conflitto in Ucraina, da parte di tutti i contendenti attivi o mascherati che siano.

Un conflitto che, come il precedente, affonda le radici in territori in cui la Storia sanguinosa e sanguinaria degli ultimi quattro secoli ha visto piantare i semi di un odio profondo alimentato da conquiste territoriali, dispersione di imperi, compreso quello polacco precedente all’espansione dell’impero russo e di quello asburgico prima e prussiano poi, pogrom spietati e manovrati dal potere15 e dall’odio cattolico antisemita nella stessa Polonia e ancora in Ucraina16. Una terra impregnata di sangue e dolore, cui all’inizio del ‘900 contribuirono ancora gli alti e bassi della Rivoluzione bolscevica, la successiva guerra civile e la grande crisi agricola e alimentare degli anni ’30, al di qua e al di là degli attuali confini della Federazione Russa, della Polonia e dell’Ucraina. Una storia tragica, mai giunta a conclusione, che ben poco lascia sperare in una risoluzione “diplomatica” di un conflitto destinato ad estendersi ancora nel tempo e nello spazio.

Józef Czapski è stato uno dei testimoni più significativi di un momento drammatico di questa lunga storia, attraverso un’odissea che lo ha portato ad attraversare l’intera Unione Sovietica e gli eventi più estremi del secolo scorso. Un’odissea raccontata in presa diretta e in ogni – spesso sconvolgente – dettaglio: dall’esodo in condizioni disumane di militari e civili alle atroci testimonianze dei reduci dai campi, dall’incontro con il capo della Direzione centrale dei lager («pa­drone della vita e della morte di qualcosa come venti milioni di persone») ai contatti con le popolazioni. Esperienze che, per Czapski, diventano anche «una lenta, quotidiana iniziazione all’immensità della mi­seria umana».

Come afferma lo stesso autore nella prefazione: «Questo libro è stato scritto in condizioni molto diverse, con lunghe interruzioni, fra il 1942 e il 1947. […] Più andavo avanti nel racconto e più sentivo di non essere libero, di scrivere non ciò che volevo, ma ciò che dovevo.» Affermazione che lo avvicina in qualche modo a Primo Levi e alla sua necessità di ricordare non per se stessi, ma soprattutto per quelli che non ci sono più. Cosa che spinse il superstite dei lager italiano a scriver Se questo è un uomo, composto tra il 1945 e il 1947 e comparso per la prima volta, ancora rifiutato dai grandi editori, nel 1947, al termine di un conflitto che aveva fatto decine o forse centinaia di milioni di morti.

Su tutti i fronti, tra i civili e i militari di ogni nazione, sesso, gruppo sociale, politico, religioso o etnico. E di cui i governanti attuali sembrano essersi dimenticati quasi del tutto. Oppure ricordarlo per tornare a soffiare su braci che non si sono ancora mai spente del tutto, come nel caso del viaggio di Biden in Polonia diversi mesi or sono, oppure dei richiami di Putin alla “Grande guerra patriottica”. Mentre, come ci ricordano indirettamente le memorie di Czapski, la guerra non può essere altro che motivo di orrore, ancora orrore e nient’altro che orrore.


  1. Władysław Sikorski, generale (1881-1943), primo ministro del governo polacco in esilio a Londra, in seguito all’attacco tedesco all’URSS firmò un accordo con l’ambasciatore sovietico nel Regno Unito per il ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due paesi (30 luglio), seguito dalla concessione dell’amnistia ai prigionieri di guerra polacchi (12 agosto). Morì in un misterioso incidente aereo al largo di Gibilterra.  

  2. In realtà l’autore sbaglia di un giorno, poiché le truppe sovietiche entrarono in Polonia il 17 settembre 1939, sedici giorni dopo l’invasione nazista della stessa da Occidente (1° settembre dello stesso anno) – NdR  

  3. J. Czapski, Enfin, la vérité sur Katyn, «Gavroche. L’hebdomadaire de l’homme libre» n. 189 del 12 maggio 1948, ora in appendice, come La verità su Katyn, a J. Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 399-400  

  4. «Katyn’ è la mia vittoria» scrive Goebbels nel suo diario in data 12 aprile 1943 – NdR  

  5. J. Czapski, op. cit., p. 400  

  6. Ivi, p. 398  

  7. Ivi, p. 398  

  8. E. Morin, Di guerra in guerra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 22-23  

  9. J. Czapski, op. cit., p. 408  

  10. Ivi, pp. 408-409  

  11. La ricerca più completa, rinvenibile oggi in Italia, sulla decapitazione dell’esercito polacco all’inizio del secondo conflitto mondiale, basata principalmente su fonti sovietiche rese accessibili agli inizi degli anni Novanta, è quella di George Sanford, docente di Scienze Politiche presso l’Università di Bristol, Katyn e l’eccidio sovietico del 1940. Verità, giustizia e memoria (UTET, Torino 2007 – ed.originale Katyn and the Soviet Massacre of 1940, 2005). Testo in cui l’autore inglese da un lato ricostruisce, attraverso il massacro, sia la profonda rivalità polacco-bolscevica degli anni precedenti, sia la logica dello Stato stalinista, senza dimenticare come le potenze occidentali non abbiano messo prima in discussione la copertura data dai sovietici alle vicende, finendo col costituire un’imbarazzante parte della loro più ampia politica di accettazione dell’inglobamento della Polonia nel sistema sovietico alla fine del secondo conflitto mondiale.  

  12. Si veda in proposito: Marek Edelman, Il ghetto di Varsavia lotta, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2012. Marek Edelman (Varsavia 1919 – Varsavia 2009), membro del Bund (Unione Generale dei Lavoratori Ebrei) fu il comandante militare dell’insurrezione e dell’organizzazione paramilitare che i giovani ebrei del ghetto si erano dati per programmarla e metterla in atto. Affermando: «Abbiamo combattuto per la nostra vita. Ci muoveva una determinazione disperata, ma le nostre armi mai sono state dirette contro civili inermi. Abbiamo lottato per la sopravvivenza della comunità ebraica, non per un territorio né per un’identità nazionale. Per me, non esistono un Popolo Eletto né una Terra Promessa.» Motivo per cui non volle mai trasferirsi in Israele.  

  13. Si vedano in proposito: Geoge Bruce, L’insurrezione di Varsavia 1 agosto – 2 ottobre 1944, U.Mursia editore, Milano 1978; Norman Davies, La rivolta. Varsavia 1944:la tragedia di una città fra Hitler e Stalin, Rizzoli – RCS, Milano 2004 e Miron Białoszewski, Memorie dell’insurrezione di Varsavia, Adelphi, Milano 2021  

  14. Si vedano ancora: Alex Weissberg, La storia di Joel Brand, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1958 e T. S. Hamerow, Perché l’Olocausto non fu fermato. Europa e America di fronte all’orrore nazista, Feltrinelli, Milano 2010  

  15. Si veda in proposito lo splendido romanzo, ambientato nel XVII secolo in Polonia e Ucraina, di Isaac Bashevis Singer, Satana a Goraj, Adelphi, Milano 2018  

  16. Si vedano: Adam Michnik, Il pogrom, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2007 e Jeffrey Veidlinger, L’Olocausto prima di Hitler. 1918 – 1921 I pogrom in Ucraina e Polonia alle origini del genocidio degli ebrei, Rizzoli-Mondadori, 2023  

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Ricordi di guerre passate (e future) https://www.carmillaonline.com/2023/02/16/souvenir-di-guerre-passate-e-future/ Thu, 16 Feb 2023 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76018 di Sandro Moiso

Edgar Morin, Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 106, euro 12,00

Alla veneranda età di 101 anni, Edgar Morin ci regala un agile e allo stesso profondo libello sul tema della guerra, mettendo in guardia i lettori dall’assumere troppo facilmente posizioni favorevoli a questo o quel fronteI. Posizione non determinata dall’opportunismo ma, piuttosto, dall’esperienza di una lunga vita che svolgendosi lungo quasi tutto l’arco del XX secolo e in questo primo ventennio del XXI gli ha permesso di valutare con quanta [...]]]> di Sandro Moiso

Edgar Morin, Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 106, euro 12,00

Alla veneranda età di 101 anni, Edgar Morin ci regala un agile e allo stesso profondo libello sul tema della guerra, mettendo in guardia i lettori dall’assumere troppo facilmente posizioni favorevoli a questo o quel fronteI. Posizione non determinata dall’opportunismo ma, piuttosto, dall’esperienza di una lunga vita che svolgendosi lungo quasi tutto l’arco del XX secolo e in questo primo ventennio del XXI gli ha permesso di valutare con quanta fretta e superficialità siano state troppe volte avvallate e nascoste le violenze inumane dei belligeranti, accettando spiegazioni legate alla superiorità morale, razziale o politica delle varie parti in causa.

E’ un testo che vuol indurre il lettore a comprendere come la guerra, da chiunque sia condotta e qualunque sia la causa o il fattore scatenante finisca col trasformarsi sempre, o quasi, in una serie di crimini contro l’umanità che non dipendono soltanto da caratteristiche specifiche (culturali, politiche, religiose o altre) delle forze in campo, ma proprio dall’uso della violenza. Soprattutto là dove questa, lasciata libera di esprimersi al suo massimo grado, si auto-giustifica attraverso un discorso valoriale che spesso funge da spiegazione ex-post della barbarie messa in campo e delle atrocità commesse.

Così l’autore, definito da Mauro Ceruti nella Prefazione al testo come «uno dei pensatori più importanti del nostro tempo, un’autorità intellettuale e morale riconosciuta in tutto il mondo», nel suo excursus che, come afferma il sottotitolo, va dalla Seconda guerra mondiale alla carneficina attuale, non tralasciando affatto la guerra d’Algeria, quelle balcaniche degli anni ?90 del secolo appena trascorso, le infinite diatribe e i crudeli conflitti mediorientali, non si risparmia nel cercare e citare esempi, contraddizioni ed episodi o personalità che posano dimostrare come anche le cause spacciate per buone possano aver causato distruzioni, massacri e sofferenze (sia per i civili che per i militari) che costituiscono giganteschi scheletri nascosti negli armadi della memoria dei vincitori e che in quanto tali intendono passare alla Storia come i rappresentanti e i difensori della “giusta causa”, qualunque essa sia.

Morin afferma che i bombardamenti attuali sul fronte ucraina han fatto riemergere in lui «la coscienza della barbarie dei bombardamenti compiuti in nome della civiltà contro la barbarie nazista» nel corso della seconda carneficina mondiale.

Il primo bombardamento aereo in Europa per terrorizzare le popolazioni civili fu quello della Luftwaffe che annientò Rotterdam nel maggio del 1940.Fu seguito dai bombardamenti a tappeto di Londra durante l’estate del 1940 […] Poi ci furono i bombardamenti alleati sulle città tedesche.
Mentre ero assegnato allo Stato maggiore della prima armata comandata da de Lattre de Tassigny, mi recai a Pforzheim e provai un orrore che rapidamente trattenni, dicendomi: “E’ la guerra”.
Effettivamente, nel febbraio del 1945, tre mesi prima della capitolazione di una Germania già vinta, la cittadina di Pforzheim fu totalmente distrutta da un raid di 367 bombardieri della Royal Air Force. L’83 per cento degli edifici fu distrutto, 17.000 civili, cioè un terzo della sua popolazione, furono uccisi; ci furono altrettanti feriti.
Ho visto Karlsruhe e Mannheim, completamente devastate dai bombardamenti americani, poi Amburgo ugualmente distrutta, e infine Berlino, che attraversai da una parte all’altra nel giugno del 1945 fra le rovine accumulate dai bombardamenti a tappeto americani e i colpi massicci dell’artiglieria sovietica.
Poi appresi che, il 13 e il 14 febbraio di quello stesso anno, 1300 bombardieri inglesi e americani avevano annientato la città d’arte demilitarizzata di Dresda, riversando 2430 tonnellate di bombe incendiarie e facendo, secondo una valutazione della Croce Rossa, più di 300.000 morti.
Tutto ciò mi impressionava fortemente, ma l’orrore del nazismo e dei suoi abomini nei paesi europei, e soprattutto nell’URSS, occultava a noi resistenti e antinazisti l’orrore dei bombardamenti per terrorizzare le popolazioni civili, che distruggevano città intere, colpendo donne, bambini. anziani più che i combattenti. Aggiungiamo che in occasione dello sbarco alleato in Normandia, il 60 per cento dei morti civili normanni fu dovuto ai bombardamenti liberatori1.

La “buona causa” spesso nasconda e giustifica l’orrore e le sofferenze causate al nemico, anche quando questo tale non è nella sostanza. Ma anche là dove il nemico si manifesta in quanto tale l’abuo della violenza e della forza non può portare certamente a nulla di buono. Qualunque sia la narrazione che se ne fa, Qualunque sia la motivazione che la sostiene.
A questo dovremmo pensare quando Putin parla di denazificare l’Ucraima oppure sentiamo dire a Zelensky che l’Ucraina insieme ai suoi alleati “sconfiggerà il Male e cambierà il mondo” durante il suo viaggio a Londra. Tra l’altro ci sarebbe anche da chiedersi in che senso sarà cambiato il mondo, soprattutto ricordando altri episodi del secolo passato ricordati da Morin nel suo testo.

Se il nazismo fu giustamente giudicato e condannato nel processo di Norimberga, questo occultava ipso facto i crimini dello stalinismo, e ciò tanto più perché uno dei procuratoti di quel tribunale fu Andrej Vyšinskij, già procuratore dei processi di Mosca del 1935-1937, che condannò non solo a morte, ma anche all’abiezione le vittime innocenti delle sue false accuse di tradimento e di spionaggio. […] E così come occultammo la barbarie dei bombardamenti americani, occultammo quella dello stalinismo: l’orrore dei campi hitleriani che scoprimmo sul posto ci impedì di vedere o ci fece ignorare l’orrore del Gulag sovietico2

E’ una testimonianza sofferta quella del pensatore francese che, nel corso del centinaio di pagine che la riassumono, si preoccupa soprattutto di far riflettere sulla guerra in tutte le sue forme e attraverso tutte le bugie che la mascherano e la giustificano. Un tentativo di suggerire motivazioni per la ricerca della pace attraverso il rifiuto di qualsiasi facile formula propagandistica. Ovvero di tutte quelle false verità, del genere più svariato e dalle infinite motivazioni, che oggi lastricano ancora la strada per l’inferno.

Così come sembravano già promettere le parole di Jens Stoltenberg, Segretario Generale della Nato, pronunciate nei primi giorni di febbraio a Washington, dove si trovava per il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e per un vertice al Pentagono con il Segretario alla Difesa americano, Lloyd Austin, definendo rigidamente i fronti di appartenenza secondo la manichea divisione tra Bene e Male.

“Dobbiamo essere preparati per un lungo periodo e restare con l’Ucraina per tutto il tempo necessario. Se il presidente Putin vincesse in Ucraina, sarebbe una tragedia per gli ucraini, ma anche una situazione pericolosa per tutti, perché manderebbe il messaggio ai leader autoritari, non solo al presidente Putin, ma anche in Asia e in altri luoghi, che quando usano la forza militare possono raggiungere i loro obiettivi. E questo renderebbe il mondo più pericoloso e più vulnerabile”.


  1. E. Morin, Di guerra in guerra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 17-19.  

  2. E. Morin, cit., pp.22-23.  

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L’internazionalismo e la guerra in Ucraina https://www.carmillaonline.com/2022/11/22/linternazionalismo-e-la-guerra-in-ucraina/ Tue, 22 Nov 2022 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74715 di Sandro Moiso

Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, La guerra in Ucraina e l’internazionalismo proletario, Milano 2022, pp. 210, euro 10,00

Dal 24 febbraio ad oggi intorno al conflitto sviluppatosi in Ucraina non solo è cresciuto il numero delle vittime e dei caduti su entrambi i fronti, aumentata a dismisura la cifra dei danni e delle distruzioni e il prezzo delle materie prime (soprattutto grano e gas) toccate dall’andamento della guerra (oltre che dall’intramontabile speculazione commerciale e finanziaria), ma anche la quantità di menzogne narrate dalla propaganda delle parti coinvolte, dai governi, dai presunti [...]]]> di Sandro Moiso

Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, La guerra in Ucraina e l’internazionalismo proletario, Milano 2022, pp. 210, euro 10,00

Dal 24 febbraio ad oggi intorno al conflitto sviluppatosi in Ucraina non solo è cresciuto il numero delle vittime e dei caduti su entrambi i fronti, aumentata a dismisura la cifra dei danni e delle distruzioni e il prezzo delle materie prime (soprattutto grano e gas) toccate dall’andamento della guerra (oltre che dall’intramontabile speculazione commerciale e finanziaria), ma anche la quantità di menzogne narrate dalla propaganda delle parti coinvolte, dai governi, dai presunti esperti e dai vertici militari e diplomatici europei e statunitensi.

La “nebbia” di guerra, diffusa da bufale evidenti e narrazioni ben altrimenti architettate, però, non ha solo cercato di confondere l’opinione pubblica, che a dir del vero non sempre si è prestata così facilmente al discorso della guerra giusta oppure difensiva, ma è anche servita a creare spaccature non lievi all’interno di un pensiero e di una pratica antagonista che, dopo aver ignorato per decenni il discorso sulla guerra, non ha mancato di scoprire l’esigenza di schierarsi, troppo spesso, con l’uno o l’altro degli schieramenti in lotta.

Ben venga dunque il testo appena pubblicato dai compagni facenti riferimento alla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria che, senza mancare di fornire abbondanza di dati sulle cause politiche, militari, economiche ricollegabili allo sfruttamento dei territori compresi nei grandi spazi che si estendono tra i confini orientali dell’Unione Europea e la Federazione degli Stati russi e alla loro importanza geopolitica, si sforzano nel tentativo di fornire una lettura internazionalista non soltanto degli avvenimenti inerenti al conflitto, ma anche ai compiti che l’antagonismo di classe dovrebbe darsi in un simile, drammatico e dirimente frangente.

Così, cominciando proprio là dove il libro si conclude con le sue appendici, appare utile ancora oggi la ripubblicazione dei due manifesti delle conferenze di Zimmerwald (settembre 1915) e di Kiental (1° maggio 1916) che posero le basi per l’opposizione internazionalista al primo grande macello imperialista. Il primo

originariamente redatto da Lev Trotsky e successivamente emendato, che venne adottato dalla Conferenza Socialista Internazionale svoltasi a Zimmerwald, in Svizzera, a conclusione dei suoi lavori, l’8 settembre 1915. La sua approvazione fu preceduta da lunghe e vivaci discussioni, dovute soprattutto alle posizioni rivoluzionarie delle tendenze di estrema sinistra – capeggiate da V.I. Lenin e dai bolscevichi russi – che si opponevano all’atteggiamento pacifista della maggioranza dei delegati1.

Il secondo redatto da Giuseppe Modigliani, Ernst Meyer e Karl Radek in rappresentanza, rispettivamente, delle correnti di destra, di centro e di sinistra della conferenza, fu adottato il 30 aprile 1916. Entrambi importanti perché, come scrivono ancora i curatori del testo:

Siamo nel 1915- 1916, quando la guerra ha già mostrato il suo vero volto, la sua vera funzione di scannatoio di sfruttati a tutto e solo vantaggio delle classi sfruttatrici, e la Seconda Internazionale si è già schierata in maggioranza in senso opportunista e sciovinista “per la difesa della propria patria”. In questa terribile congiuntura – anticipando quella che sarà, a partire dal febbraio 1917, la potente risposta e riscossa del proletariato russo ed europeo martirizzato dal massacro mondiale – un pugno di militanti rivoluzionari internazionalisti traccia la prospettiva da seguire per mettere fine alla guerra proclamando che “il nemico principale è nel proprio paese” e rompendo la pace sociale sul fronte interno, la pestifera solidarietà nazionale. Un primo passo, secondo Lenin, per andare oltre verso la trasformazione della guerra tra stati, della guerra imperialista, in guerra civile rivoluzionaria contro gli stati capitalistici e imperialisti. Come poi avverrà con il grande assalto internazionale al cielo del decennio 1917-1927 che, seppur sconfitto, è rimasto eternamente presente ai borghesi dotati di coscienza di classe come un incubo2.

Cento anni non sono poi così tanti, soprattutto se il modo di produzione dominante è rimasto lo stesso di quello che aveva gia causato il conflitto di allora, quello mondiale successivo e ancora tutte le devastazioni belliche, sociali, economiche e ambientali che ne hanno accompagnato l’espansione fino ad ora. Espansione basato non soltanto sul sopruso sociale, politico e repressivo, ma anche sul tentativo continuo e reiterato di imporlo come unico punto di vista “condiviso”.

Mentre i due mammasantissima del militarismo atlantista Mattarella e Draghi martellano sull’assoluta necessità e bontà della guerra alla Russia, per la libertà dell’Italia e la difesa dei suoi “valori”, e da autocrati del capitale quali sono, ci invitano a fare tutti i sacrifici necessari per portare alla sua rovina la “nemica” Russia di Putin. Mentre lo stuolo dei loro pappagalletti in parlamento e nei media ci assorda con le sue invettive contro il “nemico esterno”. Mentre la feroce (e alquanto grottesca) discendente degli Junker prussiani von der Leyen, portavoce dell’industria bellica renana, gareggia con la sanguinaria premier britannica Truss nell’oltranzismo anti-russo rispolverando ogni giorno di più temi e toni della propaganda nazista. Mentre anche presunti personaggi “anti-sistema” vanno girando la penisola per chiedere il voto in nome di una Italia o più europea, o più sovrana, o più neutrale e “pacifista”, purché al di sopra di tutto ci sia sempre lei, la patria, l’Italia capitalista e imperialista (che fu la patria del fascismo e si prepara ad incoronare una lontana discendente del fascismo repubblichino)3.

Posizioni che non possono assolutamente essere condivise, invece, da chi schiera con l’internazionalismo di classe e la lotta contro il militarismo imperialista, come nei 21 punti fermi elencati già nell’introduzione al testo si sottolinea (come nei testi posti in appendice si rimarca). Sottolineatura dovuta questa, poiché, come ancora si ricorda nell’Introduzione, «essendo la guerra l’orgia delle menzogne» diventa necessario smontare anche l’immaginario che l’accompagna.
Per esempio la menzogna

secondo cui sarebbe in corso una romantica, se non rivoluzionaria, lotta di autodeterminazione condotta da tutte le classi della società ucraina strettamente unite tra loro come un sol uomo (Zelensky), di indipendenza nazionale della libera Ucraina contro il vecchio, incorreggibile orco russo. L’Ucraina di oggi tutto è salvo che una nazione libera, essendo stata progressivamente occupata, prima che dalle armate russe, dagli insediamenti economici, finanziari, diplomatici, militari, massmediatici dell’intero Occidente, e con speciale aggressività da un giro di interessi che fa capo alla banda Biden-Obama e Co. – un’occupazione resa possibile dal prevalere, in seno alla borghesia ucraina, della frazione legata all’Occidente. Ancora meno libera lo è, ovviamente, dal 24 febbraio, a seguito dell’invasione russa, che è stata l’occasione buona per moltiplicare l’invasione dei potentati occidentali, e le loro pretese sulle sue membra martoriate. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, la Polonia, l’Italia, la Romania, etc. etc., ogni paese “amico” pretende la sua quota di carne ucraina. E per effetto dell’“aiuto” di questi amorevoli Shylock l’Ucraina è più che mai un paese rovinato per i futuri decenni, alla bancarotta, in verticale perdita di popolazione, colonizzato dai suoi “amici” liberatori, oltre che straziato dai bombardamenti e dai carri russi4.

Ma se va disvelata la menzogna occidentale sulle motivazioni della guerra per garantire la giusta pace all’Ucraina, altrettanto va smontata la “verità” sbandierata da Putin nei suoi discorsi che sembrano spesso voler riabilitare l’antico sogno imperiale zarista.

Nel suo impegnativo discorso del 30 settembre per legittimare l’annessione delle province del Donbass, Putin si è presentato come un novello Che Guevara che sventola la bandiera dell’anticolonialismo tricontinentale contro l’imperialismo occidentale. La sua ben costruita invettiva non manca di efficacia e di richiami incontestabili alla “legge del pugno”, all’illimitata avidità di ricchezze e di profitti, alla pretesa di dominio totale sul mondo, all’inarrivabile ipocrisia dell’“Occidente collettivo” saccheggiatore dei popoli di tutto il mondo (per questo, qui, è stato completamente censurato). Senonché quella invettiva è tutta costruita sul richiamo alla “grande Russia”, alla “grande Russia storica” con la sua “storia millenaria”, al “posto che le spetta nel mondo” in quanto “grande potenza millenaria, una civiltà-paese”. Il che comporta la completa rivendicazione della Russia imperiale, zarista, una “prigione di popoli” secondo Lenin. Una rivendicazione che Putin fece senza mezzi termini, attaccando i bolscevichi, nel discorso del 21 febbraio in cui descrisse l’Ucraina come una costruzione artificiale da cancellare. Non una sola parola, fosse anche di mero distanziamento formale, sul fatto che la “grande potenza millenaria” prima feudale e poi feudalcapitalistica ha oppresso una molteplicità di popoli tra i quali tutt’oggi l’“Occidente collettivo” ha gioco facile nel seminare la russofobia5.

In entrambi i casi però si tace soprattutto sul fatto che

l’Ucraina è un paese dalle strepitose ricchezze naturali, non ancora del tutto esplorate. Può sfamare 600 milioni di abitanti nel mondo (avendone appena 40). Possiede il 5% delle risorse minerarie del mondo, pur avendo appena lo 0,4 della superficie terrestre globale. È tra le prime dieci nazioni produttrici ed esportatrici di metalli al mondo – 20.000 depositi per 194 minerali6.

A tale argomento il libro dedica un intero capitolo, dettagliato e ricco di dati, Dall’uranio al mais a tutte le altre strabilianti ricchezze dell’Ucraina, così come non si manca mai di sottolineare l’importanza della posizione geo-politica di quel paese, soprattutto dal punto di vista militare visto che chi lo occupa può spingere le proprie forze verso il cuore dell’Europa, il Nord della stessa oppure verso la Russia, la Turchia e gli stretti che separano il Mar Nero dal Mediterraneo e il Vicino Oriente.

E’ un testo ricco e propositivo quello che viene qui recensito, che ogni lettore farebbe bene a procurarsi per poter formulare giudizi più approfonditi e meno avventati sul conflitto in corso, le sue possibile conseguenze su scala planetaria e le forme della sua risoluzione che, a giudizio di chi scrive, possono esse riassunte nelle parole che già chiudevano il Manifeso di Zimmerwald, riportato, come si è già detto nel testo:

Proletari! Dopo lo scatenarsi della guerra avete messo tutte le vostre energie, tutto il vostro coraggio, tutta la vostra sopportazione al servizio delle classi possidenti. Oggi, restando sul terreno di un’irriducibile lotta di classe, occorre agire per la vostra causa, per il sacro obiettivo del socialismo, per l’emancipazione dei popoli oppressi e delle classi asservite. È dovere e compito dei socialisti dei paesi belligeranti intraprendere questa lotta con tutta la loro energia. È dovere e compito dei socialisti dei paesi neutrali aiutare con ogni mezzo i propri fratelli in questa lotta contro la barbarie sanguinaria. Mai nella storia mondiale c’è stato compito più urgente, più elevato, più nobile; la sua realizzazione deve essere nostra opera comune. Nessun sacrificio è troppo grande, nessun fardello troppo pesante per raggiungere questo obiettivo: il ripristino della pace tra i popoli. Operai e operaie, madri e padri, vedove e orfani, feriti e mutilati, a tutti voi che soffrite per la guerra e a causa della guerra, noi gridiamo: Al di sopra di tutte le frontiere, al di sopra dei campi di battaglia, al di là delle campagne e delle città devastate: Proletari di tutti i paesi, unitevi!

Non per una pace “giusta”, non per la pace “dei padroni”, ma per la fine dell’obbrobrioso sistema di sfruttamento, della specie e della Natura con cui dovrebbe convivere armoniosamente, che chiama pace ciò che per la stragrande maggioranza dell’umanità è ancora sempre e soltanto guerra.


  1. Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, La guerra in Ucraina e l’internazionalismo proletario, Milano 2022, p. 197  

  2. La guerra in Ucraina, op. cit., p. 184 

  3. ivi, p. 186  

  4. ivi, pp. 6-7  

  5. ivi, pp. 8-9  

  6. ivi, p. 7  

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Il nuovo disordine mondiale / 19: First Strike? https://www.carmillaonline.com/2022/11/04/il-nuovo-disordine-mondiale-19-first-strike/ Fri, 04 Nov 2022 21:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74620 di Sandro Moiso

Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile. La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. (George Orwell)

Boom! Scoperta e ‘dichiarata’ l’acqua calda: gli Stati Uniti, nell’ultima versione della loro dottrina militare (detta, in onore dell’attuale presidente, “Biden”), potrebbero usare per primi l’arma nucleare. E questo, secondo alcuni commentatori disattenti alla storia militare e politica dell’ultimo secolo, potrebbe costituire soltanto ora il detonatore per una Terza guerra mondiale.

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di Sandro Moiso

Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile.
La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. (George Orwell)

Boom! Scoperta e ‘dichiarata’ l’acqua calda: gli Stati Uniti, nell’ultima versione della loro dottrina militare (detta, in onore dell’attuale presidente, “Biden”), potrebbero usare per primi l’arma nucleare.
E questo, secondo alcuni commentatori disattenti alla storia militare e politica dell’ultimo secolo, potrebbe costituire soltanto ora il detonatore per una Terza guerra mondiale.

Ancora una volta occorre dunque sottolineare e ricordare ciò che, da più di un decennio, l’autore va affermando in testi, articoli e interventi sulla questione della guerra: elemento ineliminabile di una società fondata sullo sfruttamento di ogni risorsa ambientale e umana, sulla concorrenza più spietata sia a livello economico che sociale e sulla spartizione imperialistica del mercato mondiale e dei territori di importanza strategica (sia dal punto di vista geopolitico che economico-estrattivistico).

Tanto da spingerlo a rovesciare, come già aveva fatto con largo anticipo Michel Foucault nel corso degli anni ’70, la celebre affermazione di Karl von Clawsevitz nel suo contrario, ovvero che sarebbe proprio la politica a costituire nient’altro che la continuazione della guerra con altri mezzi1. Con buona pace di chi ancora oggi, pur proclamandosi antagonista e antimperialista, pensa che le logiche della politica istituzionale possano (o almeno dovrebbero) sfuggire alle logiche della guerra e dei suoi sfracelli.

Certo non ha colpa chi si accorge del precipitare delle situazioni create da conflitti ritenuti locali in guerra mondiale soltanto attraverso le dichiarazioni ufficiali, dopo anni, se non decenni, di totale disattenzione per le logiche profonde dell’imperialismo e, forse soprattutto, per la “questione militare” e la sua “arte”, mai sottostimata invece dai teorici autentici del pensiero rivoluzionario: da Marx a Lenin, da Engels a Trotzkij fino alla Sinistra Comunista (nelle figure di Jacques Camatte e Roger Dangeville) e a Guy Debord.

Dinamiche di sottovalutazione legate sia ad una superficiale convinzione dell’avvenuto superamento delle contraddizioni interimperialistiche, scaturita sia dalle predicazioni liberal-democratiche che da un certo estremismo di maniera che ha fondato le sue valutazioni di classe sulle analisi del SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali) originatesi dalla riflessione di alcune formazioni armate a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Solo apparentemente confermate dai processi di globalizzazione economica degli ultimi decenni.

Ma questa disattenzione, chiamiamola così, affonda le radici anche in un rifiuto dello studio di quella che abbiamo qui chiamato “questione militare”, legato sia in un’imbelle concezione pacifista dell’antimilitarismo di stampo cattolico che a una concezione, di tale questione, iniziata con lo stalinismo che, proprio nella figura del piccolo padre di tutte le Russie, fin dallo scontro sulla campagna polacca dei primi anni ’20, si era opposto all’utilizzo degli specialisti militari sia nell’esercito rosso, fortemente voluta invece da Trotzkij per rafforzare l’armata rossa durante la guerra civile 1918-21, che nelle scuole di formazione dei quadri militari, per dare maggior spazio ai commissari “politici” e ai rappresentanti del partito2.

Cosa che, all’epoca dei grandi processi di Mosca (1936-37), costò la decapitazione dello stato maggiore sovietico, soprattutto con il processo per tradimento e l’eliminazione di Michail Nikolaevič Tuchačevskij (Smolensk, 16 febbraio 1893 – Mosca, 12 giugno 1937) autentico innovatore del pensiero militare della guerra di movimento moderna, supportata da truppe corazzate, aviotrasportate e meccanizzate3, con i conseguenti disastri militari subiti dall’Armata rossa nel corso della fase iniziale dell’Operazione Barbarossa ovvero dell’invasione nazista del territorio russo.

Questi due fattori, riassunti qui fin troppo sinteticamente, hanno quindi grandemente contribuito allo sviluppo di una tradizione politica che ha per troppo tempo eluso il problema della “centralità della guerra” nel sistema di relazioni economiche, sociali e politiche internazionali. Un’analisi che troppo frequentemente ha scambiato la dominazione di stampo coloniale e neo-coloniale esterna come l’unico settore in cui l’Occidente avrebbe dovuto e potuto ancora dispiegare la sua potenza militare. Condividendo perciò, anche se indirettamente, la stessa concezione degli apparati militari ad effettivi “ridotti ma professionalizzati”, messa in pratica da gran parte degli eserciti dei paesi più avanzati.

Ancora una volta con il plauso del ‘pacifismo’ che vedeva nell’abolizione degli eserciti di leva un passo avanti verso un mondo privo di guerre o, almeno, lontano da quelle di portata planetaria. Cadendo così in una duplice ed egoistica contraddizione che mentre da un lato si rassegnava ad una sorta di guerra in permanenza fuori dai territori delle metropoli imperialiste per mantenere i privilegi economici di queste ultime, dall’altro vedeva nell’abolizione della leva una riduzione del militarismo all’interno delle società in cui questa fosse stata abbandonata.

L’anticolonialismo perdeva così la concezione internazionalista per rifugiarsi tra le sottane del pietismo solidale, mentre la storica questione dell’armamento delle masse sfruttate attraverso la formazione militare universale (o almeno maschile), difesa dal socialismo radicale fin dai tempi di Friedrich Engels, veniva accantonata a favore di eserciti professionali di stampo pretoriano, in cambio dei sempre corruttibili “diritti individuali”. Che, oltretutto, non ledevano affatto i diritti degli Stati di contribuire allo sviluppo e all’ampliamento del settore militare dell’economia industriale. Settore in cui, a differenza di tanti altri, l’Italia è sempre stata ai primi posti a livello mondiale.

Oggi, tra guerra in Ucraina e dichiarazioni del neo-ministro della difesa Guido Crosetto sulla necessità di provvedere ad un aumento del numero di soldati a disposizione della ‘nazione’, il risveglio è stato piuttosto brusco, seppur ancora confuso. Oltre a tutto ciò, la notizia della dottrina del diritto al First Strike dichiarata apertamente dal presidente americano ha certamente contribuito a seminare ulteriormente la paura di una guerra aperta, diffusa e devastante tra i grandi schieramenti militari e le grandi potenze economiche, fino ad ora, per alcuni, inconcepibile. Eppure, eppure…

Non è certo il quadrante centro-europeo a far dichiarare, per ora, agli Stati Uniti la necessità dell’uso per primi dell’arma nucleare. Sul fronte ucraino le forze della Nato, seppur con vaste contraddizioni al proprio interno, hanno trovato il modo di far combattere e soffrire, in nome dei propri interessi strategici, prima di tutto i militari e i civili ucraini. Mentre tutto intorno all’area interessata direttamente dal conflitto, per vecchi e mai sopiti odi e interessi nazionalistici, altri stati, come la Polonia e gli stati baltici, potrebbero contribuire con il sangue dei propri soldati e la parziale devastazione dei propri territori a mantenere a lungo il conflitto in una dimensione di dissanguamento progressivo dell’esercito russo.

E’ possibile fare questa affermazione poiché ciò che l’attuale conflitto ha rivelato fin dai primi giorni è di aver dato inizio ad una nuova guerra di grandi eserciti, in cui i corpi specializzati (mercenari occidentali, della Wagner o corpi speciali britannici [qui]) possono svolger un ruolo soltanto se attorno ad essi esiste una fitta e ampia rete logistica di supporto, oltre che il paravento di un gran numero di corpi di soldati e di civili sacrificabili. Su entrambi i fronti del conflitto.

Il sogno di una guerra lampo oppure “altamente tecnologica”, con risparmio di vite e militari impegnati nei combattimenti è andato via via dissipandosi, lasciando al suo posto le immagini e lo svolgimento di una guerra convenzionale fatta di artiglieria, fanteria, truppe corazzate, avanzamenti e ripiegamenti che richiedono un gran numero di soldati impegnati e tempi estremamente lunghi per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Qualunque essi siano e da qualsiasi parte in conflitto siano essi stati, o meno, dichiarati.

La propagande deve fare i conti con le necessità di una guerra il cui compito non è soltanto quello del search and destroy cui, da diversi decenni, si erano abituati i commentatori e gli spettatori, interessati o meno, come nel caso di tanti, e comunque fallimentari, interventi della Nato o degli USA e delle forze armate occidentali, in aree del mondo esterne al cuore dell’Europa o delle metropoli imperialistiche, ma anche, e soprattutto, quello di conquistare, mantenere e occupare vaste porzioni di territorio, urbano o meno, compreso all’interno di aree densamente popolate, industrializzate e ricche di impianti e investimenti agricoli, industriali, minerari e quant’altro.

Uno scenario che non si vedeva dalla fine del secondo conflitto mondiale e che per forza di cose, nonostante le promesse e le illusioni sul superamento delle modalità di quello e delle contraddizioni che lo avevano causato, rinvia a quello nelle modalità, terribili e distruttive, di svolgimento.
Per anni infatti ci si è interrogati, a livello militare e politico, tattico e strategico, sulla possibilità di lasciar definitivamente da parte i grandi apparati bellico-militari che avevano rappresentato la più tipica caratteristica delle forze armate nazionali degli Stati moderni.

Per anni le scrivanie dello studio ovale o degli altri centri di potere occidentali sono state inondate di proposte di apparati difensivi, e quindi immancabilmente offensivi alla faccia di tutte le anime belle che pensano di poter separare la difesa dall’offesa o viceversa, miranti a diminuire il numero dei militari impiegati in servizio attivo, attraverso la formazione di corpi d’élite o unità destinate alle operazioni speciali, altamente addestrate e appoggiate da tecnologie particolarmente avanzate sul piano della sorveglianza elettronica dei territori e delle forze nemiche oppure destinate a colpire con estrema precisione gli obiettivi nemici (singoli individui, unità o basi militari che siano).

La guerra intelligente, che tale non è mai stata come hanno dimostrato le stragi di civili in Palestina, Libano, Siria, Iraq e Afghanistan, senza dimenticare le guerre balcaniche successive alla riunificazione tedesca, si è però rivelata utile ed efficace, se non si contano le vittime reali e i danni collaterali in cui rientrano solitamente, nei confronti di paesi che non potevano porsi sullo stesso piano militare e tecnologico di Stati Uniti, Israele, Europa Occidentale, ma che, allo stesso tempo, potevano riuscire a mettere in difficoltà i più forti aggressori attraverso tattiche e tecniche di guerriglia che hanno fatto sempre più propendere anche le forze armate più importanti verso forme di guerra asimmetriche e non convenzionali.

Ma sulla distruttività della guerra moderna, fin dagli albori del XX secolo, in ambito civile si è già parlato diffusamente negli articoli precedenti di questa serie per rispondere all’idiozia formale dei “crimini di guerra” (come se già questa non costituisse di per sé stessa un crimine); mentre è sul gran numero di soldati necessari per condurla, quando si tratti di confronti militari tra potenze di “pari grado”, che è necessario soffermarsi per comprendere dove sta il rischio reale dell’utilizzo dell’arma nucleare.

Truppe relativamente poco numerose, con grande uso di tecnologie sofisticate e dell’arma aerea, in mancanza di necessità o possibilità di mettere gli stivali per terra (boots on the ground), hanno relativamente funzionato nella “guerra al terrore”, senza però mai ottenere risultati decisivi, come il ritiro dall’Afganistan ha in seguito dimostrato. Un modello di guerra “coloniale tecnologicamente avanzata” che il conflitto in Ucraina sta testando in profondità.

Se c’è un elemento evidente del conflitto attualmente in corso è infatti quello dell’uso di tecnologie avanzate a fianco delle tattiche militari classiche derivate ancora dal secondo conflitto mondiale: largo impiego di artiglieria, fanteria (meccanizzata e non), truppe corazzate, lanciarazzi/missili multipli, sommergibili, aviazione e…droni. Soprattutto questi ultimi costituiscono la novità più rilevante, quella che, sia a livello di rilevamento della posizione degli avversari che della distruzione localizzata e precisa degli obiettivi, ha messo maggiormente in difficoltà le forze armate di Putin fino ad ora.

Ma che ha anche rivelato, almeno nell’ultimo periodo, come, pur costituendo una tecnologia innovativa e perniciosamente precisa, anche un paese non propriamente all’avanguardia come l’Iran può produrre su vasta scala e con risultati di poco inferiori a quelli ottenuti con quelli prodotti dalla Turchia o in area occidentale. Un gap tecnologico facilmente aggirabile e capace di rivoltarsi nel suo contrario. Ovvero una tecnologia dal costo non elevatissimo che anche chi non appartiene ai settori della difesa della Nato e dei suoi satelliti può facilmente procurarsi (ed utilizzare pericolosamente).

Ora diventa evidente, e chi scrive l’ha affermato fin dai primi giorni del conflitto, che le armi nucleari accumulate per decenni negli arsenali dell’Est e dell’Ovest, oltre che in quelli di svariati altri stati (allineati e non), non sono affatto armi giocattolo o spaventapasseri con cui minacciare gli avversari senza però aver la reale intenzione di utilizzarle. Tutto sommato nemmeno durante la Guerra Fredda fu del tutto così, anche se allora i margini per una trattativa erano molto più ampi di quelli odierni. Inoltre Nagasaki e Hiroshima stanno lì, ancora adesso, a dimostrare che l’impero americano non è disposto a fermarsi, se lo ritiene necessario, davanti a nulla. Cosa cui, con evidente facilità, si sono adeguati anche i suoi principali ed ‘imperialistici’ avversari: Russia e Cina. Come ha affermato Cechov nei suoi scritti sul teatro: “se un’arma da fuoco compare in scena nel primo atto di un’opera, sicuramente avrà sparato prima dell’ultimo”.

Ora siamo vicini se non all’ultimo, almeno al penultimo atto del decorso storico dell’imperialismo occidentale e, soprattutto, americano. Sicuramente non è tanto la Russia di Putin a rappresentare la prima minaccia economica e militare per gli Stati Uniti, ma lo sono sicuramente la Cina e la situazione di rifiuto del comando statunitense (e della sua moneta) sviluppatasi non soltanto nell’ambito dei BRICS, ma in ogni continente esterno alla porzione occidentale del mondo.

Scontro, ipotizzabile su scala mondiale e dalle alleanze contraddittorie e non ancora del tutto date, che oltre a costituire il vero epicentro del terremoto economico e militare attuale, di cui la campagna ucraina di Putin potrebbe rivelarsi soltanto come un modo (parzialmente fallimentare) di saggiare il terreno avversario dopo il disastro afgano (qui e qui), sta alla base dell’inevitabile terzo o quarto conflitto mondiale (dipende soltanto dai punti di vista)4 ormai prossimo (almeno sulla scala del tmpo storico), se non già in atto.

Conflitto in cui il numero di soldati necessari potrebbe ampiamente sopravanzare le disponibilità di arruolamento statunitensi ed europee e, soprattutto, la disponibilità al sacrificio e alla sofferenza delle popolazioni occidentali e del loro dispendioso stile di vita e che richiederebbe sicuramente la necessità di anticipare le mosse dell’avversario, si pensi alla caldissima questione di Taiwan e del controllo del Mar della Cina e del Pacifico Orientale, con un primo e “decisivo”(?) lancio di testate o bombe nucleari.

Situazione drammatica, ma da tempo ampiamente prevedibile anche senza il recente annuncio del presidente dormiente.

(19 – continua)


  1. Si veda: Sandro Moiso, Warzone ovvero da Flint a Flint: la guerra come condizione di esistenza, introduzione a S. Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismo, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019, pp. 11-15  

  2. Spesso inseriti con il compito di controllare e indirizzare tutte le scelte militari sulla base delle tattiche e alleanze elaborate o concordate con altre forze dalla direzione del Partito, anche nell’ambito della guerra partigiana come avvenne durante la Resistenza, più che di fornire un’effettiva ed adeguata formazione politica ai militari e ai combattenti.  

  3. Cui la strategia della “guerra lampo” di Erwin Rommel, e degli altri generali della Wermacht nel corso della prima parte del secondo conflitto mondiale, si ispirò invece totalmente.  

  4. Si veda ancora in proposito: S. Moiso, War! e Yankee Doodle Goes to War in S. Moiso, La guerra che viene, op. cit., pp. 28-39  

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Il nuovo disordine mondiale / 18: It’s the end of the world as we know it (and I feel fine) https://www.carmillaonline.com/2022/10/05/il-nuovo-disordine-mondiale-18-its-the-end-of-the-world-as-we-know-it-and-i-feel-fine/ Wed, 05 Oct 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74286 di Sandro Moiso

E’ la fine del mondo che conosciamo e mi sento bene. Quando esattamente 35 anni fa, era il 1° settembre 1987, i R.E.M. fecero uscire sul mercato discografico il loro singolo, certo non potevano nemmeno lontanamente immaginare che la loro canzone fosse destinata ad essere ancora così attuale all’inizio del secondo decennio del terzo millennio. Dimostrando come, quasi sempre, l’immaginario delle culture ritenute “basse”, in questo caso quello legato alla musica rock, ha saputo anticipare il futuro e lo ha letteralmente “cantato” più e meglio degli esperti economico-politici e [...]]]> di Sandro Moiso

E’ la fine del mondo che conosciamo e mi sento bene.
Quando esattamente 35 anni fa, era il 1° settembre 1987, i R.E.M. fecero uscire sul mercato discografico il loro singolo, certo non potevano nemmeno lontanamente immaginare che la loro canzone fosse destinata ad essere ancora così attuale all’inizio del secondo decennio del terzo millennio. Dimostrando come, quasi sempre, l’immaginario delle culture ritenute “basse”, in questo caso quello legato alla musica rock, ha saputo anticipare il futuro e lo ha letteralmente “cantato” più e meglio degli esperti economico-politici e degli esponenti ufficiali della cultura mainstream .

That’s great, It starts with an earthquake

E’ fantastico, inizia con un terremoto.
E’ il primo verso della canzone e serve benissimo per confermare ciò che abbiamo anticipato negli interventi precedenti sul tema della guerra e le sue conseguenze e che oggi si verifica in dimensioni ancor maggiori di quelle che si potevano immaginare fin dai primi giorni del conflitto in Ucraina.

Così, mentre l’ostinazione imperialista delle parti coinvolte sta avvicinando sempre più la possibilità di una guerra non solo allargata su scala europea ma anche di carattere nucleare, il sistema di alleanze su cui si son basate le politiche economiche e militari occidentali degli ultimi settanta anni sembra destinato a subire scossoni che, fin dall’esplosione (pilotata malamente) della pandemia da Covid-19, se non lo distruggeranno ancora del tutto, sembrano destinati a ridimensionarlo in maniera ritenuta impensabile fino ad oggi.

Infatti, mentre i media mainstream hanno potuto fino ad ora sottolineare soltanto le indiscutibili difficoltà militari e politiche in cui il regime del nuovo zar è venuto a trovarsi, la crisi economica legata alla carenza di gas, alle speculazioni della borsa di Amsterdam sulla stessa materia prima e al disaccordo tra i paesi europei su come reagire alle stesse sta distruggendo nel breve periodo ciò che aveva richiesto anni per affermarsi, ovvero la stabilità e l’utilità degli accordi inerenti al funzionamento dell’Unione Europea.

Ognuno per sé sembra essere diventato il motto dell’azione dei paesi europei nei confronti di questa crisi, con la Germania, über alles, in testa nel perseguire una propria e costosissima politica energetica che risulta speculare alla decisione, presa fin dall’inizio del conflitto, di riarmare pesantemente le proprie forze armate per poter diventare a breve la terza potenza al mondo, dopo Stati Uniti e Cina, per spesa militare.

Posizione avvallata in generale dal fatto che, in forme diverse, tutti i presunti alleati europei ed occidentali stanno già operando scelte che molto spesso danneggiano gli altri componenti delle alleanze europee ed atlantiche. Una corsa al si salvi chi può che negli ultimi tempi ha raggiunto livelli parossistici.

World serves its own needs, don’t misserve your own needs.

Il mondo segue i propri bisogni, non sottovalutare i tuoi propri bisogni.
Continua così la canzone del 1987, involontaria conferma del fatto che, al di là dei discorsi ufficiali, dietro all’europeismo e all’atlantismo si nascondono le stesse spinte sovraniste che i più fessi pensano ancora essere espressione di possibili rivendicazioni popolari o, peggio ancora di classe.

Il nazionalismo non è mai morto, si era solo truccato per meglio colpire le classi meno abbienti all’interno di ogni singolo stato, scaricando le responsabilità delle scelte più dolorose per i lavoratori, il proletariato e le classi medie impoverite sulle imprescindibili regole europee di gestione finanziaria dell’esistente.

Classi imprenditoriali e dirigenti assolutamente vili e pavide, soprattutto qui in Italia ma anche nel resto d’Europa, hanno finto collaborazione e unità di intenti soltanto per non accollarsi scelte assolutamente impopolari, ma ora il travestimento è caduto e il Re è nudo. Come nella paradossale opera teatrale di Alfred Jarry, i diversi protagonisti della vicenda sono condannati a prendersi gioco l’un dell’altro in una spirale che non potrà far altro che peggiorare sempre più la situazione generale.

La Francia ha annunciato che non venderà più la propria energia elettrica all’Italia e, contemporaneamente, che si opporrà alla realizzazione di un metanodotto che porti dalla Spagna alla Germania, attraversando il suo territorio nazionale, il gas alla seconda. L’Austria, per alcuni giorni e per motivi inerenti al pagamento in rubli, ha fatto sì che l’Italia non ricevesse più il gas russo attraverso il valico di Tarvisio. Paesi dell’Est europeo si oppongono, come l’Ungheria, alle sanzioni alla Russia oppure chiedono un maggiore sforzo militare, come la Polonia, nei confronti della stessa, mentre i paesi fondatori dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica iniziano a tentennare davanti alla richiesta, ribadita da Zelensky, di un ingresso dell’Ucraina nella Nato per timore di un aggravarsi e di una conseguente svolta in senso nucleare del conflitto.

La narrazione ufficiale dei media, fino a pochi giorni or sono, continuava ad insistere sul progressivo allontanamento della Cina di Xi dalla Russia di Putin, travisando le parole del primo a proposito del “rispetto” dell’integrità territoriale degli stati e della loro autonomia politica che, più che all’Ucraina e ai referendum russi sui territori del Donbasss e del Lugansk, erano rivolte agli Stati Uniti affinché interrompano la loro azione di sostegno politico e militare a Taiwan, epicentro del conflitto futuro tra le due potenze rivali. Che più che libertà e diritti riguarderà lo scontro tra il dollaro e il renminbi yuan come monete di riferimento per gli scambi internazionali.

Nella sguaiata narrazione mediatica occidentale, i problemi sembravano essere sempre e soltanto quelli degli avversari, ignorando quelli altrettanto gravi e forse ancor più reali dello schieramento euro-occidentale, in cui il divide et impera statunitense ha giocato e continua a giocare un ruolo niente affatto secondario. Ma si sa, la speranza è l’ultima a morire e il tam tam della guerra avrebbe dovuto ancora una volta servire a distogliere l’attenzione di massa dai problemi immediati che dalla prima derivano e che potrebbero rimettere in discussione la stessa: caro bollette, crisi azionarie, chiusura di aziende, perdita di posti di lavoro e inflazione.

Alcuni di questi fattori, sovranismo rivelato dietro alle politiche nazionali degli stati più “convintamente europeisti” e divisione tra i membri europei della Nato, potrebbero far buon gioco al nuovo governo di centro destra. L’avvicinamento di Giorgia Meloni a Mario Draghi potrebbe essere più che il frutto di un inciucio europeista, quello della necessità del capitalismo italiano di riprendersi uno spazio di manovra nelle questioni energetiche e lo stesso iper-atlantismo della prima potrebbero ben accordarsi con una protezione accordata dagli Stati Uniti a un nascente governo non troppo allineato con la Germania. La cui riduzione della potenza economica e politica, ma domani anche militare, rimane uno dei principali obiettivi statunitensi in Europa, sia per i governi democratici che per quelli repubblicani. Del quale anche l’ambiguo e disastroso attentato alle condotte di North Strem 1 e 2 potrebbe essere una conseguenza e/o un’espressione.

Ad indebolire la futura azione di governo, però, più che le lotte che iniziano a svilupparsi contro le “bollette di guerra”, potrebbero essere le differenti promesse elettorali degli alleati contro cui la stessa Confindustria, nelle parole di Bonomi (niente flat tax e niente prepensionamenti!), ha levato una differente e contrarissima voce. Rischiando di far nascere un governo già morto allo stato fetale.

The ladder starts to clatter with fear fight.

La scala inizia a traballare con la paura della lotta, continuava ancora la canzone di Bill Berry, Peter Buck, Mike Mills e Michael Stipe.
Lo dimostra il fallimento del governo di Liz Truss alla sua prima uscita con la proposta dell’abbassamento, se non l’abolizione, delle tasse per i più ricchi. Ancora una volta non tanto, per ora, per la mobilitazione del movimento “Don’t Pay” che in qualità di primo ministro aveva cercato di esorcizzare con l’istituzione di un fondo plurimiliardario per la riduzione delle bollette, ma proprio per un attacco implacabile da parte degli organismi finanziari internazionali e del loro principale organo di informazione sul territorio britannico, il «Financial Times».

Dopo l’opposizione dei mercati, di buona parte del partito conservatore e dei maggiori quotidiani britannici, che hanno definito il piano, per l’abolizione delle tasse più alte per i più ricchi e del tetto alla remunerazione dei dirigenti bancari, della Truss e del suo ministro delle finanze Kwarteng, in alcuni casi, come folle e cattivo (mad and bad), il quotidiano della finanza inglese non ha potuto far altro che sottolineare come:

Resta da vedere se la disputa sulla rottamazione del tasso di 45p tempererà le ambiziose riforme dal lato dell’offerta di Truss volte a stimolare la crescita. Quando è diventata primo ministro il mese scorso, si è impegnata ad affrontare questioni di lunga durata relative alla pianificazione per aumentare la costruzione di case e l’accessibilità economica dell’assistenza all’infanzia, ma il suo fallimento con la riforma fiscale potrebbe farla riflettere. Un deputato conservatore che sostiene Truss ha dichiarato: “Se non riesce a ottenere un taglio delle tasse di 2 miliardi di sterline, non riesco a vedere come abbia una speranza nell’inferno di pianificare la riforma o qualsiasi altra cosa. Liz voleva essere radicale, ma ha fallito al primo ostacolo”1.

Nessuna altra Tatcher sembra dunque delinearsi all’orizzonte, sia sul piano internazionale che italiano, e questa potrebbe già essere una buona notizia per chi si oppone al modo di produzione dominante. Le cui difficoltà stanno esplodendo ben più rapidamente di quanto si potesse immaginare e senza nemmeno una sconfitta militare intercorsa davvero sul campo.

Semmai se c’è una cosa che, sul campo di battaglia, può essere anch’essa sintomo della fine di un certo mondo che conosciamo può essere individuata nel fatto che uno dei fattori delle difficoltà militari russe deriva proprio dal rifiuto di combattere e arruolarsi di molti giovani, e meno giovani, russi richiamati o chiamati alle armi in questo periodo.
Confermando quanto sostenuto da tempo, oltre che da chi scrive queste note, da Domenico Quirico in un coraggioso articolo su «La Stampa» del 30 luglio di quest’anno.

L’unica speranza che questo macello finisca dunque non è nelle abilità e nelle qualità dei leader dell’Est e dell’Ovest, regrediti a termini rozzi e primitivi, stupefacenti in un tempo e in un mondo reputati civili. Risiede semmai nella volontà rivoluzionaria di porvi fine di coloro che combattono, che vengono ogni ora, ogni giorno uccisi, da una parte e dall’altra, ucraini e russi. Abbiamo bisogno tutti, e soprattutto noi europei che questa guerra subiamo a un passo, di uno sciopero, eversivo, rivoluzionario, dei combattenti che riproponga con successo quanto accaduto nel 1917, durante la Prima guerra mondiale.
Dalle trincee in cui milioni di uomini ogni giorno sopportavano il contatto con la morte e ogni istinto di vita sotto i bombardamenti, la sporcizia, il furore omicida sembrava dover inaridire fino alla radice, esplose, dilagò improvviso irresistibile universale il grande sciopero della pace. In Russia fu, subito, Rivoluzione. Negli altri Paesi belligeranti (in Italia fu Caporetto) ci vollero i plotoni di esecuzione per domare la rivolta. Ma non fu che una breve tregua prima che il moto dilagasse un anno dopo come un fuoco in una pianura riarsa.
Ucraini e russi sono entrati in guerra ammalati dei loro particolarismi, di nazionalismo orgoglioso gli uni, di imperialismo brutale gli altri. Per due, tre mesi questi particolarismi e l’odio che la sofferenza fa crescere nei confronti del nemico, di chi ha aggredito e specularmente di chi, ostinato, non si arrende, resiste, uccide, sono stati sufficienti per motivare i combattenti, per sorreggere la propaganda.
Ma a contatto delle verità eterne e immutabili che la sofferenza sociale della guerra rimette ferocemente in luce giorno dopo giorno, gli uomini nelle trincee del Donbass e di Cherson sentiranno che il cerchio del loro orizzonte impedisce loro di pensare e di agire, li soffoca in una atmosfera assassina di morte e di inutili volontà.
[…] La fine rivoluzionaria di questa guerra criminale avverrà quando i combattenti si ribelleranno, insieme, alla sofferenza. Sono loro che gettando contemporaneamente i fucili possono rompere il cerchio dei pregiudizi, degli interessi, dei simboli vani, delle bugie. Sono loro che rifiutando di combattere spazzeranno, con il soffio del loro possente respiro di vittime, di sacrificati, il cerchio degli interessi che a Mosca e a Kiev non sono i loro.
[…] Non sono Putin e Zelensky, o Biden, che possono spezzare il cappio della guerra. Gli uomini di buona volontà a cui deve rivolgersi, scavalcando, ignorando i capi, sono gli uomini disperati, sporchi, esausti, straziati delle trincee. Il popolo della guerra.
Dopo mesi di sofferenza, di avversione alimentata tra loro, ora ucraini e russi hanno una cosa in comune: la sofferenza. Ora non credono più a quello che è accaduto, sanno che ancora una volta tutto è avvenuto per un errore di calcolo criminale2.

Ipotesi rafforzata ancora dagli scontri avvenuti in una base di arruolamento in prossimità di Mosca.

Nel 223esimo giorno di guerra in Ucraina, una maxi rissa tra nuove reclute e soldati è scoppiata in una base dell’esercito russo vicino Mosca. Secondo quanto riferito da Baza, «i nuovi arrivati» non hanno ricevuto un caldo benvenuto, ma al contrario «i soldati che prestavano servizio» nella base gli «hanno ordinato di consegnargli i vestiti ed i telefoni cellulari». Le nuove reclute – chiamate alle armi nel quadro della mobilitazione parziale annunciata da Puti – hanno respinto le richieste e ne sarebbe scaturita una rissa nella quale avrebbero avuto la meglio, tanto che circa 20 soldati si sarebbero rinchiusi in un edificio e avrebbero chiamato la polizia per chiedere aiuto3.

And a government for hire and a combat site
But it’ll do, save yourself, serve yourself.
World serves its own needs, listen to your heart bleed
It’s the end of the world as we know and I feel fine

E un governo a noleggio e un sito di combattimento/ma lo faranno e allora salvati, servi te stesso/Il mondo serve i propri bisogni, ascolta il tuo battito cardiaco/È la fine del mondo come lo conosciamo e mi sento bene.

Sì, a vederla in positivo e nonostante tutto, il vecchio mondo sta finendo. Con i suoi conflitti imperialistici e il suo scellerato dominio di classe. Con le sue tragiche diseguaglianze e le sue menzogne. E’ un mondo solo, come Draghi mentre parlava davanti ad un’aula delle Nazioni Unite deserta. Un mondo vecchio e moribondo che vorrebbe pace sociale e stabilità soltanto per continuare con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna, dell’ambiente e di ogni risorsa vitale fino al loro esaurimento. Un treno che sta lentamente rotolando sui binari della propria distruzione.

Per tutto questo, dunque, è giunto il momento per chi si batte nei movimenti di carattere sindacale, territoriale e ambientale di unire le forze in direzione di un unico obiettivo comune: accelerare la tendenza all’inevitabile superamento dell’attuale modo di produzione. Whatever it takes!

(18 – continua)


  1. Sebastian Payne, George Parker e Jim Pickard, Truss finally admits defeat on tax benefit for the wealthy, «Financial Times», 3 ottobre 2022  

  2. Domenico Quirico, Uno sciopero dei soldati come nel 1917, l’unica speranza per arrivare alla pace, «La Stampa», 30 luglio 2022  

  3. Guerra Russia-Ucraina, maxi rissa tra reclute e soldati in una base vicino a Mosca, «La Stampa», 4 ottobre 2022  

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Europa e Russia, una incomprensione di culture in “Arca russa” e “Nostalghia” https://www.carmillaonline.com/2022/07/17/europa-e-russia-una-incomprensione-di-culture-in-arca-russa-e-nostalghia/ Sun, 17 Jul 2022 21:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72960 di Paolo Lago

All’inizio c’è solo oscurità, silenzio, spaesamento: così comincia Arca russa (Russkij Kovčeg, 2002) di Aleksandr Sokurov. Un personaggio, che non vediamo mai e che appare soltanto sotto le vesti di voce narrante (presumibilmente lo stesso regista), si ritrova al buio, in un luogo che non conosce; solo successivamente, in modo graduale, comincia a rendersi conto di dove si trova. Quel personaggio coincide con lo sguardo degli spettatori che, insieme a lui, iniziano un onirico viaggio all’interno di un unico piano-sequenza che costituisce l’intero film. Il viaggio avviene dentro il Palazzo [...]]]> di Paolo Lago

All’inizio c’è solo oscurità, silenzio, spaesamento: così comincia Arca russa (Russkij Kovčeg, 2002) di Aleksandr Sokurov. Un personaggio, che non vediamo mai e che appare soltanto sotto le vesti di voce narrante (presumibilmente lo stesso regista), si ritrova al buio, in un luogo che non conosce; solo successivamente, in modo graduale, comincia a rendersi conto di dove si trova. Quel personaggio coincide con lo sguardo degli spettatori che, insieme a lui, iniziano un onirico viaggio all’interno di un unico piano-sequenza che costituisce l’intero film. Il viaggio avviene dentro il Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, e la voce narrante si ritrova proiettata nella Russia del Settecento e dell’Ottocento. Attraverso le sale del palazzo intravede lo zar Pietro il Grande, l’imperatrice Caterina II e poi, nel corso del tempo, gli zar Nicola I e Nicola II. Il personaggio sembra fatto di pura coscienza e di pura voce e non viene visto da nessuno tranne che da un altro personaggio incontrato nel suo incedere, che appare come un misterioso nobile europeo che ha partecipato, in qualità di diplomatico, al Congresso di Vienna. Se la voce narrante rappresenta uno sguardo prettamente russo, il diplomatico possiede uno sguardo e un modo di vedere tipicamente europei e finisce per coincidere con la stessa Europa.

Successivamente, nel loro viaggio temporale, i due personaggi giungono ai giorni nostri, quando il Palazzo d’Inverno è già diventato il museo dell’Ermitage, e si muovono nei corridoi e nelle sale a contemplare la bellezza delle opere d’arte. Il diplomatico si muove flessuoso e baldanzoso attraverso le sale e, quasi novello Casanova felliniano, intrattiene galanti convenevoli con alcune signore intente ad ammirare quadri e statue. Alle espressioni culturali ed artistiche russe, il diplomatico europeo (forse francese?) preferisce notevolmente l’arte, appunto, europea. Di fronte alla bravura di alcuni musicisti, ad esempio, afferma che sono sicuramente italiani mentre la voce narrante ribatte che, invece, sono russi; ammira Rubens, Van Dyck, la pittura fiamminga, i soggetti religiosi occidentali e, soprattutto, una scultura di Canova. L’arte e la cultura russa sembrano talmente lontani dal suo orizzonte visivo che, all’inizio, dice alla voce narrante che il luogo in cui si trovano sono i musei vaticani. Al che, il personaggio narratore controbatte che invece si trovano nell’Ermitage. Il movimento temporale ed estetico attraverso i saloni dell’Ermitage è perciò connotato da una costante incomprensione culturale fra il personaggio del diplomatico (che si trova nella sua epoca ma non nel suo paese) e il narratore (che si trova nel suo paese ma, per gran parte del viaggio, non nella sua epoca).

Il diplomatico europeo è connotato come istrionico e misterioso, quasi toccato da tonalità faustiane, loquace e spinto da una curiosità e un interesse per qualsiasi manifestazione culturale ed artistica russa che i personaggi incontrano nel viaggio temporale attraverso il lungo corridoio e i saloni. Ma questo interesse sfocia presto in una incomprensione, in una incapacità di sondare fino in fondo quel mondo che, attraverso i secoli, brulica nello scenario del Palazzo d’Inverno. Il movimento della macchina da presa è cunicolare e mima l’incedere del tempo, un tempo che fluisce come un fantasma nei dolorosi spasmi della Storia. In tale movimento cunicolare, che sembra percorrere le oscure vie di un tunnel, si intersecano le simultaneità di un presente del passato, di un presente del presente e di un presente declinato in un futuro che appare denso e fumoso, nell’inquadratura finale. Lo stesso tempo appare terribile e inesplicabile e la voce narrante, che rappresenta la Russia, non riesce a sua volta a comprendere le parole del diplomatico, che assumono le sembianze di ironiche e magniloquenti allocuzioni sul piacere estetico. Se l’Europa, nelle vesti del diplomatico, appare baldanzosa e forte delle proprie potenzialità culturali e artistiche, la Russia, nelle sembianze di una voce di cui non vediamo neppure la fonte (una voce spettrale, acusmatica, come direbbe Michel Chion), è contornata di delicatezza e titubanza, di circospezione, di esitazione e di rispetto per il luogo nel quale ci si trova. Il diplomatico europeo sembra non riuscire neppure a comprendere gli orrori della guerra: non esita infatti ad aprire una porta nonostante la voce ‘russa’ gli abbia detto più volte di non aprirla. Dietro di essa si cela l’orrore della seconda guerra mondiale e le sale devastate dell’Ermitage sono ormai sature di bare; il personaggio europeo non riesce allora a capire il dolore e l’angoscia di un anziano che, in quello spazio ormai annientato dagli orrori della guerra, si sta costruendo la propria bara. Anche la guerra, l’orrore, la distruzione e la morte, a quegli occhi europei appaiono come istrionici scherzi, come i languidi sorrisi di quelle vampiresche fanciulle che, sulle ali del tempo, si librano correndo attraverso i corridoi del palazzo.

Anche la sequenza in cui il poeta russo Gorčakov e la sua traduttrice italiana Eugenia, giunti nel paesino toscano di Bagno Vignoni, stanno aspettando la camera d’albergo, in Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij, è immersa nel buio e nel silenzio, come all’inizio di Arca russa. In questo caso, il poeta rappresenta la Russia mentre la giovane – che, nell’interpretazione di Domiziana Giordano, bionda e prorompente, ricorda le figure femminili dell’arte rinascimentale italiana – l’Italia e, più in generale, l’Occidente. Mentre Eugenia sta leggendo in traduzione un libro di poesie di Arsenij Tarkovskij, padre del regista, Gorčakov afferma che è impossibile tradurre la poesia e che è altrettanto impossibile, per due culture diverse come quella russa e quella europea, riuscire a comprendersi. Eugenia ribatte che, invece, le due culture, sia a un livello letterario che artistico, in qualche modo, riescono a comprendersi. Come il diplomatico europeo del film di Sokurov, la giovane traduttrice appare mossa da una spinta positiva nei confronti di una cultura diversa, una positività che probabilmente cela leggerezza e incapacità di sguardi profondi. Il poeta russo, in Nostalghia, afferma, in modo perentorio: “Voi non capite niente della Russia”, dicendo che neppure i russi riescono a capire niente di Dante, Petrarca o Boccaccio. Del resto, il film porta nel titolo un’afflizione tipicamente russa, una “nostalgia” che diviene una vera e propria malattia, difficile da capire per un occidentale. Lo stesso Gorčakov è totalmente avvolto da questa malattia che, oniricamente, gli fa apparire come spettri i suoi paesaggi russi e i suoi familiari lontani. L’unica soluzione per comprendersi – dice – è quella di abbattere le frontiere dello stato, quelle politiche, in un periodo storico comunque molto diverso da quello attuale. Sembra, però, che anche oggi ci sia molta difficoltà nel comprendersi, fra Russia e Occidente. Tale incomprensione è emersa a livelli iperbolici e grotteschi (come la cancellazione di un corso universitario su Dostoevskij o il divieto di artisti russi di esibirsi in Occidente) nel momento in cui è scoppiata la guerra fra Russia e Ucraina. L’intero Occidente, ottusamente, ha fatto fronte compatto contro qualsiasi espressione culturale russa, arrivando a censurare anche personaggi pubblici e dello spettacolo dichiaratamente contrari al regime di Putin.

Di fronte alla prorompenza e all’estrema raffinatezza estetica dell’arte italiana, lo stesso Gorčakov si blocca, si ferma: se uno dei motivi per cui era arrivato in Italia era vedere la Madonna del Parto di Piero della Francesca, nel momento in cui ha la possibilità di osservarlo dal vivo sceglie di non entrare nella stanza dove è custodito il dipinto. D’altra parte, l’arte rinascimentale italiana, soprattutto quella di Leonardo da Vinci, ha sempre ossessionato Tarkovskij, secondo il quale l’Occidente, soprattutto a partire dal Rinascimento, si era allontanato dalle caratteristiche fondanti dell’arte russa, dedita alla semplicità delle icone sacre. In molti suoi film l’arte di Leonardo appare rivestita di un fascino ambiguo e perverso come ad esempio in Solaris (1972), ne Lo specchio (Zerkalo, 1975) e in Sacrificio (Offret, 1986). L’ambiguità connota anche il personaggio europeo del film di Sokurov: come accennato, egli possiede alcune tonalità faustiane che lo fanno partecipe ugualmente del bene e del male, come “una parte di quella forza che eternamente vuole il male, e eternamente opera il bene”, come scrive Goethe nel Faust (non a caso, Sokurov nel 2011 ha tratto un film proprio da questa celebre opera del poeta tedesco).

Continuando il viaggio attraverso i corridoi del palazzo, in Arca russa, emerge anche la greve solennità dei rituali dell’aristocrazia russa. L’europeo e la voce narrante si muovono come fantasmi fra i plenipotenziari della nobiltà, solennemente irrigiditi durante il rituale delle scuse dell’ambasciatore di Persia allo zar Nicola I. Il diplomatico faustiano sembra quasi giocare col tempo, muovendosi a zig zag fra i nobili impettiti, racchiusi dall’opulenza delle loro uniformi, grevi e antiche, sature del fascino di “oggetti desueti”, iperbolici, carichi di ere ormai spente. Ma dopo la solennità del rigido e silenzioso rituale, c’è quella della festa, del concerto in cui esplode l’anima festosa della Russia, quella semplicità e quel silenzio che si sono fatti carne e suono, voluttà ed estasi. E allora, adesso, sarà l’europeo a bloccarsi, a fermarsi, a non riuscire a proseguire il suo viaggio. Si ferma e rifiuta di comprendere fino in fondo la cultura del paese in cui si trova, scegliendo di non sapere mai che cosa è e che cosa sarà quell’immensa “arca russa”. Di fronte agli inviti della voce narrante (“andiamo avanti”), l’europeo dice: “io rimango qui”. La macchina da presa, che ormai coincide totalmente con la voce narrante (che esprime un laconico: “Addio Europa”) e con lo sguardo autoriale, lentamente, lasciando lo strepito della festa, facendosi largo fra ambigue fanciulle mascherate perdute in lascive movenze teatrali, rigide damigelle e nobili impettiti, esce da una finestra del palazzo per ritrovarsi completamente circondata dal mare e da un vento di tempesta.

Mentre lo sguardo autoriale sta per uscire dalla finestra, riecheggiano queste parole, quasi perdute nel vento, rivolte al nobile europeo: “signore, signore, peccato che lei non sia qui con me, lei avrebbe capito ogni cosa, guardi, c’è il mare tutt’intorno, e dovremo navigare per sempre, e vivere, per sempre”. La Russia è un’arca, una grande nave che deve andare avanti,  che deve continuare a navigare e vivere per sempre. L’Europa avrebbe capito ogni cosa, se solo avesse avuto il coraggio di proseguire, di vedere e capire fino in fondo. E anche oggi, questa Europa baldanzosa, irretita nei suoi distruttivi fasti economici e bellici, ambigua e pretenziosa, sembra non riuscire a comprendere la grande arca russa che continua la sua navigazione in mari ghiacciati, fra le spire e le tempeste del tempo, per non morire.

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