Punk – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Semiologia di una svolta “epocale” https://www.carmillaonline.com/2025/03/12/linee-di-tendenza-e-svolte-epocali/ Wed, 12 Mar 2025 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87245 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 348, 22 euro.

Fondamentalismo religioso, populismo, capitalismo d’assalto, uso distorto delle tecnologie: le origini del presente sono da ricercare negli anni Ottanta, quando tutto cominciò con due attentati: uno al papa, che si salvò e uscì vincitore dallo scontro con il “mostro” sovietico; l’altro a John Lennon, trafitto da quattro colpi di pistola alla schiena all’angolo della 72 ͣ con Central Park West. Faceva un freddo becco, quel giorno. Il mondo stava cambiando. (Diego Gabutti, Ottanta)

Giunti ancora una volta ad un [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 348, 22 euro.

Fondamentalismo religioso, populismo, capitalismo d’assalto, uso distorto delle tecnologie: le origini del presente sono da ricercare negli anni Ottanta, quando tutto cominciò con due attentati: uno al papa, che si salvò e uscì vincitore dallo scontro con il “mostro” sovietico; l’altro a John Lennon, trafitto da quattro colpi di pistola alla schiena all’angolo della 72 ͣ con Central Park West. Faceva un freddo becco, quel giorno. Il mondo stava cambiando. (Diego Gabutti, Ottanta)

Giunti ancora una volta ad un marinettiano e, ormai, tutt’altro che futuristico «estremo promontorio dei secoli» del mondo che conosciamo, o che credevamo di conoscere, torna utile riandare, con il testo appena pubblicato da Neri Pozza nella collana Colibrì, ad un altro svolto storico importante del secolo passato: quello degli anni Ottanta.

Diego Gabutti, con la sua lingua tagliente e lo sguardo ironico come al solito, ci conduce a rivisitare un momento in cui le illusioni dei due decenni precedenti, o forse quattro considerando tutto il tempo intercorso tra la fine del secondo conflitto mondiale e gli anni di cui si parla nel libro, sarebbero finite o, perlomeno, sarebbero state messe seriamente in crisi.

Sia chiaro, ad essere rimesse in discussione non furono soltanto le foscoliane illusioni del cuore, ma tutto l‘insieme di certezze di vario colore e senso politico, economico e culturale, su cui si era retto il mondo dei cosiddetti “Trenta ruggenti” ovvero gli anni intercorsi grosso modo tra il 1945 e il 1975, marcati da un’espansione economica che ebbe nell’Occidente, e in particolare nell’Europa del Mercato Comune, il suo baricentro consumistico e di benessere sociale.

Un ribaltamento delle prospettive che ha permesso in seguito di parlare di una sorta d nuova rivoluzione “conservatrice”, ammesso che una rivoluzione possa mai essere conservatrice, di cui Ronald Reagan, papa Wojtyla e Margaret Thatcher avrebbero costituito, ma soltanto col senno di poi, i deus ex-machina. Ma il cui primum movens fu forse quello di riportare nelle tasche dei “ricchi” ciò che per un illusorio momento era finito nelle tasche dei “poveri”.

Tutto questo secondo l’autore, e proprio in ciò risiede il maggior pregio del libro, non fu pianificato a tavolino, come troppo spesso le letture eccessivamente semplificate della storia e della politica vogliono suggerire, ma fu invece la conseguenza di una miriade di fatti di cui, pur non potendo elencarli tutti, l’autore ci racconta, più che spiegare, l’essenza in trentadue capitoli, più un Prologo ed un Epilogo, che vanno dal capodanno del 1980 con l’invasione sovietica dell’Afghanistan alla caduta del Muro di Berlino. Insomma: Dieci anni che sconvolsero il mondo, come giustamente recita il titolo.

C’erano state, nel giro di soli trent’anni, due guerre devastanti, guerre al di là d’ogni indignazione, perché come ci sono vignette comiche senza parole ci sono anche tragedie mute, o meglio ammutolenti: nubi di gas tossico sulle trincee, città incenerite, pietà l’è morta, il genocidio pianificato degli ebrei e degli zingari e prima ancora degli armeni, campi di lavoro, filo spinato, bombe nucleari, il nazifascismo e il bolscevismo sciamanti in ogni continente come la cavalleria dell’Apocalisse. Sembrava, ed era, la fine del mondo. Nell’ombra delle due guerre mondiali, vinte dai buoni ma non del tutto perdute dai cattivi, prendevano forma la cosiddetta «guerra fredda», che impazzava da un capo all’altro del pianeta, e il suo doppio sociologico: la guerra civile in permanenza che attraversava (e ancora attraversa) le società aperte, e che è la vera eredità del Novecento.

[…] Eppure, inconfutabile, di un’evidenza abbagliante, ecco il miracolo del secondo dopoguerra: rock’n’roll, piena occupazione, anticoncezionali e automobili col sedile ribaltabile che cambiano per sempre la vita sessuale dell’umanità occidentale, televisione, radioline a transistor, lo sbarco sulla Luna, la Beat Generation, Hollywood, un ascensore sociale funzionante a pieno regime, Volare oh-oh, il nascente turismo di massa, Elvis Presley, My Way, i Beatles, Satisfaction, la decolonizzazione, mutui facili da estinguere, il boom edilizio, i cineclub, Agente Lemmy Caution: missione Alphaville e Ma papà ti manda sola?, le vacanze al mare, sindacati potentissimi, generose (e precoci) pensioni per tutti, libertà di pensiero come nemmeno nei sogni più arditi degl’illuministi, libri economici diffusi in milioni di copie, il west di Sergio Leone, il movimento studentesco, la bestemmia non è più un reato, il femminismo, l’educazione permissiva, Il Padrino, la chirurgia dei trapianti e quella estetica, i vaccini, ogni sorta di miracoloso farmaco salvavita, l’età media che sale ad altezze vertiginose. Mai nella storia universale s’erano viste nazioni così opulente e generazioni così sazie, così istruite, così edoniste, e così politicamente impegnate, così militanti, e soprattutto così forever young, decise a rimanere giovani per sempre, come nel secondo dopoguerra, negli anni tra il 1945-46 e i primi Settanta, quando l’Occidente conosce una crescita e una trasformazione senza precedenti. Isole incantate e mari blu fin dove arrivava l’occhio.

[…] il capitalismo, qualunque cosa se ne sdottoreggi in giro, non è regolato da leggi; e non è nemmeno autocosciente, a differenza delle malmostose e iettatorie IA o intelligenze artificiali dei film di fantascienza (e oggi anche degli editoriali chic-choc dei giornali). Come sia capitato il secondo dopoguerra, e perché sia capitato, o dove abbia affondato le sue radici, non lo sa dunque nessuno, tanto meno lo stesso «grande capitale» (così s’ostinano a chiamarlo, duri, i marxisti pomposi e irriducibili) che pure di questa speciale festa è stato il generoso anfitrione. Non lo sa «il sistema», altro nome del babau sociologico che tutti sovrasta, e non lo sanno i chiromanti né gli economisti. Figurarsi se lo sanno gli editorialisti dei giornali, che tanto meno sanno e capiscono tanto più montano in cattedra. Capitato e basta – prima non c’era niente di simile o anche solo di paragonabile ed ecco che d’un tratto l’abbondanza era lì e il mondo si vestiva a festa – questo portento non suscitò sorpresa, ma fu dato per scontato, o meglio per dovuto, come se ci fosse sempre stato e così dovesse restare, eterno e inviolabile come un contratto sottoscritto col sangue nello studio odoroso di zolfo d’un notaio da melò luciferino1.

Eppure, eppure…un giorno o un anno o un decennio,,, all’improvviso…

Non ci fu mai, intendiamoci, una brusca frenata, tanto meno la crisi spaventosa profetizzata da Marx e corifei, come quando la produzione di beni si schianta, le banche falliscono, la gente si tuffa giù dai tetti e le strade si riempiono di senzatetto (tipo Furore di Steinbeck) che dormono all’addiaccio, arrostendo patate e cipolle rubate nei campi al fuoco crepitante dei falò. Niente di tutto questo. Solo che a un certo momento si dovette ammettere che il party dell’abbondanza era finito. Uno schianto, dopotutto, c’era stato.
[…] Morale: a metà dei Settanta, i nodi del boom (anzi dei boom, al plurale) vennero rapidamente, o meglio fulmineamente, al pettine – e la festa abortì. Un attimo prima rock’n’roll, l’attimo dopo ogni band taceva.[…] Nessuno s’aspettava né aveva previsto il saltafosso degli anni Ottanta esattamente come nessuno – venti, trent’anni prima – s’era aspettato o aveva previsto l’incantato Paese dei Balocchi del secondo dopoguerra. Non di meno l’incanto ci fu, e poi svanì2.

Tra tutte le storie che Gabutti ci narra nei capitoli successivi per illustrare, più che cercare di capire, le infinite cause che avrebbero portato al ribaltamento dei valori e delle tasche nel corso degli anni Ottanta, sembra particolarmente significativa la vicenda dell’incontro fatale, dostoevskiano si potrebbe quasi definire, tra una delle icone della cultura pop degli anni Sessanta e Settanta e un giovane sconosciuto e depresso della fine di quel periodo, che avrebbe in qualche modo contribuito a definire l’inizio del nuovo.

La data è fatale: 8 dicembre 1980, il primo anno del nuovo decennio sta per concludersi e, dal capodanno afgano all’elezione di Ronald Reagan, ha già visto succedere some weird things, alcune cose che, qualche tempo prima, sarebbero state considerate “strane” oppure impossibili. Ma lì, in quel momento e sulle scale che scendono dal Dakota Building, dove John Lennon vive con Yoko Ono, il sogno del punk più feroce di far fuori il rock e le rockstar precedenti, si avvera. Con spari, sangue, morto e tutto il resto. Altro che Sid Vicious nell’esilarante e feroce performance di My way messa in scena nel film The Great Rock’n’Roll Swindle di Julian Temple (uscito anch’esso nel 1980).

Il giovane (tenete a mente questo aggettivo) Rodion Romanovič Raskol’nikov, protagonista di Delitto e castigo, quando nella realtà si presenta sulla scena per fare la posta al cantautore di Imagine, veste i panni e i malesseri esistenziali di Mark David Chapman, bambino difficilissimo di Fort Worth, Texas occidentale, che in tasca non ha soltanto una Charter Arms Undercover calibro.38, ma anche una copia di The Catcher in the Rye, da noi Il giovane Holden, il romanzo di J.D. Salinger apparso in prima edizione nel 1951, all’inizio di tutto. «Holden Caulfield, il protagonista del romanzo, è l’Ur-adolescente –l’adolescente originario dei Fifties e Sixties e Seventies a venire.» Con Holden era cominciata l’avventura dei giovani ribelli «che si conclude bruscamente ventinove anni più tardi, l’8 dicembre del 1980, quando Mark David Chapman spara a John Lennon. Parentesi aperta, parentesi chiusa.»3

[Lennon] È stato un giovane della classe operaia inglese che ascolta Mystery Train e Rock around the Clock alla radio e capisce la musica meglio di quanto capisca o presti attenzione a qualunque altra cosa. Incontra un’anima affine, Paul McCartney, un altro musicofilo di Liverpool stregato come lui dal rock’n’roll, col quale mette in piedi una band e porta le canzonette orecchiabili dove non sono mai state prima: «tra i modelli di comportamento», dove secondo il filosofo [Bob Dylan] sono state di guardia fino a quel giorno, cioè prima dei Beatles e di quel che ne è seguito, soltanto le opere d’arte.»4

Forse Chapman, oltre che di americanissimo cibo spazzatura, si è nutrito di quelle canzonette e di quei modelli comportamentali. Mentre John, dopo l’incontro con Yoko, per così dire, si è intellettualizzato. Una miscela potenzialmente esplosiva:

patatine fritte nell’olio saturo e affogate nella maionese, manuali controculturali che inneggiano al furto e alla guerriglia, poster di Che Guevara, hot dog stracarichi di senape e ketchup e bacon e salse senza nome, John Lennon che canta Power to the People e Woman is the Nigger of the World (insomma canzoni sempre più ruffiane tirandosela da militante di sinistra, proprio lui che, quando cantava Revolution con Paul e Ringo e George, metteva bene in chiaro a futura memoria che non gli piacevano tutti quei ritratti del presidente Mao in giro per le strade e che non era il caso di chiedere soldi per la rivoluzione a lui e agli altri ragazzi, che di quelle sciocchezze non ne volevano sapere). Proprio Lennon ricapitola da solo l’intera stagione dei boom5.

Il fatidico incontro tra il “creatore” e il suo prodotto culturale e sociale, proprio come in Blade Runner di Ridley Scott (1982) i replicanti umanoidi cercano il loro ideatore per risolvere i loro problemi oppure ucciderlo, non potrà essere che catastrofico, finendo col definire una delle infinite linee di tendenza che avrebbero contribuito a fare degli anni Ottanta ciò che, poi, sarebbero stati.

Gli altri trentuno capitoli procedono in ordine cronologico accompagnando il lettore a scoprire i sintomi del cambiamento all’epoca in atto e l’infinito disordine che regna in un mondo retto da nessun fato. Di cui soltanto il caso e il caos possono delinearne il divenire futuro, al di fuori di ogni oggettività data per scontata e di ogni impossibile e fasullo sogno di “geometrica potenza” rigeneratrice.


  1. D. Gabutti, Prologo o delle utopie realizzate in D. Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 12-15.  

  2. Ivi, pp. 15-17.  

  3. D. Gabutti, Pop. John Lenno e le culture della società opulenta in D. Gabutti, op. cit., pp. 58-59.  

  4. Ivi, pp. 59-60.  

  5. Ibidem, p. 59.  

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Elogio dell’eccesso / 7: David Johansen (1950-2025) and the New York Dolls https://www.carmillaonline.com/2025/03/04/elogio-delleccesso-7-david-johansen-1950-2025-e-i-new-york-dolls/ Tue, 04 Mar 2025 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87178 di Sandro Moiso

Something must have happened over Manhattan Who can expound all the children this time? (Frankenstein – New York Dolls, 1973)

E’ morto il 28 febbraio l’ultimo superstite della band che forse, più di ogni altra chiamata successivamente in causa, ha contribuito in largo anticipo alla rifondazione del rock’n’roll attraverso il punk. A settantacinque anni, dopo cinque anni di silenzio e allontanamento definitivo dalla scena musicale in seguito al cancro che lo aveva colpito, l’ex-front man e cantante dei New York Dolls ha raggiunto i suoi ex-compagni, tutti già scomparsi da anni, in qualche punto di un universo [...]]]> di Sandro Moiso

Something must have happened over Manhattan
Who can expound all the children this time?

(Frankenstein – New York Dolls, 1973)

E’ morto il 28 febbraio l’ultimo superstite della band che forse, più di ogni altra chiamata successivamente in causa, ha contribuito in largo anticipo alla rifondazione del rock’n’roll attraverso il punk. A settantacinque anni, dopo cinque anni di silenzio e allontanamento definitivo dalla scena musicale in seguito al cancro che lo aveva colpito, l’ex-front man e cantante dei New York Dolls ha raggiunto i suoi ex-compagni, tutti già scomparsi da anni, in qualche punto di un universo in cui ancora la provocazione si accompagna alla rabbia e alla disillusione con esiti tutt’altro che scontati.

Oggi è facile, troppo facile, presentarsi sui palchi finti-rock con atteggiamenti ambigui, reggicalze indossati da uomini truccati e bassiste a seno scoperto, per fingere di rappresentare una “novità” o, peggio ancora, una “provocazione”, ma, che dio ce ne scampi, non sono altro che rifritture di quanto avvenuto sulla scena musicale anglo-americana ad inizio anni Settanta con l’esplodere del fenomeno glam-rock, di cui l’esponente di maggior spicco fu certamente Marc Bolan (1947-1977) e che per David Bowie (1947-2016) avrebbe rappresentato soltanto uno dei momenti di passaggio di una più che camaleontica carriera,

Le date di nascita dei protagonisti sembrano parlare, per i giovani d’oggi, di un’età lontana e di dinosauri e non a caso, forse ancora, lo stesso Marc Bolan, dopo una breve esistenza del suo primo gruppo di ispirazione psichedelica, i John’s Children1 avrebbe raggiunto il successo con un gruppo denominato nella sua prima formazione acustica Tyrannosaurus Rex e successivamente, nella fase elettrica, più semplicemente T.Rex.

Sì, ma che dinosauri e tirannosauri! Come impararono rapidamente gli adolescenti dell’epoca che, per la prima volta, colsero in quelle espressioni, a metà strada tra provocazione e vena intimistica proiettata con forza fuori dal misero sé, con un nuovo e semplificato stile musicale e di abbigliamento transgender, un ulteriore passo verso la liberazione individuale e di genere. Come ha affermato Dick Hebdige, non solo il glam, dai Roxy Music a Bolan, passando per David Bowie:

era apertamente disinteressato sia alle questioni politiche e sociali dell’epoca sia alla vita della working class in genere, ma tutta la sua estetica veniva affermata evitando deliberatamente il mondo “reale” e il linguaggio prosaico in cui quel mondo veniva abitualmente descritto, vissuto e riprodotto. […] Quando si affrontava la “crisi” contemporanea”, ciò accadeva in maniera così indiretta che veniva rappresentata in forma metaforica come un mondo morto di umanoidi, ambiguamente piacevoli e oltraggiosi. […] cionondimeno si dovette [al glam] se furono sollevati per la prima volta problemi di identità sessuale che erano stati precedentemente repressi, ignorati o appena ccennati nel rock e nella cultura giovanile. Nel glam rock, almeno fra quegli artisti che si collocavano, come Bowie e i Roxy Music, all’estremità più sofisticata di quello scintillante spettro, l’enfasi sovversiva si spostò dalla classe e dai giovani sulla sessualità e sulla tipologia sessuale. Benché Bowie fosse ben lontano dalla liberazione intesa nel senso radicale corrente, dando la preferenza al dandysmo e al travestimento – a ciò che Angela Carter ha descritto come “l’ambivalente trionfo dell’oppresso”2 – più che un”autentico” superamento dei ruoli sessuali, egli e per estensione quelli che copiavano il suo stile “misero” effettivamente “in discussione il valore e il significatondell’adolescenza e il passaggio al mondo adulto del lavoro”. E lo fecero in un modo singolare, per mezzo di una confusione arificiosa delle immagini maschili e femminili, tramite le quali si compiva tradizionalmente il passaggio dall’infanzia alla maturità3.

In quel contesto e in quegli anni, però, continuando con la metafora preistorica, i New York Dolls formatisi e cresciuti nella Grande Mela, rappresentarono i velociraptor della scena musicale. Poco romantici e retrò, ma autentici assassini di chitarre e note, con un sound ispirato ai Rolling Stones più selvaggi e ai Velvet Undergroundi, autentici santi patroni dei bassifondi della città4, i Dolls ebbero all’inizio vita difficile.

La facile sistematizzazione “rockettara” li ha spesso inseriti nel genere glam, quello di Bolan, dei T.Rex, Gary Glitter, Roxy Music e, per un periodo come si è detto, anche di Bowie, ma si tratta soltanto di una forzatura. Basta infatti ascoltare anche una sola nota uscente da una delle loro canzono più famose, come Personality Crisis, Vietnamese Baby oppure Frankenstein, per capire che siamo già da un’altra parte, su un altro pianeta: quello del punk.

David Johansen (voce e armonica a bocca, 1950-2025), Johnny Thunders (chitarra e voce, 1952-1991), Sylvain Sylvain ( chitarra, tastiere e voce, 1951-2021), Arthur Harold “Killer Kane” (basso elettrico, 1949-2004) e Jerry Nolan (batteria, 1946-1992), dalla meravigliosa copertina del loro primo album, intitolato semplicemente New York Dolls, già promettevano sfracelli. Cinque potenziali juvenile delinquent travestiti e truccati, con scarpe dai tacchi a spillo, rivolgono uno sguardo minaccioso all’intero ordine macho e perbenista del mondo.

In realtà abiti e trucchi provenivano, almeno per alcuni di loro, dai guardaroba e dalle toilette delle madri, come avrebbero poi confessato in alcune interviste5, ma l’ispirazione e la postura, oltre che dai già citati Rolling Stones, discendeva direttamente da quelle di Iggy Pop e dei suoi scelleratissimi, almeno per i benpensanti e i “brown shoes” di cui già aveva cantato Frank Zappa6, Stooges della Detroit ancora fiammeggiante di rivolte e musica heavy metal7.

Come ci spiega Steven Blush:

Nel 1970 New York era caduta in rovina. Il dissesto economico aveva catapultato ls capitale americana del business e della cultura in un inferno criminale popolato di rapinatori, prostitute, senzatetto, ladri e truffatori. Il braccio violento della Legge e Kojak ne coglievano la ferocia e il degrado, ma non il sovraccarico olfattivo causato da spazzatura, gas di scarico ed escrementi di origine ignota. […] Mentre l’America attraversava lo sfinimento post-Vietnam, il rock dopo la morte di Jimi, Jim e Janis, risentiva dello stress post-Woodstock. Il rock era diventato autentico e introspettivo [e] raggiunse il suo punto più basso con il Concert for Bangladesh di George Harrison che si tenne nell’agosto del 1971 al Garden (il primo evento di beneficenza di una rock star), una faccenda autoreferenziale e mal gestita che intimidì il pubblico e i cui proventi non arrivarono praticamente mai ai bambini affamati. Il “flower power” sembrava già una storia di secoli prima. Erba e acidi cedettero il posto a cocaina, speed ed eroina8.

In quel contesto anche l’adolescenza doveva perdere la sua innocenza, vera o presunta che fosse mai stata. Lo stesso David Johansen avrebbe ricordato in un’intervista rilasciata nel 1997:

Quando si sono formati i Dolls, era il tempo in cui tutti, almeno nell’East Village, prendevano un sacco di acido, ed erano in fissa con questa utopia dell’androgino. E’ stato allora che si è formato il femminismo radicale e il collettivo “Up Against the Wall Motherfuckers” – anche io me la facevo con quella gente. Ci vestivamo sempre in quel modo. Non è che ci siamo riuniti e abbiamo deciso: “Vestiamoci in modo provocatorio” – è stata la cosa che ci ha accomunati tutti fin dall’inizio. […] Certa gente ci molestava, ma finiva inevitabilmente per pentirsene9.

Come i Fugs e i Velvet Underground prima di loro, rappresentavano una nuova specie di rocker newyorkesi. Uno dei primi gruppi a esibirsi nei locali come Max’s Kansas City, Mercer Arts Center, l’Hotel Diplomat, i drag bar dell’East Village e il Mother’ in prossimità del Chelsea Hotel. I cinque mettevano in scena un rock fatto di Off Off Broadway, Rhythm and Blues della vecchia scuola, nichilismo tossico e l’estremizzazione del bad boy travestito da donna. Per l’epoca una miscela potenzialmente esplosiva. E’ ancora una volta Johansen a descrivere quella scena:

Eravamo decisi ad annientare quella sensazione di “gabbia dorata” da rock star. Quando suonavamo la Mercer, il pubblico saltava sul palco e ballava. Volevamo essere diversi perché odiavamo tutti quei fottuti tizi che pensavano di essere migliori di chiunque altro. Per quanto ci riguardava erano solo un branco di idioti10.

Mentre sulle origini effettive della band ci rammenta poi ancora che

St. Marks Place, da ragazzino quella strada era tutta mia. Conoscevo un mucchio di gente, ed erano tutti artisti alternativi. Quello era il vero underground; non era tutto omologato. Quando avevo circa diciassette anni lavoravo in un negozio di cianfrusaglie chiamato Matchless a St. Mars Place: facevano orecchini con lattine di birra. Il proprietario era anche un costumista e scenografo che lavorava con il Ridiculous Theatre. Ho iniziato a lavorare per lui e la paga faceva schifo, ma grazie a lui ho conosciuto tutta qquesta gente del Ridiculous Theatre che frequentava il negozio. All’inizio era una specie di tuttofare del Riculous. Luci, suono […] ho anche scritto delle canzoni per loro. A volte suonavo – male- la chitarra. […] La sera andavamo al Max’s. Nessuno aveva un soldo e lì si potevano mangiare gratis panini e insalata. E’ stato più o meno in quel periodo che ho conosciuto Thunders e gli altri. Un tizio nel mio palazzo conosceva BillyMurcia. Mi aveva detto che c’era una band a cui serviva un cantante. Un giorno qualcuno ha bussato alla mia porta, erano Arthur e Billy. Sono andato a casa di Johnny e ci siamo messi a suonare. La band è nata il giorno stesso11.

Il primo album ufficiale, nonostante esistano un gran quantità di demo session, registrazioni dal vivo e in studio precedenti quella data, uscì nel 1973 con una produzione suddivisa tra Marty Thau, Paul Nelson, Steve Leber e Todd Rundgren, che risulterà essere nelle note di copertina il produttore ufficiale. Ma nonostante questo la vita del gruppo non divenne più facile, come ricordava Sylvain Sylvain, in realtà Sylvain Mizrahi, in un’intervista del 1998.

La gente crede che la cerchia di Warhol abbia accolto i Dolls. In realtà i Velvet Underground erano la vecchia generazione, mentre noi eravamo le nuove leve dei club, e stavamo invadendo il loro territorio. Non erano esattamente accoglienti. Ci sono state delle volte in cui abbiamo suonato al piano superiore del Max’s perché eravamo banditi dal bar al piano terra. Non eravamo ammessi al piano di sotto. Ecco a che punto eravamo arrivati12.

Il secondo album, ed ultimo per la formazione originale, intitolato profeticamente Too Much Too Soon, sarebbe uscito nel 1974 e sarebbe stato necessario attendere trent’anni prima di quello successivo, apparso nel 2004 con una formazione rivisitata a causa dei malumori sorti tra i componenti e la morte sopraggiunta nel frattempo per alcuni di loro. Il produttore del secondo album, George “Shadow” Morton avrebbe spinto ancora di più l’acceleratore su temi e composizioni blues e Rhythm and blues, senza però alterare le linee musicali essenziali del gruppo, anzi finendo col rafforzarle. Certo la cosa strana a dirsi è che questi precursori di ogni efferatezza punk ebbero come produttori, prima, un raffinato ricercatore di suoni perfetti come Todd Rundgren e, successivamente, un ottimo produttore di gruppi degli anni Sessanta come le Shangri-Las o i Vanilla Fudge

Tre anni dopo il loro secondo disco, i Sex Pistols non riuscirono a inventare nulla di musicalmente altrettanto viscerale e pericoloso. Forse è per questo che i Dolls non hanno mai trovato il loro pubblico nei primi anni ’70: non solo erano punk rock prima che il punk rock fosse di moda, ma sono rimasti più indigesti e idiosincratici di qualsiasi altra band che è seguita. Oltre ad avere anche suonato più forte, molto più forte.

Sex Pistols che, spacciati come fondatori del genere punk, altro non fecero che rubare, grazie alla “creatività” del loro produttore Malcom McLaren, ogni riff di chitarra a brani come Looking for a Kiss, Frankenstein, Chatterbox, Jet Boy e il profetico, per tutti quelli che sarebbero arrivati dopo, compresi i Ramones. It’s Too Late, è troppo tardi. Nei fatti, mentre si trovava a New York per una fiera dell’abbigliamento, McLaren incontrò i membri del gruppo e alla fine del 1974 ne assunse la gestione, vestendoli di pelle rossa e usando il simbolo della falce e martello dell’Unione Sovietica nelle loro scenografie e nelle fotografie pubblicitarie. Il concetto non si adattava certo bene all’America, dove il comunismo rimaneva un anatema, ma non ebbe un grande impatto sulla carriera dei Dolls, che erano comunque agli sgoccioli.

Così Malcom tornò al business dell’abbigliamento londinese nel maggio 1975 e usò ciò che aveva imparato con loro per aiutare a mettere insieme i Sex Pistols: ovvero The Great Rock’n’Roll Swindle, la grande truffa del rock’n’roll, come sarebbe stato intitolato il film sugli stessi diretto dal regista Julian Temple e prodotto da Don Boyd e Jeremy Thomas nel 1980.

Ma i Dolls erano già finiti da un pezzo, vuoi per gli abusi di sostanze, vuoi per le inevitabili rivalità sorte all’interno di un gruppo nato senza troppo cura per i ricami artistici e diplomatici. Ancora Johansen ricordava:

Non ho idea di quante copie abbiamo venduto all’epoca, non moltissime. Se eravamo fortunati ci piazzavamo al centoventesimo posto in classifica. Decisamente non eravamo una band per tutti i gusti, non il tipo di cosa da impatto sulle masse. Ci andava bene dove c’era un sacco di ragazzini alienati13.

Ma, oltre allo scarso successo commerciale, ci furono anche altre cause per lo scioglimento del gruppo, come avrebbero raccontato in successione Jerry Nolan, Sylvain Sylvain e lo stesso David Johansen.

Jerry (1977): «David aveva il brutto vizio di dettar legge su cose di cui non sapeva niente. Sceglieva il produttore e si accontentava di un missaggio scadente. Tutte le mosse sbagliate sono imputabili a lui che ha mandato tutto a puttane. I primi due album sono stati massacrati. C’erano delle gran belle canzoni, e avremmo potuto interpretarle alla grande, ma David era un tipo di persona che in studio non voleva rifare due volte lo stesso pezzo. Bastava che lui cantasse bene, non gliene importava un cazzo che gli altri facessero una buona performance.»

Sylvain (1998): «Stavamo a casa della madre di Jerry Nolan e Johansen si sbronzava di brutto. Era un alcolizzato violento. Diceva che non contavamo niente, che lui era il cantante e che poteva andare avanti senza noi a creargli impedimenti e altre stronzate. Praticamente ce l’ha detto una sera dopo cena, e Johnny e Jerry, dopo aver sentito per l’ennesima volta che potevamo essere rimpiazzati, se ne sono andati. Li ho portati io all’aeroporto.»

David (1997): «Non ricordo esattamente la sequenza degli eventi, ma eravamo giù in Florida, in un posto tipo Bates Motel gestito dalla madre di Jerry. C’erano delle vecchie roulotte che fungevano da stanze d’albergo e avremmo dovuto stabilirci lì, per poi andare a suonare dappertutto. La band si è sciolta perché alcuni ragazzi non ce la facevano senza la roba, quindi la situazione era diventata ingestibile. Sai, le grandi rockstar hanno infermieri e galoppini, ma noi non li avevamo. Quei ragazzi volevano essere come Bela Lugosi.»14.

Effettivamente, dopo lo scioglimento dei Dolls, David avrebbe continuato una discreta carriera solista, sospesa tra rock, rhythm’n’blues e blues strapazzato, con qualche cover di gruppi degli anni Sessanta, sia a nome proprio che con quello di Bruce Pointdexter (pseudonimo con il quale rivelerà insospettate doti da crooner e con cui aveva già firmato alcune canzoni dei New York Dolls) oppure in anni più recenti come David Johansen and the Harry Smith, gruppo ispirato al nome di uno dei più importanti musicologi e collezionisti americani che contribuì fin dagli anni Sessanta al rilancio del blues e del country blues degli anni ‘20, ‘30 e ‘40.

Ma dopo la reunion con Arthur Kane e Sylvain Sylvain per The Return of the New York Dolls: Live from Royal Festival Hall, 2004, prodotto da Morrissey, l’esperienza sarebbe ancora continuata con numerosi concerti e almeno altri tre album in studio. One Day It Will Please Us to Remember Even This (2006), soltanto più con Sylvain Sylvain vista la scomparsa di Kane nel 2004, ma con ospiti quali Iggy Popo e Michael Stipe dei REM; ‘Cause I Sez So (2009), ancora una volta con Todd Rundgren alla produzione dopo trentasei anni, e Dancing Backward in High Heels (2011), arricchito da inaspettati arrangiamenti per archi e fiati.

Oggi, con la dipartita di David, si è definitivamente chiusa l’era dei dinosauri androgini, di cui rimarranno solo pallide e insignificanti copie riprodotte in un universo pop privo di storie da raccontare e di genio vero. So long David, so long Dolls…so long rock’n’roll.


  1. Di cui va almeno ricordato l’album Orgasm, registrato nel 1967 prima che Bolan si unisse alla band, ma pubblicato soltanto nel 1970, che aveva anticipato e dilatato all’infinito i sospiri e i gemiti di piacere di Je t’aime… moi non plus di Serge Gainsbourg e Jane Birkin, pubblicato nel 1969.  

  2. A. Carter, The Message in the Spiked Heel, «Spare Rib» 16 settembre 1976.  

  3. D. Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa &Nolan, Ancona 2000.  

  4. Si veda in proposito, e a solo titolo di esempio, S. Blush, New York Rock. Dalla nascita dei Velvet Underground al declino del CBGB, Goodfellas Srl, Firenze 2016 (ed. originale 2016).  

  5. Si veda il fondamentale: L. McNeil, G. McCain, Plese Kill Me. Il punk nelle parole dei suoi protagonisti, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2006 (ed. originale 1996)  

  6. Brown Shoes Don’t Make It è il titolo di un brano di Zappa e delle sue Mothers of Invention inciso per la prima volta nell’album Absolutely Free, pubblicato nel 1967, e in cui le infami scarpe allacciate di colore marrone erano indicate come il modo migliore per riconoscere i tutori dell’ordine che cercavano di infiltrarsi nelle manifestazioni e nei movimenti; un po’ come da noi il famigerato “borsello” che avrebbe caratterizzato e fatto riconoscere immediatamente gli agenti della Digos negli anni Settanta.  

  7. La definizione heavy metal era stata utilizzata già molto tempo prima della comparsa delle band che si sarebbero definite come appartenenti allo stesso canone, poiché per la critica musicale statunitense potevano già essere heavy metal sia Jimi Hendrix che i Blue Oyster Cult e le band di Detroit come Stooges, Grand Funk Railroad e molte altre ancora.  

  8. S. Blush, op. cit., pp. 99-101.  

  9. Cit. in S. Blush, op. cit., pp. 100-102.  

  10. D. Johansen in S. Blush, op. cit., p. 119.  

  11. Ivi, pp. 119-122.  

  12. S. Sylvain in S. Blush, op. cit., p. 122.  

  13. D. Johansen, cit. in S. Blush, op. cit. p. 133.  

  14. Tutte e tre le dichiarazioni sono contenute in S. Blush, op. cit., pp. 134-135.  

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La luminosa oscurità del signore della Grande Mela https://www.carmillaonline.com/2023/12/13/loscurita-luminosa-del-signore-della-grande-mela/ Wed, 13 Dec 2023 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80314 di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena [...]]]> di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena pubblicata da Minimum Fax, per entrare nel mondo vasto, complesso e ramificato che ha dato vita e ispirazione ad una delle più importanti leggende del rock.

A differenza di altre biografie dello stesso musicista, che hanno dato più spazio alle testimonianze di chi aveva conosciuto Lewis Allan Reed (1942- 2013) come quella di Victor Bockris pubblicata per la prima volta nel 1994 e in Italia nel 1999, quella di Will Hermes cerca di ricostruire con estrema accuratezza l’humus non soltanto sociale, ma anche, e forse soprattutto, culturale e letterario da cui è sorta la figura di uno dei protagonisti della scena musicale della seconda metà del ‘900.

Figura che soltanto una metropoli come New York e nessuna altra al mondo avrebbe potuto creare. Una figura che nelle innumerevoli contraddizioni che l’hanno caratterizzata ha saputo spesso, e probabilmente in maniera involontaria, riassumere quelle di una città mondo in cui l’arte moderna si è incontrata con gli slum degli immigrati più poveri, la violenza con la gioia di vivere, le culture ebraiche della diaspora con quella degli afro-americani di Harlem, l’oscurità dei vicoli dello spaccio e delle innominabili prestazioni sessuali con la luce del Central Park (dove comunque, in prossimità di uno degli ingressi, fu ucciso John Lennon proprio da un ammiratore), la Statua della Libertà con le osservazioni caustiche e feroci di Le Roi Jones sul razzismo americano, l’innovazione jazzistica e letteraria con le ambientazioni di tanti film noir e i concerti alla Carnegie Hall durante i quali furono presentate per la prima volta al pubblico opere di Antonin Dvořák, Richard Strauss, George Gershwin, Sergej Rachmaninov, Arnold Schönberg, Duke Ellington, Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Olivier Messiaen, Edgard Varèse e Philip Glass, solo per citare alcuni compositori e tralasciandone molti altri altrettanto famosi.

Una sala da concerto che da sola già potrebbe riassumere tanta dell’esperienza musicale poi rimaneggiata da Lou Reed e che portava in sé sia le stimmate del grande capitalismo industriale, essendo stata costruita nel 1890 per volontà di Andrew Carnegie uno dei magnati più importanti dell’acciaio americano e delle sue guerre, che della cultura di massa, oltre che colta, legata alla musica di largo consumo, avendo ospitato sulla sua scena, tra i tanti, i Beatles, David Bowie, Shirley Bassey, i Jethro Tull, i Rolling Stones, Frank Sinatra, Neil Young, Ike e Tina Turner e infiniti altri protagonisti della musica pop, rock e soul.

Elenchi qui riportati soltanto per far comprendere il composito quadro culturale di una città che, probabilmente, dagli anni Quaranta fino all’inizio del XXI secolo ha costituito una specie di capitale mondiale della cultura moderna; in cui ha mosso i primi passi da gallerista Peggy Guggenheim e straziato le corde delle chitarre elettriche il primo punk dei gruppi che si esibivano al CBGB, situato al 315 della Bowery nel Lower East Side di Manhattan.

Gruppi che, e qui è possibile ricollegarsi al protagonista della biografia di Hermes, tutti dovevano o traevano qualche ispirazione dal gruppo di cui Lou Reed, con la spinta di Andy Warhol e l’aiuto di John Cale e degli altri componenti della band, Maureen Tucker, Sterling Morrison e la cantante e modella di origine tedesca Nico, dalla bellezza algida e statuaria, era stato la mente e il motore principale fin quasi alla fine di quella esperienza: i Velvet Underground.

Per gli standard dell’epoca, i Velvet Underground non furono mai un gruppo di successo: non ebbero mai un singolo in classifica, negli Stati Uniti suonarono sempre in piccoli club, almeno fino alla reunion degli anni Novanta e per un certo periodo i loro dischi andarono persino fuori catalogo. Erano un segreto condiviso da pochi e illuminati seguaci, oppure da altri artisti: interpretare una canzone di Lou Reed indica ancora oggi l’appartenenza a una corporazione di arti oscure all’avanguardia estetica1.

Il percorso musicale di Lou, però, era iniziato prima, come dimostrano anche i nastri recentemente pubblicati o ripubblicati grazie alla New York Public Library for Perfoming Arts, che ha acquisito nel 2017 l’intero lascito artistico del cantautore statunitense che ripercorre il suo tragitto artistico dai primi passi dello stesso nelle band di cui aveva fatto parte ancora ai tempi delle high school fino agli ultimi concerti del 2013; con particolare attenzione rivolta ai materiali della Sister Ray Enterprises, la società che aveva fondato per supervisionare il catalogo di tutto ciò che aveva prodotto sia in tour che in sala di registrazione.

Reed cominciò la sua carriera scrivendo canzoni d’amore, di solitudine e di persone imperfette, argomenti comuni del rock’n’roll rivolto a un pubblico di adolescenti, l’unico concepibile per quel tipo di musica negli anni Cinquanta e primi Sessanta. Ma le sue prime canzoni parlano anche di droga, violenza domestica, psicologia di genere, dipendenza, rapporti BDSM. Tutti argomenti radicali e rivoluzionari nel 1966, l’anno in cui il gruppo registrò il disco di debutto, The Velvet Underground & Nico. Quando oggi canzoni con argomenti analoghi entrano in classifica è difficile immaginare quanto fosse inaudito all’epoca «il manifesto programmatico» di Reed: «prendere il rock’n’roll, il formato pop e farlo diventare un genere per adulti. Con argomenti da adulti, scritto in modo che potesero ascoltarlo persone come me»2.

Le dichiarazioni tra virgolette sono state rilasciate da Lou Reed al giornalista Bill Flanagan per un libro di quest’ultimo tratto da varie conversazioni avute con cantautori rock3. Ma ci ricordano ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la complessità del lavoro di Reed, quasi fin dagli esordi e l’assoluta mancanza di quell’improbabile innocenza che fu invece troppe volte e talvolta esageratamente sbandierata dalle parti della California e dei musicisti di San Francisco in quegli stessi anni.

Va qui sottolineato che Hubert Selby jr., è stato per Reed sicuramente un autore di riferimento con il suo Ultima fermata a Brooklyn (1964 – prima edizione italiana Feltrinelli 1966), ambientato a New York nel 1952, durante la guerra di Corea. Un romanzo corale in cui, per la prima volta, alle tematiche di lotta sindacale si intrecciano quelle riguardanti sessualità irrisolte e confuse, consumo di droghe pesanti e dipendenze varie, tali da proporre per la prima volta in assoluto un’immagine del proletariato americano e del suo sempre più prossimo sottoproletariato assolutamente realistica, lontana mille miglia dal realismo ottocentesco e del primo Novecento e tale da far apparire i protagonisti delle storie ambientate nelle periferie romane da Pasolini come innocui personaggi di una storiella per bambini (immaturi).

E’ in quest’ansa della letteratura statunitense che si colloca la scrittura di Reed che, come ricorda Hermes, scriveva sicuramente per esorcizzare i suoi demoni, anche se ciò non toglie che la sua scrittura fosse militante.

Di regola, non era un autore esplicitamente politico, ma fin dai primissimi nastri e demo – la cover di Blowin’ in the Wind di Bob Dylan, uno dei musicisti che più lo hanno influenzato e in un certo senso un suo rivale; oppure l’evocazione della battaglia per i diritti civili in Put Your Money on the Table – ha messo in discussione lo status quo. Persino Heroin, se la si ascolta con attenzione, è una canzone politica, quanto mai rilevante in un’epoca di interminabile crisi degli oppioidi. E naturalmente c’è New York, il suo disco più coerente e appagante, in cui attacca l’avidità, l’ipocrisia e la corruzione del sistema politico ed economico americano, e il suo influsso sulla vita dei ricchi e dei poveri per le strade della sua città4.

Lì la Statue of Liberty diventa la Statue of Bigotry, probabilmente anche per effetto dell’influenza che Laurie Anderson, compositrice d’avanguardia e raffinata performer che fu sua complice, compagna e moglie per più di due decenni, esercitò sulla sua vena creativa. Così come, dal punto di vista musicale, aveva fatto invece John Cale negli anni iniziali dei Velvet Underground.

Il secondo, nato nel Galles del sud, in una zona fortemente industrializzata e che non parlò inglese fino a quando non iniziò ad andare a scuola all’età di sette anni, dopo aver imparato a suonare la viola (poi elettrica nei Velvet), finita l’accademia, aveva viaggiato attraverso gli Stati Uniti, grazie ad una borsa di studio, per continuare i suoi studi musicali e arricchire il suo bagaglio di esperienza, grazie all’aiuto e all’influenza di Aaron Copland e, si dice, di Leonard Bernstein.

Una volta arrivato a New York, aveva avuto modo di incontrare vari influenti compositori ed entrò in contatto con la “controcultura” della metropoli. Nel settembre 1963, insieme a John Cage e a molti altri, Cale partecipò a una maratona pianistica lunga diciotto ore che fu la prima rappresentazione integrale dell’opera, di Erik Satie, Vexations. Dopo la performance entrò a far parte dell’ensemble musicale diretto da La Monte Young e in seguito, nel 1965, conobbe Lou Reed.

Così mentre Cale portò nei Velvet e in Reed l’influenza dell’avanguardia musicale europea, legata al movimento Fluxus, e americana, Lou Reed avrebbe portato l’influenza del rock’n’roll, di Dylan, della musica nera (jazz e blues) e della vita delle strade di New York. Il gioco era fatto e niente sarebbe più andato per il verso “giusto”.

In effetti Lewis Allan Reed era l’incarnazione della scena artistica della New York del secondo dopoguerra. Si innamorò del rock’n’roll e del doo wop newyorkese e regisrò il primo singolo alla fin degli anni Cinquanta […] Al college studiò scrittura con il poeta modernista Delmore Schwartz, che divenne il suo mentore artistico e di cui non smise mai di tessere le lodi […] Reed vide il quartetto di Ornette Coleman durante i leggendari concerti al Five Spot café nel 1959 e ne fu profondamente colpito […] e fondò una rivista letteraria che prendeva il nome da Lonely Woman di Coleman, da lui spesso citato come il suo pezzo preferito in assoluto5.

Questo, e molto altro ancora, rivela la biografia di Reed scritta da Will Hermes: dei suoi infernali scatti d’ira, della sua dolcezza, della serenità in attesa della morte mentre si cullava in una vasca d’acqua calda, ma soprattutto di un percorso intellettuale, letterario e musicale che si rivela ben più interessante delle vicende legate agli elettroshock cui fu sottoposto in giovane età oppure alla sua bisessualità e alle dipendenze. Anche se tutto ciò fu sicuramente presente nella su opera complessiva.

Il testo di Hermes rappresenta, forse, per tutti questi motivi il più interessante scritto fino ad ora su un musicista e intellettuale che, anche se spesso ombroso e difficile, ha sparso intorno a sé una luce estremamente originale, contribuendo a illuminare l’universo-mondo che più intensamente ha vissuto e contribuito a ricreare nell’immaginario contemporaneo: The Big Apple, New York.


  1. W. Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 10.  

  2. W. Hermes, op. cit., pp. 9-10.  

  3. B. Flanagan, Written in My Soul. Conversations with Rock’s Great Songwriters, Contemporary Books 1987. In Italia pubblicato come B. Flanagan, Scritto nell’anima. 29 interviste ai grandi del rock, Arcana 2001.  

  4. W. Hermes, op. cit., p. 23.  

  5. Ivi, p. 12.  

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Elogio dell’eccesso: Babylon https://www.carmillaonline.com/2023/02/10/elogio-delleccesso-babylon/ Fri, 10 Feb 2023 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75979 di Sandro Moiso

Non si può certo dire che i giudizi della critica riguardo all’ultimo film di Damien Sayre Chazelle siano stati unanimemente positivi, anzi tutt’altro. Mentre anche l’impatto sul pubblico, a giudicare dagli incassi al botteghino delle prime settimane dopo la sua uscita, non deve aver soddisfatto la società produttrice. Il regista statunitense (classe 1985), figlio di genitori franco-canadesi, che. con il musical La La Land, nel 2017 aveva vinto il Premio Oscar per la miglior regia, diventando il più giovane regista nella storia ad aver vinto la celebre statuetta, torna con [...]]]> di Sandro Moiso

Non si può certo dire che i giudizi della critica riguardo all’ultimo film di Damien Sayre Chazelle siano stati unanimemente positivi, anzi tutt’altro. Mentre anche l’impatto sul pubblico, a giudicare dagli incassi al botteghino delle prime settimane dopo la sua uscita, non deve aver soddisfatto la società produttrice. Il regista statunitense (classe 1985), figlio di genitori franco-canadesi, che. con il musical La La Land, nel 2017 aveva vinto il Premio Oscar per la miglior regia, diventando il più giovane regista nella storia ad aver vinto la celebre statuetta, torna con Babylon ancora una volta alla sua passione per il cinema, il suo mondo e la sua storia.

Una passione, velata di nostalgia, già espresso nella pellicola vincitrice del premio in cui aveva reso omaggio ai classici film musicali prodotti a cavallo fra gli anni ’50 e ’60. Nel film attuale la rappresentazione dei sentimenti del regista nei confronti del cinema del passato è affidata al personaggio che fa un po’ da trait d’union tra i personaggi e le storie narrate, interpretato dall’attore Diego Calva, riuscendo ad aprire spazi di riflessione su cosa sia stato il cinema, su cosa sia diventato o continui ad essere, superando ampiamente il pericoloso effetto nostalgia canaglia che, scorrendo in sotto traccia avrebbe potuto gravemente menomarne il significato. Facendo sì, invece, che la sua visione risulti stimolante anche per quanto riguarda le possibili riflessioni sull’arte, il sogno e il desiderio in tutte le loro possibili forme.

Di scarso interesse sarebbe riassumerne qui la trama, ripetere gli elogi per la bravura di Margot Robbie, Diego Calva e Brad Pitt e di molti dei comprimari. Scontato elogiare la tecnica dei piani sequenza lunghi e visionari in cui feste orgiastiche oppure set improvvisati nel deserto californiano diventano occasione per un uso smodato della steadicam o di riprese che precipitano letteralmente lo spettatore nella scena cui sta assistendo. Mentre va sicuramente segnalata la stratificazione di storie ed emozioni che, pur non tradendo le aspettative di un film destinato al grande pubblico e non certo ai cinema d’essai, incollano alla poltrona gli spettatori e, al tempo stesso, li costringono a riflettere sulla magia del cinema, il suo immaginario, lo star system e la loro funzione, allo stesso tempo, liberatoria e ingannatrice.

Le cose da segnalare però rimangono tante, per una storia che narra il passaggio dal cinema muto delle origini al cinema sonoro dei grandi studios, organizzati con modalità di fabbrica a Burbank, posta nell’area di Los Angeles. A pochi chilometri di distanza da Hollywood, ritenuta a torto o ragione ancora oggi, “la Mecca del cinema”. Una storia che si svolge complessivamente tra la seconda metà degli anni Venti e il 1952, anche se il cuore della vicenda è racchiuso tra il 1926 e il 1934.

Il 1926 è infatti l’anno in cui il cinema delle origini perde la sua libertà espressiva, l’anarchica tendenza a portare sullo schermo qualsiasi sogno, desiderio o avventura per iniziare a diventare una macchina da sogni molto più regolamentata e organizzata. E’ infatti l’anno in cui per la prima volta la società di produzione Warner Bros. porta sullo schermo 8 cortometraggi sonorizzati col metodo Vitaphone mentre, il 26 agosto dello stesso anno, il primo lungometraggio sonoro, è presentato al Warner Theatre di New York per un pubblico pagante.

Tale innovazione di carattere tecnologico avrebbe così causato un autentico terremoto nel sistema produttivo hollywoodiano, segnando la fine delle star precedenti e della libertà dì espressione, spesso caotica, ma quasi sempre geniale e creativa, sia delle attrici e degli attori che dei registi impegnati su set che, fino a quell’epoca, erano stati più di carattere artigianale che industriale.

La nuova tecnica imponeva regole e limiti all’espressività fisica degli interpreti. Imponeva il potere della parola sui corpi e sulle immagini, ne delimitava i confini spaziali, psicologici e recitativi. Portando le regole della recitazione teatrale all’interno di un’arte che era nata altra. La dizione iniziava a contare e la voce di una ragazza del Midwest, proletaria e poco educata (la Nellie LeRoy interpretata da Margot Robbie) poteva rivelarsi disastrosa proprio là dove, prima, la sua esuberanza fisica e recitativa aveva costituito la sua fortuna nei confronti del grande pubblico.

Vale per l’attore bello e dannato (Jack Conrad interpretato da Brad Pitt), uscito tanto dalle pagine di Francis Scott Fitzgerald quanto dalle vite di attori autentici quali Douglas Fairbanks (grande interprete di film d’avventura) o John Gilbert (il più pagato di Hollywood nel 1928), la cui voce non avrà lo stesso fascino del suo sguardo e del suo volto, finendo col rendere ridicole scene che prima ne avevano esaltato il fascino.

Ma vale anche per il trovarobe Manuel “Manny” Torres (interpretato da Diego Calva), innamorato di tutto ciò che è cinema e di Nellie in particolare, che poco per volta rinuncerà alla sua identità messicana, portata via dal vortice di Tinseltown, per essere trasformato sempre più in un produttore esecutivo che non riuscirà, però, a sposare con successo la sua passione con le regole del “nuovo” cinema. E anche se sarà l’unico a sopravvivere fino all’avvento di una nuova grande star (Marilyn Monroe), lo farà da nostalgico testimone di un’epoca e da modesto rivenditore di elettrodomestici a New York.

E’ un passsaggio di portata storica quello raccontato nel film di Chazelle. Storia di una Babilonia sul Pacifico che già altri avevano tentato di rappresentare e di narrare, dagli scandalosi testi di Kenneth Anger sui vizi e le perversioni della città del cinema1 ai fratelli Taviani con il loro Good Morning Babilonia del 1987, in cui veniva raccontata la nascita artigianale del grande cinema di Griffith, vista attraverso gli occhi e le esperienze di due modesti artigiani di origine toscana.

Il cinema di Griffith, con i suoi Birth of a Nation (1915) e Intolerance (1916), e quello di Erich von Stroheim, costituiscono i due capisaldi in mezzo ai quali si muove il cinema dell’epoca precedente il sonoro. Cinema che però aveva alimentato anche le storie di Charlie Chaplin, Buster Keaton e molti altri. Tutti accomunati dall’essere dei visionari in un’arte che proprio dalla “visione” è sempre stata determinata, Fin dagli esordi dei fratelli Lumière e di George Méliès.

Arte nata in Europa e che Lenin aveva definito la più importante delle arti. Che a Torino aveva visto realizzare il primo colossal dell’epoca, Cabiria (1914), della durata di 168 minuti, che sarebbe stato anche il primo film ad essere proiettato alla Casa Bianca, probabilmente ispirando, con il suo successo, The Birth of a Nation (durata 190 minuti) di David Wark Griffith, già prima citato.

Cinema decisamente artigianale, rispetto al successivo, ma che aveva permesso quei voli fantastici dell’immaginazione che avrebbero così totalmente rapito e irretito l’immaginario e la mente di milioni di persona di ogni nazionalità. Fornendo così la base su cui si è fondata tutta la potenza narrativa del cinema, fino al più recente Avatar 2 – La via dell’acqua2. Registi e attori che hanno di fatto rappresentato gli autentici fratelli Wright dell’inizio dei voli della mente davanti al grande schermo, all’interno di una sala buia ma popolata da molti altri spettatori destinati a sognare tutti insieme. Spesso nelle forme più diverse e meno automatiche, che solo la parola recitata avrebbe iniziato ad indirizzare verso uno spazio comune della mente.

Gli effetti complessivi del passaggio dal muto al sonoro potrebbero essere riassunti nel viaggio compiuto dal cinema italiano dalla Torino dei film di Giovanni Pastrone alla Cinecittà di mussoliniana ideazione e realizzazione alla metà degli anni Trenta. Dal cinema della visione a quello dei “telefoni bianchi”. Da quello ispirato, come Cabiria, ai romanzi d Emilio Salgari (Cartagine in fiamme, 1906-1908), a quello rispondente alle esigenze di svago preordinato per il “dopolavoro” delle masse e di propaganda ideologica del regime. Da quello del sogno a quello dell’impero. Osservazione quest’ultima che, dal punto di vista cinematografico, vale per le due sponde dell’Atlantico.

Se c’è una parola che può servire a descrivere il prima e il dopo, questa è eccesso.
Che, almeno per una volta, andrebbe compresa nel suo significato generale e non soltanto di giudizio morale. Termine che indica il massimo, l’estremo, il sommo grado cui si può giungere nella realizzazione di un’opera d’arte o di una vita. Vocabolo che serve benissimo a definire ciò che è arte da ciò che non lo è e che, spesso, non è nemmeno cultura. Vocabolo adatto a descrivere l’intima essenza desiderante della Rivoluzione, ma non il Riformismo degli equilibri e la volontà dello Stato di mantenere l’ordine costituito, che può eccedere nelle sue funzioni, ma mai potersi pensare in “eccesso”.

Fin dal 1915 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America aveva stabilito che le pellicole cinematografiche non erano coperte dal primo emendamento: «la proiezione di immagini in movimento è un business puro e semplice, nato e gestito per il profitto […] non deve essere considerato […] come parte della libera stampa del Paese o come un mezzo di formazione della pubblica opinione». La medesima sentenza stabiliva inoltre che i film «possono essere usati per fini malvagi» e che pertanto la censura di questi «non travalica i poteri del Governo». A seguito di tale sentenza città e contee avevano iniziato a porre divieti sulla pubblica esibizione di film giudicati “immorali”, e gli studios temevano che presto sarebbe seguita una legislazione statale o federale.

Nei primi anni Venti tre grossi scandali avrebberoo turbato Hollywood3. Queste storie, avvenute in rapida successione, furono trattate con sensazionalismo e clamore dalla stampa e costituirono i titoli di tutti i quotidiani del paese e sembrarono confermare in pieno la percezione che molti avevano di Hollywood come “città del peccato”.

Questa presunta immoralità portò alla creazione, nel 1922, dell’Associazione dei produttori e distributori di pellicole cinematografiche, intenzionata a presentare un’immagine positiva dell’industria cinematografica, guidata da Will H. Hays, che chiese di stabilire una serie di standard morali per i film. A questo fine Hays tentò di rafforzare tramite la sua associazione l’autorità morale sui film hollywoodiani, ma con scarsi effetti. L’ufficio di Hays rilasciò infatti una lista di divieti e di cautele nel 1927, ma i registi continuarono a realizzare ciò che volevano e, in molti casi, i tagli proposti di alcune battute o scene non vennero effettuati.

Con l’avvento del sonoro, nel 1927 si sentì la necessità di un codice scritto più restrittivo. Fu così steso il Production Code che venne adottato il 31 marzo 1930, ma fu di fatto ignorato dagli studios. Questo e i codici successivi furono spesso denominati Codice Hays perché Hays ne era stato il promotore. Un emendamento al codice, adottato il 13 giugno 1934, creò allora la Production Code Administration, decidendo che da allora ogni film dovesse ottenere un certificato di approvazione prima di approdare nelle sale. Da allora, per tutto il ventennio successivo, tutti i film prodotti negli Stati Uniti aderirono più o meno rigidamente al codice4. Il primo intervento che coinvolse una major cinematografica fu nella pellicola del 1934 Tarzan and His Mate, nella quale una breve scena di nudo dell’attrice Maureen O’Sullivan venne eliminata dal negativo del film.

Oltre a ciò il codice si accanì anche nel modificare personaggi di animazione come Betty Boop, dalle forme troppo prosperose e ben in vista, oppure la cinematografia sui gangster imponendo, in piena grande crisi, che le storie di tale genere non potessero concludersi a “vantaggio” dei delinquenti rappresentati sullo schermo (e amati dal grande pubblico che ne seguiva le gesta nella realtà, come nel caso dei rapinatori di banche Bonnie Parker e Clyde Barrow e di John Dillinger, tutti letteralmente fucilati on the road dalle forze dell’ordine e del Federal Bureau of Investigtion).

Ecco allora, che poco alla volta, ci si è avvicinati al cuore di ciò che ispira la visione del film di Chazelle: la fine dell’eccesso che è anche la fine del sogno e del desiderio liberato.
Fosse anche solo nell’immaginario. Inutile, dopo, teorizzare archetipi ed eroi adatti ad un mondo trasformato e sottomesso dalle regole della tecnica, della produzione seriale e dei codici. Non a caso, l’ultimo vero grido “silenzioso” di rivolta è quello di Tempi Moderni di Charlie Chaplin (1936), ultimo film muto girato a Hollywood e l’ultimo in cui appare sugli schermi il vagabondo Charlot. Autentico canto del cigno di un’epoca giunta alla fine, nel film sono soltanto i rappresentanti del potere economico e politico e le macchine che ne proiettano l’immagine o trasmettono la voce “a parlare”.

L’avvento del sonoro e dei codici di comportamento e regolamento per sceneggiatori, registi e attori servirono soprattutto a regolamentare il sogno di massa e a ricondurlo nei recinti di ciò che è accettabile per il potere politico e la morale cristiana, nei suoi vari dettami. Ma anche quando, come al giorno d’oggi, si permetterà la presenza dell’eccesso questo sarà solamente il prodotto finto di una rappresentazione. Così come i Maneskin e il loro circo di insopportabili manierismi possono stare a Iggy Pop e ai suoi Stooges. Oppure The Walking Dead ai film di Romero e alle produzioni di storie di serie B di un cinema artigianale e ribelle soffocato dalle grandi e costosissime produzioni seriali e cinematografiche.

E’ un discorso tutto ancora da sviluppare questo scaturito dalla visione del film Babylon. Riguarda il desiderio, l’arte, il sogno: tre aspetti dell’attività umana che non possono avere limiti e regole che ne castrino la creatività fin dalle radici. Senza scomodare la psicoanalisi, basterebbe citare Leopardi che, nello Zibaldone di pensieri, si sofferma ripetutamente sulla naturale illimitatezza del desiderio oppure citare Dante e Boccaccio, con i loro eccessi nella scrittura opposti all’ordine e all’equilibrio del petrarchismo. Oppure, ancora, la lingua di Gadda contro quella di tanti scrittori di successo contemporanei. Non occorre essere obbligatoriamente dei punk per cogliere l’importanza dell’eccesso nella vita, nell’espressione artistica e nell’attività onirica. Conscia o inconscia che sia quest’ultima. Vale per gli eccessi narrativi di Philip José Farmer nei confronti di tanta vuota SF iper-tecnologica; vale per i due maggiori scrittori della letteratura francese del ‘900, Louis Ferdinand Céline e Marcel Proust, così distanti tra di loro eppure così eccessivi nell’uso della lingua e dei ricordi. Vale, infine, per i passaggi più visionari dei romanzi di Eymerich messi a confronto con tanta vuota letteratura mainstream odierna.


  1. K. Anger: Hollywood Babilonia, Adelphi, Milano 1979 e Hollywood Babilonia II, Adelphi, Milano 1986  

  2. Film dal risultato ben più modesto rispetto al precedente Avatar, sempre di James Cameron, uscito nel 2009, a dimostrazione che lo sviluppo della tecnologia, nel cinema come in qualsiasi altro ambito, è destinato a far sì che la stessa cannibalizzi se stessa insieme ai suoi prodotti, resi rapidamente e irrimediabilmente obsoleti ad ogni svolto della sua evoluzione  

  3. I processi per omicidio della star delle commedie Roscoe Fatty Arbuckle (accusato della morte dell’attrice Virginia Rappe a una festa), l’assassinio del regista William Desmond Taylor e la morte dovuta alla droga del popolare attore Wallace Reid.  

  4. Che si basava su tre norme fondamentali:
    1. Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato.
    2. Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento.
    3. La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione.

    Da cui derivavano ancora svariate altre regole:
    Il nudo e le danze lascive furono proibiti.
    La ridicolizzazione della religione fu proibita; i ministri del culto non potevano essere rappresentati come personaggi comici o malvagi.
    La rappresentazione dell’uso di droghe fu proibita, come pure il consumo di alcolici, “quando non richiesto dalla trama o per un’adeguata caratterizzazione”.
    I metodi di esecuzioni di delitti (per esempio l’incendio doloso, o il contrabbando ecc.) non potevano essere presentati in modo esplicito.
    Le allusioni alle “perversioni sessuali” (tra cui, all’epoca, veniva inclusa l’omosessualità) e alle malattie veneree furono proibite, come lo fu anche la rappresentazione del parto.
    La sezione sul linguaggio bandì varie parole e locuzioni offensive.
    Le scene di omicidio dovevano essere girate in modo tale da scoraggiarne l’emulazione nella vita reale, e assassinii brutali non potevano essere mostrati in dettaglio. “La vendetta ai tempi moderni” non doveva apparire giustificata.
    La santità del matrimonio e della famiglia doveva essere sostenuta. “I film non dovranno concludere che le forme più basse di rapporti sessuali sono cose accettate o comuni”. L’adulterio e il sesso illegale, per quanto si riconoscesse potessero essere necessari per la trama, non potevano essere espliciti o giustificati, e non dovevano essere presentati come un’opzione attraente.
    Le rappresentazioni di relazioni fra persone di razze diverse erano proibite.
    “Scene passionali” non dovevano essere introdotte se non necessarie per la trama. “Baci eccessivi e lussuriosi vanno evitati”, assieme ad altre trattazioni che “potrebbero stimolare gli elementi più bassi e grossolani”.
    La bandiera degli Stati Uniti d’America doveva essere trattata rispettosamente, così come i popoli e la storia delle altre nazioni.
    La volgarità, e cioè “soggetti bassi, disgustosi, spiacevoli, sebbene non necessariamente negativi” dovevano essere trattati entro i dettami del buon gusto. Temi come la pena capitale, la tortura, la crudeltà verso i minori e gli animali, la prostituzione e le operazioni chirurgiche dovevano essere trattati con uguale sensibilità.
    Sull’argomento cfr. AA.VV. Prima della grande censura. Hollywood e il Codice Hays, in “Cinematografie”, Anno II, n.3, primo semestre 1991, pp. 7-94 e AA.VV. Prima dei codici 2. Alle porte di Hays, XLVIII Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – La Biennale di Venezia, 1991.  

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Estetiche inquiete. A volte (ri)emergono dal sottosuolo. Esperienze figurative underground dagli anni ’50 ad oggi https://www.carmillaonline.com/2022/09/09/estetiche-inquiete-a-volte-riemergono-dal-sottosuolo-esperienze-figurative-underground-dagli-anni-50-ad-oggi/ Fri, 09 Sep 2022 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73447 di Gioacchino Toni

Quello ricostruito da Marco Teatro, La guerra dei segni. Un’altra storia dell’arte (Agenzia X, 2021), è un prezioso universo di segni di conflittualità nei confronti della cultura dominante. Segni che non mancano di riaffiorare, anche a distanza di tempo, nelle nuove esperienze underground o nell’universo culturale mainstream contemporaneo ove i cambi di casacca dei protgonisti si fanno repentini e forse mai definitivi, e in cui le strutture del sistema arte e di costruzione dell’immaginario collettivo si sono aggiornate ed affinate con un affanno che lascia inevitabilmente aperti interstizi e bug [...]]]> di Gioacchino Toni

Quello ricostruito da Marco Teatro, La guerra dei segni. Un’altra storia dell’arte (Agenzia X, 2021), è un prezioso universo di segni di conflittualità nei confronti della cultura dominante. Segni che non mancano di riaffiorare, anche a distanza di tempo, nelle nuove esperienze underground o nell’universo culturale mainstream contemporaneo ove i cambi di casacca dei protgonisti si fanno repentini e forse mai definitivi, e in cui le strutture del sistema arte e di costruzione dell’immaginario collettivo si sono aggiornate ed affinate con un affanno che lascia inevitabilmente aperti interstizi e bug che ne possono compromettere il funzionamento.

Sull’onda delle celebri Vite vasariane, anche La guerra dei segni traccia il suo racconto dell’arte, in questo caso esclusivamente figurativa e realtivamente al solo suo underground side, a partire dalle vite dei singoli protagonisti. Se il volume cinquecentesco attorno alle biografie degli artisti sviluppava un’analisi delle modalità espressive succedutesi nell’arco di circa due secoli e mezzo, il libro di Teatro ricorre alle vite dei protagonisti tanto per verificarne ed esplicitarne l’appartenenza all’universo underground, quanto per individuarne i reciproci collegamenti nel tempo e nello spazio.

Ad essere ricostruito è l’ondivago percorso che nel corso del tempo e delle specifiche storie individuali ha visto questi protagonisti dell’universo underground oscillare tra il sistema dell’arte ufficiale e il rifiuto od il disinteresse di farne parte e tra le lusinghe, i respingimenti e le benevolenze ritardate del sistema stesso nei loro confronti.

Quello proposto da Teatro è un percorso reticolare in cui individualità o piccoli gruppi si sviluppano a macchia di leopardo salvo poi intrecciarsi con altre esperienze originatesi altrove per contaminazione o in maniera relativamente autonoma.

Il volume si apre nei garage californiani degli anni Cinquanta, tra decoratori e customizzatori di automobili e motociclette come Von Dutch (Kenneth Robert Howard) e Ed “Big Daddy” Roth che influenzano con le loro estetiche ambiti che vanno ben al di là di quelli motoristici, in un epoca segnata dalla guerra fredda che non manca di investire l’ambito artistico in quanto ingranaggio importante della macchina di costruzione dell’immaginario.

Uno snodo importante è rappresentato dalla scena controculturale e dall’universo psichedelico californiani da cui derivano grafiche innovative. Ad essere presi in esame sono illustratori come Wes Wilson, Stanley George Miller (Stanley Mouse), Alton Kelly, Rick Griffin, Victor Moscoso, Lee Conklin e Jim Franklin. Dal medesimo panorama culturale si sviluppa un’editoria underground, prende il via l’autoproduzione delle prime fanzine che contribuiscono a far circolare grafiche e fumetti di autori come Basil Wolverton, Robert Crumb, Gilbert Shelton, Ron Cobb, Spain Rodriguez, Trina Robbins, Steve Clay Wilson, Greg Irons, Robert Armstrong, Rory Hayes e Richard Corben.

Per quanto riguarda l’underground europeo il volume si sofferma su autori quali Hans Rudolf Giger, Martin Sharp e Alan Aldridge. Lo svizzero Giger, padre dei biomeccanoidi, ha prestato il suo estroso immaginario alla saga cinematografica Alien, oltre che ad aver contribuito, con un suo celebre inserto, a far mettere all’indice negli USA e in UK l’album Frankenchrist (1985) dei Dead Kenedys. Sharp è invece l’illustratore di origine australiana, poi trasferitosi a Londra, artefice dell’avventura inglese di «OZ» e di importanti collaborazioni con il mondo musicale dell’epoca, così come farà Aldridge.

In ambito italiano le origini dell’underground vengono fatte risalire nel volume verso la metà degli agli anni Sessanta attorno a «Mondo Beat», con i lavori di Matteo Guarnaccia, fondatore nel 1970 della rivista psichedelica «Insekten Skete» e del grafico Max Capa (Nino Armando Ceretti), autore nel corso degli anni Settanta di riviste come «Puzz», «Provocazione», «Apocalisse» e «Flashback».

Un rapido cenno è dedicato all’esperienza underground in Unione Sovietica portata avanti da autori come Aleksandr Melamind e Vitalij Komar alle prese con un controllo repressivo difficilmente eludibile.

Il libro passa poi ad indagare una serie di esperienze tra Stati Uniti ed Europa. Primo tra tutti il disegnatore Vanughn Bodé, che non manca di schierare i suoi ramarri contro l’intervento militare statunitense in Vietnam per poi evolvere la sua produzione verso una contaminazione tra fumetto underground e writing. Dunque è la volta di Eric Orr, realizzatore di grafiche per la scena hip hop da cui deriva negli anni Ottanta una fortunata serie di fumetti.

Una sezione importante è poi dedicata alla grafica e all’estetica punk con relativi manifesti, locandine, cover di dischi e punkzine. Tra gli autori trattati nel volume vi sono Jamie Reid, autore delle celebri cover dell’album Never Mind the Bollocks (1977) e del singolo God Save the Queen (1977) dei Sex Pistols, Raymond Pettibon, adottato dall’universo punk tanto da essere impiegato nelle cover dei dischi Six Pack (1981) e Police Story (1981) dei Black Flak, Winston Smith, creatore del logo dei Dead Kennedys e della copertina del loro album In God We Trust (1981), oltre che di Insomniac (1995) dei Green Days. Non poteva mancare uno spazio dedicato a Gee Vaucher a cui si devono le grafiche dei radicali e coerenti Crass. Con John Holmstrom e i fratelli Hernandez si giunge poi all’incontro del fumetto con il punk.

Il volume si occupa anche dell’arrivo (ritardato) in Italia delle grafiche e dei fumetti underground statunitensi. Ed a proposito del panorama italiano viene riservato spazio a una serie di autori – Stefano Tamburini, Tanino Liberatore, Filippo Scòzzari, Massimo Mattioli ed Andrea Pazienza – che si intrecciano, a vario titolo, con la vita di riviste come «Combinazioni», «Cannibale», «Re Nudo», «Il Male» e «Frigidare».

Dunque è la volta dell’ambito sudamericano di fumettisti e illustratori, come Héctor Germán Oesterheld, Alberto Breccia e José Muñoz e di autori americani o europei che non disdegnano di operare ricorrendo al détournement di matrice situazionista o, ancora, personalità come Joe Coleman, Keith Haring, Carlos Rodriguez (Mare 139), Jean-Michel Basquiat, A-One (Anthony Clark) e Professor Bad Trip.

Un poderoso capitolo è riservato all’Arte di strada, dal writing alla scoperta dei graffiti da parte del mercato artistico. Per la scena americana vengono approfonditi Cornbread, Phase 2, Super Kool 223, T-KID, Chaz Bojorquez e Twist (Barry McGee), mentre per quella europea si approfondiscono le produzioni di Ateier Populaire, Don Leicht, John Fekner, Futura 2000, Blek le Rat, Speedy Graphito, Miss Tic, Jef Aérosol, LOKISS, Mode 2, Les Nuklé-Art, Banlieu-BanlieuThierry Noir, oltre a quelle proposte dalla scene di Amsterdam e del muro berlinese. Per quanto riguarda il contesto italiano vengono indagati gli ambiti della stencil art, dei serigraffiti, dell’Open Art Studio con Atomo, Swarz, Shah, e, ancora, Giacomo Spazio, Francesco Garbelli, Pao, DeeMO, CK8 e Pea Brain.

Un capitolo è dedicato all’arte di fine millennio con l’underground che conquista le gallerie (e viceversa), esempi di giornalismo illustrato, individualità artistiche e festival organizzati come HIU (dal 1993) nell’ambito dei Centri sociali milanesi e Crack! del Forte Prenestino romano.

Il volume si chiude con una sezione dedicata alla Street Art a partire dalle sue origini, passando per la scena di Bristol, dunque a quella internazionale fino all’Urban art con il nuovo muralismo e la propensione al gigantismo. In questi casi la rassegna avviene a “vernice ancora fresca”, nel pieno di un dibattito ancora acceso. [Su Carmilla:  1  2  3  4]

In conclusione, la grandezza e la forza dell’underground pare oscillare tra due miti estremi: da un lato il suo ostinato perpetuarsi tale in contrapposizione o in sottrazione al mainstream e dall’altro il volersi mantenere alternativa ad esso soltanto a tempo determinato mirando ad anticipare ed incidere sul mainstream e con esso su un ambito sociale e culturale più allargato.

Sospeso tra la volontà di essere un mezzo e quella di essere un fine, di certo l’universo underground, con tutte le sue contraddizioni, nasce da una oggettiva necessità espressiva, una necessità che ha attraversato il secondo Novecento ed è giunta fino ai nostri giorni che ha trovato nel do it yourself – ben da prima che il punk lo esprimesse con consapevolezza – la sua parola d’ordine che ovviamente non risolve, non potendo farlo, le contraddizioni di un sistema da cui non sembra possibile emanciparsi per sottrazione.

È forse nel dare a necessità immediate un soddisfacimento altrettanto immediato che va individuata la portata politica eversiva dell’underground e La guerra dei segni, nel suo tratteggiare un’altra storia dell’arte – non a caso a partire dalle vite dei suoi protagonisti – ne offre una panoramica preziosa.


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

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La lotta di Filo Sottile: “Senza titolo di viaggio” https://www.carmillaonline.com/2022/05/30/la-lotta-di-filo-sottile-senza-titolo-di-viaggio/ Mon, 30 May 2022 20:00:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72122 di Paolo Lago

Filo Sottile, Senza titolo di viaggio. Storie e canzoni dal margine dei generi, Alegre, Roma, 2021, pp. 381, euro 16,00.

Senza titolo di viaggio di Filo Sottile, cantastorie, anzi “punkastorie”, e scrittrice, è un libro coraggioso, la cui lettura è assolutamente consigliata a tutti. È un libro di lotta. L’autrice imbastisce una narrazione dalle tonalità autobiografiche e, davvero, ci accompagna in un vero e proprio viaggio attraverso la sua personale battaglia per vedere riconosciuta la sua identità transgender. Un viaggio percorso da clandestina perché, come leggiamo nel risvolto di copertina, [...]]]> di Paolo Lago

Filo Sottile, Senza titolo di viaggio. Storie e canzoni dal margine dei generi, Alegre, Roma, 2021, pp. 381, euro 16,00.

Senza titolo di viaggio di Filo Sottile, cantastorie, anzi “punkastorie”, e scrittrice, è un libro coraggioso, la cui lettura è assolutamente consigliata a tutti. È un libro di lotta. L’autrice imbastisce una narrazione dalle tonalità autobiografiche e, davvero, ci accompagna in un vero e proprio viaggio attraverso la sua personale battaglia per vedere riconosciuta la sua identità transgender. Un viaggio percorso da clandestina perché, come leggiamo nel risvolto di copertina, “i confini di genere, come quelli tra nazioni, sono presidiati. Varcarli è un’impresa. I lasciapassare sono concessi di rado e a condizioni umilianti. Spesso le persone trans, non binarie e queer hanno necessità di passare comunque. Come? Da clandestine. E a volte nei reticolati restano impigliati brandelli di nomi”.

La battaglia portata avanti da Filo (abbreviazione di Filomena) Sottile, però, per come emerge dalle pagine del libro, non è squisitamente privata e personale. Si tratta di una vera e propria lotta che assume i contorni di una opposizione costante e quotidiana alle dinamiche della società capitalistica, la quale si presenta anche come una società di tipo “eterocispatriarcale”. Dopo la lettura di Senza titolo di viaggio si comprende chiaramente come una lotta per una società più giusta, liberata dalla gabbia imprigionante del capitale non possa essere scissa da una contro le quotidiane violenze che vengono riservate a chi semplicemente chiede di essere se stesso senza conformarsi ai modelli imposti dall’alto dallo stesso capitale. Battersi contro quest’ultimo e contro le sue gerarchie significa battersi per una società più umana: ciò vuol dire anche riconoscere come lo sfruttamento capitalistico degli individui intacchi diverse sfere della vita di quegli stessi individui. L’identità è sicuramente una di queste: il capitale impone dei modelli e pretende che vengano seguiti. Non meravigliamoci, perciò, quando capiamo finalmente “che oppressione eterocispatriarcale, asservimento neoliberista e discriminazione razziale sono facce diverse di un unico dispositivo”. Come ci ricorda Michel Foucault, non esiste un solo ed unico potere imposto dall’alto, ma maglie di diversi poteri stretti in connessione fra di loro. Ecco perché – scrive Filo Sottile – “desideriamo mettere in discussione i principi gerarchici, le piramidi di potere, ciò che viene dato per naturale, la violenza quotidiana dell’eterocispatriarcato e del neoliberismo”. Senza titolo di viaggio è la testimonianza di una lotta quotidiana per “sfare” il capitalismo perché, nota Filo, “come dice Stefania Consigliere in Favole del reincanto, «ogni cosa fatta dagli umani – e il capitalismo è una di queste – può altrettanto bene essere sfatta». E anche su questo ci mettiamo tutto il nostro impegno”. Perché, in definitiva, il transfemminismo “non è un progetto riformista” ma “è allo stesso tempo il sogno e la pratica quotidiana della rivoluzione”.

Filo Sottile ricorda poi come la sua vicinanza al movimento NO Tav e la sua militanza in esso siano state fondamentali per portare avanti la propria battaglia. In fin dei conti, anche gli attivisti della Val Susa combattono per rivendicare la propria identità e quella del loro territorio, che non può essere violentato in alcun modo dalle dinamiche economiche imposte dal capitale. Come Filo afferma in un’intervista rilasciata al Collettivo Paolo Uccello (leggibile qui) nel febbraio 2019, è necessario “lottare su tutti i fronti”, “essere il più molteplici possibile”. E, dal movimento No Tav, Filo ha imparato anche che “lavorare sugli immaginari è fondamentale”: infatti, continua nell’intervista, “fino a quando non ti immagini un’alternativa… e lo posso leggere anche in ambito queer: fino a che io non mi sono immaginata che potessi farla io una transizione, che potessi esistere veramente, che potessi dire alla persona che vive con me, a mia figlia, ai miei parenti, ai miei amici, alle mie amiche che io ero così, che finché non ho potuto immaginare che potevo vivere così non me lo sono permessa”.

Senza titolo di viaggio è anche una testimonianza dal periodo del lockdown del 2020 e dei suoi strascichi infiniti. Un periodo in cui il motto “state a casa”, ripetuto fino alla nausea, suonava come una imposizione soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli, di chi, in quello stare a casa non andava incontro a una idilliaca ‘famiglia da Mulino Bianco’ ma a incomprensioni e violenze. Del resto, la stessa nozione di “famiglia naturale”, di “parenti stretti” ai quali era esclusivamente consentito fare visita, suonava come una inaccettabile imposizione di identità burocratica dall’alto. E contro i risvolti burocratici del potere capitalistico, Filo ha dovuto lottare non poco. Raccontando le sue esperienze di lavoro come guida presso il Museo del Cinema di Torino e, successivamente, come bibliotecaria presso le biblioteche universitarie della città, è soprattutto in questa seconda esperienza che si è trovata di fronte l’insormontabilità della burocrazia. Ogni volta che prendeva posto al suo PC e si identificava, invece di “Filomena”, le appariva il nome della precedente identità maschile. Una lotta per rivendicare se stessi e la propria identità si configura anche e soprattutto come una lotta contro i vuoti involucri che il capitale dissemina sul suo percorso, siano essi meccanismi di identità o vie commerciali che annientano l’ecosistema.

Anche da un punto di vista formale, il libro sembra rifuggire la rigidità dei generi prestabiliti, preferendo una fluidità difficilmente identificabile. Non è un saggio ma nemmeno una narrazione puramente autobiografica in quanto aperta a svariate implicazioni di natura sociale, antropologica e politica. La sua apertura formale permette il continuo inserimento di testi in versi (nella direzione del prosimetro) e di canzoni della stessa Filo ma anche di altri compositori amici. È un testo cantato, perché, come leggiamo nel risvolto di copertina, “qui dentro c’è la punk e la folk”, una mescolanza di generi, di forme e di modalità narrative. Come in una magia fantasmagorica e onirica, il testo che Filo ci offre si presenta anche come un lungo racconto fatto a tre streghe (Lena, Mela e Bertìn) che appaiono lungo il Sangone e lungo i corsi d’acqua, delle “masche” piemontesi che però non predicono il futuro perché ancora non è stato scritto. Perché il futuro, come ci insegna Filo Sottile nel suo stupefacente Senza titolo di viaggio, ce lo scriviamo da noi, con il coraggio delle nostre scelte, con le nostre lotte inscindibili da un immaginario resistente che ogni attimo dischiude inediti percorsi di liberazione.

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Schiavi nella città più libera del mondo, di Laura Carroli https://www.carmillaonline.com/2022/02/16/schiavi-nella-citta-piu-libera-del-mondo-di-laura-carroli/ Wed, 16 Feb 2022 21:30:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70540 Agenzia X, Milano 2021 pagg. 312 € 16

di Mauro Baldrati

“Il punk è un vulcano in piena attività e sta eruttando lapilli e lava, cambia continuamente la geografia del paesaggio”

Laura Carroli è stata la cofondatrice di uno dei più rappresentativi gruppi punk non solo bolognesi. I Raf Punk sono nati sull’onda d’urto del movimento politico-artistico-esistenziale della fine degli anni Settanta, spinti dal motto punk do it yourself! Non sprecare tempo e energie cercando riconoscimenti dal sistema, suona la tua musica, registra i tuoi dischi, pubblica le tue storie sulle punkzine e [...]]]> Agenzia X, Milano 2021 pagg. 312 € 16

di Mauro Baldrati

“Il punk è un vulcano in piena attività e sta eruttando lapilli e lava, cambia continuamente la geografia del paesaggio”

Laura Carroli è stata la cofondatrice di uno dei più rappresentativi gruppi punk non solo bolognesi. I Raf Punk sono nati sull’onda d’urto del movimento politico-artistico-esistenziale della fine degli anni Settanta, spinti dal motto punk do it yourself! Non sprecare tempo e energie cercando riconoscimenti dal sistema, suona la tua musica, registra i tuoi dischi, pubblica le tue storie sulle punkzine e mandali tutti all’inferno. Era uno stile di vita, un brand internazionale, convulso, creativo. In questo libro, attraverso “la storia dei Raf Punk”, quella golden age di ribellione, di fuck the power, c’è tutta. Chi l’ha vissuta la ritroverà con una vivacità e un effetto presenza straordinarie. Rivivrà quel tempo, forse perduto, o forse no; ritroverà i suoni, la velocità, ma anche la rabbia, la voglia di vivere. L’autrice ci ha messo dentro se stessa ed è riuscita anche a diventare personaggio/narratore collettivo. E’ un testo storico, ma anche un romanzo appassionante e divertente. Si staglia in modo originale sullo skyline di altri libri similari, testi memorialisti e a loro modo estremi come La mia vita hard-core di Harley Flanagan per lo spazio dedicato anche ai sentimenti, l’amore, il sesso. Laura Carroli l’ha detto, in una intervista in piazza del Nettuno a Bologna: “Ho raccolto e letto i libri scritti su quel periodo, sono tutti di autori maschi. Infatti si avverte una certa esagerazione maschile, lo spazio dedicato soprattutto agli eventi, le risse, le avventure. Io ho voluto scrivere un testo diverso. Ho voluto metterci dentro anche altro.” E se vogliamo cercare un confratello letterario troviamo singolari affinità elettive con Just Kids di Patti Smith, la poetessa rock amata dall’autrice, tanto da organizzare un viaggio in autostop a Londra per un suo concerto. Ma poi tutto cambia, tutto gira nel vortice punk. Patti Smith arriva a Bologna e “in quell’occasione la città era stata invasa da capelli lunghi, cappelli con larghe tese, torsi nudi, collanine freak e cannoni fumanti, lei aveva inneggiato al papa, quel nazista anticomunista e reazionario. Ora ci sputo sopra!”

Il punk era a suo modo un movimento purista, in quanto stile di vita totale e comunitario; era una società laterale, alternativa, senza contatti col mondo borghese perbenista né tanto meno col mercato. La musica era al centro di tutto, suonare per esprimersi, per picchiare sulla batteria, per stare insieme. Per cui i gruppi che arrivavano al successo, e lo cavalcavano, rendendo duttile e malleabile la loro musica, cessavano di essere punk e venivano insultati, disprezzati. L’esempio più eclatante, narrato col solito effetto presenza, furono i Clash con London Calling: opportunisti traditori del punk, duramente contestati a Bologna.

Schiavi nella città più libera del mondo contiene eventi, fatti collettivi, tanta politica anarco-pacifista, ma anche divertimento, una carrellata di personaggi originali, incontri epici, il primo concerto dei PIL, i Dead Kennedy a Perugia, i soggiorni a Londra, sempre alla ricerca di dischi e concerti, tanto che si poteva saltare la cena per non rinunciare all’ultimo disco dei Crass. E poi la punkaminazione in Germania, a Berlino a bordo della Dyane 6 così carica che il fondo rischiava di sfregare sull’asfalto. Riviviamo i disastri dei primi festival punk, incastrati in una città ostile, sprezzante e ottusa. Ed è anche – si può dire? – un testo governato da una certa grazia femminile, che riscatta il machismo di altri memoriali simili. Non solo epica strong, ma un’attenzione ai dettagli, il gusto punk per l’abbigliamento, i giubbotti di pelle, i capelli, come affermazione di eleganza do it yourself nella città grigia e omologata. Un inserto fotografico, composto da istantanee scattate in varie situazioni, spesso sgranate o sghembe, ne amplifica l’effetto visionario e ci fa letteralmente saltare dentro a quel tempo e a quegli spazi. Infine c’è un altro aspetto collaterale che colpisce: La città più libera del mondo, con la sua subcultura borghese e bottegaia, confrontata con quella di oggi, sembra preistorica: concedeva spazi per suonare, sale ai punk e agli anarchici, il Baraccano, il Cassero; punti di ritrovo dove si organizzavano concerti, sale prove, manifestazioni. Oggi è talmente libera che i centri sociali vengono sgomberati e tutti gli spazi pubblici non istituzionali affidati ai costruttori che realizzano porzioni di cittadelle semifortificate dove regnano sovrani l’ordine e il decoro.

Di seguito pubblichiamo un estratto del libro, un volantino che fu affisso in varie parti della città.

PUNK INCONTRIAMOCI!

A te che pur vivendo tra questo cumulo di pietre fredde e scostate chiamato Bologna, tra altri 400.000 bipedi zombi, senti che qualcosa non funziona, ma continui a gironzolare per la strada senza meta, annoiandoti da solo a casa tua o collettivamente a casa di amici, o fai trascorrere il tempo davanti a un bar bevendoti le idiozie dei coglioni del posto, o peggio cominci a pensare che le pere siano l’unica soluzione, o fai solo quello che dice il partito, o leggi Popster-popstars “cosa posso fare oggi?” e finisci immancabilmente in una fottutissima discoteca, a te NON VIENE MAI VOGLIA DI VOMITARE, vomitare su tutte queste cose, la scuola, la discoteca, la caserma e tutte quelle cose che ti rubano tempo restituendoti solamente valanghe di noia? Credi forse che la noia NOIA sia solo nei dischi dei BUZZCOCKS ADVERTS o sia invece tutto ciò che ti succede ogni giorno??? Questo perché vivi in una stupida città dove la sera non sai cosa fare, il sabato e la domenica non sai dove andare e così pure tutti gli altri giorni, semplicemente perché NON C’E’ NESSUN POSTO DOVE ANDARE.

Non pensi mai che ci sono moltissimi altri kids con questo tuo stesso problema, questa maledetta angoscia che ti succhia tutte le energie vitali, non pensi che unendoti a loro potresti fare almeno un piccolo passo verso la soluzione della faccenda???? Non credi che potresti frequentare persone con le tue stesse idee, i tuoi stessi casini, che ascoltano la tua stessa musica, che hanno i tuoi stessi bisogni, invece di SPRECARE TEMPO con quelli che conosci solo perché abitano nel tuo palazzo o sono in classe con te o “sono delle fighe ma non ci stanno”??? O pensi che si possa ascoltare gli ANGELLIC UPSTARTS come si ascoltano i merdosi Supertramp, i fottuti Dire Straits, poi andare a ballare in discoteca, regalare l’anellino alla fidanzata, mettere il vestitino che dice la mamma o quello che va di moda, studiare “perché-così-sono-sempre-pronto”, dire che quella è una puttana perché “va con tutti”, andare a vedere Alien e tutti i successi-merdate, magari in prima visione, o comperare la vespa perché ce l’hanno tutti????

Se sei uscito da questo circolo vizioso o se non ci sei mai entrato e non vuoi prendere THE SHIT THEY GET sai che dobbiamo vederci-unirci trovarci e sai che facendo ciò potremmo tentare di fare qualcosa per smuovere questa situazione di merda, come trovare un locale dove fare concerti o qualsiasi altra cosa. Dato che per il momento non esiste un luogo preciso dove incontrarci, telefona il più presto possibile a Giampaolo 892352, Laura 517480, Oddone 562030, Stefano 362254, Paolo 371158
DON’Y GET THE SHIT THEY GET DIAL JOIN US

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Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità https://www.carmillaonline.com/2021/10/19/estetiche-inquiete-joy-division-e-dintorni-immaginari-ed-eredita/ Tue, 19 Oct 2021 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68729 di Gioacchino Toni

Dopo aver preso in considerazione [su Carmilla] le radici e il contesto del fenomeno Joy Division protrattosi nel tempo ben oltre la breve apparizione della band a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, continuando a far riferimento al volume curato da Alfonso Amendola e Linda Barone, Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division (Rogas, 2021), vale la pena soffermarsi tanto sugli immaginari che hanno plasmato la produzione dei Joy Division quanto sull’incidenza da loro esercitata sulla scena coeva e sulle generazioni dei decenni [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo aver preso in considerazione [su Carmilla] le radici e il contesto del fenomeno Joy Division protrattosi nel tempo ben oltre la breve apparizione della band a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, continuando a far riferimento al volume curato da Alfonso Amendola e Linda Barone, Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division (Rogas, 2021), vale la pena soffermarsi tanto sugli immaginari che hanno plasmato la produzione dei Joy Division quanto sull’incidenza da loro esercitata sulla scena coeva e sulle generazioni dei decenni successivi.

Nell’analizzare l’immagine grafica dei Joy Division, Alfredo De Sia evidenzia come questa si esprima soprattutto attraverso le cover dei dischi capaci di condensare la tematica della band rivelando tanto la matrice ermetica e dolente quanto la cultura poetico-letteraria di Ian Curtis.

Il primo elemento che contraddistingue l’immagine grafica del gruppo viene indicato dallo studioso nella copertina dell’EP, nella sua prima edizione autoprodotta, An ideal for living (1978) in cui campeggia un giovane tamburino nazi-style in bianco e nero su di una cover bianca che – in modalità do-it-yourself – “si espande” in alcune pagine con immagini, compresa una foto del gruppo. Il nuovo nome della band, che sostituisce il precedente Warsaw, in tale circostanza scritto con caratteri goticheggianti, richiama le “divisioni della gioa” (Freudenabteilungen) istituite dai nazisti e composte da prigioniere obbligate al soddisfacimento sessuale maschile. I riferimenti all’universo nazista non hanno mancato di suscitare perplessità all’epoca, tanto che con il passaggio della band alla Factory l’EP viene ristampato adottando una nuova copertina recante l’immagine di un fitto ponteggio edile con il nome del gruppo in sovrastampa sviluppato in maniera cruciforme.

Il secondo elemento grafico, destinato a restare nella storia, riguarda la cover del primo LP Unknown pleasures (1979) realizzata da Peter Saville con la celebre sequenza grafica di segnali pulsar su sfondo nero che, sostiene De Sia, è divenuta «il vessillo di coloro che, negli anni Ottanta, rifiutavano l’omologazione edonistica legata ai brand commerciali ma si identificavano in una cultura che, pur avendo perso la rabbia del punk, era immersa in una romantica ed ermetica disperazione» (p. 76).

Il terzo elemento riguarda ancora una volta una copertina, quella di Closer (1980), LP uscito pochi mesi dopo il suicidio di Curtis, recante un’immagine che Peter Saville deriva da uno scatto fotografico realizzato da Bernard Pierre Wolffa alla tomba della famiglia Appiani nel cimitero genovese di Staglieno. Il titolo dell’album è scritto con l’elegante font classicheggiante – il Palatino disegnato da Hermann Zapf nel 1948 –, mentre non compare il nome della band. Tale copertina – color avorio nell’edizione originale inglese, bianca nella versione diffusa negli altri paesi – si rivela del tutto in linea con la dolenza emanata dalla musica del gruppo in un album che può, secondo De Sia, essere considerato un epitaffio sulla parabola dei Joy Division.

Incentrando il suo contributo sulla “danza esistenziale” di Ian Curtis, scrive Manolo Farci:

Il post-punk fu un genere musicale che contribuì notevolmente ad accelerare quel processo di decostruzione dell’ideale virile maschile che era stato già profondamente eroso a partire dal secondo dopoguerra. Lo fece, anzitutto, a livello stilistico, preferendo alla mitologia del guitar hero la preminenza della linea ritmica basso-batteria, mettendo in primo piano l’uso dei sintetizzatori, che permettevano l’identificazione simbolica dello strumento come oggetto sessualmente ambiguo o, ancora, prediligendo uno stile di canto più elegante e raffinato rispetto alla rudezza del punk […]. Ma lo fece, soprattutto, sostituendo all’immaginario machista del cock-rock americano dei decenni precedenti, con l’ostentazione di una sessualità attiva, esplicita e spesso aggressiva […], una rappresentazione della mascolinità differente, intellettualmente complicata, apertamente vulnerabile, languidamente passiva o sessualmente inetta. Prima ancora che le innovazioni del post-punk colonizzassero i consumi di massa di milioni di adolescenti degli anni Ottanta, […] fu la breve e intensa parabola dei Joy Division a mettere in scena gli sforzi di una mascolinità che tentava di ripensare se stessa. In un momento storico in cui un intero mondo (socialdemocratico, fordista, industriale) manifestava la sua obsolescenza, e i contorni di una nuova realtà sociale (neoliberale, consumista, informatica) cominciavano a diventare visibili […], la loro musica offrì una delle più lucide testimonianze dello smarrimento di una intera generazione di giovani maschi (pp. 79-80).

Sebbene Curtis rappresenti un’anomalia rispetto ai frontman delle band di area punk dell’epoca, allo stesso tempo, sottolinea Farci, non è poi così diverso da tanti altri suoi coetanei.

Come la maggior parte dei giovani delle white working class travolti dalla spirale discendente dei vertiginosi Settanta, Ian Curtis sapeva bene che le certezze ingenue della civiltà postbellica erano crollate. L’ideologia patriarcale del capofamiglia non era più credibile, l’automatizzazione andava sostituendo il lavoro dipendente dalla forza muscolare, e l’aumento della disoccupazione creava sentimenti di impotenza in una intera generazione di uomini. I ragazzi sentivano di non poter più contare su quella idea di mascolinità tradizionale che i loro padri avevano contribuito ad affermare (p. 81).

Nei Joy Division tale angoscia risulta palpabile, così come nella danza di Curtis è ravvisabile il tentativo di confrontarsi con l’alterità femminile o nera mettendo in scena «la sofferta estraneità di una intera generazione maschile rispetto a un mondo in cui altre identità iniziavano a reclamare il proprio spazio» (p. 83).

La danza di Ian Curtis rappresentò anzitutto un modo attraverso cui la mascolinità bianca reagiva alla forte ondata di immigrazione post-bellica che stava vivendo l’Inghilterra in quel periodo e alla conseguente diffusione di nuove sonorità provenienti, in particolar modo, dalla Giamaica e dalla cultura caraibica. Nonostante la sua importanza sia stata innegabile, la black culture è stata spesso mal rappresentata nella musica rock. Il pubblico bianco ha storicamente richiesto che i musicisti neri si conformassero alle loro aspettative di esotismo e primitivismo e che incarnassero sensualità, spontaneità e grinta (p. 83).

Il mito del “selvaggio” non “addomesticabile” alle relazioni sociali della società moderna ha fortemente permeato l’immaginario rock che non di rado ha riprodotto lo sguardo colonialista che vuole “l’uomo nero” in balia dalla propria libido del corpo. Il fastidio provato dalla mascolinità rockettara bianca nei confronti della disco music è secondo lo studioso in parte riconducibile al suo mettere in scena una sessualità alternativa, lontana dal machismo tradizionale.

Il post-punk ha saputo rompere con tale immaginario e, nonostante sia stato un fenomeno in buona parte di matrice bianca, ha saputo rapportarsi con “la musica da ballo” in maniera meno oppositiva pur evitando, come ne caso dei Joy Division, di desumerne fisicità e ritmicità gioiose. Nel caso di Curtis il richiamo è piuttosto all’immaginario del disagio psichico e fisico desunto dall’iconografia del genio romantico in cui la malattia diventa un dono di sensibilità accresciuta.

Lo Sturm und Drung emotivo di Ian Curtis raccontava, così, il fallimento e la frustrazione della corporeità bianca rispetto alla ritmicità erotizzata della black culture. Alla virilità dell’Altro razziale sostituiva l’ideale del genio portatore di un dolore sofisticato espresso in un corpo fragile: una immagine iconica per una generazione di giovani uomini che cercava di rimarcare la propria differenza rispetto alla musica di derivazione nera e ritrovare, così, una qualche forma di legittimazione sociale (p. 86).

La “danza esistenziale” del frontman dei Joy Division consente, inoltre, ai giovani bianchi di rapportarsi con l’alterità femminile in linea con l’allontanamento dal machismo di matrice punk intrapreso da gruppi come Siouxsie and the Banshees, Bauhaus, Southern Death Cult e Sex Gang Children. Si può pertanto affermare, sostiene Farci, che la danza esistenziale di Curtis mette in scena la tematica della depressione in netto anticipo rispetto al suo divenire una preoccupazione sociale diffusa. Inoltre, continua lo studioso, il funereo nichilismo dei Joy Division si rivela non dissimile dall’immagine freudiana del malinconico «che mette in scena la perdita stessa come centro del suo affetto, facendo dell’assenza l’oggetto del proprio desiderio» (p. 88).

La malinconia e l’autocommiserazione da un lato, il masochismo e la debolezza dall’altro diventarono così alcuni tra i tratti più caratteristici attraverso cui la mascolinità post-punk si riappropriava dell’alterità femminile per tentare di riaffermare la propria differenza identitaria, la propria specificità maschile in un periodo in cui, disconosciuto l’ideale virile del passato, molti uomini erano alla ricerca di una rotta nuova su cui avventurarsi (p. 90).

Se quello tratteggiato sin qua riguarda l’immaginario Joy Division tra fine anni Settanta e inizio degli Ottanta, l’intervento di Paolo Bertetti e Domenico Morreale si sposta invece sul lascito del gruppo alle generazioni successive soffermandosi sul progetto “Unknown Pleasures Reimagined” organizzato dalla Warner Music in occasione del quarantesimo anniversario dall’uscita di Unknown pleasures nel 1979. Coordinata da Warren Jackson della Warner e da Orian Williams, che aveva già collaborato al film Control, (2007) diretto da Anton Corbijn sulla figura di Ian Curtis, l’iniziativa prevede di affidare a registi di diversa provenienza la produzione di dieci audiovisivi low budget, incentrati su altrettanti brani contenuti nell’album. La distanza di tempo che separa la produzione degli audiovisivi dall’opera del gruppo è tale per cui l’allontanamento dall’estetica dei Joy Division è risultato quasi inevitabile.

L’idea dei produttori è dunque quella di reimmaginare un immaginario e non di rielaborare quello esistente e consolidato attraverso i prodotti mediali e le pratiche fan. Inevitabilmente, tuttavia, gli autori coinvolti si sono, più o meno consapevolmente, confrontati con quel repertorio di immagini sedimentato nella memoria collettiva e che ha plasmato, negli anni, l’identità della band (p. 94).

Al fine di comprendere a fondo i nuclei tematici estetico/narrativi propri dell’immaginario dei Joy Division occorre, secondo i due studiosi, considerare attentamente il rapporto tra le rappresentazioni mediali della band e della Factory Records e il sistema mediale che ne ha consentito la circolazione nei decenni successivi. Si possono pertanto individuare tre fasi di circolazione delle rappresentazioni mediali che contribuiscono a edificare l’immaginario della band lungo i quattro decenni che separano il progetto dall’uscita del loro primo LP.

Una prima fase viene individuata nel periodo a cavallo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, in cui la circolazione mediatica del gruppo avviene attraverso la distribuzione discografica e radiofonica, oltre che sulle pagine delle riviste musicali. L’immagine dei Joy Division è in tale periodo delegata alla grafica delle cover e ai servizi sui magazine in cui spiccano il celebre scatto del 1979 di Kevin Cummins che ritrae il gruppo su Princess Parkway a Manchester e quello di Anton Corbjin che mostra la band di spalle nella stazione metropolitana londinese di Lancaster Gate con il solo Curtis che, attardandosi dagli altri, si gira verso il fotografo. «Queste rappresentazioni individuano alcune costanti estetiche che ricorreranno negli anni: il bianco e nero delle fotografie, la dimensione urbana del sound che rispecchia il soundscape di una Manchester postindustriale, l’incomunicabilità e l’isolamento […], la normalità antidivistica dei membri della band, la “serietà”» (p. 96).

La seconda fase individuata da Bertetti e Morreale riguarda il lasso di tempo compreso tra gli anni Ottanta e l’inizio del nuovo millennio e in questo caso si aggiungono il medium televisivo, soprattutto i canali videomusicali, l’home-video e il compact disc su cui vengono rimasterizzati i vecchi brani. Alla dimensione urbana e all’antidivismo si aggiunge poi la danza particolare di Curtis con inevitabili riferimenti all’epilessia che diviene, insieme al suicidio, centrale nelle narrazioni mediali relative al frontman della band. Tra le produzioni più celebri del periodo occorre citare il video musicale Atmosphere (1988) realizzato da Anton Corbjin per promuovere la compilation Substance (1988) fatta uscire dalla Factory Records.

Infine, una terza fase si apre con la diffusione del web e dei social network che permettono nuove forme di riappropriazione e rielaborazione dell’immaginario gravitante attorno ai Joy Division.

Bertetti e Morreale si soffermano sul legame tra l’estetica della band e gli scenari (post)industriali e i sobborghi proletari di Manchester. «La musica dei Joy Division trasforma il paesaggio industriale degradato della provincia inglese in un paesaggio interiore, nel quale lo straniamento materiale diventa straniamento esistenziale, in un “no future” più intimo e adulto – e per certi versi anche più intellettuale – di quello punk, un’alienità urbana giocata su lacerti burroughsiani e ballardiane atrocità in mostra» (p. 100).

Se l’estetica originaria del gruppo si lega al contesto storico-sociale della Manchester dell’epoca, sostengo i due studiosi, le reinvenzioni tendono invece a svicolare la musica dei Joy Division dal contesto in cui è stata prodotta riproponendola «in chiave più universale e internazionale (più facilmente commercializzabile?), caricandola di temi, figure, immaginari e persino valori ideologici diversi, legati a una dimensione più attuale e globale, in grado di connetterla a generazioni e vissuti anche assai distanti da essa» (pp. 100-101).

L’immagine lo-fi dei Joy Division è invece al centro dell’analisi di Jennifer Malvezzi che ragiona, appunto, su come buona parte delle immagini riguardanti la band siano “poor images”, immagini a bassa risoluzione, sgranate, derivate da quella logica artigianale del do-it-yourself introdotta del punk, quasi a enfatizzare a livello tecnologico il divario sociale tra i “figli della Manchester in disgregazione” e il nascente yuppismo dall’immagine patinata nel passaggio dai Settanta agli Ottanta. D’altra parte, però, sottolinea Malvezzi, in netto anticipo sui tempi, «le immagini mediali e i prodotti audiovisivi dei Joy Division hanno saputo incarnare molte delle derive esistenziali divenute sempre più comuni con l’avvento massivo del digitale: l’alienazione, la solitudine, il rapporto di disparità crescente tra i nostri corpi e l’ambiente urbano» (p. 112).

Lo scritto di Fabio La Rocca evidenzia come i Joy Division rappresentino perfettamente una particolare cultura incarnata nel quotidiano propria del periodo in cui nasce ma capace di parlare all’attualità funzionando da

eco di un tempo culturale che persiste nell’immaginario della memoria collettiva e risuona grazie alle immagini che rappresentano altresì una modalità narratologica […] L’effervescenza collettiva generata dal suono di Joy Division e dalle caratteristiche simboliche che ne derivano rappresenta una potenza societale in cui il residuo emozionale attiva un campo di forza che permette […] quel processo di proiezione/identificazione in atto nella relazione che l’essere umano intraprende nei processi culturali e nelle susseguenti forme di adorazioni collettive e passioni comuni. Ciò genera una certa “affettologia” sociale da intendere come una sensibilità che alimenta e struttura l’immaginario culturale creando forme di adorazioni e condivisione emozionali (pp. 134 e 137).

Non è nei successivi New Order che secondo lo studioso è possibile rintracciare il persistere del mito della band, bensì «in quella sorgente di memoria collettiva del suono autentico dei Joy Division e dei movimenti rapidi e nervosi sulla scena di Ian Curtis che contribuiscono all’edificazione della storia culturale-musicale e a quelle immagini che ne alimentano il mito» (p. 139).

Giuseppe Allegri situa l’epopea del gruppo tra due polarità coincidenti da un lato con l’impresa comune generazionale post-punk della Menchester di fine anni Settanta e dall’altro con la «vocazione isolazionista, introspettiva e solitaria di questo manipolo di dropout ventenni del nord-ovest inglese, riuniti intorno a un ragazzo carismatico, dolce e al contempo iroso come Ian Curtis» (p. 186).

Francesca Ferrara evidenzia come l’immaginario incarnato dal gruppo – le cui canzoni ruotano attorno a concetti quali freddezza, pressione, oscurità, crisi, fallimento, cedimento, perdita di controllo – sia associabile a una poetica della distanza che si palesa innanzitutto nei confronti dei propri fan, evidenziata dal ricorso a una sorta di strategia “anti-immagine” pubblica contraddistinta da un modo di presentarsi old-fashioned in contrasto con la tradizione rock e punk. Il gruppo pare persino disinteressato all’interpretazione che viene data ai loro testi. I Joy Division anziché enfatizzare rabbia ed energia, trasmettono emozione ed espressività aprendo la strada ad un versante di sound malinconico poi diffusosi negli anni Ottanta. Ribaltando un certo atteggiamento ribellistico rock di matrice politico-sociale, la band incarna piuttosto una tendenza introspettiva, desolata, claustrofobica, disperata.

Ma quella distanza e quella freddezza percepite dal pubblico erano in primo luogo enfatizzate dalla figura del frontman del gruppo. Quella di Ian Curtis era una «presenza assente» […], la cui indifferenza al mondo circostante era talmente evidente da emergere in modo chiaro financo dalle fotografie che gli venivano scattate […] Con quei movimenti convulsi e scoordinati, quindi, le esibizioni di Ian sembravano manifestare ancora più direttamente, attraverso una mescolanza di finzione e autenticità, di artisticità e malessere, la distanza del cantante dall’attualità della situazione presente: Ian Curtis era in primo luogo assente a se stesso, la distanza tra lui e il resto del mondo era in primo luogo distanza tra sé e sé (pp. 213-214).

Lo stesso sound, caratterizzato dell’eco e del riverbero nel mixaggio degli strumenti, enfatizza ulteriormente, secondo Ferrara, «una percezione sonora di distanza e lontananza, sottolineando la stretta connessione tra spazio acustico ed effetto emotivo nell’ascoltatore» (p. 215). Passando in rassegna anche i testi delle canzoni, la studiosa conclude che, in generale, «Dimensione pubblica, dimensione psichica e dimensione artistico-compositiva sembrano […] rimandarsi, lasciando emergere una dialettica tra presenza ed assenza, tra elementi che si intrecciano, toccandosi a distanza» (p. 217).

Il volume Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division, tratteggiato nei due scritti che gli sono qua stati dedicati prendendo in esame, per motivi di spazio, soltanto alcuni tra i tanti contributi che lo compongono, si rivela un’analisi preziosa dell’esperienza Joy Division. Oltre alla prefazione di Roberta Paltrinieri, nel libro sono presenti contributi di: Alfonso Amendola e Linda Barone, Alfonso Amendola e Novella Troianiello, Daniele De Luca, Eugenio Capozzi, Donato Guarino, Alfredo De Sia, Manolo Farci, Paolo Bertetti e Domenico Morreale, Jennifer Malvezzi, Andrea Rabbito, Fabio La Rocca, Alessandro Gnocchi, Vincenzo Romania, Linda Barone, Massimo Villani, Giuseppe Allegri, Fortunato M. Cacciatore, Francesca Ferrara, Caterina Tomeo, Emiliano Ilardi, Raffaele Federici, Giada Iovane e Giovanni Maria Riccio, Michelle Grillo.

Joy Division: Shadowplay, She’s Lost Control & Transmission (Live 1978)


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

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Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici https://www.carmillaonline.com/2021/10/17/estetiche-inquiete-joy-division-e-dintorni-contesto-e-radici/ Sun, 17 Oct 2021 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68686 di Gioacchino Toni

I primi anni Ottanta segnano il passaggio da un ventennio di radicale messa in discussione dell’esistente, contraddistinto da ribellioni e speranze, a un periodo che non può essere derubricato come semplice “ritorno all’ordine”; sono gli anni in cui si pongono le basi di quel neoliberismo i cui risultati, a distanza di decenni, plasmano la contemporaneità palesando cambiamenti epocali. Sono gli anni in cui a Downing Street si insedia quella Iron Lady intenta a smantellare un pezzo alla volta tutti quei legami sociali condsiderati d’impiccio a uno sistema di sviluppo intento a spingere sempre più sull’acceleratore del cinismo più [...]]]> di Gioacchino Toni

I primi anni Ottanta segnano il passaggio da un ventennio di radicale messa in discussione dell’esistente, contraddistinto da ribellioni e speranze, a un periodo che non può essere derubricato come semplice “ritorno all’ordine”; sono gli anni in cui si pongono le basi di quel neoliberismo i cui risultati, a distanza di decenni, plasmano la contemporaneità palesando cambiamenti epocali. Sono gli anni in cui a Downing Street si insedia quella Iron Lady intenta a smantellare un pezzo alla volta tutti quei legami sociali condsiderati d’impiccio a uno sistema di sviluppo intento a spingere sempre più sull’acceleratore del cinismo più spietato edificando un modello teso a rappresentarsi immodificabile, come Margaret Thatcher non manca di scandire ad ogni occasione: “There is no alternative”.

L’Inghilterra plasmata dalle politiche thatcheriane dei primi anni Ottanta è un Paese afflitto dalla disoccupazione e dalla disgregazione sociale che si abbattono sulla working class tradizionale, dall’individualismo, dall’odio, dal sessismo e dalla violenza che non sempre riescono a essere celati dietro allo scintillio delle prime avvisaglie di gentrificazione dei quartieri, agli status simbol esibiti da rampanti uomini e donne intenti a sgomitare con ogni mezzo necessario per conquistarsi “il successo”.

Le trasformazioni epocali inaugurate in apertura di quel decennio sono inevitabilmente accompagnate da una generale messa in discussione di identità che sembravano granitiche con cui, del tutto impreparati, si sono trovati a fare i conti individui sempre più atomizzati. Lo scrittore David Peace ha saputo far affiorare le macerie tra le immagini patinate di quel periodo tratteggiando nel ciclo di romanzi Red Riding Quartet il contesto in cui si danno alcuni crimini efferati tra miniere abbandonate, fabbriche chiuse o automatizzate, città in rovina e violente di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, oltre che individui e comunità dall’identità frantumata.

Gli anni Ottanta, in un modo o nell’altro, hanno plasmato l’immaginario contemporaneo tanto da fungere da serbatoio da cui si continua ad attingere, più o meno nostalgicamente, recuperando segni e testi culturali assecondando inclinazioni edonistiche o esistenziali. A questo secondo versante fa riferimento il volume curato da Alfonso Amendola e Linda Barone, Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division (Rogas, 2021) che, analizzando in un percorso trasversale a più voci l’opera del gruppo di Salford, Greater Manchester, ricorrendo a un’ottica interdisciplinare, ricostruisce l’universo Joy Division indagato sia nel contesto in cui è nato che nel lascito da cui l’attualità continua ad attingere più o meno rispettando l’esperienza originaria. [A tale libro sarà dedicato un secondo scritto nei prossimi giorni su Carmilla]

Alfonso Amendola e Novella Troianiello muovono la loro indagine a partire dalla convinzione che un genere musicale non sia esclusivamente il prodotto di un determinato gruppo sociale ma che esso stesso contribuisca a generare delle identità sociali che concorrono a plasmare i confini e a mutare le forme culturali nel corso del tempo.

Se il punk può essere visto come una sorta di risposta rabbiosa e nichilista all’incertezza sociale e politica del periodo in cui esplode espressa dai rimasugli di comunità in disarmo soprattutto in ambito londinese, il post-punk si presenta come un fenomeno proprio di alcune città del Nord dell’Inghilterra caratterizzate dalla cupezza urbanistico-architettonica ereditata dagli anni Sessanta.

Città industriali in declino come Manchester, Liverpool e Sheffield che hanno conosciuto la violenza della rivoluzione industriale sembrano ormai capaci di offrire ai figli della working class e della piccola borghesia soltanto il senso di alienazione e di inquietudine della grigia periferia lontana dal punk della Capitale presto trasformatosi in patinato fenomeno di consumo. Nelle città industriali del Nord nasce dunque una

generazione post-punk che al nichilismo dell’annientamento del futuro e al fascino della moda irriverente [del punk londinese] rispondevano con l’inquietudine e l’incertezza del presente e con il racconto dell’apatia della periferia. Allo stesso modo dei Fall, anche i Joy Division, seppur con diversi riferimenti dichiarati, dipingevano attraverso la musica e la lirica un paesaggio industriale periferico che portava con sé solo immagini di fallimento, gelo, perdita del controllo, smarrimento (p. 32).

Se già il punk, operando una sorta di opera di bricolage, aveva saputo attingere da diversi stili e sottoculture britanniche del dopoguerra, il post-punk, sostengono Amendola e Troianiello, ha ulteriormente ampliato i confini allargandosi all’ambito europeo attingendo, ad esempio, dai suoni metallici dei tedeschi Kraftwerk e da esperienze alle prese con sonorità sintetizzate.

In una contesto urbano sempre più caratterizzato dal frantumarsi delle comunità sono spesso i mass media a proporre/costruire nuovi ambiti identitari.

In questo modo è possibile intendere l’immagine delle culture giovanili figlie della working class protagoniste del movimento sottoculturale del post-punk (così com’è stato per la corrente punk) come l’immagine coesa di una cultura della resistenza. Pertanto se il dolore, l’introspezione, il disagio post-industriale e l’assenza di bellezza così come la sua ricerca, l’uso di droghe, la disoccupazione e l’inesorabile declino di una nazione potente diventavano le colonne portanti del discorso sottoculturale del post-punk, l’estetica, i luoghi di consumo della musica e i luoghi di creazione di nuovi network dove esercitare pratiche condivise di ascolto e condivisione secondo rituali consolidati, rappresentavano il linguaggio necessario, coerente e coeso di un movimento che, partendo da un desiderio di costruzione alternativa al rock classico, ha finito per dar vita ad una nuova ondata di produzioni mainstream degli anni Ottanta (p. 30).

La scena discografica post-punk di Manchester si contraddistingue anche per un’eleganza e pulizia formale – sconosciute all’ambiente musicale londinese dell’epoca – che richiama palesemente le estetiche di alcune avanguardie europee primonovecentesche. Se a Manchester, al passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta, gruppi come Joy Division, A Certain Ratio, Durutti Column, The Fall, cresciuti attorno alla Factory Records, si mostrano più inclini a sonorità cupe, a Liverpool, altra città in declino alle prese con la disoccupazione, band che gravitano attorno all’Eric’s Club, come Echo and the Bunnymen, ricavano dall’angoscia, dalla solitudine e dal dolore atmosfere decisamente meno fosche.

Un caso un po’ diverso è rappresentato da Sheffield, uno dei centri nevralgici della rivoluzione industriale: nonostante nell’immediato gli effetti del thatcherismo si rivelino meno devastanti dal punto di vista occupazionale rispetto alle alte città del Nord, anche questa realtà non manca di pagare il suo tributo in termini culturali. Se nel cuore della lavorazione dell’acciaio e dell’orgoglio operaio il punk rimane un fenomeno sostanzialmente di superficie tra i figli della working class, maggior interesse viene invece da questi riservato all’universo delle sonorità sintetizzate. Il fenomeno post-punk di Sheffield ha nell’esperienza del laboratorio creativo Meatwhistle, da cui provengono gruppi come Music Vomit, un riferimento importante sebbene non l’unico, visto che anche per altre vie nascono band destinate alla notorietà (es. Cabaret Voltaire).

Dal racconto della periferia post-industriale al centro della cultura globale condivisa dai grandi pubblici, dai focal places, luoghi di costruzione di relazioni e rapporti, il post-punk nella sua veste eversiva eppure reificata perché inserita nei processi produttivi e distributivi, è un forte esempio di identità culturale che si muove continuamente dai bordi del racconto sovversivo verso il centro del consenso comune, creando nuove metafore, racconti e atmosfere (pp. 35-36).

Nel volume Daniele De Luca approfondisce il rapporto tra i Joy Division e l’area di Machester in cui crescono; una realtà urbana all’epoca in balia della disoccupazione e dal tessuto sociale lacerato in cui figli della classe operaia sembrano trovare per un istante nel punk, arrivato dall’odiata Capitale, un modo per rialzare la testa e dar voce alla rabbia accumulata in corpo.

Ma il punk era stata l’improvvisa scintilla per accendere un fuoco ancor più duraturo. Dopo la pubblicazione in puro stile do-it-yourself, nel gennaio 1977, di Spiral Scratch da parte dei Buzzcocks (con la produzione di Martin Hannett, il creatore indiscusso del suono dei Joy Division), la scena mancuniana stava per partorire qualcosa di nuovo. Nel 1978, il punk si stava trasformando nel post-punk: le idee scaturite dal punk venivano usate per creare un modo diverso di fare musica. Manchester diventerà leader della nuova scena. Il miracolo del riscatto era iniziato. I Magazine, i Warsaw (diventati ben presto Joy Division), i Fall, i A Certain Ratio inaugurarono la strada lastricata di sottile e prezioso alabastro della new wave (p. 43).

De Luca insiste su come il degrado urbano e lo sfilacciamento sociale di Manchester facciano parte della quotidianità dei Joy Division e di come questi ultimi derivino da un proficuo incontro tra ambiti sociali, luoghi e formazione culturale diversi da cui hanno saputo originare un sound capace di coniugare insicurezze, smarrimenti, energia repressa e, soprattutto, la sensazione della perdita che, insieme al senso di solitudine, pare davvero essere una delle caratteristiche che stanno alla base del gruppo e più in generale del post-punk nelle città dell’Inghilterra settentrionale.

Eugenio Capozzi pone l’accento su come l’esperienza post-punk nasca sull’onda delle grandi differenze che caratterizzano la generazione dei ventenni di fine anni Settanta da quella degli anni Sessanta. Se quest’ultima può dirsi caratterizzata da un’aspirazione a un «nuovo comunitarismo senza repressione, gerarchie, obblighi», la generazione del decennio successivo si contraddistingue per una rabbiosa e distruttiva assenza di progettualità attraversata da una visione del mondo decisamente soggettiva, quando non individualista.

Insomma, la controcultura/cultura hippie prima, il no future del punk dopo. La differenza tra l’atteggiamento assunto dalle punte più inquiete delle due “sub-generazioni” è quella tra utopia spericolata e disillusione; tra la fede misticheggiante in una sorta di ritorno all’innocenza neo-rousseauiano e la presa d’atto di una frammentazione “tribale” delle società occidentali su base “postmaterialista”, del dominio di una “cultura del narcisismo”. […] A partire dal punto di vista periferico della sua Manchester operaia, Ian Curtis appartiene in pieno alla seconda “subgenerazione” […] assimila, dunque, la rabbia nichilista del punk, ma nutrendola di un pessimismo filosofico dalle radici profonde, imperniato su una meditazione intorno al disorientamento dell’individuo rispetto a sistemi sociali, economici, culturali, istituzionali mossi da forze estranee, incomprensibili, crudeli (p. 47).

Se l’esordio dei Joy Division – con l’EP An ideal for living (1978) – sembra derivare da una necessità di estrinsecare una rivolta esistenziale ed etica attraversata da amarezza e disillusione – e quest’ultima rappresenta un’altra delle parole chiave dell’esperienza del gruppo –, con il primo album – Unknown pleasures (1979) – a emergere è soprattutto la solitudine dell’individuo e il senso di incomunicabilità che si manifestano in particolare attraverso «il rimpianto per una condizione ideale di armonia sentita come irrimediabilmente perduta e la domanda di affetto, solidarietà, comprensione» (pp. 48-49). Il senso di radicale distacco dal mondo diviene evidente, così come una certa indifferenza nei confronti della morte dal momento che ogni rapporto affettivo appare ormai come un semplice lontano ricordo. Ian Curtis, sostiene Capozzi, sembra per certi versi avviarsi ad abbandonare ogni impulso teso alla liberazione per trasformarsi in un “giovane vecchio”, intraprendendo un percorso personale che lo vede passare da una “rivoluzione senza utopia” a un “soggettivismo estremo” evitando di percorrere altre strade, all’epoca battute dai più, indirizzate invece verso derive edonistiche.

Nella sua improvvisa maturazione, o senescenza, si riflette in maniera deformata ma nel complesso fedele l’effimera fiammata della ribellione punk, la rapidissima involuzione dei baby boomers “maturi” dei medi anni Cinquanta da persone-massa della morente golden age, colpita dalla grande crisi economica degli anni Settanta, a ribelli iper-soggettivisti, privi di una piattaforma ideologica, fino a “soggetti smarriti” di una dinamica storica per loro ancora illeggibile ed incomprensibile: l’embrionale trasformazione dell’Occidente dagli Stati nazionali, dalla guerra fredda e dall’economia “mista” allo stato “liquido” della globalizzazione, la cui nascita sarebbe stata individuata almeno un decennio dopo (p. 50)

Il successivo album – Closer (1980) –, pubblicato dopo la morte di Curtis, appare a tutti gli effetti la resa definitiva di fronte alla sofferenza esistenziale dopo quella che può essere vista come l’ultima flebile e disperata richiesta di aiuto rivolta all’esterno espressa da Unknown pleasures. Quasi una “rinuncia per sfinimento”. Sarebbe però limitativo, suggerisce ancora Capozzi, limitare tutto alla sfera dei rapporti individuali; i testi di Closer evidenziano

la lancinante mancanza di una dimensione comunitaria. Una mancanza che si era già affacciata come nostalgia della gioventù e della “normalità” in Unknown pleasures, e qui si ripropone come una condanna, a cui Curtis fantastica ancora a momenti di poter sfuggire, ma senza crederci più [Non a caso] nel brano conclusivo, Decades, la rassegnazione all’estinzione viene raffigurata non come uno scacco individuale, ma collettivo, e addirittura generazionale […] Quella generazione dipinta spesso come fortunata, superficiale, votata al divertimento e al piacere, insofferente a ogni costrizione. E che invece, nella visione profetica costruita da Curtis sul ritmo di una sorta di reggae ibernato tra i ghiacci, è composta da individui precocemente invecchiati, curvi sotto un peso insopportabile, che nella loro breve vita hanno accumulato tutta la stanchezza e la disillusione di generazioni e generazioni precedenti […] Ha un significato storico inestimabile il fatto che l’ultima parola artistica di Curtis prima dell’atto finale di congedo, l’ultimo suo contatto con il mondo, sia un «noi». In Decades come in Love will tears us apart. Anche la fine dell’amore non è più per lui a questo punto un’esperienza puramente individuale, ma riguarda tutti coloro che condividono con lui l’aspirazione a ritrovarsi in una comunità ormai svanita (pp. 52 e 55).


Decades

Here are the young men, the weight on their shoulders,
Here are the young men, well where have they been?
We knocked on the doors of Hell’s darker chamber,
Pushed to the limit, we dragged ourselves in,
Watched from the wings as the scenes were replaying,
We saw ourselves now as we never had seen.
Portrayal of the trauma and degeneration,
The sorrows we suffered and never were free.
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Weary inside, now our heart’s lost forever,
Can’t replace the fear, or the thrill of the chase,
Each ritual showed up the door for our wanderings,
Open then shut, then slammed in our face.
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?


This video combines the 1980 studio version of this song with images from a live performance at the BBC Something Else Show in September 1979


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

 

 

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Estetiche inquiete. Quando il punk preoccupava la Stasi https://www.carmillaonline.com/2020/08/29/estetiche-inquiete-quando-il-punk-preoccupava-la-stasi/ Fri, 28 Aug 2020 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61614 di Gioacchino Toni

 

«Volevamo solo divertirci… e loro ci prendevano sul serio». Così un ragazzo cresciuto a Berlino Est ricorda l’ondata punk che tanto ha preoccupato la Stasi nei primi anni Ottanta.

Già sul finire degli anni Settanta la cultura punk, giunta nella Germania occidentale dalla Gran Bretagna, oltrepassa il confine e raggiunge la Deutsche Demokratische Republik diffondendosi sopratutto a Berlino Est, Lipsia, Dresda, Erfurt e Halle. All’inizio del decennio successivo i degenerati sintomi del punk si mostrano ormai anche nella Germania orientale: magliette strappate recanti scritte incomprensibili agli amanti dell’ordine, capigliature colorate e modellate con il sapone o con [...]]]> di Gioacchino Toni

 

«Volevamo solo divertirci… e loro ci prendevano sul serio». Così un ragazzo cresciuto a Berlino Est ricorda l’ondata punk che tanto ha preoccupato la Stasi nei primi anni Ottanta.

Già sul finire degli anni Settanta la cultura punk, giunta nella Germania occidentale dalla Gran Bretagna, oltrepassa il confine e raggiunge la Deutsche Demokratische Republik diffondendosi sopratutto a Berlino Est, Lipsia, Dresda, Erfurt e Halle. All’inizio del decennio successivo i degenerati sintomi del punk si mostrano ormai anche nella Germania orientale: magliette strappate recanti scritte incomprensibili agli amanti dell’ordine, capigliature colorate e modellate con il sapone o con la colla di pesce, musica assordante e metodi di ballare decisamente non convenzionali. Quanto basta per mettere in allarme le autorità deputate al mantenimento della legge e dell’ordine socialista.

Se in un primo momento le autorità tedesco-orientali si limitano a osservare il diffondersi di tale fenomeno proveniente da Occidente – dopotutto si tratta pur sempre di ragazzini di soli sedici anni –, le cose cambiano quando i giovani punk cominciano a organizzare concerti e a palesare codici di comportamento e di comunicazione incomprensibili, prima ancora che inaccettabili, ai solerti osservatori del Ministero per la Sicurezza di Stato. Da quel momento su questa gioventù poco incline a rassegnarsi a vivere il grigiore quotidiano in maniera convenzionale iniziano a essere puntati microfoni e telecamere, oltre che piovere denunce per “disturbo della quiete pubblica”, divieti di accedere ai locali pubblici e imputazioni di “trasgressione della morale socialista” e “incitamento all’emigrazione”.

Al di là degli stereotipi sedimentati nel tempo, la società della DDR è molto più sfaccettata di quel che si crede, come racconta, ad esempio, il recente volume di Marcello Anselmo Il consumatore realsocialista (Le Monnier 2020) – recensito da Giovanni Iozzoli su “Carmilla” – che ricostruisce la parabola della Deutsche Demokratische Republik attorno alla categoria del “consumatore”, soffermandosi anche sulla non facile dialettica tra processi di ammodernamento imposti dall’alto e spinte dal basso soprattutto in termini di consumi ricreativi e comportamenti culturali. Ed è proprio attorno al consumo di prodotti immateriali che si danno interessanti confronti tra settori di società civile e rigidità statale.

A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta in DDR

le velleità di costruire modelli di consumo alternativi all’Occidente vengono abbandonate: a quel punto la negoziazione avviene solo su quanto e come la pressione dei prodotti culturali occidentali unilateralmente subita potrà tracimare dall’altra parte di quel Muro, destinato da lì a breve a sgretolarsi. Il socialismo prussiano – burocratico, puritano, autoritario – aveva perso la sua competizione con l’Occidente ben prima dell’89 e dei rivolgimenti geopolitici che sconvolsero la carta geografica d’Europa1.

È all’interno di tale complesso contesto che deve essere collocata la scena punk nella Germania orientale dei primi anni Ottanta, scena che, pur avendo tratti comuni con analoghe esperienze occidentali, ha peculiarità tutte sue e sembra nascere soprattutto in reazione a un sistema asfissiante votato a esercitare una governance totale sulle vite e sui desideri soprattutto dei più giovani.

Sicuramente il fenomeno punk in DDR ha a che fare con rotture generazionali, con mitizzazioni del modello oltrecortina, compreso il suo ribellismo giovanile, ma un ruolo non irrilevante nella sua diffusione spetta al bisogno profondo di autonomia e autodeterminazione, di emancipazione dalle direttive di Stato: non possono essere pianificati dall’alto i gusti culturali e le modalità con cui vivere la quotidianità.

Bollato sin dal 1977 dal quotidiano “junge Welt” (pubblicazione dell’organizzazione giovanile ufficiale tedesco-orientale Freie Deutsche Jugend) come una forma di “analfabetismo musicale” occidentale, il punk viene accolto sprezzantemente anche dalla radio giovanile DT64 della Germania socialista che – come riportato da Sandro Moiso, su “Carmilla”, nel suo scritto Come e perché cadono i muri2 – lo liquida con queste parole: «non ha alcun impatto sull’evoluzione della nostra musica […]  trova la sua ragione di esistere esclusivamente in un contesto societario di un certo tipo [e] si contrappone alle nostre norme etiche e morali di stampo socialista». «Mai – chiosa Moiso nel suo scritto – affermazione sarebbe stata più radicalmente rovesciata. Mai la supposta moralità di un socialismo cimiteriale sarebbe stata più decisamente negata. Ma all’epoca nessuno ai vertici del potere avrebbe potuto o voluto dare ascolto a ciò che le strade, i garage e i locali periferici della Germania Est già profetizzavano. Mentre la polizia e gli apparati culturali e repressivi cercavano ancora una volta di far regnare l’ordine a Berlino (Est)»3.

Le prime punk band della DDR si trovano a fare i conti con la mancanza di spazi in cui suonare, visto che nei locali è concesso di esibirsi in pubblico solo ai “musicisti riconosciuti”. È questo il motivo per cui diversi gruppi ricorrono agli spazi messi a disposizione dalla chiesa, soprattutto protestante, in quanto luoghi relativamente interdetti alle forze dell’ordine o, almeno, in cui il controllo diretto statale è limitato. Particolarmente attiva negli anni Ottanta è la berlinese Chiesa del Redentore che offre sostegno ai giovani alternativi arrivando a organizzare, sin dall’inizio del decennio, una lunga serie di concerti punk in cui si esibiscono gruppi come i berlinesi Namenlos e Unerwünscht. Da tale esperienza prende vita anche una fanzine punk.

Particolarmente curiosa è la storia della realizzazione di DDR von Unten, il primo disco punk della Germania Est stampato però ad Ovest grazie al giornalista musicale occidentale Dimitri Hegemann che, venuto a contatto con la scena underground orientale durante una sua permanenza a Berlino Est, convince la Aggressive Rockproductionen di Berlino Ovest a realizzare un disco. L’uscita dell’album è decisamente rocambolesca, anche se le ricostruzioni degli accadimenti a volte risultano un po’ romanzate.

Sembra che il primo tentativo di registrazione di materiale per l’album – che vede inizialmente coinvolti i gruppi Rosa Extra, Zwitschermaschine e Schleim-Keim – risalga al 1983, quando si ricorre all’attrezzatura casalinga di un musicista “regolare” nei pressi di Dresda. L’intervento della polizia complica le cose: il materiale registrato deve essere consegnato e per evitare ulteriori conseguenze, oltre alle condanne che non tardano ad arrivare, i Rosa Extra si trovano a cambiare il nome in Hard-pop, mentre il gruppo Schleim-Keim si trasforma in Sau-Kerle. Proprio questi ultimi, insieme alla band Zwitschmaschine, riescono successivamente a lavorare alle registrazioni presso Günther Fischer, importante compositore di colonne sonore per la casa di produzione cinematografica statale.

Il materiale prodotto giunge così ad Ovest ove, nel 1984, diventa il disco DDR von Unten che esce insieme a una pubblicazione di Sascha Anderson dei Zwitschermaschine sulla situazione delle controculture nella Germania socialista. C’è però un sequel che rende “meno romantica” la vicenda: dopo la caduta del Muro si scopre che Anderson, nel frattempo affermatosi come scrittore, ai tempi della DDR è stato una spia della Stasi. Difficile ricostruire quanto, tra doppi e tripli giochi, sia stato fedele alle autorità della Deutsche Demokratische Republik e quanto alla causa punk; quel che è certo è che il suo gruppo sul vinile inciso in Occidente ha trovato posto e con esso il suo racconto della scena musicale orientale.

«Non voglio più vederli in giro per le strade!», così nel 1983 si esprime Erich Mielke, dal 1957 al 1989 a capo della Stasi dopo esserne stato il fondatore. Le autorità decidono di intervenire radicalmente e di “risolvere” una volta per tutte “la questione punk”: arresti e processi di massa nei confronti di ragazzini tra i sedici e i diciotto anni e ricorso a infiltrati e confidenti. A tal proposito, dai documenti dei servizi segreti visionabili dopo la caduta del Muro, si è saputo della presenza di informatori in diversi gruppi, come nel caso di due membri della band berlinese Die Firma: punk al servizio dello Stato, insomma.

La Stasi ha lavorato sulle band anche per controllare l’intero ambiente giovanile alternativo e con esso le stesse famiglie dei giovani. Nella sola Berlino Est, nei primi anni Ottanta, oltre duecento punk vengono arrestati dalla Volkspolizei, costretti ai domiciliari o ai lavori socialmente utili e, in diversi casi, condannati al carcere o all’allontanamento temporaneo da Berlino. Anche così la DDR ha pensato di difendere il suo socialismo.

Nella seconda metà degli anni Ottanta la repressione si allenta e una parte di questi giovani vira decisamente su posizioni di estrema destra iniziando a prendere sul serio il ricorso al braccio teso che, fino ad allora, stando alle testimonianze, è stato alzato quasi esclusivamente in maniera provocatoria. Lo sbandamento a destra di tali gruppi giovanili finisce poi per trovare terreno fertile nelle contraddizioni sorte nei territori orientali durante le prime fasi della riunificazione ma è innegabile la presenza di gruppi che si rifanno a un immaginario neonazista già nella fase terminale della DDR. «Abbiamo di nuovo dei nazisti per le strade di Berlino» urla, sul finire degli anni Ottanta, un pezzo della band Namenlos di Berlino Est per denunciare la presenza di rigurgiti di estrema destra negli ambienti punk. Ciò non manca di sucitare l’ira delle autorità risolute nel negare anche solo la possibilità della presenza di neonazisti all’interno del Paese socialista. La risposta alla “provocazione” della band ha preso la forma di una condanna a due anni di carcere per i membri del gruppo.

Dopo la caduta del Muro sono poche le vecchie band orientali a restare in attività; tra queste si possono citare i gruppi Schleim-Keim di Berlino Est e Müllstation di Eisleben. Tra i pochi capaci di ritagliarsi uno spazio all’interno del mercato discografico occidentale vi sono il gruppo Sandow di Cottbus, che nel frattempo ha cambiato parecchio le proprie sonorità e i berlinesi Feeling B, poi divenuti Rammstein, che, si dice, per evitare l’oblio a cui sono condannate tante punk-band della ex Germania orientale, abbiano preferito far passare in secondo piano la loro provenienza orientale, proponendosi semplicemente come storica band tedesca.

Esiste un’importante produzione documentaristica audiovisiva riguardante la scena punk tedesco-orientale costruita su immagini superstiti, simboli e testimonianze dirette di chi vi ha preso parte. Vale la pena segnalare tanto alcune opere prodotte dopo la caduta del Muro che altre realizzate nella stessa Germania socialista poco prima della sua fine.

In Störung Ost (1996) di Cornelia Schneider e Mechthild Katzorke, le autrici tratteggiano la scena punk berlinese dei primi anni Ottanta sia facendola ricostruire da chi ha vissuto l’esperienza che mostrando filmati più o meno girati clandestinamete in super 8, foto personali e documenti cartacei e audiovisivi della Stasi divenuti nel frattempo disponibili. Le contraddizioni che emergono dai racconti degli intervistati sono le stesse dei vari movimenti giovanili occidentali e oscillano tra il volersi “diversi” dalla società che non si sopporta e la pretesa di essere da essa “accettati”.

Dalle testimonianze raccolte nel film emerge come i punk, accusati di non aver voglia di lavorare, siano spesso fermati dalla polizia e soprttutto le ragazze vengano costrette a ripulirsi il volto dal trucco e ad adeguare il loro abbigliamento all’ordine estetico socialista. La presenza femminile nella scena punk tedesco-orientale, pur decisamente minoritaria, anche perché maggiormente ostacolata dalla società e dalle stesse famiglie rispetto ai coetanei maschi, ha però un ruolo tutt’altro che trascurabile, non a caso diversi i documentari, come lo stesso Störung Ost, sono realizzati da donne.

Il regime, incapace di comprendere quanto accade tra i giovani nei primi anni Ottanta, giunge in taluni casi persino a etichettarli come “neo-nazisti”, cosa del tutto inconsueta in una DDR che si vuole del tutto immune sia da fenomeni nostalgici che di matrice neonazista. Per difendersi da tale infamante accusa, si racconta in Störung Ost, alcuni gruppi punk berlinesi tentano di deporre una corona di fiori al monumento delle vittime del nazismo.

Soltanto quando la repressione si acuisce i testi delle canzoni iniziano a farsi meno esistenziali e più ostili nei confronti del regime accusandolo di utilizzare contro i giovani alternativi le medesime leggi della Germania nazista: alcuni punk decidono di esibire provocatoriamente sui propri indumenti la stella gialla a cui erano costretti gli ebrei durante il periodo hitleriano.

Anche in OstPUNK! Too Much Future (2006) di Carsten Fiebeler e Michael Boehlke gli autori fanno raccontare ad alcuni protagonisti della scena punk tedesco-orientale – oggi in buona parte rientrati nei ranghi all’interno della Germania riunificata –, della musica, della voglia di libertà e del senso di appartenenza a una cultura contro, ma anche della repressione e del carcere subiti. Tra le punk-band su cui insiste il film vi sono il gruppo Schleim-Keim di Erfurt, i Paranoia di Dresda, L’Attentat di Lipsia, i Namenlos e i Rosa Extra di Berlino Est.

A proposito del film, uno degli autori, Michael Boehlke, sostiene che la sua realizzazione è derivata da un’insoddisfazione provata nei confronti delle produzioni esistenti sull’argomento e dal bisogno di raccontare autonomamente un’esperienza vissuta in prima persona tra la fine degli anni Settanta e la fine del decennio successivo.

La scena punk di Berlino Est era incasinata e confusa e tutti i film e i libri che raccontano la storia del punk nell’Europa occidentale non hanno mai incluso la corrente della DDR  […] Le persone che abbiamo intervistato raccontano differenti stili di vita, storie spesso drammatiche caratterizzate da una visione punk. Tutti sono stati arrestati e detenuti dalle autorità della DDR, ma sperimentare la detenzione per alcuni di loro non è stato poi così drammatico vista la presenza già opprimente del muro. Un fattore unificante per ciascuno di loro era avere le palle di manifestare il proprio dissenso. Alcuni si esprimevano attraverso la pittura o mettendo in piedi un gruppo punk, altri si sarebbero messi a girare video in super 8. Il film mostra anche che fine hanno fatto oggi i protagonisti con le loro vite, la loro professione, le loro opinioni politiche e il loro spirito punk.

Venendo invece ad alcuni lavori prodotti in seno alla stessa DDR, può essere citato flüstern und SCHREIEN – ein Rockreport (1988) di Dieter Schumann. Si tratta di un film-documentario commissionato direttamente dagli apparati cinematografici di Stato tedesco-orientali, attorno al quale il regista ha lavorato dal 1985 al 1988, praticamente sino al termine dell’esperienza della Deutsche Demokratische Republik, che racconta la musica, la moda e le vite dei protagonisti della scena underground della DDR, soffermandosi su punk-band come le berlinesi Feeling B e Silly e sul gruppo Sandow di Cottbus.

Oltre che sulle caratteristiche dell’abbigliamento, delle acconciature e della musica ascoltata o suonata, gli intervistati si soffermano sulla mentalità e sulle motivazioni esistenziali con cui sono cresciuti all’interno dell’ambiente tedesco-orientale a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta di cui tratteggiano anche il sistema di istruzione e le organizzazioni giovanili ufficiali e non.

Al primo montaggio il film di Fiebeler e Boehlke, proiettato in alcune scuole prima dell’uscita ufficiale, ha una durata di circa quattro ore, poi dimezzata nella versione definitiva a causa di qualche sforbiciata da parte della censura e, soprattutto, della decisione di rende l’opera maggiormente fruibile.

L’atteggiamento delle autorità nei confronti del film è quantomeno contraddittorio: se da un lato si tratta di una produzione commissionata ufficialmente, con tanto di regolare visto per la proiezione, le forze dell’ordine socialista intervengono nel corso della prima proiezione destinata a spettatori e musicisti per rimuovere il materiale pubblicitario appeso nell’atrio del cinema, minacciando i realizzatori di procedimenti penali per aver calunniato la DDR. In tale occasione si sono anche avuti disordini in seguito alle perquisizioni operate dalla polizia nei confronti dei partecipanti. Successivamente, il film è stato proiettato in tutti i distretti della Germania Est ottenendo un grande successo di pubblico, tanto che si calcola sia stato visto da mezzo milione di spettatori.

Unsere Kinder (1989) di Roland Steiner è un documentario prodotto in DDR presentato al Festival del cinema documentario di Lipsia solo quattro giorni prima dell’apertura del Muro di Berlino. L’autore, attraverso una serie di interviste a giovani e adulti, affronta le sottoculture giovanili ostili alle norme socialiste nella Germania orientale di fine anni Ottanta documentando le diverse comunità giovanili marginali – punk, skinhead, anti-naziskin, neonazisti – di cui ufficialmente le autorità preferiscono negare l’esistenza. Tra gli intervistati figurano anche Christa Wolf, che dialoga con due giovani radicali di destra e Stefan Heym, che tratteggia un confronto con la situazione di crisi dei primi anni Trenta.

Qualche traccia del punk in DDR è presente anche in Winter Adè (1988) di Helke Misselwitz, film-documentario presentato in anteprima alla settimana del documentario e del cortometraggio di Lipsia del 1988, in cui la regista attraversa in terno la Germania orientale colloquiando nel corso del lungo viaggio con donne di diverse generazioni ed estrazione sociale e culturale su questioni inerenti il matrimonio, il lavoro, i figli e le separazioni.

Su uno sfondo dolente e dimesso, enfatizzato dalla scelta del bianco e nero, il film racconta, attraverso le vicende personali delle donne incontrate, del permanere, nonostante la retorica ufficiale, della durezza e dell’alienazione del lavoro quotidiano e soprattutto della difficile condizione femminile in DDR soffermandosi in particolare sui rapporti sentimentali. Risulta impietoso lo stridente confronto tra le immagini delle celebrazioni ufficiali per la festa della donna e la realtà piena di amarezza e infelicità  raccontata dalle intervistate. Tra le donne interpellate vi è spazio anche per chi ha legato la propria vicenda esistenziale all’ambiente punk tedesco-orientale.

 


Störung Ost (1996) di Cornelia Schneider e Mechthild Katzorke

OstPUNK! Too Much Future (2006) di Carsten Fiebeler e Michael Boehlke

 

 


  1. G. Iozzoli, La consumazione della DDR, “Carmilla”. 

  2. S. Moiso, Come e perché cadono i muri, “Carmilla”. Qua l’autore recensice il volume di Sascha Lange & Dennis Burmeister, Oltre il muro di Berlino. Con i Depeche Mode in Germania Est alla ricerca della scena post-punk e new wave (Goodfellas, 2019). 

  3. S. Moiso, Come e perché cadono i muri, “Carmilla”. 

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