pubblico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. I riflessi di Black Mirror https://www.carmillaonline.com/2019/03/15/nemico-e-immaginario-i-riflessi-di-black-mirror/ Thu, 14 Mar 2019 23:50:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51530 di Gioacchino Toni

«Black Mirror è una monade: un’opera […] capace di tenere in sé le tensioni di un’epoca. È la rappresentazione più tangibile di una serie di angosce che accompagnano quelle azioni sempre più frequenti e, ormai, sempre più tangibili riassumibili nell’uso della tecnologia» Mario Tirino e Antonio Tramontana

Il successo globale ottenuto dalla celebre serie ideata da Charlie Brooker, che ha preso il via nel 2011 ed è ancora in produzione, inizialmente andata in onda su Channel 4 per poi passare su Netflix, oltre a dipendere da alcune indovinate scelte strategiche [...]]]> di Gioacchino Toni

«Black Mirror è una monade: un’opera […] capace di tenere in sé le tensioni di un’epoca. È la rappresentazione più tangibile di una serie di angosce che accompagnano quelle azioni sempre più frequenti e, ormai, sempre più tangibili riassumibili nell’uso della tecnologia» Mario Tirino e Antonio Tramontana

Il successo globale ottenuto dalla celebre serie ideata da Charlie Brooker, che ha preso il via nel 2011 ed è ancora in produzione, inizialmente andata in onda su Channel 4 per poi passare su Netflix, oltre a dipendere da alcune indovinate scelte strategiche di ordine produttivo e distributivo, ha sicuramente a che fare con la sua capacità di mettere il pubblico di fronte a problematiche e contraddizioni relative al rapporto dell’essere umano con l’ambiente tecnologico-mediatico contemporaneo. Questioni che coinvolgono il pubblico direttamente, persino nell’atto di fruire della serie stessa attraverso uno dei tanti dispositivi digitali, specchi neri, in cui il concreto e il visionario si confondono.

«La spettatorialità di Black Mirror, tuttavia, si caratterizza come un’esperienza al limite dell’incubo. Infatti, quegli stessi media attraverso i quali egli interagisce con la comunità dei fan sono oggetto dell’angosciante narrazione della serie. In termini più chiari, la serie di Brooker svela il potenziale angoscioso di un sistema mediale che è assai prossimo a quello in cui si muovono i suoi spettatori, i quali, così, sono protagonisti e spettatori della trasformazione antropologica raccontata sullo schermo. È in questa dinamica che si condensa il meccanismo del riflesso: gli specchi neri di smart TV, tablet, smartphone sui quali si proiettano le immagini digitali della serie, creando nello spettatore una fascio di reazioni emotive dall’angoscia alla paranoia, al terrore di smarrire il senso del proprio “stare al mondo”. Inoltre, i media, della cui terrificante evoluzione Black Mirror narra, sono gli stessi ambienti socioculturali in cui esperiamo grossa parte dell’esperienza quotidiana» (pp. 30-31).

Black Mirror si presenta, pertanto, come uno specchio i cui riflessi non possono lasciare indifferenti; le aberrazioni che vi si trovano riflesse sono anche le nostre, senza troppe distinzioni tra chi approccia gli schermi per mero intrattenimento e chi lo fa armato di nobili visioni critiche. Nel momento stesso che ci si rapporta con i dispositivi mediatici si è costretti a fare i conti con i loro/nostri riflessi e tutti, indistintamente, ci si trova di fronte al problematico rapporto quotidiano con una ambiente altamente tecnologizzato.

Sulla fortunata serie britannica è da poco uscito il volume curato da Mario Tirino e Antonio Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale (Rogas Edizioni 2018). Vengono qui affrontati da diverse voci diciassette lemmi utili a indagare la serie con l’obiettivo di interpretare il mutamento culturale, mediatico e di immaginari in corso nell’attuale società digitale globalizzata. I differenti contributi, come sottolinea Alfonso Amendola nell’Introduzione al volume, «si orientano attorno a tre macro aree, tra loro frequentemente intrecciate: i conflitti dell’immaginario causati da un “salto di qualità” ne rapporto tra uomo e tecnica […]; la trasformazione effettiva dei sensi e delle facoltà umane, generata appunto da tali conflitti […]; la fenomenologia dell’esperienza mediale nell’era della post-televisione» (p. 16).

A differenza di diversi altri prodotti culturali distopici recenti, la serie britannica si presenta in un formato antologico in cui ogni puntata risulta indipendente dalle altre. «Liberata dalle regole imposte da una trama rigida, la narrazione di Black Mirror è piuttosto ancorata al problema specifico posto in ogni puntata [in ciascuna  delle quali] vi è una tecnologia con problematiche differenti e in ognuna si percepisce uno stato d’animo singolare» (p. 21). La ricchezza della serie, secondo i curatori del volume, risiederebbe proprio nel suo affrontare un variegato ventaglio di questioni senza mai farlo in maniera esaustiva. «Da tale ricchezza ognuno ricava qualcosa: dalla semplice condanna moralistica di certi usi della tecnologia ai tentativi, spesso raffinati, di trovare vie di fuga dinnanzi all’inevitabile. Tutto ciò contribuisce a riunirne un pubblico ampio e variegato, mettendo insieme soggetti affascinati dalla distopia e pensatori che tentano di decrittare i geroglifici della nostra epoca» (pp. 21-22).

Se da sempre l’essere umano ha trovato nella tecnica quelle protesi utili a completare le sue deficienze biologiche e per modificare i contesti in cui agisce in base ai suoi desideri, ciò vale anche per la tecnologia digitale. «Ogni tecnologia porta con sé un proprio mondo immaginario, ed è a partire dalla compresenza di questi due elementi (gesto e parola, materia e simboli, tecnica e immaginario) che occorre indagare le sfide imposte dall’epoca dominata dalla tecnologia digitale» (p. 27). Scrivono a tal proposito Tirino e Tramontana: «L’elemento su cui agisce l’avvento di una nuova tecnologia è l’altro polo della nostra corporeità: l’immaginario. L’operazione tipica consiste nella capacità di una nuova tecnologia di trasformare l’immaginario. La tecnologia digitale, così com’è stato per tutte le altre grandi epoche tecnologiche che ci hanno preceduto, riorganizza i nostri gesti tecnici nella misura in cui l’immaginario si ridistribuisce attorno all’evento dell’elemento innovativo» (p. 27).

La tecnologia digitale, sostengono i curatori del volume, com’è stato per tecnologie precedenti, è una “tecnologia caratterizzante”, un “aggregato tecnologico” capace di individuare ed aggregare idee apparentemente distanti tra loro. «È nell’essere una tecnologia caratterizzante che oggi si ridefinisce il centro attorno a cui si coagulano le nostre energie psico-fisiche, così da ergersi a elemento in grado di riorganizzare sia l’attività microscopica della vita quotidiana sia il funzionamento delle “grandi” istituzioni sociali. In questo ordine di problemi Black Mirror tira il suo fendente nel cuore pulsante di quest’epoca e contribuisce a dare una forma alle inquietudini nutrite da ore e ore di utilizzo di tecnologia digitale- provando a sintetizzare in un’unica immagine gli effetti di una realtà sociale dominata da una specifica tecnologia caratterizzante. Se si dovesse osare una classificazione degli episodi, si potrebbe dire che Black Mirror ha per oggetto due tipi di tecnologie: quelle legate alla relazione con il bios e quelle legate al controllo e manipolazione dello spaziotempo» (pp. 27-28).

Mentre i dispositivi-protesi ridefiniscono «l’immaginario che ognuno si costruisce del proprio sé» succede che «attraverso sistemi e architetture, viene riscritto il perimetro d’intervento in cui ognuno di noi agisce in qualsiasi istante della nostra vita». Black Mirror «mette in scena un universo frastagliato di protesi e forme di relazioni rappresentate in forma distopica che si potrebbero riunire, per parafrasare un classico della psicologia sociale [George Herbert Mead, Mind, Self and Society (1934)], nella seguente formula: tecnologia, Sé e società. A partire da questa triade fondamentale, la tecnologia digitale ha il compito di coniugare due elementi del tutto differenti e, in qualche misura, contrapposti: l’individuo e la società» (p. 28).

A risultare interessante nella serie, sostengono Tirino e Tramontana, non è tanto il contenuto delle sue narrazioni distopiche, quanto piuttosto la “forma” mediale che incarna: «una sorta di virus che attacca gli ambienti e le piattaforme attraverso cui viaggia, denunciandone le alienanti conseguenze sulla viva “carne” degli individui del nuovo millennio» (p. 34).

Il fatto che Black Mirror viva negli stessi habitat mediali che prende di mira rappresenta un’interessante contraddizione su cui riflettere, così come qualche riflessione merita il fatto che nemmeno chi approccia la serie (e la realtà) armato di pensiero critico possa “chiamarsi fuori” da tali habitat contestati dalla serie.

Il glossario proposto dal volume è composto da diciassette lemmi affrontati da altrettanti autori/autrici: Algoritmo (Mario Pireddu), Atmosfera (Giulia Raciti), Audience (Antonella Mascio), Corpo (Claudia Attimonelli), Democrazia (Milena Meo), Esperienza (Vincenzo Susca), Illusione (Federico Tarquini), Interazione (Antonio Tramontana), Memoria (Damiano Garofalo), Morte (Alessandro Sntoro), Paranoia (Mario Tirino), Phatos (Ivan Pntor Iranzo), Paura (Fabo d’Andrea), Schermo (Fabio La Rocca), Serialità (Angela Maiello), Tecnica (Antono Lucci) e Zootecnica (Pier Luca Marzo).

Nel lemma Serialità, affrontato da Angela Maiello, si insiste su come la scelta antologica operata Black Mirror eviti la presenza di quei personaggi ricorrenti che divengono protagonisti in tanti prodotti seriali attraverso processi di formazione, elaborazione e trasformazione. Non vi sono nemmeno elementi narrativi correlati tra di loro in grado di conferire continuità al racconto. Non abbiamo qua la classica esplorazione narrativa seriale che procede lungo le due canoniche direzioni complementari: l’orizzontalità (lo sviluppo del marco-racconto su un prolungato arco temporale, spesso su più stagioni) e la verticalità (l’approfondimento drammaturgico su brevi storie aperte e chiuse all’interno dei singoli episodi). In Black Mirror il tema-conduttore esplorato verticalmente che lega episodi non correlati tra loro è dato dal rapporto tra l’essere umano e l’ambiente ad alto tasso digitale e mediale. «Questo “eccesso di tecnica”, per così dire, viene variamente declinato, e dunque serializzato, nei singoli episodi» (p. 224).

A livello verticale la studiosa individua quattro forme principali, non di rado intrecciate tra loro, di “eccesso di tecnica” presenti nella serie: quella dell’utilizzo delle immagini mediali e loro spettacolarizzazione (ad es. The National Anthem. Messaggio al Primo Ministro, Episodio 1, Prima stagione); quella del controllo e della sorveglianza (Arkangel, Episodio 2, Quarta stagione); quella della società mediatizzata (Hated in the Nation. Odio universale, Episodio 6, Terza stagione); quella della memoria e dell’accumulo dei dati (es. The Entire History of You. Ricordi pericolosi, Episodio 3, Prima stagione).

È a livello orizzontale, indispensabile al meccanismo della serializzazione, che secondo Maiello risiede la peculiarità di Black Mirror: il piano orizzontale è un piano extra-diegetico coincidente con il presente tecnologico in cui si vive. «La macro-storia orizzontale, all’interno della quale i singoli episodi possono essere sviluppati, coincide con il nostro presente, con l’accelerazione tecnologica che caratterizza la nostra epoca, con l’incertezza e il disorientamento che l’innovazione tecnologica produce, ogni qual volta una nuova prassi o un nuovo dispositivo si impongono collettivamente, mettendo in questione comportamenti e abitudini che vengono ormai dati per scontati, naturali» (p. 225).

La marco-storia orizzontale della serie, continua la studiosa, coincide anche con la narrazione mediatica che si fa dell’innovazione tecnologica che ha i due suoi poli opposti nei demonizzatori e negli estasiati. Ciò rende difficile la collocazione temporale della serie: si parla dell’umanità di oggi o di quella del futuro? La serie oscilla costantemente tra il tempo della verticalità (un futuro più o meno lontano) e quello dell’orizzontalità (il presente della narrazione mediale). «La marco-storia della serie coincide con la nostra contemporaneità e ciò si riflette negli approfondimenti verticali, interpretati in chiave distopica o fantascientifica, dei singoli episodi e delle specifiche stagioni» (p. 226). La storia orizzontale che conferisce coerenza narrativa alla serie, appare incentrata sullo squilibrio e sull’instabilità che segnano il contemporaneo rapporto tra l’essere umano e l’ambiente altamente tecnologizzato in cui vive.

«Il nostro presente, ovvero la narrazione orizzontale di Black Mirror, è il tempo dello squilibrio, e gli episodi sviluppati verticalmente ripropongono e declinano domande che sono sempre già presupposte dalla storia orizzontale, perché ritornano continuamente nella nostra quotidianità: come comportarsi in questa fase di accelerazione e instabilità? Come possiamo giocare i nostro ruolo rispetto a cambiamenti velocissimi e inaspettati? In che modo possiamo diventare attori responsabili di un processo che non possiamo dominare interamente, come un oggetto a noi estraneo dal momento che è costitutivo del nostro stesso essere umani? Come gestire le nuove competenze e le inedite facoltà? È questo il nucleo tematico della serie: la possibilità di una responsabilità digitale, che non si traduce nell’utilizzo responsabile, ovvero moderato, dei media e dei dispositivi tecnologici o nell’utilizzo per i giusti fini, bensì nell’esatto opposto, lo svincolamento della tecnica da qualsiasi fine che possa condannare o giustificare la pervasività […], e il quotidiano esercizio tecnico e creativo, ovvero quella che potremmo definire una educazione tecno-estetica […] che permetta di esplorare produttivamente le inattese potenzialità della tecnologia [al fine] di assumercene la responsabilità diretta» (p. 228).

Tre, secondo la studiosa, sono le strategie argomentative a cui ricorre la serie per porre il problema della responsabilità digitale: quella del dominio della tecnologia sull’uomo (es. Arkangel, Episodio 2, Quarta stagione); quella della fuga dalla tecnologia (es. The Entire History of You. Ricordi pericolosi, Episodio 3, Prima stagione); quella della concretizzazione di nuove possibilità esperienziali (es. Be Right Back. Torna da me, Episodio 1, Seconda stagione).

In conclusione del suo intervento Angela Maiello sottolinea come i protagonisti dei singoli episodi abbiano in comune con lo spettatore (l’unico protagonista ricorrente, quello della narrazione orizzontale) il bisogno di giungere ad un nuovo punto di equilibrio con l’ambiente fortemente tecnolgizzato/mediatizzato. Come tutti i racconti seriali, anche Black Mirror vive «della partecipazione attiva dello spettatore e della riflessività che essa genera» (p. 231); ciò, secondo la studiosa, può rivelarsi un’occasione da cogliere per riflettere collettivamente sulle modalità con cui l’essere umano deve imparare a rapportarsi con un ambiente fortemente digitalizzato e mediatizzato.

 

Serie completa di “Nemico (e) immaginario

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Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo https://www.carmillaonline.com/2016/05/04/estetiche-del-potere-virtualizzazione-estetizzazione-neutralizzazione-ed-patologie-virali-del-tele-capitalismo/ Wed, 04 May 2016 21:30:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29579 di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, [...]]]> di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, del docudrama e del mockumentary. Tangentopoli chiude la prima stagione ed inaugura la seconda. Quest’ultima ha portato come novità principale la virtualizzazione del dissenso della piazza nei confronti del palazzo. I talk show televisivi, l’infotainment in tutte le sue nauseabonde forme, hanno messo in scena un conflitto tra piazza e palazzo che si risolve, alla fine di ogni puntata, nel rassicurante riassorbimento del dissenso all’interno del sistema e ciò avviene, principalmente, grazie ad un nuovo saltimbanco di turno che, di volta in vota, veste il ruolo di “novità antisistemica”. Tale attore cambia nel giro di alcune puntate perché, inevitabilmente, è destinato a dover essere sostituito palesandosi, nel frattempo, e sempre più velocemente, come anch’egli sia espressione del palazzo.

In alcune puntate, tale personaggio, capace di fagocitare l’ostilità nei confronti dell’establishment, può assumere l’immagine dell’uomo che si è fatto da solo mettendo a profitto le potenzialità del tubo catodico, oppure può indossare le vesti di un patetico sempliciotto logorroico ed iperattivo rottamatore capace di alternare il serioso completo d’ordinanza a citazioni giovanilistiche con pantaloni che svelano quattro dita di calze e smartphone sempre col clic in canna. Le nuove puntate della serie dovrebbero offrire nuovi protagonisti. Potrà trattarsi di un personaggio un po’ paonazzo in felpa localistica variabile, con un tablet sottobraccio, di cui probabilmente non ha ancora capito la funzione, ma fa tanto “popolarfuturista”, o di qualche videopredicatore qualunquista che gioca con la tv sulla falsariga del morettiano: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?» (Ecce Bombo, 1978). Tali nuovi personaggi sembrano, in entrambi i casi, più concentrati sul cosa dire per assorbire consenso immediato a buon mercato che non a badare se quel che dicono di pomeriggio è coerente con ciò che hanno affermato di mattino. La sensazione è che la serie sia davvero ormai con l’acqua alla gola e gli sceneggiatori inizino a non sapere più cosa inventarsi per prolungare lo spettacolo se non alternando e miscelando armi di distrazione/seduzione/distruzione di massa, dentro e fuori lo schermo televisivo.

La televisione ha contribuito a trasformare la politica italiana svuotandola, allontanando la gente dalla politica attiva ed, al tempo stesso, ha assunto un ruolo cruciale nel regolamentare la spartizione degli irriducibili e fedeli spettatori tra i nuovi politici cacciatori di “mi piace” utili ormai solo al mantenimento di una narrazione falsamente antisistemica in grado di riassorbire l’ostilità anti-palazzo. Sembra davvero di avere a che fare con un sistema agonizzante, perennemente in attesa di qualche trovata messianica, di un coup de théâtre, a cui non sembrano credere nemmeno i più creativi del palazzo e tutto ciò mentre le scelte politiche ed economiche vengono pianificate da organismi privati totalmente svincolati da una benché minima forma rappresentanza [su Carmilla].

castoro-clinica-tvA proposito del ruolo assunto della televisione in epoca contemporanea è da poco uscito l’interessante saggio di Carmine Castoro, Clinica della TV. I virus del Tele-Capitalismo. Filosofia della Grande Mutazione, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 266 pagine, € 20,00. L’intento del libro è quello di rintracciare ed evidenziare quelle logiche e quelle estetiche che allontano dalla comprensione della realtà in cui si vive. L’autore sostiene la necessità di una nuova ontologia critica dell’immagine in grado di dare autonomia e capacità critica a coscienze ormai abbandonate alle lusinghe del progresso e del benessere neoliberista e Clinica della TV, individuando una decina di “virus” propri del Tele-capitalismo, offre davvero numerosi spunti a proposito del ruolo che tale medium, con inevitabili riferimenti al web, viene ad avere nell’età contemporanea.

A proposito dell’attuale Presidente del Consiglio, protagonista momentaneo della pessima serie tele-politica italiana trasmessa a reti unificate, a cui ci si riferiva in apertura, anche Carmine Castoro, nel suo libro, non manca di segnalare come lo spettacolo sia davvero osceno e si presenti oggi come «un’orgia di slide, selfie, tweet, spending interattive, lavagne informatizzate, open government, e tutta una faraonica azione web-aggressive e, direi io, complexity-resistent, ovvero galoppante sul fronte mediocratico ma resistente all’interezza e alla poliedricità delle questioni sul tappeto, puntata più sulle mirabilie del 2.0 che sulla ruvidezza di una cittadinanza in piena debacle» (p. 61). Ed, ancora, continua l’autore, in Renzi «ogni esternazione è un fritto misto di inflessione toscana, battutine da animatore, metafore calcistiche, magnifiche sorti e progressive, dribbling sofistici, canzonature di disagi e coperture di Grandi Consorterie e volponi da off shore: un tritame disdicevole intriso di pavoneggiamenti sognanti e salmodianti che, ovviamente, dimentica di dissodare le strutture socio-economiche e che passa – suprema beffa – per realpolitik senza macchia e senza paura, mentre è solo il vecchio Ancien Regime smaltato di tele-giovanilismo e tele-ginnastica, parolai e posturali, in una selva di short message e frasi a effetto che sanno solo di dirigismo e auto-incensamento» (p. 62).

Nell’era contemporanea il Potere, sempre più reticolare, non ha interesse a vietare totalmente le notizie ma agisce affinché i media trasmettano un flusso casuale di comunicati decontestualizzati. Il Potere contemporaneo, argomenta Castoro, affianca all’intervento repressivo pratiche di seduzione consumistica, di instupidimento, deprivanti l’essere umano di capacità critica, costruendo uno stato di noia diffusa volto ad allontanare gli individui dall’agire politico. Si tratta, secondo l’autore, di un «tele-potere che meccanizza le nostre risposte, ci abitua al sensazionalismo e a contenuti inutili, neutralizza la forza stridente delle vere notizie che restano quasi sempre nel sottoscala dei tg, ci nega piani d’insieme e spettri allargati per cercare di capire dietro l’episodio occasionale di cronaca, lo scoop stupefacente o gli incontri fra i Grandi della terra, cosa cova, cosa si cela, l’unità di cose lontane, le matrici culturali realmente nuove che potremmo abbracciare a livello mondiale per crescere ed emanciparci tutti» (p. 96). L’effetto auto-determinante dei media, si sostiene nel saggio, consiste «nel dare una patente di ovvietà, necessità e irreversibilità a quella che è solo una, e una soltanto, delle milioni di possibilità di profilare la nostra quotidianità, di tracciare i nostri bisogni, di alzare la temperatura della nostra felicità» (p. 97)

L’informazione veicolata dai media sembra davvero sequestrare gli accadimenti pubblici rendendoci incapaci anche solo di capire se sono davvero successi. Il linguaggio televisivo, nel suo essere linguaggio di potere, assume la forma di sapere, ma si tratta di un sapere parodistico e vuoto che trova giustificazione in se stesso. Castoro sostiene che il fatto che il reale venga istituito attraverso la sua rappresentazione, o che la costruzione del fatto venga operata attraverso il suo racconto mediatico, presuppone la costrizione alla fonte stessa come la condizione a priori di ogni trasmissione di esperienza. Il condizionamento da infrastruttura, secondo l’autore, non è da ricercarsi nella parzialità dei messaggi, ma nella loro modalità. A tal proposito il saggio, riprendendo alcune riflessioni di Carlo Freccero (Televisione, 2013), evidenzia come la verità non risulti più nella rispondenza tra enunciato e realtà ma, piuttosto, nella “correttezza dell’enunciazione”. L’attuale televisione non si preoccupa di dire il vero circa un evento esterno, ma produce una sua verità che il pubblico ha modo di seguire mentre si costruisce in diretta.

In Clinica della TV si sostiene che oggi «il falso non è solo copertura o nascondimento del vero, ma, peggio, auto-determinazione e auto-rafforzamento di una luccicanza tecnologica, di una retorica del visibile così pervasive, credibili, osannate e al di sopra di ogni sospetto, da alimentare i nostri convincimenti più stabili con estrema facilità, fino a far indossare al Reale stesso l’indumento ottico che più serve a difendere taluni profitti privati, e/o orientare le masse verso alcune precise stazioni dell’indottrinamento e dell’illiberalità tout court» (p. 11).

Ciò che viene propinato dai media attrae intorno a qualcosa che risulta del tutto slegato da una corrispondenza oggettiva con la realtà; ciò che viene mostrato è un allestimento, una messa in scena. «Nel Tele-Capitalismo, insomma, la razionalità occidentale gioca il suo punto di svolta fra un rapporto potere-sapere imbastito su verità che hanno origine metafisica o svolgimenti storicistici presupposti certi e indubitabili, e, una volta crollate queste, l’utilizzo di tecniche addomesticanti che si presentano come valori inclusivi e livelli accettati di percezione e comportamento, e con i quali la televisione si incarica di irrigare il mentale e il sociale proprio per esercitare coercizione sulla libera espressione, da sempre ispida e riottosa allo status quo. Quello che Deleuze in una conferenza del 1987 così riassume splendidamente: “Avere un’idea non è dell’ordine della comunicazione… un’informazione è un insieme di parole d’ordine. Quando venite informati, vi dicono ciò che si presume che crederete. In altri termini informare è far circolare una parola d’ordine. Le dichiarazioni della polizia sono chiamate giustamente dei comunicati. Ci comunicano informazione, ci dicono ciò che si presume che possiamo, dobbiamo o siamo tenuti a credere. O anche a non credere, ma facendo come se ci credessimo. Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo”» (pp. 19-20)

Videodrome99In tv, sostiene Castoro, tutti gli argomenti vengono miniaturizzati e banalizzati, tutta la complessità del reale tende ad essere ridotta a «statistiche di morte, citazioni di somme di danaro investito o meno dallo Stato, resoconti spicci di inviati-attacchini col microfono in mano e inquadrature di file di bare in bella mostra col solito piagnisteo di politici e opinionisti di sottofondo. Qui c’è tutta la potenza di fuoco, la retrattilità elastica di poderose liberalizzazioni nelle parole e nelle immagini, ma coagulate e assoggettate in chiacchiere, flash passeggeri, scalette di notiziari, prosopopee accademiche e telecompassioni da “pomeriggio in famiglia”. Il Tele-Capitalismo è davvero tutto qua, in questa santabarbara di ipocrisie e preconcetti che hanno però il sentore della libertà, l’eco lontana del pluralismo e della polifonia di voci “libere”» (p. 49).

Il saggio, nel passare in rassegna quelle che l’autore individua come dieci patologie virali del Tele-capitalismo, si apre affrontando la logica telecapitalistica della “Mutazione” intesa come «artificializzazione della realtà percepita che acquisisce i connotati dell’innaturale e dell’inappropriato, considerando invece per “natura” e per “proprium” un paesaggio biopolitico realmente condiviso, secondo l’ampiezza e la chiarezza di cause, processi, obiettivi» (p.17).

Un capitolo del libro è dedicato all’importante fenomeno della “Estetizzazione” ed, a tal proposito, si afferma che la logica telecapitalistica prevede un processo di riduzionismo del soggetto attraverso due passaggi: «un’anatomizzazione del “soma” secondo il modello imperativo dell’attrazione, della salute e della prestanza (seni turgidi, addomi piatti, muscoli gonfi, visi lisci, capelli folti, gagliardia motoria etc.) e una esteriorizzazione del “carattere” che deve smussare i suoi deficit, arrotondare il suo porsi, far vedere che il traguardo di massimo successo, l’alleluia di chi osserva, sono sempre prossimi, e che ci si presta senza rammarico al contegno di chi è bendisposto e vuole accedere al dogma mercantile del much expensive e/o del much more» (p. 231).

Nell’affrontare il processo di “Neutralizzazione” Castoro riprende alcune riflessioni di Doris Lessing (Le prigioni che abbiamo dentro, 2010) ed afferma che: «La logica telecapitalistica della neutralizzazione consiste nella positivizzazione di tutto quanto […] Despoti sudamericani o tele-democrazia che si abbiano di fronte, dice a chiare lettere la Lessing: “Il lavaggio del cervello si basa su tre fondamenti o modalità oramai ben noti. La prima è la tensione seguita dal rilassamento. Questa per esempio è la formula usata dagli interrogatori del prigioniero, quando l’inquisitore è alternativamente duro e tenero – prima un sadico, poi un amico gentile. La seconda è la ripetizione: dire o cantare la stessa cosa in continuazione. La terza è l’uso degli slogan, la riduzione di idee complesse a una semplice serie di parole”. Semplicità che nei laboratori delle mnemotecniche e del self-management psicologico viene perseguita come un principio di contabilità vero e proprio per togliere di mezzo tutto quanto è solo esornativo nelle nostre vite» (pp. 219-222).

Un’altra patologia virale indotta dalla televisione è quella che può essere definita come “messa in finzione della realtà” – processo individuato da Marc Augé (La guerra dei sogni) sin dai primi anni Novanta [su Carmilla] – ed a tale questione Castoro dedica il capitolo intitolato “Virtualizzazione”. «La logica telecapitalistica della virtualizzazione è il rischio della sparizione della realtà, della sua fantasmizzazione, e del suo tele-trasporto, quasi sotto banco, verso una sorta di ammortizzazione del reale stesso, che si astrae, si disperde, si interrompe e involve in un universo parallelo» (p. 187).

Trattando il processo di virtualizzazione, è inevitabile che l’autore finisca per estendere il ragionamento al web. Secondo l’autore il virtuale «è come se oscillasse da un lato, in maniera ascensionale, verso un arricchimento della nostra soggettività, delle nostre chance di ri-creare il mondo e i rapporti politici e affettivi che investiamo in esso, attingendo a quella “pratica di vuoto fertile” fatta di “riconoscimenti lievi” e “libera impotenza”, al vuoto come condizione paradossale e tormentosa della creatività, abitare la soglia, “sottrarre dentro” che significa “asciugarsi, divenire sempre più essenziali, vuoti, inesperti”. Dall’altro, verso una sorta di brillamento del reale, come quando si sprigiona sotto controllo l’energia di un ordigno: accensione e abbattimento. E quest’ultimo è l’esatto opposto di un virtuale inteso come anti-conformismo, ironia, rinascenza, sapienza impegnata, astensionismo delle risposte, incursione costante nel possibile, indefinitezza» (p. 187).

Facendo riferimento alla rete, l’autore, riprendendo alcune interessanti riflessioni di Giuliano Santoro (Cervelli sconnessi, 2014), afferma che «“l’intelligenza collettiva” è spesso bypassata dalla “emozione connettiva”, e che questo Sinusoide perverso-partecipativo dei sistemi digitali non può che chiamarsi, per dirla alla Santoro, con l’etichetta di “net-liberismo”. Intendendo con questa targa ideologica la grande trasformazione della Rete all’interno di un sistema socio-economico che avrebbe grazie ad essa incrudelito le sue leggi del profitto, del monopolio, del lavoro schiavistico o sottopagato, dei modelli di rabbonimento/ravvedimento delle masse» (p. 189). Afferma Castoro che sebbene le cause del processo di semplificazione e di ricerca di un facile sensazionalismo non siano da attribuirsi per intero alla smaterializzazione del capitale ed alle possibilità di simultaneità e di condivisione offerte dalla rete, è evidente che «l’utilizzo prevalentemente ludico-gossiparo-distrattivo di un certo linguaggio legato al virtuale non fa che approfondire la barbarie mentale e l’analfabetismo di ritorno, e rendere più caotica e oppressiva quella cortina invisibile di controllo e tele-sorveglianza che ci ha trasformati in cittadini-consumatori da invogliare e spolpare nelle maglie di un mercato sempre più smart» (p. 189).
Se da un lato la rete collega gli individui, dall’altro li mantiene in una situazione di isolamento; individui che cercano riscontri al loro ego attraverso asciutti riconoscimenti rilasciati da amicizie virtuali, di certo non migliorano la loro condizione di solitudine. «Nella società delle iperconnessioni ognuno di noi è agente di polizia mortuaria per l’altro, giudice che “nomina” ed elimina, sicofante e sabotatore perché sia sempre il vicino a fare da parafulmine e da anello debole della catena alimentare del Potere» (p. 191).

Circa le contraddizioni insite nel web, ci sembra valga la pena riprendere un ragionamento di Wu Ming 1, in parte riportato dallo stesso Castoro: «La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto. La lotta allora dovrebbe essere questa: far leva sulla liberazione per combattere l’assoggettamento. Moltiplicare le pratiche liberanti e usarle contro le pratiche assoggettanti. Ma questo si può fare solo smettendo di pensare alla tecnologia come forza autonoma e riconoscendo che è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di potere e di classe» (Wu Ming 1, Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple).

Verrebbe da dire che grande è la con-fusione tra dentro e fuori gli schermi ma la situazione è tutt’altro che eccellente: «Da un lato, un virtuale sfilacciato, “democratico” perché di accesso garantito a tutti, splatter di testi e immagini, troppo spesso fasulli e pensati a tavolino; dall’altro un televisivo che ha ancora una funzione accentratrice e che richiede col suo futile organigramma maggioranze silenziose e prone» (p. 194)

clinica-tvCastoro auspica che l’immagine oggi smetta di «ingannare, ingigantire, ingiungere. Ovvero, falsificare accecando l’orizzonte fenomenologico delle cose e delle passioni; ingrandire smisuratamente e senza precipuo valore ciò che meriterebbe di essere odiato, respinto o accantonato; intimare comportamenti, appropriarsi dei nostri strati più profondi, diluire le capacità critiche, implementare il senso della disfatta se non si acconsente a certi status e a certi dispositivi disciplinari sempre vigenti» (p. 10). Da parte nostra, affinché tutto ciò possa accadere, pensiamo occorra che il reale, che, se pure è scomparso dagli schermi, non lo è al di fuori di essi – pur essendosi avviato a quel processo di “messa in finzione” su cui si è speso Marc Augé [su Carmilla] – riprenda il sopravvento ma lo riprenda incanalandosi in una prospettiva volta ad abolire lo stato di cose presente. Solo così l’immagine può smettere di ingannare, ingigantire ed ingiungere. Solo così la politica può tornare ad essere partecipata e non simulata sugli schermi. Solo così l’essere umano può immaginare, prospettare e costruire un futuro alternativo all’esistente.

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