Programma Comunista – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Aug 2025 20:00:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/04/12/le-probleme-nest-pas-la-chute-mais-latterrissage-lotte-e-organizzazione-dei-dannati-di-marsiglia-2/ Wed, 12 Apr 2023 20:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76426 di Emilio Quadrelli

Le Cercle Rouge

Il punto di partenza di questo lavoro è stato il “Collectif boxe massilia”, situato in rue du Refuge nello storico quartiere Le Panier. Qua ho avuto modo entrare in relazione con un certo numero di attori sociali impegnati non solo sul fronte sportivo ma anche nel lavoro sindacale e politico. Innanzitutto è importante rimarcare come questo centro abbia optato per una impostazione sportiva “tradizionale”, fuggendo le sirene dello “sport alternativo” che trova non pochi consensi tra la “nuova sinistra”. In questo modo il Collectif ha potuto [...]]]> di Emilio Quadrelli

Le Cercle Rouge

Il punto di partenza di questo lavoro è stato il “Collectif boxe massilia”, situato in rue du Refuge nello storico quartiere Le Panier. Qua ho avuto modo entrare in relazione con un certo numero di attori sociali impegnati non solo sul fronte sportivo ma anche nel lavoro sindacale e politico.
Innanzitutto è importante rimarcare come questo centro abbia optato per una impostazione sportiva “tradizionale”, fuggendo le sirene dello “sport alternativo” che trova non pochi consensi tra la “nuova sinistra”. In questo modo il Collectif ha potuto diventare un punto di incontro dei subalterni e non un ambito puramente autoreferenziale come succede alle “strutture sportive di movimento”.

Una differenza assai nota in Italia e che ha prodotto una radicale rottura tra il mondo delle “palestre popolari”, che hanno decisamente optato per un approccio “classico” all’attività sportiva, e quello radical e alternativo proprio dei “centri sociali”. Nel primo caso, come per esempio a Genova, Livorno, Roma e Palermo, si sono consolidate realtà di massa con non secondarie entrature nel tessuto operaio e proletario le quali si sono conquistate una certa fama portando alcuni atleti, nella boxe, nella muay thai e nel powerlifting a competere per titoli nazionali e internazionali mentre, nel secondo, la frequentazione non è andata oltre il ristretto numero di frequentatori abituali del “centro sociale” senza alcuna capacità di attrazione nei confronti dei mondi operai e proletari. Non è secondario rilevare come le “palestre popolari” conoscano una notevole frequentazione del proletariato immigrato il quale, all’interno di questi ambiti, ha l’opportunità di affiancare all’attività sportiva dei momenti di socialità che lo emancipano dai ghetti sociali ed esistenziali in cui è confinato un aspetto del tutto estraneo alle realtà radical e alternativa le quali, in linea di massima, sono frequentati da bianchi di classe media.

Il senso di ciò è spiegato e ben argomentato da V. L., uno degli istruttori della sala.

Intanto cominciamo con il dire che questo Collettivo nasce grazie all’iniziativa di un paio di ex pugili con una certa carriera agonistica alle spalle. Pugili che, però, oltre che atleti erano e sono comunisti. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo constatato che, per gli abitanti dei quartieri popolari, le possibilità e le occasioni di fare sport erano ridotte all’osso. Questo per tre motivi. Troppo onerosi i costi delle strutture private; percepite, e non a torto, come forma di controllo e disciplinamento coatto le poche e rare strutture pubbliche; culturalmente non proponibili le attività sportive alternative presenti nel variegato mondo della sinistra. Attività che sono svolte al di fuori delle federazioni sportive, senza sbocchi agonistici e prive di una qualunque serietà professionale e coeva disciplina atletica. Nessun proletario metterebbe piede in un posto simile perché ciò che ricerca è la possibilità di fare una attività sportiva vera nella prospettiva di poter diventare, come nel nostro caso, un pugile di valore. Con ciò abbiamo spiegato il terzo punto. Il primo è semplice poiché i costi delle nostre attività sono un quarto di quelli normalmente in uso nelle strutture commerciali. Il secondo punto è quello più importante e interessante. Possiamo dire che noi siamo un collettivo, per usare un’espressione ben nota a voi italiani, di boxe e di lotta, nel senso che non ci limitiamo ad allenare le persone e portarle ai campionati o dare la possibilità di svolgere una preparazione atletica anche a chi, per età, non andrà mai oltre a qualche round in allenamento, ma dentro la nostra sala svolgiamo anche attività politica e sindacale tanto che, proprio da qua, hanno preso forma, almeno in parte, le realtà organizzate dei precari e dei disoccupati che stanno conoscendo una certa espansione in città.

A questo punto dovresti dire qualcosa di più articolato sulla composizione di classe del collettivo e, in che misura, detta composizione riflette la realtà sociale di Marsiglia.
Marsiglia è una città dove l’indice di disoccupazione e precarietà è tra i più alti di Francia. Per molti questo dato oggettivo farebbe di Marsiglia l’elemento tanto anomalo quanto di retroguardia della società francese. Secondo noi, invece, Marsiglia racconta esattamente una storia del futuro. Disoccupazione e precarietà non sono una condizione anomala bensì la condizione in cui gran parte delle masse operaie e proletarie saranno confinate. Per questo i disoccupati non sono un’appendice della classe operaia ma sono classe operaia a tutti gli effetti. Disoccupazione e precarietà si intersecano perché il passaggio da una condizione all’altra è costante. Nel Collectif abbiamo raccolto per lo più, anche se vi sono presenti condizioni di maggiore stabilità, le tipiche espressioni di questa condizione e ciò ci ha permesso, insieme a militanti operai che provenivano da altre esperienze, di sviluppare un’attività politica e sindacale proprio a partire da queste condizioni.

Avete un qualche modello politico e organizzativo a cui fare riferimento?
Noi ci definiamo come collettivi autonomi, il che già dice molto. Come tutte le esperienze che vivono la realtà dell’oggi non possiamo certo pensare di riprodurre i modelli del passato anche se, in qualche modo, di queste esperienze teniamo conto. Non esiste una ortodossia dell’autonomia di classe, esiste l’autonomia della classe qui e ora. Se proprio vogliamo cercare un modello, noi siamo molto interessati a ciò che fa il Sicobas in Italia, soprattutto la sua sezione napoletana attraverso il “Movimento dei disoccupati 7 Novembre”. Ci ispiriamo anche al movimento americano per i 15 dollari, con il quale abbiamo dei contatti, e siamo attenti a ciò che si sta muovendo in Inghilterra sulla questione delle bollette. Infine, abbiamo un legame abbastanza stretto con esperienze similari alla nostra in Irlanda. Qua, in Francia, abbiamo legami stretti con realtà simili alla nostra a Parigi, Lione, Montpellier e Tolone. Stiamo ipotizzando di organizzare per la primavera prossima un’assemblea di tutte queste realtà, alla quale vorremo invitare anche compagni di altri Paesi, sicuramente il movimento dei disoccupati napoletani, in modo da costruire un coordinamento autonomo di realtà operaia e proletarie. Un’altra cosa che cercheremo di fare è di costruire un coordinamento nazionale delle esperienze sportive affini alla nostra. Alcuni nostri compagni, infine, lavorano anche dentro le strutture sindacali più tradizionali. In Francia i sindacati hanno perso gran parte dei loro quadri e dirigenti per cui, specialmente nelle strutture periferiche, vi sono parecchi vuoti che, in alcuni casi, siamo riusciti a riempire potendo così utilizzare una parte della logistica rimasta intatta.

Voi siete palesemente distanti dai vari movimenti della sinistra alternativa e antagonista. Che cosa rimproverate? Che cos’è che vi differenzia principalmente?
Direi, per semplificare, che a differenza di quella che comunemente viene definita sinistra radicale o antagonista, noi ci caratterizziamo per la nostra “centralità operaia”. Quando parliamo di “centralità operaia” non lo facciamo nel modo in cui lo fanno le varie sette comuniste ortodosse, per le quali la classe operaia è ridotta a icona fuori dal tempo e dallo spazio. “Centralità operaia”, per noi, significa partire dalla attuale composizione di classe, la quale, chiaramente, è il frutto delle trasformazioni economiche e sociali intervenute dentro il modo di produzione capitalista. “Centralità operaia”, pertanto, significa organizzare le lotte, dentro un programma comunista, di tutti quei settori operai e proletari che oggi vivono le contraddizioni maggiori della società capitalista. In una città come Marsiglia sono i precari e i disoccupati i settori sociali sui quali poggia l’attuale ciclo di accumulazione capitalista, sono questi i settori dove più alto è il tasso di estorsione di plusvalore. Questi settori, che la sociologia borghese definisce marginali e un marxismo da operetta sottoproletari, sono ormai una componente maggioritaria della classe, sono la storia del presente e non i residui del passato. Non sono i frutti indiretti della putrefazione imperialista ma i punti più avanzati della nuova organizzazione del lavoro. Questi settori sono socialmente esclusi e marginalizzati perché è esattamente questa la condizione normale nella quale la classe operaia è stata ascritta. Le lotte di questa classe sono ciò che ci interessa organizzare in una prospettiva comunista. Con ciò la differenza con quanto è definibile come sinistra radicale e antagonista appare sin troppo evidente. Quella sinistra e quei movimenti hanno come settori sociali di riferimento tutti quei corpi intermedi della società che possono vantare una sostanziale inclusione sociale, che sono estranei alla produzione di plusvalore e che, nei confronti della società presente, hanno a muovere una critica di natura prevalentemente culturale. Estremamente significativo il fatto che tutti questi movimenti eludono la questione della violenza e della forza dimenticando che, fuor di metafora, la relazione tra capitale e lavoro salariato è sempre una relazione di guerra. Una buona esemplificazione della linea di condotta di questi movimenti può essere il quartiere La Plaine: una sorta di gestione socialdemocratica dello spazio pubblico, costruita sulla precarizzazione del lavoro, fruibile a una certa tipologia di pubblico e che, nei confronti delle masse operaie e proletarie, mantiene meccanismi di esclusione e marginalizzazione del tutto in sintonia con quelli della società ufficiale.

Questo, in maniera molto sintetica, il frame entro cui si dipana l’attività del Collectif boxe. A un primo sguardo potrebbe sembrare che il Collectif sia qualcosa di “tardo operaista” oltre che l’eterna madeleine di qualcuno sempre alla ricerca del tempo perduto, ma le interviste che seguono smentiscono questa impressione. Ciò che emerge non ha nulla a che vedere con il “mondo di ieri” ma incarna il qui e ora delle determinazioni della classe, i suoi nervi tanto vivi quanto scoperti.
Il Collectif è frequentato da numerose donne, molte delle quali di origine araba, soprattutto algerine. Ciò ha fornito una buona occasione per affrontare la “questione di genere” nella sua più piena “materialità” e “concretezza”. Da tempo siamo sommersi da iniziative in “favore delle donne” o contro la violenza di genere, tanto che le dichiarazioni istituzionali in “favore e per le donne” conoscono una inflazione pari a quella seguita alla crisi del 1929, mentre le università un po’ in tutta Europa straboccano di corsi tenuti da “femministe radicali”. Tutto ciò farebbe presupporre che la “questione di genere” sia uno tra gli snodi essenziali delle agende politiche dei vari governi e, sotto tale aspetto, il governo francese sembrerebbe addirittura primeggiare. Questo, sicuramente, contiene più che un grano di verità anche se a uno sguardo minimamente attento non sfugge il prosaico fatto che queste retoriche hanno un qualche senso tra i mondi socialmente inclusi, ma risultano sostanzialmente ignote tra le donne appartenenti alle masse subalterne e marginalizzate. Un discorso che, per molti versi, vale anche per la “questione razziale” per cui essere donna e di pelle scura obbliga a fare i conti con una realtà dura, difficile e poco propensa a fare sconti. Mi è sembrato pertanto sensato provare ad affrontare, vista la disponibilità dimostratami, questi argomenti con alcune donne del Collectif.

La prima a parlare è Y. N., una ragazza algerina con alle spalle già più di venti match, con ambizioni di titolo regionale e possibile accesso ai campionati nazionali.

La prima cosa che vorrei chiederti è se e come tutto ciò che ha a che fare con il sessismo, la “questione di genere” ma anche, più in generale, con la sessualità e le sue forme, ha avuto un qualche ruolo nella storia e nelle pratiche del Collectif.
Forse, per prima cosa, occorre fare una premessa. In una attività sportiva e in questo caso il pugilato, soprattutto se praticata in forma agonistica, essere sportiva diventa la cosa fondamentale alla quale si aggiunge lo spirito di squadra per cui, ciò che conta, è essere il Collectif boxe: questa diventa la principale identità. Questo rende il contesto non immediatamente assimilabile al mondo che lo circonda. Inoltre, altro aspetto che non va trascurato, è che, nel Collectif boxe, il numero di donne pugili agoniste è molto numeroso per cui la legittimità del nostro ruolo non ha neanche troppo bisogno di essere posto in discussione. A me sembra che dentro il Collectif si sia raggiunta una sostanziale autonomia femminile la quale, questo probabilmente è l’aspetto che maggiormente ti interessa, non si limita al ring ma ha ricadute a più ampio raggio. Tutte noi viviamo dentro realtà sociali profondamente segnate dal sessismo, dal patriarcato il che, in non pochi casi, si traduce in violenza, sia fisica che psicologica. Dalla famiglia al lavoro passando per le relazioni amicali, sentimentali o semplicemente sessuali con queste cose hai continuamente a che fare. Molte di noi sono passate dentro questo tipo di esperienze. Alcune, forse le più, lo hanno vissuto in ambito lavorativo, molte in famiglia e non poche anche con il fidanzato o momentaneo compagno. La violenza fisica prevale nelle relazioni personali mentre in quelle pubbliche, come il lavoro, i gradi della violenza sono più sfumati. A tutto ciò, cosa non frequente ma neppure eccezionale, si aggiunge la violenza che puoi subire casualmente per strada o dentro un locale. Prima di ritrovarci dentro il Collectif boxe, e poter affrontare il problema collettivamente, ci pensavamo come vittime individuali mentre, attraverso la discussione, siamo giunte a una consapevolezza diversa e alla necessità di dover affrontare, rifiutando il ruolo di vittime, la questione in prima persona, senza delegare a nessuno questo compito. Solo la lotta autonoma delle donne può contrastare e ribaltare questa situazione.

Mi sembra che, su questo, vi differenziate di molto da gran parte dei movimenti femministi i quali, invece, tendono a vedere nello stato e nelle istituzioni dei validi interlocutori in termini di diritti e garanzie per le donne e, più in generale, contro ogni forma di discriminazione.
Sì, noi non abbiamo e neppure vogliamo avere nulla a che vedere con questo tipo di femminismo. L’oppressione di genere così come quella razziale e in gran parte quella di natura sessuale è frutto dello stato e del patriarcato che lo modella, non vi può essere lotta femminista se non vi è lotta contro lo stato. Il femminismo che si relaziona allo stato è il femminismo borghese ovvero quel femminismo che lascia intatte le coordinate del comando e del dominio perché vuole essere, a tutti gli effetti, parte attiva di questo dispositivo. Mi sai dire, secondo te, quanto cazzo le può fregare a una donna dei “quartieri Nord” di poter far carriera come dirigente in una multinazionale quando, nella migliore delle ipotesi, il suo orizzonte è quello di fare la barista saltuaria in un qualche locale e doversi continuamente difendere dalle manate sul culo del proprietario e dei clienti? Non credo che ci sia bisogno di dare una risposta. Per questo solo l’autorganizzazione autonoma, a tutti i livelli, può farci ottenere dei risultati. Solo un adeguato esercizio della forza può darci una serie di garanzie. La cosa è molto pratica. C’era una nostra compagna continuamente umiliata e maltrattata dal suo fidanzato. Lei aveva provato a mollarlo ma questo non lo aveva accettato. Per lui, lei era una cosa sua. Bene, un gruppo di noi è intervenuto, è questo è sparito dalla circolazione. Oppure, tanto per farti un altro esempio, in una impresa di pulizie il capo aveva provato a violentare una ragazza. Grazie alla sua reazione non vi era riuscito e così l’ha fatta licenziare. Anche in questo caso un intervento adeguato ha rimesso a posto le cose. Al potere dello stato e dei padroni, occorre contrapporre un’altra forma di potere.

Ti riferisci, a quanto capisco, a ciò che possiamo definire “autodifesa”?
Sicuramente sì, però su questo occorre essere molto chiari, e noi lo siamo. L’autodifesa non può essere uno slogan, una cosa detta tanto per dire, bensì una pratica organizzata. Questa presuppone, per prima cosa, il raggiungimento di una piena autoconsapevolezza e sicurezza di sé. Questo vuol dire essere in grado di gestire una situazione senza andare in panico. Un processo che potrebbe sembrare puramente individuale ma, al contrario, è quanto di più collettivo possa esserci. La sicurezza di sé la si raggiunge sapendo di non essere sole e quando dico non essere sole lo affermo a conti fatti. Io so che a qualunque cosa io vada incontro, questa cosa sarà assunta collettivamente e io non sarò sola. Quindi, l’autodifesa, non è un generico solidarismo ma una pratica che un determinato gruppo porta avanti. Questo è il cuore della questione. Tutto il resto segue a ruota. Pratica di autodifesa significa, per prima cosa, non percepirsi come vittima. In questo modo diventa possibile, per quanto difficile possa essere, ribaltare la situazione. In seconda battuta vi è, chiaramente, l’essere in grado, quindi avere la capacità fisica e tecnica, di affrontare una situazione. Sappiamo benissimo, però, che in molti casi tutto questo non basta. Queste sono condizioni sicuramente necessarie ma non sempre sufficienti. É a questo punto che interviene la dimensione collettiva in quanto esercizio effettivo di contro potere. E qua, per forza di cose, dobbiamo spostare il discorso sulla violenza e la sua organizzazione. Di ciò è meglio che ne parli con lei (indica la ragazza che stava seguendo l’intervista) che è la nostra comandante militare, se così la vogliamo definire.

L’intervista si sposta così su M. S., un’altra pugile del Collectif. L’intervista si mostra non solo interessante ma particolarmente densa poiché, oltre alla “questione di genere”, focalizza l’attenzione su razzismo e omofobia. A partire da ciò l’intervista apre su un insieme di questioni e scenari propri di tutto il movimento dei subalterni.

Hai ascoltato ciò che ci siamo detti. Potresti, a questo punto, spiegare meglio quanto, a grandi linee, ha detto Y. N. ?
Faccio una premessa. Oggi noi abbiamo una rete organizzata di auto difesa alla quale siamo giunte col tempo, dopo aver messo a confronto le nostre storie per scoprire così che quanto accaduto o stava accadendo a molte di noi non era una questione individuale ma, con sfaccettature diverse, le violenze subite erano il frutto di un sistema e di un modello politico e sociale dove l’oppressione di genere e il razzismo, i due aspetti vanno di pari passo, non sono una anomalia ma le basi stesse del sistema. É sulle donne, e per capirci meglio, le donne proletarie che si esercita la maggiore violenza. Se poi una donna non è bianca la violenza si moltiplica in maniera esponenziale. A ciò va aggiunta la violenza esercitata contro coloro che non rientrano nei canoni della eterosessualità. Dentro il Collectif abbiamo affrontato le varie facce di queste questioni e lo abbiamo fatto sia elaborando degli strumenti di analisi, sia organizzandoci per difenderci da tutto ciò. Sul piano dell’analisi siamo andate a riscoprire il marxismo e quindi la centralità che il modo di produzione riveste. Questo, sin da subito, ci ha differenziato molto dalle varie realtà femministe, ma anche anti razziste o legate al mondo LGTB. Ci ha fatto, cioè, ricondurre il tutto alla questione della classe e al ruolo che genere e razza hanno oggi nel definire la classe. Ciò ci ha portato a leggere il colonialismo nella contemporaneità e a vedere come questo oggi sia il modello dominante anche dentro le metropoli imperialiste. Questo significa che le forme proprie del colonialismo sono il modello oppressivo esercitato nei confronti delle masse proletarie e proletarizzate. Sessismo, patriarcato, omofobia, razzismo sono il mosaico che compongono lo stato e governano i suoi apparati. Da qui nasce l’esigenza di organizzare e praticare l’autodifesa.

Questo, concretamente, cosa significa?
Significa che per noi assumere la questione della forza è un tema centrale che non può essere eluso. Qua, soprattutto perché tu sei italiano e potresti travisare le cose, occorre essere chiari. Quando noi parliamo di forza e autodifesa, non stiamo proponendo una versione 3.0 della lotta armata. Non siamo interessate a una organizzazione che fa la guerra ma a delle pratiche organizzate che stanno dentro la guerra che ogni giorno, del tutto indifese, siamo comunque costrette a combattere anche se sarebbe meglio dire a subire. Ciò che dobbiamo diffondere è la capacità di lotta dentro tutte le situazioni che hanno a che fare con la vita concreta delle masse. Mao diceva che bisogna occuparsi dei problemi del riso e del sale, ed è esattamente questo che intendiamo come pratica di autodifesa. Dobbiamo costruire pratiche assolutamente riproducibili e che qualunque subalterno possa fare sua. In quanto gruppo di donne, di cui un certo numero lesbiche, abbiamo concentrato la nostra attenzione su persone e obiettivi che avevano avuto pratiche violente di natura sessista e omofoba nei confronti di qualche sorella ma anche in difesa di altre esterne al gruppo che avevamo saputo essere oggetto di una qualche forma di violenza. I posti di lavoro sono quelli dove la violenza, di varia natura, si manifesta costantemente. Sui posti di lavoro la violenza ha un carattere sia sessista che razzista e quindi non si focalizza unicamente sul genere. Questi sono luoghi dove più alto è il livello di discriminazione e sfruttamento oltre che essere posti dove il lavoro in nero è quanto mai diffuso. Sanzionare strutture e personale di queste situazioni rientra nelle nostre pratiche. Infine, e certamente non per ultimo, rimane il discorso legato ai comportamenti dei flics. Del razzismo e del sessismo tra questi mi sembra anche superfluo parlare. Ma i commissariati non vivono sempre notti tranquille…

Vorrei chiudere chiedendoti se, questa pratica, è pensata solo ed esclusivamente come pratica di donne oppure no.
Diciamo che, almeno all’inizio, siamo state molto rigide per cui eravamo solo ed esclusivamente donne. Questo era inevitabile perché, per prima cosa, dovevamo acquisire una consapevolezza che solo agendo in maniera separata potevamo conquistare. Non eravamo separatiste per principio ma dovevamo fare in modo che la nostra autonomia fosse tale a tutti gli effetti altrimenti avrebbe finito con il diventarne un surrogato. In seguito abbiamo allargato la nostra pratica anche ai maschi, anche perché alcuni terreni, come polizia e razzismo, non sono esplicitamente femminili. Diciamo che con i maschi abbiamo attuato un buon livello di cooperazione mantenendo tuttavia la nostra autonomia.

Secondo te questa chiamiamola “linea di condotta” può trasformarsi in pratica di massa o, almeno per tutta una fase, è destinata a essere una pratica di nicchia?
Io non credo che sia questo il modo giusto di porre la domanda. Questa domanda riflette, in qualche modo, una visione tardo comunista ossia che l’azione di avanguardia detta la linea alle masse. Come se, il discorso intorno alla violenza, fosse qualcosa che sta al di fuori delle masse. In realtà le masse vivono quotidianamente dentro relazioni violente, la violenza nei “quartieri Nord” fa parte delle normali relazioni sociali. Il problema, allora, diventa come indirizzare questa violenza. Ogni giorno, in città, vi sono centinaia di episodi che rimandano a ciò ma sono episodi che, per loro natura, rimangono fini a se stessi. Si tratta di trasformare tutto ciò in programma e organizzazione non certo di spiegare alle masse che cosa sia la violenza. La stessa cosa vale per l’illegalità. Questa è una città che vive di illegalità, questo è un dato di fatto, anche in questo caso, allora, non si tratta di spiegare alle masse che cosa sia l’illegalità ma di come sottrarre questa alle logiche del profitto a cui è legata e darle uno sbocco politico. Il che non può voler dire fare semplicemente delle attestazioni di principio ma risolvere, nella prassi, i problemi posti dalle masse. Con ciò, come vedi, torniamo a Mao e ai problemi del riso e del sale. I problemi del riso e del sale dentro una metropoli imperialista del XXI secolo.

(2continua)

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Amadeo Bordiga e la passione del comunismo https://www.carmillaonline.com/2021/04/07/amadeo-bordiga-e-la-passione-del-comunismo/ Wed, 07 Apr 2021 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65638 di Sandro Moiso

Pietro Basso, Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, pp. 158, 18 euro

Al contrario di quanto buona parte della cosiddetta Sinistra Comunista ha sperato per molto tempo, la catastrofe del socialismo reale e il declino e successiva scomparsa, inevitabili poiché collegati alla prima, dei partiti ex-stalinizzati del ‘900 non ha affatto contribuito a sollevare il velo di menzogne e distorsioni storico-politiche che ha ricoperto l’esperienza comunista, nei decenni intercorsi tra il 1926 e il 1989, grazie alla narrazione dei partiti e delle istituzioni che pensavano di essersi liberati di ogni serio avversario a “sinistra”.

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di Sandro Moiso

Pietro Basso, Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, pp. 158, 18 euro

Al contrario di quanto buona parte della cosiddetta Sinistra Comunista ha sperato per molto tempo, la catastrofe del socialismo reale e il declino e successiva scomparsa, inevitabili poiché collegati alla prima, dei partiti ex-stalinizzati del ‘900 non ha affatto contribuito a sollevare il velo di menzogne e distorsioni storico-politiche che ha ricoperto l’esperienza comunista, nei decenni intercorsi tra il 1926 e il 1989, grazie alla narrazione dei partiti e delle istituzioni che pensavano di essersi liberati di ogni serio avversario a “sinistra”.

Per questo motivo la figura di Amadeo Bordiga ha pagato due volte la sua irriducibile opposizione sia al capitalismo trionfante successivo alla seconda guerra imperialista e mondiale che al “marxismo” deviato e corrotto, spacciato come teoria della classe operaia, prodotto dagli stalinisti e dai loro successivi epigoni. Una figura, quella del primo segretario del Partito Comunista d’Italia fondato a Livorno nel 1921, rimossa per lunghi anni dalla storia dello stesso partito e mal riproposta, allo stesso tempo, dai suoi seguaci della seconda metà del ‘900 che alternativamente si sono dedicati alla riproposizione acritica, se non mitica, delle sue scelte e idee politiche oppure, in tempi più recenti, ad un autentico tiro al piccione nei suoi confronti, in una sorta di rivolta contro un padre con cui, troppo spesso, non si son fatti davvero i conti storicizzandone ruolo e personalità.

Motivo per cui giunge gradita, per chiunque non voglia vivere soltanto di miti e foscoliane illusioni oppure di menzogne, la presentazione di Bordiga proposta da Pietro Basso per le Edizioni Punto Rosso. Certo le 150 pagine e i dieci succinti capitoli in cui l’autore riassume gli aspetti principali dell’azione e della riflessione politica del comunista italiano costituiscono uno spazio ristretto per racchiudere un’esperienza che ha spaziato dal Partito Socialista, incrostato di opportunismo e massoneria, della Seconda Internazionale, alla Rivoluzione russa e alla nascita della Terza Internazionale e dei partiti comunisti, fino alla degenerazione staliniana di tutto ciò e alla necessità di riflettere su un modo diverso di intendere l’organizzazione e la teoria comunista, ma si può comunque dire che è un buon inizio.

Basta infatti dare una rapida scorsa alle pagine dedicate alla bibliografia su Amadeo Bordiga, poste alla fine del volume, per comprendere quanto siano state poche le opere a lui dedicate, soprattutto se si pensa al gran numero di quelle dedicate a Gramsci o, ancor peggio, a Togliatti e ai dirigenti del partito stalinizzato. Ma si sa, la pubblicità è l’anima del commercio e anche la corporazione degli storici, a parte alcune rarissime occasioni, si è adeguata, sia per intrinseca convinzione ideologica che per opportunistica necessità di vendita del proprio prodotto, favorendo una leggenda gramsciana che è servita, in realtà, troppo spesso a giustificare la storia di un partito che, dopo aver espulso a sua insaputa Bordiga nel 1929, ha congelato la memoria del comunista sardo relegandola ad un’esperienza carceraria sulla quale, in realtà, ci sarebbe ancora molto da dire e scrivere1.

Pietro Basso ha pubblicato saggi e libri sul tempo di lavoro, la disoccupazione, le migrazioni internazionali, il razzismo dottrinale e di stato, l’islamofobia, le lotte del proletariato, tradotti in molte lingue. Nel 2020 ha curato per l’editore Brill la prima antologia di scritti di Bordiga in lingua inglese, The Science and Passion of Communism. Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965), e scritto la voce Bordiga nel Routledge Handbook of Marxism and Post-marxism (2021). Collabora inoltre alla rivista «Il cuneo rosso» e al blog «Il pungolo rosso».

Proprio dall’introduzione al testo contenente la traduzione in inglese degli scritti del comunista napoletano è tratto il testo appena pubblicato in Italia, che si caratterizza per l’obiettività con cui è presentata l’opera (teorico-politica) dello stesso.
Come afferma lo stesso Basso nell’introduzione:

Questo scritto è una presentazione molto sintetica di Amadeo Bordiga. Del militante, organizzatore e propagandista politico di primissimo rango, quale fu nella prima fase della sua battaglia comunista (1912-1926); e del “restauratore” di alcuni aspetti della teoria marxista in contrapposizione al capitalismo e allo stalinismo trionfanti, quale fu in una seconda fase del suo impegno (1945-1966). Si tratta di due periodi storici pressoché agli antipodi. In quanto il primo vide esplodere, per entro la “grande guerra”, il più ardito assalto al cielo mai compiuto dal proletariato, mentre il secondo ha celebrato il pieno rilancio del capitalismo, dopo un trentennio di catastrofi, attraverso l’inaudita espansione mondiale dei rapporti sociali mercantili e monetari e dei connaturati valori culturali.
[…] Come si vedrà questa non è un’apologia bordighista di Bordiga. Perché il bilancio di questa grande esperienza è, necessariamente, in chiaroscuro2.

Il tentativo di Basso è quello di sottolineare come Bordiga abbia sempre operato in quanto militante più che come intellettuale, stravolgendo già in questo modo quella concezione tipicamente borghese dell’”intellettuale impegnato” oppure quella gramsciana dell’intellettuale “organico”.
Circolo Carlo Marx di Napoli, Federazione giovanile socialista, frazione intransigente rivoluzionaria, frazione comunista astensionista, Pcd’I-sezione italiana della Terza Internazionale, Partito comunista internazionalista e, infine, Partito comunista internazionale-Programma Comunista, sono stati i momenti che hanno segnato il suo percorso politico, organizzativo e teorico.

Bordiga, militante delle rivoluzioni a venire verrebbe da dire, non ha mai rinunciato all’integrità politica in nome del successo o dell’affermazione personale, anche se questo ha portato con sé due aspetti antitetici di cui Basso sa tenere conto.
L’ostinata difesa della radicalità della Rivoluzione e dell’azione e della teoria che devono per forza di cose accompagnarla gli ha permesso, anche nei periodi di quasi totale isolamento, di rinnovare, ancor più che restaurare soltanto come vorrebbero gli epigoni, il pensiero del movimento di classe rivoluzionario, trasmettendo ai posteri alcuni insegnamenti che nel ritorno della Grande Crisi, economica e pandemica e certamente portatrice di enormi disastri e guerre, odierna potrebbero rivelarsi estremamente utili se non addirittura dirimenti per i movimenti attuali di contestazione e negazione dell’ordinamento socio-politico attuale.
Cosa che ha fatto sì che la sua damnatio memoriae non cessasse mai di operare.

Per i narratori di stato il dato storico effettivo è irrilevante […] la sola aspirazione razionale che può nutrire la classe lavoratrice è quella di moderare un po’ gli effetti più estremi del meccanismo capitalistico. Altro non può. E se osa andare oltre? […] il contraccolpo sarà durissimo. Non solo per gli audaci. Lo sarà per tutti i proletari e perfino per l’intera società. Perché – parla Mauro3 per i suoi simili – «la fascinazione febbrile di un pensiero continuamente teso a ricostruire il mondo» non può che metter capo a «modellistica politica» tanto grandiosa quanto «ingenua, che proietterà nel futuro la tentazione tragica della comunità perfetta». Niente fascinazioni. Niente pensieri grandiosi. Niente modelli utopistici. Niente sogni di comunità perfette – salvo quelli da incubo, dell’industria 4.0 e del transumanesimo robotico […] Al lavoro, disciplinati! E vi passeranno i grilli per la testa. « La sinistra, o è riformista o perde». Solo questo è possibile4.

Ma le questioni poste da Bordiga non sono di dettaglio e non si possono facilmente rimuovere così come alcuni avrebbero voluto: «la sua battaglia contro le illusioni seminate dal riformismo, il suo anti-militarismo rigorosamente disfattista verso la “patria” borghese, la sua denuncia del cretinismo parlamentare» insieme alla sua capacità di «estrarre e mettere in luce la dimensione anti-produttivistica ed ecologica del marxismo […] che ne esalta l’antagonismo col capitalismo stramaturo che, nella sua folle ricerca di nuove fonti di produzione del plusvalore, si caratterizza più che mai per una feroce fame di catastrofe e di rovina»5.

Certo, a fronte di questa riscoperta del radicalismo ed attualità della proposta bordighiana rimangono le ombre. Ombre legate ad una concezione tattica semplificata fino all’osso e ad una concezione organizzativa di tipo partitico che spesso, e soprattutto nell’interpretazione ed applicazione di troppi epigoni, porta a rigide derive settaristiche. Costringendo il discorso in un alveo talvolta ermetico ed autoreferenziale (soprattutto nelle infinite polemiche e diatribe che hanno caratterizzato le separazioni, divisioni e scontri tra le differenti correnti “bordighiste”, già ben prima della sua morte avvenuta nel 1970).

Uomo d’altri tempi, per formazione, cultura ed esperienza Bordiga non comprese assolutamente la novità costituita dai movimenti del ’68, cui dedicò l’ultimo suo scritto pubblicato in vita sul «Programma Comunista». D’altra parte non avendo compreso la grande trasformazione sociale avvenuta con l’avvento della riforma della scuola media unica, Bordiga poteva rammentare soltanto le mobilitazioni a favore del primo conflitto mondiale portato avanti, all’epoca, da uno studentame che costituiva una sorta di jeunesse dorée borghese, mentre i figli dei proletari dovevano accontentarsi di seguire le orme dei padri (e delle madri) in fabbrica.

Certe estremizzazioni poi del suo pensiero, dopo il secondo conflitto mondiale, furono anche il prodotto di due altri fattori. In primo luogo una salutare reazione all’impostazione marxista-leninista che da lì a poco si sarebbe trasferita anche in tanti gruppi della cosiddetta “nuova sinistra”. E che si sarebbe trasferito ben presto (probabilmente con Bordiga ancora vivente) anche nella Sinistra Comunista sotto forma di culto del capo. Un culto della personalità cui il vecchio e irriducibile comunista si era da sempre opposto, fin dalla morte di Lenin e dall’avvento dello stalinismo, e che avrebbe osteggiato in ogni modo fino a quella rivendicazione di un totale anonimato autoriale, che invece avrebbe permesso, in seguito, ai vari manipoli di seguaci di fregiarsi degli stessi meriti, spesso senza avere davvero fatte proprie le sue posizioni.

L’altro fattore è da attribuire alla solitudine in cui Bordiga operò per lunghi periodi della sua vita e anche alla sfiducia che lo stesso nutrì nella formazione di uno strumento “partito” di cui non vedeva ancora le necessarie condizioni di sviluppo. Trascinatovi quasi per i capelli, finì col definire rigide norme destinate ad una sorta di “autodifesa” da quella sovracrescita di militanti poco preparati e dalle poche e confuse idee che aveva finito col caratterizzare i “partiti di massa” di origine stalinista, fascista o democratica.

Era ben chiaro a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 nella testa del nostro (e un po’ tutta la sua opera di quegli anni lo dimostra) il disastro storico, politico, ideologico ed umano rappresentato dallo stalinismo come vero distruttore del movimento di classe internazionale. Oggi affermare ciò può essere scontato, ma credo che fosse cosa ben diversa vivere sulla propria pelle, in diretta per così dire, e nella propria testa il fallimento rappresentato dallo stalinismo per il movimento di classe e per gli uomini che avevano legato il proprio destino a quello della rivoluzione bolscevica e ai suoi strascichi nei primi trent’anni del secolo. Sicuramente, al confronto, fascismo e nazismo avevano costituito un problema minore, una conseguenza di quel fallimento, non certo una causa.

Per tutti questi motivi Bordiga, con il suo modo di pensare, operare e interpretare il marxismo, proprio come suggerisce Pietro Basso, va inquadrato sul piano storico e, quindi, anche umano ovvero soggettivo. Bordiga uomo storico intanto e non vate, gigante, maestro di misteri o condottiero rivoluzionario. E’ accademico ricordare tutto ciò ? No, soprattutto se questo ci può aiutare a capire alcuni “svarioni” ed alcune salutari anticipazioni egualmente espresse dal suo pensiero.

A settanta e più anni, nelle riunioni sulla conoscenza e la filosofia6, riprese la polemica anti-culturalista che lo aveva già caratterizzato in gioventù e lo fece con foga e passione, perché sapeva bene che proprio i deliri della “cultura proletaria” erano stati una delle armi retoriche dello stalinismo in patria e fuori.
Così pure la freddezza della ragione così vicina al calcolo politico (padre di ogni opportunismo) e l’esaltazione positivistica e trionfalistica della scienza (madre di ogni tradimento della teoria rivoluzionaria) lo spinsero ad allontanarsi da due capisaldi del pensiero borghese otto e novecentesco che si erano inseriti come un tarlo nella teoria comunista fino a stravolgerla, in nome, appunto, di nuove fasulle conquiste (la polemica sulla corsa allo spazio era prima di tutto, ancora una volta, una polemica antistalinista) sia nel campo della conoscenza e del rapporto uomo-natura che in quello dei rapporti di classe.

Bordiga restituiva l’intuizione, la religione e l’arte alle categorie della conoscenza; recuperando così anche la possessione7 ovvero la manifestazione negli uomini, sia presi individualmente che collettivamente, di forze e potenze che li trascinano, li dominano e li soggiogano ancor prima che essi possano pienamente comprenderle.

Ad esempio il comunismo, che a sua volta è figlio di necessità storiche, di potenze materiali che agiscono sulla società e sui singoli provocando di volta in volta una metamorfosi del sociale e delle forme della conoscenza (oltre che delle forme di lotta e di organizzazione). Solo dopo un impatto violento sugli uomini e sulle classi queste forze possono essere “formalizzate”, ridotte a teoria. Motivo per cui anche in Marx si parla del demone del comunismo ed è interessante constatare come per gli antichi greci (ovvero prima dell’età classica e della sistemazione dei canoni), in Omero per esempio, la parola daímones servisse indifferentemente a parlare degli dei come dei demoni.

L’intuizione, così vicina all’istinto, deve spesso guidare il rivoluzionario anticipandone le sistemazioni teoriche che seguiranno: l’esempio degli scritti giovanili di Marx (di cui non a caso Bordiga si stava occupando al tempo delle riunioni in questione) che anticipano gli scritti della maturità potrebbero costituire un esempio di ciò. Ma anche la spontanea sollevazione o ribellione delle classi formate o in formazione (ancora non a caso vengono recuperati i luddisti nel corso delle stesse riunioni) anticipa la teoria e le teorie che spiegano e accompagnano la lotta di classe.

L’arte segue un po’ lo stesso percorso poiché l’artista esprime più di quello che lui stesso vorrebbe, sia perché il suo prodotto non è mai individuale e soggettivo, sia perché spesso tende ad anticipare ciò che già è nell’aria (in questo caso anticipare sta anche per annunciare e si può annunciare solo ciò che già è deciso ovvero che già esiste anche se la moltitudine sembra ancora non esserne a conoscenza). D’altra parte il termine avanguardia, tra ‘800 e ‘900 non si è prestato forse all’uso sia politico che artistico? Nell’accezione bordighiana dell’arte (colta sempre nel momento in cui accompagna le grandi trasformazioni della società) quest’ultima non è forse sempre precorritrice di ciò che sta per avvenire?

Infine la religione: prima forma di conoscenza “teorica” del mondo e al contempo anticipatrice delle leggi destinate a governare le prime società di classe. Manifestazione dell’umano che si dà un proprio divenire, collegandolo a cicli più grandi della stessa forma sociale che l’ha prodotta. Manifestazione essa stessa di quelle potenze, di quelle forze che l’uomo subisce e allo stesso tempo cerca di spiegare e dominare. Perché insistere, come fa Bordiga, su questo aspetto della conoscenza umana, se non per rivoltarla contro gli stessi “atei” borghesi che hanno fatto del capitale, dello sviluppo e del progresso tecnico la propria nuova e disumana religione?

La domande da porsi quindi riguardano non tanto dove, quando, come e perché comincia la deriva bordighista, ma piuttosto, come il provocatorio e nuovo discorso bordighiano abbia fallito nell’incontrare quei movimenti che da lì a pochi anni, Bordiga ancora vivente, avrebbero cominciato a porsi problemi analoghi e come, allo stesso tempo, quelle affermazioni si siano trasformate nella caricatura di sé stesse nella spesso inconcludente e settaria pratica bordighista.

Ma, come al solito nel testo bordighiano, ci sono “intuizioni” che travalicano la miseria del momento (riunioni in cui bisognava chiedere insistentemente ai compagni presenti di non allontanarsi in massa e ridurre i macigni in salsicce) e degli epigoni.
Intanto la modestia dell’uomo: ne sono prova non solo gli scherzosi richiami ai disattenti, ma, soprattutto, il diniego di fronte a quei lavori “futuri” che si ritenevano importantissimi (sulla scienza e la conoscenza, sulla società futura, etc.), ma che allo stesso tempo si ritenevano al di sopra delle proprie forze intellettuali sia individuali che collettive. Per Bordiga nulla poteva esser dato per scontato a livello di conoscenza: tutto era, almeno fino all’affermarsi di una società comunista, in divenire. E spesso non vi erano nemmeno giganti sulle cui spalle poter salire. Tutto rimaneva nella dimensione degli uomini, per grandi che questi potessero essere, poiché gli “dei” si manifestano soltanto come forze dominanti e gli eroi esistono per quanto durano i cicli rivoluzionari. La polemica sul battilocchi ne è l’esempio più concreto e saldo.

Nel vecchio Bordiga, comunque, trionfava sempre la preoccupazione anti-staliniana e così sarebbe stato destinato a fermarsi sull’orlo di una nuova fase della lotta di classe, incapace di mettere pienamente a fuoco quegli elementi di novità compresi nel ruolo dei popoli non occidentali nella ripresa della stessa e allo stesso tempo quelli non “operaistici” già presenti nel corpo principale dei testi della Sinistra. Così, mentre all’inizio del secolo un certo spontaneismo aveva permesso al gruppo dei giovani socialisti, e poi del Soviet, di emanciparsi dai dettami della socialdemocrazia legata alla Seconda Internazionale, sul finire degli anni sessanta Bordiga preferisce chiudersi all’interno di una ferrea (e dannosa quando non ridicola) disciplina di partito che finirà con lo scimmiottare il bolscevismo più deleterio di marca stalinista. Quasi come se a forza di fissare o di lottare con il mostro avesse finito con l’assorbirne le caratteristiche peggiori.

Finiva così col perdere quell’attenzione per la metamorfosi necessaria del mondo e delle forme di lotta e di organizzazione (quindi delle tattiche e delle parole d’ordine) che avevano caratterizzato la parte più viva del suo discorso.
Per i fessi e i settari rimasero gli invarianti, il dogmatismo, la ferrea “rosa delle eventualità tattiche”, i sacri testi, ma non il metodo, quello stesso che aveva permesso a Marx di riconoscere la grandezza della Comune nonostante la direzione anarchica e populista della stessa, a Lenin di superare con un gigantesco colpo d’ala i pantani della Seconda Internazionale e a Bordiga di riconoscere il carattere capitalistico della Russia Sovietica e il carattere rivoluzionario delle lotte dei popoli colorati e ancora l’importanza della religione, dell’intuizione e dell’arte ovvero della passione nei processi cognitivi umani.

Sono personalmente convinto che da quel metodo i rivoluzionari debbano continuamente ripartire, in una sorta di fatica di Sisifo cui soltanto la fine dell’odiato sistema di classe potrà metter fine. Ogni scorciatoia, ogni certezza definitiva, ogni imbecille speranza nella forza del dogma o di un partito che per ora non c’è, ci è definitivamente preclusa, mentre la lettura proposta da Basso può costituire un primo e significativo passo in direzione di questa riscoperta della parte più vivace e attuale del pensiero del vecchio comunista; tralasciando quelle incongrue polemiche in cui i suoi seguaci od ex continuano a razzolare nel tentativo di spiegarne, sminuirne o ingigantirne le responsabilità, vere o presunte, nei confronti delle sconfitte subite dalla rivoluzione8. Incapaci anche di comprendere la sostanza delle sue Lezioni delle controrivoluzioni e, forse, ancor meno quanto affermò Rosa Luxemburg, all’indomani della sconfitta dell’insurrezione spartachista di Berlino, nel gennaio del 1919: «poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, ognuna delle quali è una parte della nostra forza e consapevolezza»9.


  1. Sull’argomento si vedano, almeno: Chiara Daniele (a cura di), Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Giulio Einaudi Editore, Torino 1999 e qui  

  2. P. Basso, Lezioni per l’oggi in Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, p. 7  

  3. Il riferimento è a Ezio Mauro e alla sua ricostruzione della nascita del Pcd’I, La dannazione. 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo, Feltrinelli, Milano 2021 – N.d. R.  

  4. P. Basso, op. cit., pp. 5-6  

  5. ibidem, pp. 9-10  

  6. Si veda in proposito: Critica della filosofia. Cinque testi inediti di Amadeo Bordiga, «N+1», n° 15-16, giugno-settembre 2004  

  7. «Quando si parla di possessione, il primo passo falso è quello di credere che si tratti di un fenomeno estremo, esotico e comunque torbido.[…] Per i Greci, la possessione fu innanzitutto una forma primaria della conoscenza, nata molto prima dei filosofi che la nominano.[…] Tutta la psicologia omerica, degli uomini e degli dei – questa mirabile costruzione che solo l’ingenuità dei moderni ha potuto giudicare rudimentale -, è attraversata da un capo all’altro dalla possessione, se possessione è in primo luogo il riconoscimento che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo, ma possono avere nomi, forme e profili. Con queste potenze abbiamo a che fare in ogni istante, sono esse che ci trasformano e in cui noi ci trasformiamo.[…] E ogni metamorfosi era [è] un’acquisizione di conoscenza. Certo, non già di una conoscenza che rimane disponibile come un algoritmo.» in Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi, 2005, pp.26 –28  

  8. Un po’ come se oggi si continuasse a discutere del fatto che nel 1917, poco prima dell’esplodere della rivoluzione russa, Lenin, all’epoca in esilio, si soffermasse di più sul Partito socialdemocratico svedese e le sue vicende piuttosto che su quanto stava per avvenire in Russia. Si veda la lettera di Lenin ad Alessandra Kollontaj del 5 marzo 1917 cit. in Michael Voslensky, Nomenklatura. La classe dominante in Unione Sovietica, Longanesi & C., Milano 1980, p. 94  

  9. Rosa Luxemburg, L’ordine regna a Berlino, in R. Luxemburg, Scritti scelti, Einaudi , Torino 1975, p.680  

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