Privacy – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronaca giudiziaria e diritto all’informazione https://www.carmillaonline.com/2024/03/22/cronaca-giudiziaria-e-diritto-allinformazione/ Fri, 22 Mar 2024 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81522 di Pietro Garbarino

Molto spesso ci capita di assistere a giornali-radio, telegiornali, e notiziari vari, per la verità più simili a bollettini di cronaca giudiziaria che non a rubriche di aggiornamento del pubblico, fatti di carattere giudiziario che si ritiene interessino o riguardino il vasto pubblico.

Anche numerosi programmi di intrattenimento televisivi sono spesso incentrati su discussioni e commenti che riguardano vicende giudiziarie. La stampa, i media, i social si manifestano come avidissimi raccoglitori di casi giudiziari riguardanti fatti o personaggi di pubblica rilevanza, e divengono a loro volta propalatori di notizie che riguardano indagini giudiziarie processi in corso.

Non [...]]]> di Pietro Garbarino

Molto spesso ci capita di assistere a giornali-radio, telegiornali, e notiziari vari, per la verità più simili a bollettini di cronaca giudiziaria che non a rubriche di aggiornamento del pubblico, fatti di carattere giudiziario che si ritiene interessino o riguardino il vasto pubblico.

Anche numerosi programmi di intrattenimento televisivi sono spesso incentrati su discussioni e commenti che riguardano vicende giudiziarie. La stampa, i media, i social si manifestano come avidissimi raccoglitori di casi giudiziari riguardanti fatti o personaggi di pubblica rilevanza, e divengono a loro volta propalatori di notizie che riguardano indagini giudiziarie processi in corso.

Non si tratta certo di una novità che il cosiddetto mondo dell’informazione si occupi di tali argomenti; anche in un lontano passato il caso Bruneri / Cannella (meglio conosciuto come lo “smemorato di Collegno”) il caso Montesi, il delitto Maria Martirano e, per avvicinarci al nostro tempo, numerosi casi di omicidi in famiglia e femminicidi, hanno invaso le pagine dei giornali e i servizi radio televisivi. Ma perché?

Qualcuno potrebbe fornire una lapidaria spiegazione liquidatoria ricorrendo alla famosissima battuta di Humphrey Bogart in un celebre film degli anni ’50 (del ‘900): “E’ la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente!”; ma tuttavia bisogna farsi delle domande.

Perché proprio i processi? Perché tanto crescente interesse? Quale è il motivo di voler conoscere i dettagli di situazioni così particolari? C’è un interesse pubblico qualificato in tutto ciò? Ma, ancor più, esiste una privacy che tutela le persone sotto indagine o sotto processo? Non è scritto nella Costituzione che ciascuno è da ritenersi innocente sino a sentenza definitiva?
Rispondendo a ciascuna di queste domande, o almeno tentando di dare una spiegazione ai quesiti posti, ci si addentra in una materia assai delicata e spinosa, che ci porta subito ad individuare le parti del problema, intese come soggetti attivi, i loro interessi, le loro finalità.

Si tratta dunque di analizzare quelle risposte, quanto meno per tracciare il quadro di una “vexata quaestio” che ormai da lungo tempo coinvolge organi di giustizia e organi di stampa, estendendosi però anche al mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento, alla politica e anche alle discussioni nei luoghi pubblici, bar e parrucchieri compresi.

La curiosità che da tempo alimenta chi lavora nel settore della stampa e dell’informazione confligge tuttavia con chi, sottoposto a indagine o giudizio, auspica che non si parli affatto di lui.

Si tratta dunque di interessi contrapposti che tutti gli ordinamenti giuridici democratici tendono a tutelare in entrambi i sensi.
Ma come, concretamente, sarà ciò possibile?

Per un approccio al tema sarà necessario individuare quali siano i caratteri, i tempi, le modalità di quanto avviene invece nel mondo esterno agli uffici giudiziari, come le radio e le televisioni, i set cinematografici e i teatri di posa, gli studi di registrazione, i teatri, e ogni luogo ove si possa svolgere una pubblica riunione, nei quali si ritenga di parlare di inchieste giudiziarie o di veri e propri procedimenti giudiziari.

Si tratta, in buona sostanza, di mettere a confronto il procedimento giudiziario e quello che, al passo coi tempi, possiamo chiamare “processo mediatico”.

Non è molto il caso di disquisire, in particolare con Avvocati che praticano il diritto penale, di quanto siano definiti, al limite della rigidità, i termini e contorni del processo penale.

Tutti noi sappiamo che vi sono tempi tecnici “morti”, a cominciare dalla iscrizione a ruolo generale del fascicolo e alle sue vicende interne all’Ufficio della Procura della Repubblica. Ma sappiamo anche che vi sono valutazioni da svolgere e conseguenti decisioni da assumere circa gli atti di indagine da espletare. Talvolta tali valutazioni sono semplici e rapide e le successive attività quasi automatiche; però, talvolta, la delicatezza delle circostanze e la labilità degli elementi probatori o indiziari induce a scelte più ponderate e meno tempestive. In simili circostanze appare utile tenere il massimo riserbo da parte di chi indaga.

Tutto ciò determina situazioni di assenza di attività percepibili all’esterno e non conoscibili, per cui ogni notizia in merito è da considerarsi una congettura. Il che, dal punto di vista di chi fa informazione pubblica, può considerarsi come mero pettegolezzo (o gossip, come si dice oggi), se non come falsa notizia. Ma anche il prosieguo delle indagini può essere solo oggetto di notizia circa gli atti da svolgere o da compiere, ma non sui loro contenuti.

Cioè, in teoria, il processo svela le proprie carte al termine delle indagini, allorché quello che potrà, o potrebbe, tradursi in materiale probatorio, viene reso noto alla o alle parti indagate. Ma anche nella fase successiva alla “scopertura delle carte”, possono essere svolti nuovi atti di indagine, e ciò anche da parte della difesa, e non è da escludere che essi vengano giocati solo a dibattimento avviato o nell’udienza preliminare, se prevista e richiesta.

Dunque la prima pubblicità degli atti, intesa come disponibilità delle parti processuali per la loro divulgazione al pubblico, dovrebbe in linea di principio avvenire solo quando inizia il vero e proprio processo.
Va tuttavia tenuto conto che vi possono ostare delle evidenti e notevoli riserve da parte dei protagonisti del processo; infatti mentre l’imputato (divenuto ormai tale, da indagato quale era) non ha certamente piacere di rendere di pubblico dominio le accuse che gli si muovono, anche il Pubblico Ministero può avere interesse a mantenere, per quanto possibile, le proprio carte coperte, onde evitare, ad esempio, che testimoni di accusa possano essere intimiditi, o che prove documentali possano essere alterate o rese meno probanti.

A questo punto, si potrebbe dire che il meccanismo processuale ha già in sé gli elementi per poter tutelare uniformemente sia la solidità dell’ipotesi di accusa e degli elementi a sostegno, sia la doverosa tutela della sfera privata dell’imputato che, ricordiamolo, deve essere considerato innocente sino a sentenza definitiva. Tuttavia, sappiamo bene che, assai spesso, le cose non procedono in tal modo.

Tutto dipende dal fatto che la giurisprudenza, e in particolare quella della giustizia europea, riconosce come alto valore il cosiddetto diritto di cronaca, ritenendo la funzione della stampa come quella di “cane da guardia”, in senso democratico, della funzione giudiziaria.

Il principio è sicuramente nobile, ma è la sua concreta applicazione che lascia perplessi e dubbiosi in quanto, se è vero che la stampa, rendendo pubblici particolari fatti e atti di cronaca giudiziaria, dà alla collettività un servizio di informazione che ha la rilevanza di un interesse pubblico; è altrettanto vero che diritti e libertà fondamentali dell’individuo sono chiaramente enunciati nella Costituzione e che va sempre tutelata la possibilità di poterli concretamente e pienamente esercitare.
Nonostante ciò non si può dire, nella realtà dei fatti, che quella funzione, del tutto legittima e perfino auspicabile, venga realizzata in modo ineccepibile e corretto.

Innanzitutto perché spesso la fonte (Magistratura o Forze di Polizia, per lo più) è unilaterale e non ha contraddittorio, almeno nell’immediato, ma anche perché l’interesse dell’operatore della stampa non si appunta sulla sola fondatezza della notizia relativa al procedimento giudiziario, bensì sul clamore che la notizia stessa riscontra nell’opinione pubblica; vale a dire, la qualità della persona coinvolta; la particolarità, spesso truculenta, del fatto; la curiosità pubblica rispetto a persone che rivestono ruoli sociali politici ed economici di elevato rango; i risvolti che la situazione resa nota può avere su altri aspetti e fatti di natura politica ed economica.

Senza contare che, per la natura dell’odierno processo penale, la fase che dà inizio al processo è di mera acquisizione degli elementi di indagine e non dà luogo, salvo alcune eccezioni ben definite, e specifiche situazioni previste, a immediate conseguenze sanzionatorie.

Ma l’esposizione mediatica non è mai una vicenda senza conseguenze, nel senso che chi vi si trova esposto o subisce un giudizio pubblico, molto spesso approssimativo e affrettato, e talvolta perfino reagisce con tutti i mezzi possibili, non esclusi quelli giudiziari. Dunque si crea una non certo utile, né edificante, concorrenza tra il processo giudiziario e quello mediatico, che raramente sono di complemento l’uno all’altro, ma più spesso, diffondendo notizie poco vagliate, non proposte in situazione di neutrale contraddittorio e spesso riferite in modo e con linguaggio non tecnici, tendono a formare un’opinione già definita nel pubblico, ignorando tutti i particolari e gli aspetti dell’indagine, che inevitabilmente creano, in modo anche subdolo, opinioni generalizzate, e spesso anche contrapposte, sulla singola vicenda. Così facendo di certo non si contribuisce né agli accertamenti di giustizia, né alla serenità di chi si trova indagato, o anche imputato.

Dunque la concorrenza di un processo celebrato negli uffici e nelle aule giudiziarie con un processo celebrato pubblicamente su giornali, televisioni, spettacoli di intrattenimento e social forum si traduce, rovinosamente, nella mancanza di una rigida e ben orientata disciplina del cronista, del conduttore o dell’anchor-man, contribuendo invece alla formazione di fronti di opinione non ben informati, e spesso neppure del tutto coscienti di quanto è in gioco.

Di sovente le questioni giuridiche sottese alle vicende trattate dal cronista vengono pretermesse o ignorate (anche perché molto tecniche e spesso noiose e incomprensibili per il pubblico non esperto), trasformandosi in banali argomenti per aprioristiche prese di posizione, anche dipendenti dai profili accattivanti dei protagonisti.

In definitiva, vicende giudiziarie del tutto serie rischiano di diventare oggetto di tifo di stampo calcistico, influenzati da sentimenti superficiali e pulsioni non del tutto razionali, là dove invece razionalità, logica e spirito obiettivo sono essenziali per fare giustizia.

In tali vicende e circostanze non è agevolato neppure l’imputato o indagato, in quanto non solo la sua privatezza, ma anche la sua reputazione vengono inevitabilmente compromesse; e tutto ciò alla faccia della presunzione di innocenza!
Dunque, alla luce di quanto osservato, occorre allineare, in uno sforzo in positivo di rilevanti proporzioni il tema della necessaria riservatezza delle indagini e degli accertamenti processuali con il diritto della opinione pubblica ad essere informati, non tanto e non solo sul fatto che quella nota persona è sotto indagine o giudizio, ma anche sul fatto che la giustizia rispetti i suoi diritti e, specialmente, che lo consideri innocente sino a prova contraria.

Quindi, che fare? Come operare?

Per tentare di arrivare ad un qualche risultato sarà necessario che la cultura e la professionalità degli operatori della giustizia e di quelli della informazione si avvicinino e si omogeneizzino quanto più possibile; il che significa che l’investigatore ed il requirente debbano prendere il considerazione l’ormai ampiamente riconosciuto diritto dell’opinione pubblica di conoscere i fatti relativi a casi di cronaca giudiziaria che possano suscitare l’attenzione di un vasto pubblico; ma anche i giornalisti devono ben conoscere l’entità e lo spessore dei diritti degli inquisiti e la presunzione della loro innocenza, anche di fronte a circostanze apparentemente già chiare e di presumibile facile interpretazione.

Vi deve dunque essere un’area di cultura e professionalità comuni tra l’operatore giudiziario ed il cronista o conduttore o opinionista, in quanto tale territorio comune di professionalità è quello che garantisce il reciproco rispetto, ma anche l’utilità collettiva delle rispettive funzioni.

In altri termini il magistrato e il cronista devono individuare un terreno dove due diverse, ed apparentemente opposte esigente, rappresentative entrambe di interessi rilevanti e giuridicamente qualificati, si incontrino.
E allora, per conseguenza, si devono considerare le seguenti proposte:

a) In primo luogo, occorre che possano essere rese pubbliche e accessibili quelle parti di indagine che si ritengono completate e tali di costituire compiuto materiale probatorio o indiziario da offrire al dibattimento. A tale fine servirebbe anche un front-desk presso Questure, Comandi dell’Arma e Palazzi di Giustizia.

b) Occorre altresì che gli esiti di tali indagini vengano sottoposti a contraddittorio con la parte inquisita, in modo da rendere note altresì le eventuali motivazioni di contrasto.

c) Tutto ciò deve essere svolto da personale che abbia una specifica istruzione professionale sulle regole processuali vigenti, al fine di non confondere situazioni e circostanze che nuocciano alla situazione dell’inquisito o non creino superficiali impressioni fuorvianti nel pubblico.

Insomma, la progressiva “giurisdizionalizzazione” della professione giornalistica, e in generale del settore della comunicazione informativa, e anche talvolta culturale, si deve svolgere tra attori corretti e che parlino lo stesso linguaggio; e ciò al fine di correttamente informare l’opinione pubblica.

Infine, un capitolo a parte lo meriterebbe il cosiddetto “giornalismo d’inchiesta”.
In questo caso però il suo ruolo è di denunzia, ma ciò, più che interessare il processo in senso stretto, riguarda la fase di avvio delle indagini; tuttavia questo è un aspetto che andrebbe sottoposto ad una revisione normativa per quanto concerne la disciplina della tutela delle fonti. Appare però evidente che, in tale evenienza, il rapporto precedentemente descritto si capovolge.
Infatti in tal caso sarà il Magistrato a dovere cogliere gli stimoli e gli spunti investigativi che gli provengono dal mondo dell’informazione assolvendo così lui stesso al ruolo di valorizzazione dell’attività mediatica.

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Culture e pratiche di sorveglianza. Leviatano 4.0 e società onlife della prestazione https://www.carmillaonline.com/2022/04/27/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-leviatano-4-0-e-societa-onlife-della-prestazione/ Wed, 27 Apr 2022 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71546 di Gioacchino Toni

Digitalizzazione, intelligenza artificiale e tutto ciò che vi ruota attorno prospettano mondi nuovi che però non mancano di rifarsi a dinamiche di potere non necessariamente nuove, su ciò si concentra il volume di Mirko Daniel Garasic, Leviatano 4.0. Politica delle nuove tecnologie (Luiss University Press, 2022). Accolte come possibilità di estrema valorizzazione dell’autonomia e delle opportunità degli individui, capaci di aprire loro inedite possibilità di interfacciarsi con contesti, realtà, paesi e individualità altre, a distanza di tempo gli entusiasmi per queste trasformazioni digitali sembrano essersi sgonfiati di fronte al manifestarsi [...]]]> di Gioacchino Toni

Digitalizzazione, intelligenza artificiale e tutto ciò che vi ruota attorno prospettano mondi nuovi che però non mancano di rifarsi a dinamiche di potere non necessariamente nuove, su ciò si concentra il volume di Mirko Daniel Garasic, Leviatano 4.0. Politica delle nuove tecnologie (Luiss University Press, 2022). Accolte come possibilità di estrema valorizzazione dell’autonomia e delle opportunità degli individui, capaci di aprire loro inedite possibilità di interfacciarsi con contesti, realtà, paesi e individualità altre, a distanza di tempo gli entusiasmi per queste trasformazioni digitali sembrano essersi sgonfiati di fronte al manifestarsi di una crescente perdita di ciò a cui si guardava come direttamente rappresentativo della libertà e dell’autonomia dell’individuo. Se tale “cambio di umore” nei confronti della rivoluzione digitale è percepibile tra gli studiosi, non si può forse dire che qualcosa di analogo accada a livello diffuso o che, perlomeno sin qua, sia adeguatamente percepita e problematizzata la portata della trasformazione in atto.

L’obiettivo che si pone l’analisi di Garasic è quello di «integrare gradualmente l’analisi della tecnologia in maniera “neutra”, incentrata quindi su valutazioni oggettive di impatto e uso delle stesse, con la presa di coscienza di come questi cambiamenti sistematici abbiano finito per modificare il modo di relazionarsi con gli altri (la polis) e con sé stessi» (p. 26).

Dopo aver velocemente passato in rassegna le ideologie classiche a cui fa o ha fatto riferimento la politica moderna, compresa la più recente, lo studioso approfondisce il ruolo che algoritmi, tecnologie ed applicazioni quali robot, droni, 5G, Internet of Things, Blockchain, ecc., hanno ed avranno non solo sulle dinamiche lavorative e politiche, ma anche a livello etico e antropologico.

Garasic si sofferma, come esempio, sull’estensione , in piena emergenza pandemica, del “raggio d’azione” della app Dreamlab di Vodafone, sino ad allora utilizzata per raccogliere dati durante il sonno dei clienti affetti da cancro (che ne avevano dato i consenso) utili, se combinati con altri parametri comportamentali (stile di vita, sedentarietà, abitudini alimentari) alla ricerca scientifica.

Il rapido “riciclo” di una app, come questa, pianificata per raccogliere informazioni riguardanti individui in condizione di malattia al fine di verificare l’incidenza di certi comportamenti su di essa ad uno scopo di tipo “preventivo” – il diffondersi di un virus non ancora contratto – non può che sollevare numerose perplessità.

Volgiamo davvero consentire a qualsiasi azienda di iniziare a raccoglier i nostri dati solo perché potrebbero potarci a dei risultati utili in futuro? Che dire di tutti quei dati che le aziendale private raccolgono e utilizzano per il loro profitto? Non prestare attenzione a questa distanza inquietante tra ciò che già sappiamo e ciò che speriamo di trovare, potrebbe rendere il nostro consenso informato limitato sin dalla sua genesi. […] L’intento generale di Dreamlab e di altri progetti simili pare nobile da un certo punto di vista, ma, alla luce del fato che questa iniziativa è portata avanti da una società privata che si basa anche su studi di neuromarketing che hanno come obiettivo principale quello di scoprire le debolezze del consumatore, alcuni dubbi sull’obiettivo non svelato dell’esperimento (perché di questo si tratta) rimangono (p. 81).

Ad essere affrontate dal volume sono anche le cosiddette città intelligenti, a proposito delle quali l’autore mette in risalto come a fronte di una presentazione entusiastica che le vuole esempi virtuosi di ecologismo e, persino, di democrazia diretta, si diano, però, non poche preoccupazioni a proposito dell’annientamento della privacy, di un crescente divario digitale che rischia di condurre a far vivere la cittadinanza in maniera completamente differente e di discriminazioni derivanti dalla non neutralità della tecnologia. Su quanto il razzismo sia radicato in molte tecnologie, l’autore riprende il volume di Ruha Benjamin, Race After Technology: Abolitionist Tools for the New Jim Code ‎(Polity Pr, I. ed. 2019) – il “nuovo codice Jim” richiama le leggi razziste “Jim Crow” in uso fino agli anni Sessanta del Novecento negli Stati Uniti del Sud – in cui vine mostrato il razzismo soggiacente agli algoritmi utilizzati dalle autorità pubbliche statunitensi circa la “propensione al crimine”.

In particolare nel volume si prendono in esame, oltre al “sistema di credito sociale di stato” cinese, di cui i media occidentali hanno dato conto – più in funzione propagandistica che di reale denuncia di un meccanismo che in realtà si sta diffondendo anche tra gli autoproclamati “esportatori di democrazia” –, anche sistemi utilizzati da piattaforme come Alibaba che con il suo Sesame Credit struttura un sistema di “moralizzazione dei consumi” premiante permettendo, ad esempio, i clienti che acquistano con regolarità attrezzature sportive per tenersi in forma, con “crediti” vantaggiosi nel noleggio di automobili, nella prenotazione di alberghi e persino di ascesso privilegiato negli ospedali. «Per esempio in Giappone l’assicurazione sanitaria nazionale richiede alle persone di vedere uno specialista se il girovita supera determinati parametri mentre il punteggio della Fair Isaac Coroporation (FICO) con sede negli Stati uniti fornisce analisi di credit score (che permette l’accesso o meno a mutui, prestiti, e altro) a tantissimi paesi occidentali» (p. 96).

Il volume si sofferma anche sulla complessa relazione tra corpo, tecnologia e politica. Oltre all’indagato impatto di dispositivi tecnologici separati e indipendenti dall’individuo, è infatti importante analizzare situazioni in cui tale separazione si affievolisce comportando un’inedita, quanto marcata, incidenza non solo sulla concettualizzazione del sé ma anche del più generale sistema giudiziario e politico.

Si può prendere come esempio il ricorso agli esoscheletri sui luoghi di lavoro: se da un lato è indubbio che il ricorso a tali dispositivi può comportare reali benefici sulla salute dei lavoratori e delle lavoratrici, riducendo in parte i loro sforzi fisici, dall’altro, “quel che esce dalla porta può rientrare dalla finestra” sotto forma di incremento dei ritmi produttivi. Inoltre, se l’utilizzo di dispositivi tecnologici nell’accudimento degli anziani o dei malati può alleviare le fatiche fisiche del personale sanitario, dall’altro possono anche comportare una diminuzione dei rapporti umani tra i soggetti in causa, rendendo le cure e l’accudimento sempre più spersonalizzati.

La tecnologia tende ad essere piegata all’ossessione per la prestazione che permea la contemporaneità. «Dall’economia, all’educazione, passando per il mondo lavoro, il potenziamento del livello delle nostre attività è visto, in Occidente almeno, come un obiettivo positivo e ricercato» (p. 112). Esemplare in tal senso è la ricerca prestazionale in ambito militare e non solo a proposito di protesi tecnologiche volte al miglioramento ad esempio di visione aumentata1 ma anche al ricorso a farmaci di ogni tipo per il potenziamento performante – DDP, performance enhancing drugs – a cui sono stati sottoposti i soldati già ne corso della seconda guerra mondiale, poi gli statunitensi in Vietnam e ancora in epoca contemporanea, compresi i combattenti dell’ISIS.

Se in ambito militare il ricorso alle droghe si pone storicamente l’obiettivo di vincere la paura, sedare le truppe di ritorno dal campo di battaglia e vincere la fatica, in ambito civile è proprio a questo ultimo fine che vi viene fatto ricorso, ad esempio, in ambito aeronautico, vi si ricorre in sostanza per “far reggere” ai piloti i turni sempre più massacranti a cui sono sottoposti. Inoltre, sottolinea Garasic, se per quanto riguarda gli ambienti militari il ricorso a farmaci performanti tende ad essere giustificato in virtù della sua eccezionalità, nell’universo civile-lavorativo la motivazione risiede nel dover ottemperare quotidianamente – e non eccezionalmente – all’imperativo della prestazione produttiva finalizzata al profitto.

La portata dei cambiamenti sin qua tratteggiati comporta anche la necessità di confrontarsi con i nuovi diritti e doveri che attraversano la società contemporanea anche alla luce del fatto che «la possibilità di poter leggere il pensiero di qualcuno senza il suo consenso sta diventando ogni giorno una possibilità più concreta» (p. 28). Converrà tornare su questa ultima questione su cui si sofferma la parte finale di Leviatano 4.0.


Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche di sorveglianza


  1. Cfr. Ruggero Eugeni, Le negoziazioni del visibile. Visioni aumentate tra guerra, media e tecnologia, in Maurizio Guerri (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee, Meltemi, Milano, 2018. [Su Carmilla]

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La lunga notte del capitale: Leopardi, la natura e il senso ultimo della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2021/12/15/leopardi-la-natura-il-capitale-e-la-lotta-di-classe/ Wed, 15 Dec 2021 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69556 di Sandro Moiso

L’intervento seguente è dedicato a Emilio Scalzo, militante No Tav, e al coraggio e alla dignità con cui affronta una persecuzione poliziesca e giudiziaria che da sola basterebbe a dimostrare l’illusorietà di ogni promessa di giustizia e rispetto dei diritti in una società il cui ordinamento è rivolto soltanto all’accumulazione del capitale.

Per chiudere l’anno con una serie di considerazioni che possano servire ad inquadrare fatti recenti e pensieri lontani nel tormentato cammino della lotta contro l’attuale modo di produzione, occorre tornare ad uno scrittore ancora troppo poco compreso, sia dal dal punto di vista filosofico che [...]]]> di Sandro Moiso

L’intervento seguente è dedicato a Emilio Scalzo, militante No Tav, e al coraggio e alla dignità con cui affronta una persecuzione poliziesca e giudiziaria che da sola basterebbe a dimostrare l’illusorietà di ogni promessa di giustizia e rispetto dei diritti in una società il cui ordinamento è rivolto soltanto all’accumulazione del capitale.

Per chiudere l’anno con una serie di considerazioni che possano servire ad inquadrare fatti recenti e pensieri lontani nel tormentato cammino della lotta contro l’attuale modo di produzione, occorre tornare ad uno scrittore ancora troppo poco compreso, sia dal dal punto di vista filosofico che politico, nonostante il suo nome sia pur sempre considerato di grande rilevanza culturale: Giacomo Leopardi.

Un autore “classico” che, nonostante lo sforzo di aggiornamento fatto con il bel film del 2014 di Mario Martone e interpretato da Elio Germano, Il giovane meraviglioso, viene ancora troppo spesso definito semplicemente pessimista piuttosto che, come sarebbe più corretto, materialista.

Ma se qualcuno chiede cosa può ancora insegnarci, oggi, lo scrittore-filosofo di Recanati, la prima cosa che occorre sottolineare è l’atteggiamento che lo scrittore assunse nei confronti della Natura “matrigna”.
Stiamo attenti: matrigna e non nemica, una differenza non di poco conto, poiché nel primo caso si tratta di una madre acquisita che deve distrattamente occuparsi di creature non volute né, tanto meno, volutamente cercate; mentre nel secondo caso opererebbe per colpire volontariamente l’uomo, danneggiarlo, farlo soffrire di proposito e, soprattutto, con un cosciente e ben definito proposito.

Secondo Leopardi, se la Natura risulta nemica all’uomo questo è dovuto soltanto al carico di illusioni con cui l’Uomo interpreta la propria condizione esistenziale.
Ciò potrebbe sembrare un tema distante da quelli riguardanti la lotta di classe, eppure, eppure…

Pur facendo sua l’interpretazione poetico-romantica della Natura, in cui questa assume una posizione centrale nell’interpretazione simbolica del mondo e dei paesaggi interiori dell’individuo, Leopardi contribuisce a oggettivarne l’essenza reale in due tra le sue opere più significative: Dialogo della Natura e di un Islandese (1824), tratto dalle Operette Morali, e La Ginestra o il fiore del deserto (1836), tratta dai Canti e composta nel corso dell’ultimo anno di vita del poeta.

Nella prima delle due opere, di fronte alle lamentele avanzate sulla condizione umana dall’infelice Islandese, che è fuggito dall’ambiente aspro in cui è nato soltanto per finire tra le braccia della stessa Natura nel cuore dell’Africa, ove si è rifugiato, la Natura risponde, senza batter ciglio:

Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

E’ una risposta secca, priva di malevolenza, che indica esattamente la posizione che la “matrigna” ha riservato per la creatura anzi, meglio, per tutte le creature del cui destino non intende assolutamente farsi carico. Di cui, però, l’Islandese non si accontenta, poiché domanda ancora:

Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo?

Cui la Natura non può far altro che rispondere:

Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione.

L’indifferenza, la necessità della produzione e distruzione di ogni essere vivente e della materia stessa dominano la logica con cui il povero ed illuso Islandese deve fare i conti. Senza alcuna via d’uscita, come dimostra il finale dell’operetta.
Ancor più vasto è lo sguardo proposto nella Ginestra sulla condizione umana, ma in questo caso, poiché la visione leopardiana è maturata socialmente, all’interno della sua ultima poesia l’autore propone anche una possibile soluzione, senza chiedere alcunché alla matrigna.

Dopo aver descritto il paesaggio lunare e di rovina delle pendici del Vesuvio, su cui sorgevano un tempo le ville dei patrizi romani e pascolavano gli armenti, tutti e tutto spazzato via dall’eruzione del vulcano nel 79 d.C., l’autore dirige immediatamente i suoi strali contro le illusioni che gli uomini, e soprattutto i filosofi fiduciosi nel progresso del suo secolo, hanno contribuito a creare.

A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.

Per poi proseguire, con lo stesso tono:

Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
[…] Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci dié. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

L’idealismo del secolo sembra voler cacciare, agli occhi di Leopardi, il materialismo degli antichi, riscoperto nell’età della ragione, dall’orizzonte politico-culturale dell’epoca e nel fare ciò illude se stesso e gli uomini tutti di essere in possesso di conoscenze e abilità destinate a far affermare la volontà del singolo sulla Natura e su tutti coloro che allo stesso non vogliono piegarsi.

Superbo e sciocco, sogna e promette la Libertà, ma in realtà vuole solo allontanare da sé la paura di essere scoperto nella sua viltà e debolezza, schernendo e ignorando coloro che si oppongono alle sue vacue ed irrealizzabili promesse.

Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor […]
Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell’orror che primo
contro l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel c’ha in error la sede.

In quest’ultima parte il poeta delinea quale deve essere il compito di una nobile natura, ovvero quello di rivelare le superbe fole-menzogne che impediscono agli uomini di riunirsi in social catena per ridare vita alla comunità umana, sempre in lotta per evitare di essere dispersa in nome dell’egoismo individuale e dalla propria fragile condizione, nascoste sotto un mare di parole inneggianti (inutilmente e falsamente) alla possibilità, per la miriade di individui in cui la comunità è stata dispersa e frantumata, di raggiungere una personale libertà dal bisogno e dal legame sociale.

Lo sforzo di oggettivazione della Natura e della condizione umana svolto da Leopardi, in antitesi al vano ottimismo borghese, è di portata rivoluzionaria. Qui, in questi versi e nei brani estratti prima dal Dialogo della Natura e di un Islandese, si rivela il vero motivo per cui il poeta è stato relegato, ormai da quasi duecento anni, al ruolo di pessimista, ingobbito dallo studio e quasi accecato dalle letture notturne a lume di candela.

In effetti, di fronte alla menzogna dell’ottimismo capitalistico e borghese, ogni forma di materialismo antico, illuministico o dialettico, appare come una forma di pessimismo o di pensiero negativo. E, in tal senso, la negazione leopardiana della cultura vacua del suo secolo è quanto di più simile alla negazione dell’esistente che sarebbe esplosa nelle lotte di classe di quegli anni e nel passaggio dal socialismo utopistico a quello di Marx ed Engels (anche se scrisse quasi tutte le sue opere prima che Marx avesse raggiunto la maggior età, mentre il Manifesto del Partito Comunista sarebbe stato scritto nel 1848, undici anni dopo la sua morte).

Per questo motivo il suo messaggio, indirizzato per forza di cose ai posteri, ha “dovuto” essere distorto, anche in grazia di una filosofia e cultura cattolicheggiante con cui il filosofo e poeta di Recanati si trovò già in aperta polemica mentre era in vita. Riscoprirlo, pertanto, non significa far opera di restauro di un monumento poetico del passato, ma ritrovare alcuni passaggi fondamentali della critica dell’esistente.

Traslare il discorso leopardiano da quello oggettivante la Natura a quello sul capitalismo odierno significa, infatti, acquisire coscienza del fatto che la fiducia che sembra accompagnare ogni discorso sulla possibilità di miglioramento generalizzato dell’attuale sistema di sfruttamento e accumulazione delle ricchezze private assomiglia sempre più alle promesse del cristianesimo (di vita eterna nell’aldilà) e del positivismo borghese (di crescita illimitata dei benefici effetti dello sviluppo). Promesse che come solo intento hanno quello di far perdere di vista l’essenza ultima e reale dell’attuale modo di produzione dominante.

Sì, perché il capitalismo non ha due facce, una buona e una cattiva.
Anzi, il suo vero volto non corrisponde affatto a uno dei due aggettivi usati.
Come la Natura, il Capitalismo è indifferente alle sorti dell’uomo e del pianeta che abita e che ha contribuito a trasformare. Indifferente non soltanto alle sorti di coloro che subiscono le sue angherie e il suo sfruttamento, ma anche a quelle di coloro che agli occhi dei più sembrano essere i veri profittatori del suo funzionamento: gli imprenditori, i finanzieri, i rentier, i politici e i governanti di ogni grado, risma e latitudine. Null’altro che funzioni, ancor più che funzionari, destinati ad essere travolti anch’essi alla prima crisi economica oppure a causa di una guerra perduta o di un errato calcolo personale e/o politico.

Crisi, guerre, epidemie non sono il frutto di calcoli strategici ben o male eseguiti, di raffinati progetti o di un Great Complotto. No, sono i terremoti, le eruzioni vulcaniche, il manifestarsi dei movimenti geologici e profondi dell’enorme tettonica a zolle costituita dalla corsa continua, ed inesorabile (per nessun altro modo di produzione il detto chi si ferma è perduto è stato così vero) al profitto e alla concentrazione proprietaria. Fin dalle sue origini.

Solo in tal senso e alla luce di ciò è possibile comprendere come per il capitale e i suoi funzionari ogni occasione possa essere buona per estrarre pluslavoro, plusvalore e rendita. Le cieche ruote dell’oriuolo, oggi affiancate da ancor più ciechi algoritmi decisionali e profilativi, girano in una sola direzione, scandendo implacabilmente il tempo di rotazione del capitale, della produzione e se necessario della distruzione di ciò che è già stato prodotto o accumulato (insieme ai suoi momentanei detentori) e ad ogni scatto di lancetta qualcosa può e deve avvenire.

Come affermano Carla Filosa, Gianfranco Pala e Francesco Schettino nella Premessa al loro recente Crisi globale. Il capitalismo e la strutturale epidemia di sovrapproduzione (Lad, 2021), la “realtà” del capitale è indissolubilmente legata

al perseguimento del fine “miserabile” e contraddittorio della produzione di plusvalore, quale unico fine di questo sistema. La involontarietà poi, quella che invece viene moralisticamente scambiata per crudeltà od anche brutalità, sta a significare qui la incapacità, non individuale ma proprio del sistema, a far emergere una responsabilità umana cioè razionale delle azioni impiantate, unicamente soggette invece alle leggi di sviluppo precipue della produzione di merce in quanto valore, e indipendentemente dal valore d’uso, che viene così a costituire uno scarto da non considerare. Ѐ chiaro che i comportamenti individuali degli operatori possano essere repellenti od anche riprovevoli, ma il problema non concerne i molti singoli resi subalterni, bensì la centralizzazione sempre crescente del comando sulla forza-lavoro e la classe che ne gestisce il pluslavoro, secondo modalità, ritmi, efficienza, comportamenti indotti, anche valutabili come criminali e disumani.
[…] Se dunque l’accumulazione decresce anche per la saturazione dei mercati esistenti, si deve intensificare lo sfruttamento sia delle risorse inorganiche sia di quelle animali e umane, tutte eguagliate nell’unica accezione di merce, cioè veicolo di valore. Per promuovere inoltre tali condizioni che svelerebbero i fini indicibili del sistema, questo deve ammantarsi di rappresentazioni ideologiche rassicuranti in cui si proclamano ed esaltano benefici per tutti, nascondendo i danni che da questi si producono, finché non appaia la contraddizione reale, imponderabile o magari anche messa in conto, ma che non dovrà mai intaccare – al momento – i profitti attesi che si appelleranno all’“emergenza”.

E’ soltanto la lotta di classe ad inceppare talvolta il meccanismo ad orologeria di cui nessuno ha però le chiavi ultime. E il ruolo dei rivoluzionari non potrà mai essere quello dei “buoni” che combattono contro i “cattivi”, ma quello di essere “altri” , portatori di un altro paradigma: Alieni che, dopo migliaia di avvistamenti e dopo essere stati toppo spesso negati, demonizzati o ridicolizzati, si manifesteranno con tutta la potenza di una negazione radicale destinata, più che a migliorarlo e renderlo più umano, ad oggettivarlo completamente nel suo essere, per comprenderne a fondo le leggi di funzionamento, il suo corso catastrofico, e accompagnarlo così, nella maniera più rapida possibile, alla sua inevitabile fine.

Un compito non tanto diverso da quello che Keplero, Galileo, Newton e Einstein, insieme ad una miriade di altri scienziati meno noti, si diedero nel cercare di comprendere le leggi di quella Natura e di quell’Universo con cui la specie deve fare i conti fin dall’alba del suo apparire sul pianeta, e che Marx ha continuato in ambito sociale, senza mai pretendere che ogni scoperta o intuizione potesse essere l’ultima e definitiva1.

Mentre ogni piagnisteo sparso sull’autoritarismo, la repressione e il mancato rispetto dei diritti “fondamentali” non fa altro che rinnovare la credibilità delle promesse del capitale e del suo funzionariato economico, politico e culturale: democrazia rappresentativa parlamentare, libertà, uguaglianza e universalità dei diritti, diritto al lavoro, diritto alla salute, diritto alla vita e condanna della concorrenza “sleale” non costituiscono altro che specchietti per allodole. Anche se, poi, gli stessi creatori e manipolatori del meccanismo produttivo e riproduttivo hanno finito col credervi in prima persona.

«Finora – scriveva Marx in una lettera a Kugelmann del 27 luglio 1871- si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stata possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso, La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti una volta se ne potessero costruire in un secolo».
Secol superbo e sciocco… oggi oltre tutto rafforzato dal dilagare dei social e del loro sconsiderato uso individuale.

Rincorrere l’emergenza-capitale equivale, soltanto e sempre, a riproporre all’infinito la promessa del miglioramento universale insito nel discorso capitalistico, continuando l’esperienza della socialdemocrazia, e del revisionismo in essa insito, che uno dei suoi principali teorici, il tedesco Eduard Bernstein (1850 – 1932), riassunse in un unico principio: «il movimento è tutto, il fine nulla», poiché l’importante era costituito, a suo avviso, dall’iniziare a riformare e migliorare poco a poco il sistema. Discorso che è continuato fino ad oggi, inficiando di sé, purtroppo, anche tanto “antagonismo riformistico” attuale. Di cui le attuali suggestioni sul tema no green pass costituiscono, oggi, l’aspetto più contraddittorio.

Per contribuire al superamento della prassi e della mentalità immediatista e riformista, è necessario ribadire che la futura rivoluzione dovrà basarsi su un radicale rifiuto del paradigma capitalista ed esprimerne in pieno la negazione. Tema che però, riapre la vecchia diatriba con tutti coloro che ritengono che la semplice negazione dell’esistente non basti e occorra invece proporre iniziative da realizzare subito. Ovvero ancora la riforma dell’esistente per contribuire a mantenerlo ancora in vita.

E’ difficile, per coloro che sentono la necessità di “fare qualcosa subito”, comprendere come la negazione sia già di per sé nucleo programmatico. Se nego, a titolo di esempio, la merce e il denaro, la proprietà privata dei mezzi di produzione e il lavoro salariato già introduco, con il loro rovesciamento, il programma di una società altra. Se nego la necessità di continuare a cementificare e plastificare il mondo oppure quella di sviluppare ancor di più la produzione industriale di beni inutili e dannosi, pongo seriamente il tema della transizione ecologica e ambientale. Ma per realizzare tali programmi occorrerà passare attraverso un processo rivoluzionario che distrugga e non rovesci soltanto il paradigma capitalistico e i suoi apparati.

Certo ottenere qualche accordo locale, qualche diritto momentaneo (condito da qualche bella frase fatta) è più semplice. Così come ammantare i discorsi di contenuti politically correct o liberal; motivo per cui continua a trionfare, anche là dove meno lo si aspetterebbe, il conformismo, mentre sarebbe, invece, l’ora di affermare che «il movimento senza il fine non è nulla» e che separare l’azione politica dal fine non fa altro che indebolirla e annullarne l’utilità.

Certo, questa seconda ipotesi è più faticosa, meno immediata e meno soddisfacente sul piano dell’ego. Soprattutto, la negazione, obbliga a prendere atto che i settori che lottano non possono rivendicare soltanto per sé, come propri, i risultati acquisiti. E questa potrebbe nell’immediato rivelarsi un’amara sorpresa per coloro che rincorrono la faciloneria del risultato immediato.

Se gli uomini, come specie, devono riunirsi in social catena, non possono farlo in nome di uno specifico diritto, di classe, genere, generazionale, etnia o nazionalità. Banale errore in cui continuano a cadere tutti i rappresentanti di una singola causa, quasi sempre ritenuta universale, qualunque essa sia.

Errore fortemente rimarcato dal fallimento di tante (tutte?) rivoluzioni “nazionali” che, pur richiamandosi al socialismo sul modello sovietico-stalinista, non hanno fatto altro, in mancanza di un allargamento internazionale dei moti, che portare al potere una classe, un partito o una élite non tanto diversa da quella che governava in precedenza e che, come quella, ha finito col perseguire il proprio arricchimento o quello di una parte del capitale internazionale.

Insomma, se ho subito dei soprusi, violenze e discriminazioni oltre che lo sfruttamento economico e lavorativo da parte del sistema in cui vivo, non posso immaginare di ricreare un sistema a mia immagina e somiglianza che faccia poi pagare ad altri gli errori e i soprusi subiti in precedenza.

Per chiarirere ulteriormente il concetto: la classe operaia non dovrà riprodurre un mondo operaio, in cui le macchine e gli strumenti di produzione saranno esclusivamente nelle sue mani. Dovrà fracassare quel modello e quel sistema di produzione, per liberarsi e liberare la specie insieme a lei, negando, prima di tutto se stessa. Il proletariato nel suo insieme non potrà accontentarsi di riprodurre un mondo “proletario”, ma dovrà autodistruggersi, distruggendo il modo di produzione attuale, come affermano Marx ed Engels in un testo mai abbastanza apprezzato:

Proletariato e ricchezza sono termini opposti. Essi formano come tali un tutto. Essi sono entrambi forme del mondo della proprietà privata. Si tratta della determinata posizione che assumono nell’opposizione. Non basta spiegarli come due lati d’un tutto.
La proprietà privata, come proprietà privata, come ricchezza, è costretta a conservare in esistenza se stessa e con ciò il proletariato, cioè la propria antitesi. Essa è il polo positivo della contraddizione, la proprietà privata soddisfatta di se stessa.
Il proletariato, invece, come proletariato è costretto ad abolire se stesso, e con ciò la sua antitesi determinante, che lo muta in proletariato, cioè la proprietà privata. Esso è il polo negativo della opposizione, l’agitazione in sé, la proprietà privata dissolta e dissolventesi.
La classe possidente e la classe del proletariato esprimono la medesima “straniazione„ umana. Ma la prima classe si sente in questa straniazione a suo agio e confermata, intende la autoestraniazione come la propria forza, e possiede in essa l’apparenza di un’esistenza umana; la seconda si sente nella estraniazione annullata, scorge in essa la propria impotenza e la realtà di una esistenza inumana. Essa è, per adoperare una espressione di Hegel, “nell’abbiezione la rivolta contro l’abbiezione”, una rivolta alla quale è necessariamente condotta dalla contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita, che è la negazione aperta, decisiva e generale di questa natura.
Nel seno dunque della contraddizione il proprietario è il partito conservatore, il proletario è il partito distruttore. Da quello promana l’azione della conservazione dell’antitesi; da questo l’azione del suo annullamento.
La proprietà privata veramente nel suo movimento nazionale-economico tende da se stessa alla propria dissoluzione, ma solo attraverso uno sviluppo da essa indipendente, inconscio, che si pone contro la sua volontà, e che è determinato dalla natura delle cose, solo in quanto essa produce il proletariato come proletariato che sappia la miseria della sua miseria spirituale e fisica, sappia il suo abbrutimento, e perciò l’abbrutimento che tende ad abolire se stesso. Il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata fa pendere su se stessa con la produzione del proletariato, come esso esegue la condanna che il salariato fa pendere su di sé producendo la ricchezza degli altri e la propria miseria. Se il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo il lato assoluto della società, perché egli vince solo in quanto abolisce se stesso e il suo contrario. Allora è annullato, appunto, tanto il proletariato quanto l’antitesi che ne è condizione, la proprietà privata.
Se gli scrittori socialisti ascrivono al proletariato questa funzione storica mondiale, ciò non accade punto perché, come la Critica critica dà a credere, essi ritengano i proletari degli Dei. Piuttosto il contrario.
Il proletariato può e deve liberare se stesso perché l’astrazione di tutta la natura umana (Menschlichkeit), anche dell’apparenza di umanità (Menschlichkeit), nel proletariato vero e proprio praticamente è completa; perché nelle condizioni di vita del proletariato tutte le condizioni di esistenza dell’odierna società sono condensate nelle loro forme più inumane; perché l’uomo è perduto nello stesso, ma ha guadagnato nell’istesso tempo la coscienza teoretica di questa perdita, non solo ma è anche costretto immediatamente, dal bisogno assolutamente imperioso ed urgente ed implacabile – l’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità. Ma esso non può liberarsi senza abolire le sue proprie condizioni di esistenza. Esso non può abolire le sue proprie condizioni di vita senza abolire tutte le inumane condizioni di vita della società moderna che si compendiano nella sua situazione. Esso non prova invano la dura, ma ritemprante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario o anche tutto il proletariato si rappresenta provvisoriamente come scopo. Si tratta di ciò che è e di ciò che sarà costretto a fare storicamente conforme a questo essere.
Il suo scopo e la sua azione storica sono tracciati nella sua propria base di esistenza, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese, in modo evidente ed irrevocabile.2.

E’ importante, oggi come non mai, vista l’immensa ristrutturazione sociale in corso, legata all’impoverimento diffuso su scala globale, l’utilizzo del termine proletariato, perché al suo interno sono racchiuse e comprese tutte le contraddizioni reali; anche se il suo essere dovrà, per forza di cose, passare attraverso una riorganizzazione “politica” interna lunga e, probabilmente, dolorosa.

Infatti, ogni separazione identitaria mina, inevitabilmente, l’unità del colosso e se questa affermazione offenderà la sensibilità di alcuni o molti, pazienza, poiché nel suo essere proletariato lo stesso racchiude in sé tutte le forme dell’emarginazione, della repressione, dello sfruttamento e della discriminazione, che contribuiscono a trasformarlo nella classe universale destinata a seppellire il capitalismo, le sue malattie sociali e pandemiche, il suo Stato e i suoi infiniti ed iniqui apparati, in nome della Gemeinwesen o comunità umana.

La società presente in tutte le sue manifestazioni ha l’impronta dell’individualismo. Nonostante che le necessità della vita ed i mezzi di cui attualmente si dispone per soddisfarle (ossia i mezzi di produzione e di scambio) abbiano raggiunto tale stadio da rendere necessario una collaborazione sempre più intrecciata, la minoranza borghese ha interesse a conservare la costituzione individualistica della società, sebbene questa causi i disordini della produzione e l’insufficienza di questa ai bisogni della stragrande maggioranza (Marx).
L’egoismo economico produce una morale (intendiamo per morale un sistema di norme proposte o imposte dalla minoranza dominante), una morale di tipo egoista, tracciata di quell’umanitarismo e di quella filantropia che non sono che arti subdole per celarne la vera essenza, mezzi di difesa contro gli strappi che a quella morale tenta di fare la maggioranza oppressa.
Come la classe borghese vuole, per necessità della propria conservazione, il regime della libera concorrenza tra capitalisti, così avrebbe interesse a che la stessa concorrenza si svolgesse tra i salariati. Per quanto le è possibile la borghesia cerca quindi, col mezzo dell’educazione, che è suo monopolio, di riflettere sul proletariato la sua anima individualistica3.

Individualismo dei diritti e delle libertà singole che è prodotto, oltre tutto, dal sistema mercantile che è proprio del modo di produzione e distribuzione capitalistico e che illude costantemente i singoli proponendo loro, e sempre più oggi per mezzo della rete e dei suoi giganti, oggetti del desiderio indirizzati al soddisfacimento illusorio di ogni loro “specifico bisogno”. Come scriveva già Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844:

Nell’ambito della proprietà privata […] ogni uomo si ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità del denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza. […] La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato. Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l’estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava ingegnosa e sempre calcolatrice di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari.
[…] E’ così, come l’industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto sulla loro rozzezza: sulla loro rozzezza in quanto prodotta ad arte e di cui, pertanto, il vero godimento consiste nell’autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno4.

E’ dalla dipendenza dal denaro che nasce ogni altra dipendenza, è dall’estraniazione dalla specie che nasce ogni individualismo vagheggiante soluzioni personali per problemi che personali non sono affatto. Ed è dall’individualismo di stampo liberale, e dalla sua rivendicazione di un’impossibile privacy nell’era della pervasività dei social, che sorge ogni ulteriore alienazione dalle attività e dalle necessità della specie; ogni ulteriore, illusoria e menzognera spiegazione delle contraddizioni dell’esistente. Perché, in fin dei conti, complottismo e riformismo non sono altro che le due facce di una medesima, fasulla medaglia, che racchiudono entrambe la speranza di cambiare qualcosa, magari soltanto a vantaggio di pochi, affinché nulla cambi.

Con tutto ciò non si vuol affermare che momenti in cui lotte specifiche non possano rendersi necessari e inevitabili, e nemmeno che da tali lotte non possano sorgere movimenti più ampi e vasti, ma soltanto ribadire che il senso ultimo della lotta di classe non può essere riconducibile a specifici diritti, ma soltanto a quello di tutti gli oppressi di farla finita, una volta per tutte, con un modo di produzione iniquo, dannoso e superato. In nome di una Gemeinwesen che non rappresenta altro che la capacità di tornare a riunire la maggioranza dell’umanità nella social catena tanto cara a Leopardi.

Così mentre certuni si attardano a cercar di cavalcare tematiche irrimediabilmente azzoppate, dissertando ancora di diritti costituzionali e libertà individuali, questo intervento è anche dedicato a tutti coloro che, vittime delle stragi sul lavoro o dei licenziamenti dovuti alla delocalizzazione produttiva messa in atto dalle aziende, vivono davvero, quotidianamente e sulla propria pelle, la lunga “notte del capitale”.


  1. Per Marx stesso le riflessioni contenute nel Capitale non dovevano costituire l’immagine definitiva della realtà, ma un modello per meglio comprenderla e contribuire al suo ribaltamento rivoluzionario  

  2. K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, IV capitolo, Glossa critica marginale n. 2, 1844-1845  

  3. Amadeo Bordiga, La nostra missione, «L’Avanguardia» n. 273 del 2 febbraio 1913  

  4. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi 1968, pp. 127-134  

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Culture e pratiche di sorveglianza. Costruzione identitaria e privacy tra rassegnazione digitale e datificazione forzata https://www.carmillaonline.com/2021/12/03/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-costruzione-identitaria-e-privacy-tra-rassegnazione-digitale-e-datificazione-forzata/ Fri, 03 Dec 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69431 di Gioacchino Toni

Riferendosi all’età contemporanea, le scienze sociali tendono ad assegnare una certa importanza al ruolo dei social media nella “costruzione del sé”, nella “costruzione antropologica della persona”. Nel recente volume di Veronica Barassi, I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita (Luiss University Press, 2021) [su Carmilla], l’autrice evidenzia come, nell’era del capitalismo della sorveglianza, con la possibilità offerta dalle piattaforme digitali di raccontare storie personali negoziando la posizione che si occupa in società, sorgano alcune importanti questioni su cui vale la pena riflettere.

Innanzitutto si opera nell’impossibilità di controllare il contesto in cui le informazioni [...]]]> di Gioacchino Toni

Riferendosi all’età contemporanea, le scienze sociali tendono ad assegnare una certa importanza al ruolo dei social media nella “costruzione del sé”, nella “costruzione antropologica della persona”. Nel recente volume di Veronica Barassi, I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita (Luiss University Press, 2021) [su Carmilla], l’autrice evidenzia come, nell’era del capitalismo della sorveglianza, con la possibilità offerta dalle piattaforme digitali di raccontare storie personali negoziando la posizione che si occupa in società, sorgano alcune importanti questioni su cui vale la pena riflettere.

Innanzitutto si opera nell’impossibilità di controllare il contesto in cui le informazioni personali vengono condivise e ciò, sottolinea la studiosa, determina il collasso dell’integrità contestuale, dunque la perdita di controllo nella costruzione del sé in quanto non si padroneggiano più le modalità con cui ci si presenta in pubblico. Si tenga presente che alla creazione dell’identità online concorrono tanto atti coscienti (materiali caricati volontariamente) che pratiche reattive (like lasciati, commenti ecc.) spesso in assenza di un’adeguata riflessione.

Nel costruire la propria identità online si concorre anche alla costruzione di quella altrui, come avviene nello sharenting, ove i genitori, insieme alla propria, concorrono a costruire l’identità online dei figli persino da prima della loro nascita. In generale si può affermare che manchi il pieno controllo sulla costruzione della propria (e altrui) identità online visto che si opera in un contesto in cui ogni traccia digitale può essere utilizzata da sistemi di intelligenza artificiale e di analisi predittiva per giudicare gli individui sin dall’infanzia.

Se a partire dalla fine degli anni Ottanta la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia ha posto l’accento su come i bambini non debbano essere intesi come individui subordinati agli adulti e bisognosi di protezione ma piuttosto come soggetti autonomi dotati di specifici diritti, il capitalismo della sorveglianza [su Carmilla], evidenzia Barassi, li ha nei fatti privati della loro autonomia. Sia perché il “consenso dei genitori” diviene il grimaldello per trattare i loro dati che perché le loro tracce digitali sono prodotte, raccolte e condivise da altri soggetti ben al di là del consenso e del controllo genitoriale. Ciò avviene in svariati ambiti – istruzione, intrattenimento, salute… – e le tracce digitali dei bambini prodotte tanto da loro stessi quanto da altri [su Carmilla] vengono utilizzate per indagare i loro modelli comportamentali, per fare ipotesi circa le loro tendenze psicologiche e per costruire storie pubbliche relative alla loro identità.

Essendo che le tracce digitali hanno a che vedere con l’identità sociale, nell’era del capitalismo digitale, sostiene Barassi, i social media sono divenuti un terreno di conflitto e negoziazione per le famiglie. Insistere tuttavia quasi esclusivamente sulle responsabilità dei genitori smaniosi di condividere dati sui figli rischia di mettere in secondo piano le responsabilità delle multinazionali della raccolta-elaborazione dei dati. Piattaforme dedicate all’infanzia come Messanger Kids di Facebook condividono le informazioni raccolte con terzi e ciò avviene perché tutte le principali Big Tech stanno investendo parecchio nella profilazione dell’infanzia e lo stanno facendo davvero con ogni mezzo necessario aggirando facilmente le legislazioni in materia.

Sebbene a proposito dell’impatto dei social media sul benessere psicologico dei bambini vi siano posizioni differenti all’interno dell’ambito accademico, non è difficile immaginare come tali piattaforme possano perlomeno contribuire a rafforzare culture e stereotipi negativi. Alcuni studi hanno mostrato, ad esempio, come le bambine siano indotte a conformarsi a stereotipi sessualizzati al fine di essere accettate socialmente. Trattandosi di strumenti espressamente realizzati per facilitare la raccolta, il tracciamento e la cessione dei dati ad altri soggetti, non è difficile immaginare come tutto questo materiale raccolto ed elaborato possa incidere sulla vita degli individui.

In una società ad alto tasso di digitalizzazione sono molteplici le modalità con cui si raccolgono dati sui bambini. La studiosa mette in evidenza come dietro ad alcune pratiche, spesso fruite come del tutto innocue e non intrusive, si nascondano vere e proprie strategie di profilazione. Si pensi non solo ai dati raccolti sui bambini dalle piattaforme didattiche utilizzate nelle scuole, di cui non è affatto chiara la gestione da parte delle aziende fornitrici del “servizio”, al tracciamento facciale a cui sono sottoposti sin da piccoli negli aeroporti e persino all’ingresso di parchi giochi come Disneyland, ove vengono loro fotografati i volti all’ingresso motivando blandamente tale pratica, nei rarissimi casi in cui i genitori ne chiedano il motivo, come un’operazione volta alla sicurezza, come ad esempio facilitare il loro rinvenimento in caso di smarrimento. Sebbene cosa ne faccia il colosso Disney delle foto scattate ai volti dei bambini non è dato a sapere, certo è che si tratta di dati estremamente sensibili essendo la fotografia del volto a tutti gli effetti un dato biometrico unicamente riconducibile all’identità di un individuo al pari dell’impronta digitale e della voce.

Altri sistemi di profilazione con cui entrano in contatto facilmente i bambini sono i giochi scaricati sugli smartphone o su altri dispositivi – che in alcuni casi, nota la studiosa, questi continuano a carpire immagini tramite la la videocamera dell’apparecchio anche quando il gioco non è in funzione –, i dati raccolti da piattaforme di intrattenimento come Netflix che, non a caso, lavorano sulla creazione di profili ID univoci. Persino le ricerche effettuate dai genitori attraverso i motori di ricerca online a proposito di disturbi o malattie dei figli concorrono all’accumulo di dati sensibili utili alla costruzione della loro identità digitale sin da bambini.

Tutto ciò non può che porre importanti interrogativi circa il concetto di privacy tenendo presente come questo derivi da uno specifico contesto politico, sociale e culturale. Buona parte del dibattito attorno alla privacy rapportata alle nuove tecnologie ruota attorno all’idea di una necessaria e netta distinzione tra una sfera pubblica (visibile) e una privata (riservata). Se l’avvento dei social media, su cui si è indotti a esibire/condividere tutto di se stessi [su Carmilla], sembra annullare sempre più la distinzione tra pubblico e privato, conviene secondo Barassi soffermarsi sull’importanza di tale dicotomia in quanto «consente di capire la filosofia individualista – e problematica – che definisce l’approccio occidentale verso la privacy e la protezione dei dati» (p. 89). La dicotomia tra ciò che è pubblico e ciò che è privato nella cultura occidentale «suggerisce che c’è una chiara differenza tra la sfera collettiva e quella personale, tra Stato e individuo, tra ciò che è visibile e ciò che è segreto» (p. 89).

Il concetto di privacy occidentale ha le sue radici nell’idea che «che dobbiamo proteggere il nostro interesse personale e le nostre famiglie nucleari prima di pensare alla dimensione pubblica/collettiva» (p. 89). Ed è in tale filosofia individualista della privacy che secondo la studiosa si annida il vero problema:

rapportare il concetto di privacy a quello di interesse individuale porta sempre a una riduzione del suo valore una volta che la privacy viene posta di fronte all’interesse collettivo. Questo è chiaro se pensiamo ai dibattiti sul riconoscimento facciale, sul contact tracing o su altre tecnologie implementate in nome dell’interesse collettivo. Dall’altra parte, intendere la privacy come fenomeno individuale ci porta a cercare soprattutto soluzioni individualiste a problemi che sono invece di natura collettiva (p. 90).

Circa la privacy dei bambini, dall’indagine svolta da Barassi emerge con forza nei genitori una sorta di “rassegnazione digitale”, dettata dall’impressione di non aver altra scelta, di cui approfitta il capitalismo della sorveglianza che però, nota la studiosa, si avvale anche della “partecipazione digitale forzata”. I soggetti fornitori di servizi a cui ricorrono quotidianamente le famiglie, dai servizi sanitari alle istituzioni educative, sempre più si affidano alla raccolta e all’analisi dei dati personali.

È attraverso la partecipazione digitale forzata a una pluralità di istituzioni, private e non, che i bambini vengono datificati, ed è per questa ragione che dobbiamo andare oltre la privacy come interesse privato dei bambini per studiare invece cosa voglia dire crescere in una società dove siamo continuamente costretti ad accettare termini condizioni di utilizzo, e dove i dati dei nostri figli vengono raccolti e condivisi in modi che sfuggono alla nostra comprensione e la nostro controllo. Solo così riusciremo a fare luce sulle ingiustizie e sulle ineguaglianze della nostra società datificata, e sul fatto che il mondo in cui pensiamo al valore della privacy nella vita di tutti i giorni dipende spesso dalla nostra posizione sociale […] C’è qualcosa di profondamente ingiusto nel diverso impatto che queste trasformazioni hanno avuto sulle famiglie altamente istruite o ad alto reddito da un lato, e su quelle a basso reddito o meno istruite dall’altro (pp. 94-95).

La diseguaglianza sociale in effetti, sottolinea la studiosa, gioca un ruolo importante nelle modalità in cui viene vissuta e affrontata la datificazione a cui si è sottoposti quotidianamente. I sistemi automatizzati di intelligenza artificiale tendono ad amplificare tale ingiustizia. Nelle società a forte datificazione i dati raccolti ed elaborati finiscono per essere utilizzati per profilare e indirizzare le vite degli individui. Piuttosto che concentrarsi esclusivamente sul problema della privacy, occorrerebbe piuttosto indagare quanto «la sorveglianza digitale e la datificazione di massa [siano] strettamente interconnesse con la giustizia sociale» (p. 97).

Sebbene spesso si parli di profilazione riferendosi al ricorso a tecnologie e algoritmi per l’analisi predittiva, in realtà, sottolinea Barassi, si tratta innanzitutto di «un processo antropologico che si estende oltre il mondo digitale e che ha a che vedere con la classificazione e la creazione di categorie, di raggruppare persone, animali, piante e cibi sulla base delle loro similitudini e differenze. È attraverso la creazione di categorie che definiamo le regole sociali» (p. 103). Tale pratica viene utilizzata anche per identificare il rischio. «Nella società moderna la profilazione è anche storicizzatone connessa al controllo della popolazione e all’oppressione razziale e sociale» (p. 103). La profilazione ha finito per far parte della vita quotidiana tanto nel farvi ricorso quanto nell’esservi sottoposti [su Carmilla]; «la profilazione è per definizione una pratica di correlazione di dati che serve per formare un giudizio» (p. 104).

Sebbene la profilazione sia un fenomeno sociale, antropologico e personale in atto ben da prima della trasformazione digitale, è nel passaggio di millennio che si determinano cambiamenti sostanziali: l’avvento di nuove tecnologie ha comportato tanto un aumento spropositato della quantità di informazioni personali che possono essere raccolte e intrecciate, quanto di strumenti utili a ottenerle al fine di realizzare profilazioni sempre più sofisticate. Nel saggio Big Other: Surveillance Capitalism and the Prospects of an Information CIvilization (2015) pubblicato sul “Journal of Informatin Technology” (30 gennaio 2015), Shoshana Zuboff ha spiegato come a suo avviso sia più efficace indicare tale contesto come “Big Other”, piuttosto che “Big Data”, in quanto tale dicitura rende meglio l’idea dell’architettura globale – composta da computer, network, sistema di accordi e relazioni… – di cui si avvale il capitalismo della sorveglianza nello scambiare, vendere e rivendere i dati personali.

Barassi evidenzia come un ruolo centrale all’interno di tale Big Other sia svolto dai “data broker”, aziende che raccolgono informazioni personali sui consumatori, le aggregano sotto forma di profili digitali per poi venderli a terzi. La raccolta di dati avviene sia dai registri pubblici che dalle piattaforme digitali e dalle ricerche di mercato, oltre che acquistandole dalle aziende che gestiscono app e social media. Un data broker può identificare, ad esempio, un individuo anche in base al suo aver manifestato interesse all’argomento diabete non solo per vendere l’informazione a produttori di alimenti senza zucchero, ma anche alle assicurazioni che, in base a ciò, lo classificheranno come “individuo a rischio” alzando il prezzo della sua polizza. Analogamente gli individui vengono profilati sulla base del reddito, dello stile di vita, dell’etnia, della religione, dell’essere o meno socievoli o introversi e così via agendo di conseguenza nei loro confronti. La raccolta di questi dati avviene in un regime da Far West a partire dalla più tenera età così da poter aggiornare costantemente e affinare il profilo individuale.

La studiosa sottolinea anche come i dati raccolti dalle Big Tech in ambito domestico non siano soltanto personali/individuali ma raccontino anche la famiglia intesa come gruppo sociale a partire dai contesti socioeconomici, valoriali e comportamentali e tutto ciò può condurre a gravi forme di discriminazione. Un’inchiesta di ProPublica, organizzazione no-profit statunitense, ha rivelato come Facebook consentisse pubblicità mirate discriminatorie rivolte alle sole “famiglie bianche”. Barassi sottolinea come tali meccanismi possano imprigionare i bambini in stereotipi discriminatori e riduzionisti limitandone la mobilità sociale; si rischia di divenire sempre più prigionieri delle classificazioni assegnate al proprio profilo digitale.

Dal 2019 Amazon raccoglie informazioni fisiche ed emotive degli utenti attraverso la profilazione della voce, mentre Google ed Apple stanno lavorando da tempo a sensori in grado di monitorare gli stati emotivi degli individui e tutti questi dati vanno ad aggiungersi a quelli raccolti a scopo di profilazione quando si cercano informazioni sulla salute su un motore di ricerca. Come non bastasse, le Big Tech affiancano alla raccolta dati sulla salute ingenti investimenti nell’ambito dei sistemi sanitari. Qualcosa di analogo avviene nel sistema scolastico-educativo ed anche in questo caso le grandi corporation tecnologiche hanno saputo approfittare dell’emergenza sanitaria per spingere sull’acceleratore della loro entrata in pompa magna nel sistema dell’istruzione.

I media occidentali da qualche tempo danno notizia con un certo allarmismo del sofisticato sistema di sorveglianza di massa e di analisi dei dati raccolti sui singoli individui e sulle aziende messo a punto dal governo cinese tra il 2014 e il 2020 al fine di assegnare un punteggio di “affidabilità” fiscale e civica in base al quale gratificare o punire i soggetti attraverso agevolazioni o restrizioni in base al rating conseguito. All’interesse per il sistema di sorveglianza cinese non sembra però corrispondere altrettanta attenzione a proposito di ciò che accade nei paesi occidentali, ove da qualche decennio «governi e forze dell’ordine stanno utilizzando i sistemi IA per profilarci, giudicarci e determinare i nostri diritti» (p. 122), impattando in maniera importante soprattutto sul futuro delle generazioni più giovani.

Sebbene non sia certo una novità il fatto che governi e istituzioni raccolgano dati o sorveglino i comportamenti dei cittadini, la società moderna ha indubbiamente “razionalizzato” tale pratica soprattutto in funzione efficientista-produttivista rafforzando insieme alla burocrazia statale gli interessi aziendali. In apertura del nuovo millennio, scrive Barassi, anche sfruttando l’allarmismo post attentati terroristici che hanno colpito gli Stati Uniti e l’Europa, molti governi hanno iniziato ad integrare le tecnologie di sorveglianza quotidiana dei dati con i sistemi di identificazione e autenticazione degli individui.

Alcuni studi hanno dimostrato come le pratiche di profilazione digitale messe in atto in diversi paesi, oltre ad essere discriminatorie, minino alle fondamenta i sistemi legali in quanto determinano in segreto quanto un cittadino sia da considerare “un rischio” per la società senza concedergli la possibilità di usufruire di un’adeguata tutela legale. Altro che “giusto processo”; soprattutto grazie alle leggi anti-terrorismo emanate dopo l’11 settembre 2001 ci si può ritrovare “condannati” senza nemmeno conoscerne il motivo.

Barassi riporta il caso della Palantir Technologies, vero e proprio colosso privato della sorveglianza e profilazione dei cittadini, capace di offrire servizi di raccolta e analisi dei dati ai governi e alle aziende private soprattutto occidentali. Ai sevizi di tale azienda, creata nel 2003, ricorrono le principali agenzie governative statunitensi (dall’FBI alla CIA, dal’Immigration and Customs Enforcement al Department of Homeland Security ed al Department of Justice). Attiva in oltre 150 paesi nel 2010, la Palantir Technologies ha saputo sfruttare abilmente l’attuale pandemia per diffondere i sui servizi in Europa.

La profilazione digitale dei cittadini si rivela strategica per molti paesi occidentali in cui istituzioni governative e apparati di polizia ricorrono sempre più a sistemi di IA, il più delle volte gestiti direttamente da aziende private, per prendere decisioni importanti sulla vita dei cittadini. Barassi sottolinea anche come numerosi studi abbiano dimostrato come le tecniche per il riconoscimento facciale, ad esempio, siano tutt’altro che attendibili e come le stesse tecnologie per l’analisi predittiva, oltre che non affidabili, tendano ad amplificare i pregiudizi e ad alimentare la diseguaglianza sociale. Una ricerca del 2019 pubblicata su “Science”, ad esempio, ha rivelato come il sistema sanitario statunitense ricorra ad algoritmi razzisti nel prendere decisioni in merito alla salute pubblica.

«Nell’era de capitalismo della sorveglianza non esistono più dati “innocui”, perché i dati che offriamo come consumatori molto spesso vengono utilizzati per determinare i nostri diritti di cittadini» (p. 133). Il software CLEAR, ad esempio, attinge dati di oltre 400 milioni di consumatori da un’ottantina di società che si occupano di bollette domestiche di vario tipo per poi rivenderli ad istituzioni governative che si occupano di frode fiscale e sanitaria, di immigrazione e riciclaggio di denaro o di prendere decisioni relative all’affidamento di bambini. «Senza che se ne rendano conto, i dati che gli utenti […] producono in qualità di consumatori domestici possono venire incrociati, condivisi e utilizzati per investigazioni federali» (p. 134). Altro inquietante caso riportato da Barassi riguarda Clearview AI, società produttrice di software per il riconoscimento facciale. Un inchiesta del “New York Times” del 2020 ha evidenziato come in alcune giurisdizioni statunitensi le forze di polizia utilizzassero tale software per confrontare le fotografie di individui ritenuti sospetti con gli oltre tre miliardi di immagini presenti online, soprattutto sui social.

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È di questi giorni la notizia delle sanzioni comminate in Italia dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato a due tra le maggiori Big Tech

Tra gli utenti di Apple e Google e le due aziende esiste “un rapporto di consumo, anche in assenza di esborso monetario“. Perché “la controprestazione”, cioè il pagamento, “è rappresentata dai dati che essi cedono utilizzando i servizi di Google e di Apple”. È con questa premessa che l’Antitrust ha multato i due gruppi per un totale di 20 milioni di euro – 10 ciascuno, il massimo edittale – per due violazioni del Codice del Consumo, una per carenze informative e un’altra per pratiche aggressive legate all’acquisizione e all’utilizzo dei dati dei consumatori a fini commerciali (Apple e Google, multa Antitrust da 20 milioni: “Informazioni carenti sull’uso dei dati personali degli utenti e pratiche aggressive”, “Il Fatto Quotidiano”, 26 novembre 2021.

Nel Comunicato stampa emesso dall’AGCM il 26 novembre 2021 viene evidenziato come nella fase di creazione dell’account, Google «l’accettazione da parte dell’utente al trasferimento e/o all’utilizzo dei propri dati per fini commerciali» risulti pre-impostata consentendo così «il trasferimento e l’uso dei dati da parte di Google, una volta che questi vengano generati, senza la necessità di altri passaggi in cui l’utente possa di volta in volta confermare o modificare la scelta pre-impostata dall’azienda». Nel caso di Apple, prosegue il Comunicato stampa, l’architettura di acquisizione «non rende possibile l’esercizio della propria volontà sull’utilizzo a fini commerciali dei propri dati. Dunque, il consumatore viene condizionato nella scelta di consumo e subisce la cessione delle informazioni personali, di cui Apple può disporre per le proprie finalità promozionali effettuate in modalità diverse». Nel dettaglio si vedano: Testo del provvedimento GoogleTesto del provvedimento Apple

Alla luce di quanto detto in precedenza, è difficile immaginare che tutti questi dati sugli utenti raccolti subdolamente, legalmente o meno, vengano sfruttati “solo” a livello commerciale. Intanto si accumulano, poi potranno essere messi sul mercato ed essere elaborati e utilizzati per gli scopi più diversi.

È il capitalismo della sorveglianza, bellezza. E tu non ci puoi far niente! Se ci si deve per forza rassegnare a tale ennesimo adagio impotente, occorrerebbe allora riprendere anche l’efficace titolo di un recente film italiano: E noi come stronzi rimanemmo a guardare (2021, di Pierfrancesco Diliberto “Pif”).


Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche della sorveglianza

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Culture e pratiche di sorveglianza. Tracciati e profilati fin da prima della nascita https://www.carmillaonline.com/2021/11/25/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-tracciati-e-profilati-fin-da-prima-della-nascita/ Thu, 25 Nov 2021 21:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69175 di Gioacchino Toni

«Dal momento in cui i bambini vengono concepiti, le loro informazioni mediche sono spesso condivise su app di gravidanza o sui social media, e dopo essere venuti al mondo tutti i loro dati sanitari e educativi vengono digitalizzati, archiviati e molto spesso gestiti da società private. A man mano che crescono, ogni istante della loro vita quotidiana viene monitorato e trasformato in un dato digitale […] I dati dei nostri bambini vengono aggregati, scambiati, venduti e trasformati in profili digitali, e verranno sempre più utilizzati per giudicarli e per decidere [...]]]> di Gioacchino Toni

«Dal momento in cui i bambini vengono concepiti, le loro informazioni mediche sono spesso condivise su app di gravidanza o sui social media, e dopo essere venuti al mondo tutti i loro dati sanitari e educativi vengono digitalizzati, archiviati e molto spesso gestiti da società private. A man mano che crescono, ogni istante della loro vita quotidiana viene monitorato e trasformato in un dato digitale […] I dati dei nostri bambini vengono aggregati, scambiati, venduti e trasformati in profili digitali, e verranno sempre più utilizzati per giudicarli e per decidere aspetti fondamentali della loro vita» (p. 10)

Così scrive Veronica Barassi nell’ambito di una  sua ricerca, pubblicata originariamente da MIT Press in lingua inglese, volta ad approfondire come la trasformazione digitale in atto, grazie anche all’apporto degli sviluppi dell’intelligenza artificiale, stia conducendo alla datificazione di ogni traccia lasciata dall’individuo sin da prima della sua nascita. Per comprendere meglio la portata di tale trasformazione secondo la studiosa conviene concentrarsi sulla prima generazione che ha subito il processo di datificazione digitale sin da prima di venire al mondo. Tale ricerca è stata tradotta e pubblicata in italiano nel volume da poco disponibile in libreria: Veronica Barassi, I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita (Luiss University Press, 2021).

Se è difficile individuare un momento preciso in cui tutto ciò ha preso il via, secondo l’autrice si possono tuttavia individuare due momenti chiave che hanno permesso l’avvio di tale processo. Un primo momento può essere individuato nella svolta neoliberista thatcher-reaganiana a cavallo tra anni Settanta e Ottanta nel suo porsi alla base di quei processi di globalizzazione che, con le relative ricadute economiche, politiche e sociali, hanno fatto da premessa al secondo fenomeno che ha determinato la trasformazione di cui si sta parlando, ossia la nascita negli anni Novanta di quel capitalismo della sorveglianza di cui ormai si palesano gli effetti in termini di controllo e sfruttamento [su Carmilla].

Nonostante le tecnologie Internet siano nate nel corso degli anni Settanta da reti militari, universitarie, scientifiche, ludiche e alternative, il vero e proprio punto di svolta è riconducibile all’avvento del World Wide Web a metà anni Novanta che ha radicalmente cambiato e influenzato il modo di organizzare e rendere accessibili le informazioni in rete. È tale trasformazione ad aver permesso la nascita di quel capitalismo digitale che, con lo spostamento della produzione industriale nei paesi con un costo della forza lavoro più contenuto, ha dato vita nei paesi tecnologicamente più avanzati a un’economia sempre più incentrata sul marketing, sulla pubblicità e sulla distribuzione supportata da una sempre più marcata flessibilità dei rapporti di lavoro e da un’evidente erosione della distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero.

Nonostante gli intenti utopistici che avevano accompagnato la nascita del web, il processo di privatizzazione non ha tardato ad arrivare sotto forma di browser e business dot.com. È dall’implosione di tale economia, naufragata con la bolla speculativa al passaggio di millennio, che è nato il web 2.0 costruito sulla partecipazione attiva degli utenti; non a caso le prime grandi piattaforme 2.0 sono state i social media (Facebook dal 2004, YouTube dal 2005, Twitter dal 2006 ecc.) e a tali standard si sono presto adeguate le piattaforme tradizionali di Google e Amazon a cui si sono poi aggiunte Airbnb (dal 2007) [su Carmilla] e Uber (dal 2009).

Sebbene a ridosso del passaggio tra primo e secondo decennio del nuovo millennio le piattaforme social hanno oggettivamente svolto un ruolo importante nel supportare numerose proteste, l’entusiasmo nei confronti delle nuove tecnologie della connettività ha dovuto fare i conti con il palesarsi del loro operare nella raccolta e nello sfruttamento dei dati personali che con la l’inadeguatezza di queste allo sviluppo duraturo di esperienze di antagonismo sociale [su Carmilla].

Se il web 2.0 ha permesso la raccolta di una quantità di dati prima inimmaginabile, occorre sottolineare come parallelamente a tutto ciò siano avanzate le ricerche nell’ambito dell’intelligenza artificiale ed è dall’intrecciarsi di questi due ambiti che è scaturita quella vera e propria riformulazione della vita quotidiana di cui forse soltanto ora ci si accorge, anche alla luce dell’emergenza pandemica.

Non è azzardato affermare che per il capitalismo della sorveglianza Google ha avuto un ruolo non dissimile da quello esercitato dalla Ford Motor Company e dalla General Motors nello sviluppo del capitalismo industriale [su Carmilla] ed è proprio attraverso colossi come Google che si è diffusa l’analisi predittiva in tutti gli ambiti dell’esistenza; dalle scuole alle banche, dalle assicurazioni alle agenzie interinali, dall’assistenza sociale agli apparati di polizia.

Nell’era del capitalismo della sorveglianza non c’è più confine tra i dati del consumatore, raccolti per proporre pubblicità personalizzate, e i dati del cittadino, raccolti per decidere se possiamo avere accesso o meno a determinati diritti […] Il Capitalismo della sorveglianza ci sta trasformando tutti in cittadini datificati e se davvero vogliamo capire questa trasformazione dobbiamo concentrarci sui bambini nati nell’ultima decade: la prima generazione datificata fin da prima della nascita (p. 19).

È pertanto sui nativi datificati che si concentra la ricerca di Veronica Barassi. Sui bambini datificati cioè sin da prima di nascere anche a causa della condotta dei genitori che condividono sui social informazioni circa il futuro nascituro, dai resoconti sull’attesa alle loro ecografie, proseguendo poi, una volta venuti al mondo, con la diffusione di immagini e racconti dettagliati dei loro istanti di vita quotidiana a cui si aggiungono i dati raccolti dalle tante app utilizzate dai genitori per monitorare la salute e la crescita dei bambini e dalle apparecchiature smart sempre più diffuse all’interno delle abitazioni [su Carmilla]. Poi il profilo dei bambini sarà aggiornato delle piattaforme educative e da tutto l’armamentario di cui dispone il capitalismo della sorveglianza.

In particolare la studiosa si sofferma su quattro tipologie principali di raccolta dati relativi ai bambini: quelli raccolti dagli “assistenti virtuali” presenti nelle abitazioni in cui vivono; quelli immagazzinati dalle scuole attraverso le piattaforme educative on line; quelli relativi alla salute aggregati tanto attraverso app private quanto attraverso l’informatizzazione del sistema sanitario pubblico; quelli raccolti dai social media. Risulta pertanto palese la volontà delle Big Tech di raccogliere il maggior numero di dati personali per poterli aggregare in profili digitali riconducibili a singoli individui attraverso sistemi, anche biomedici, di identificazione e profilazione.

La recente pandemia, ricorda Barassi, ha di certo spinto sull’acceleratore del capitalismo della sorveglianza già in atto, palesando il livello di dipendenza dalle tecnologie digitali e la sempre più difficile distinguibilità tra ambiti privati e pubblici e tra tempi e spazi lavorativi e ricreativi.

Se il tracciamento medico del nascituro non è una novità, scrive Barassi, esistono però almeno due grandi differenze rispetto al passato: un’inedita possibilità di concentrazione dei dati raccolti dalle famiglie (informazioni mediche, psicologiche e relative alla routine quotidiana, agli stili di vita e di consumo ecc.) e un’altrettanto inedita diffusione di tali dati attraverso condivisioni su app e social con ciò che ne consegue in termini di profilazione aziendale. Non a caso, come ha esplicitato l’ONG Electronic Frontier Foundation nel report di Quintin Cooper, The Pregnancy Panopticon (2017), Facebook e Google stanno investendo sulla compravendita dei dati raccolti delle app che accompagnano la gravidanza.

In generale, sostiene Barassi, le Big Tech, oltre a raccogliere dati da terzi, stanno investendo in settori pubblici come la salute e l’educazione (es. Google for Education, che la recente emergenza pandemica ha enormemente contribuito a diffondere anche nel sistema educativo italiano). Sebbene negli USA e in Europa vi siano leggi che proibiscono alle aziende private di vendere a terzi dati raccolti nell’ambito dell’educazione, non è poi così difficile per tali piattaforme aggirare i vincoli legislativi e aggregare i dati sotto un unico profilo ID in grado di seguire l’individuo lungo la sua intera esistenza.

Una ricerca del 2019 pubblicata dal “British Medical Journal” ha mostrato come buona parte delle app relative alla salute condividano i dati raccolti con fornitori di servizi che a loro volta li girano soprattutto a società di ambito tecnologico, pubblicitario e persino ad agenzie di credito: anche i dati raccolti prima della nascita possono concorrere all’ottenimento o meno di un credito in età adulta.

Circa i motivi che spingono tante famiglie a ricorrere a tali app di tracciamento, le interviste sul campo condotte da Veronica Barassi indicano come l’entusiasmo per tali applicazioni derivi soprattutto dalla sensazione di sicurezza e controllo che esse sembrano offrire. Il fenomeno del sharenting, ossia l’ossessione dei genitori di condividere sui social informazioni relative ai figli, spiega la studiosa, sembra derivare dal tentativo di sconfiggere tutte quelle ansie e quelle paure che si proiettano sull’essere genitori per la prima volta attraverso la creazione di un’identità digitale dei figli il più possibile idilliaca. Durante l’inchiesta è emerso come le medesime motivazioni di controllo e sicurezza siano alla base anche del ricorso volontario a tecnologie di tracciamento reciproco, ad esempio tramite smartphone, tra i genitori.

Alla luce dell’incremento esponenziale nell’ultimo decennio di tecnologie di intelligenza artificiale tra le pareti di casa, Barassi invita a chiedersi quale tipo di valori culturali questi dispositivi incorporino e come vengano trasmessi. «Cosa vuol dire far crescere i nostri figli con dispositivi di intelligenza artificiale che insegnano loro a relazionarsi con un oggetto come se fosse una quasi-persona? Che tipo di dati vengono raccolti da queste tecnologie e che impatto hanno sulla privacy dei nostri figli?» (p. 46).

L’idea di intelligenza artificiale, ricorda la studiosa, è nata negli anni Cinquanta del Novecento con riferimento alla possibilità di far eseguire alle macchine cose che necessiterebbero dell’intelligenza umana. Oggi si tende a parlare di intelligenza artificiale tanto in maniera “hollywoodiana” (che la vuole dotata di coscienza e autonomia, in grado di provare emozioni e ingannare l’essere umano), quanto rapportandola all’apprendimento automatico da dati esistenti, alle reti neurali e all’analisi predittiva, cioè a tutto ciò che sta realmente trasformando la realtà quotidiana. «Se davvero vogliamo capire il ruolo dell’intelligenza artificiale nelle nostre case dobbiamo cominciare proprio dalle sensazioni e dalle emozioni che proviamo quando interagiamo con “macchine intelligenti”, e da come molto spesso le nostre interazioni con queste tecnologie siano definite dall’illusione dell’intimità artificiale» (p. 52).

Diverse ricerche sul campo hanno dimostrato come gli individui si relazionino con queste tecnologie come se si trovassero di fronte a esseri umani (ad es. vi si rivolgono con forme di cortesia del tipo “per favore”, “grazie” ecc.) e si rapportano con gli “assistenti virtuali” avendo la sensazione di dialogare confidenzialmente con una persona amica. Sebbene tale sensazione venga maggiormente percepita confrontandosi con robot antropomorfici, è comunque bene presente anche nel rapporto con gli assistenti virtuali con cui sono possibili soltanto forme di interazione vocale.

A partire da tali premesse diviene importante chiedersi che tipo di relazione strutturino i bambini con agenti dotati di intelligenza artificiale. Sebbene non vi sono al momento risposte univoche da parte degli studiosi a proposito del tipo di interazione che i bambini sviluppano con l’intelligenza artificiale, quanto il rapporto possa divenire intimo e personale, di certo però occorre non dimenticare che tali tecnologie domestiche sono pianificate con preconcetti culturali e sociali, dunque è importante domandarsi quale tipo di valori trasmettano ai bambini. Di certo Alexa e Google Assistant sono progettati per incentivare e facilitare il consumo, ma quali preconcetti culturali trasmettono? La scelta della voce femminile in molto tecnologie smart, ad esempio, rafforza il pregiudizio culturale che vuole la donna “assistente” e “servizievole”.

Uno dei casi che più hanno fatto discutere, e su cui si sofferma l’autrice, riguarda Hello Barbie: una bambola rivelatasi in grado di registrare le conversazioni casalinghe per la profilazione dei bambini e dei famigliari. Non meno inquietante è stato l’uso e lo stoccaggio da parte di Amazon dei dati raccolti dai bambini attraverso Echo Dot Kids. Al di là dei prodotti appositamente realizzati per raccogliere dati sui bambini, occorre tener presente anche il rapportarsi di questi ultimi con tecnologie domotiche presenti nelle abitazioni – la studiosa ha in particolare monitorato l’uso di Amazon, Google, Apple e Samsung – che hanno accesso a informazioni relative al contesto socio-economico e agli aspetti valoriali e comportamentali della famiglia. Si tratta di raccolte che avvengono sempre più anche sfruttando la ricognizione vocale.

Un’impronta vocale è esattamente come un’impronta digitale, è un dato biometrico che può essere facilmente associato all’individuo. Questo significa che le aziende che raccolgono i dati dalle nostre case possono integrarli con informazioni biometriche da utilizzare per la creazione di profili ID unici che […] possono essere utilizzati per trarre una varietà di conclusioni sensibili sull’individuo: dal contesto socio-economico in cui vive al suo stato di salute mentale (p. 61).

Oltre a soffermarsi sull’inchiesta del 2019 condotta dalla tv belga VRT NWS venuta in possesso di un migliaio di registrazioni di Google Assistant che includevano conversazioni in camera da letto registrate senza che fosse stato pronunciato “Hey Google”, dunque all’insaputa degli utenti, Barassi riporta le inquietanti ammissioni di un impiegato di Apple rilasciate all’inglese “Guardian” nel 2020 a proposito della pratica diffusa in azienda di far ascoltare ai dipendenti le registrazioni di Siri.

Negli Stati Uniti vi sono già stati diversi casi in cui le registrazioni ottenute tramite Alexa sono state utilizzate in tribunale mentre il “Washington Post” ha ricostruito come l’Immigration and Customs Enforcement (la polizia di controllo dell’immigrazione) si avvalga del database CLEAR di proprietà di una multinazionale canadese contenente oltre 400 milioni di nominativi, indirizzi e dati vari raccolti da un’ottantina di aziende che si occupano di utenze domestiche, internet, telefonia ecc.

Il volume I figli dell’algoritmo di Veronica Barassi dedica uno spazio importante anche al ruolo dei social media nella costruzione contemporanea del sé e alla questione della privacy mettendo in luce, in quest’ultimo caso, come tale concetto sia contingente al contesto politico, sociale e culturale e come il grande limite del concetto di privacy in Occidente derivi dall’essere inteso come fenomeno individuale che induce a cercare soluzioni individualiste a problematiche in realtà di natura collettiva. Occorrerà tornare su questi ultimi aspetti affrontati dalla studiosa.


Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche della sorveglianza

 

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Culture e pratiche di sorveglianza. Internet in ogni cosa https://www.carmillaonline.com/2021/09/16/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-internet-in-ogni-cosa/ Thu, 16 Sep 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68144 di Gioacchino Toni

«La trasformazione di Internet da rete di comunicazione tra persone a rete di controllo, incorporata direttamente nel mondo fisico, potrebbe essere ancora più significativa del passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione digitale»1. Così si esprime Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi (Luiss University Press, Roma 2021), a proposito della portata della funzione di controllo permessa dalla connessione alla [...]]]> di Gioacchino Toni

«La trasformazione di Internet da rete di comunicazione tra persone a rete di controllo, incorporata direttamente nel mondo fisico, potrebbe essere ancora più significativa del passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione digitale»1. Così si esprime Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi (Luiss University Press, Roma 2021), a proposito della portata della funzione di controllo permessa dalla connessione alla rete di oggetti e sistemi al di fuori dagli schermi come veicoli per la mobilità, dispositivi indossabili, droni, macchinari industriali, elettrodomestici, attrezzature mediche ecc… Oltre che con le sofisticate forme di controllo esercitate dalle piattaforme di condivisione di contenuti in rete, ad introdursi nell’intimità degli individui concorrono sempre più oggetti di uso quotidiano in grado di raccogliere e condividere dati personali. Oltre a evidenziare come il cyberpazio premei ormai completamente – e non di rado impercettibilmente – l’universo offline dissolvendo sempre più il confine tra mondo materiale e mondo virtuale, tutto ciò induce a domandarsi se nel prossimo futuro esisterà ancora qualche aspetto privato della vita umana o se invece si stia navigando a vele spiegate verso il superamento stesso del concetto di privacy.

Nel volume DeNardis espone alcuni esempi utili a comprendere come il contraltare del controllo esercitato sugli oggetti connessi ad Internet sia la loro vulnerabilità. Un esempio riguarda la possibilità che estranei da remoto possano accedere e manipolare dispositivi medici dotati di radiofrequenza impiantati nel corpo umano e connessi alla rete. Altro caso su cui si sofferma l’autrice concerne l’ambito dei “sabotaggi di Stato”2, come nel caso del virus Stuxnet individuato nel 2010 con buona probabilità progettato da statunitensi e israeliani esplicitamente per sabotare i sistemi di controllo dei sistemi nucleari iraniani, o del sabotaggio della rete elettrica ucraina presumibilmente per mano dei servizi segreti russi. Altro inquietante esempio riguarda la vicenda della “botnet” Mirai del 2016, probabilmente il più vasto cyberattacco dispiegato sino ad ora attuato attraverso il sabotaggio di semplici apparecchi casalinghi connessi a Internet che ha reso inaccessibili a vaste aree statunitensi oltre ottanta tra i siti più popolari (Netflix, Amazon, Twitter…). L’attacco è stato condotto prendendo il controllo di milioni di dispositivi domestici ricorrendo a una sessantina di username e password comuni o di default per impiantare malware attraverso cui inondare di richieste i siti e mandare in tilt il loro consueto traffico, dunque nei fatti rendendoli inaccessibili.

Oggi esistono più oggetti connessi digitalmente che persone e si tratta di un fenomeno in rapida espansione tanto da prospettare significative implicazioni, oltre che economiche, nell’ambito della governance e dei diritti dell’individuo.

Nel gergo dei sistemi cyberfisici, le cose connesse sono oggetti del mondo reale che integrano direttamente elementi digitali. Esse interagiscono simultaneamente con il mondo reale e con quello virtuale. Il loro scopo principale [è orientato a] mantenere i sistemi in funzione rilevando e analizzando i dati, e controllando automaticamente i dispositivi. […] Già oggi milioni di sensori monitorano le condizioni ambientali, i sistemi industriali, i punti di controllo e il movimento degli oggetti. Questi sistemi inoltre fanno direttamente funzionare i dispositivi […] I sistemi digitali sono oggi sistemi di controllo delle cose e dei corpi del mondo reale. I sistemi biologici fanno parte dell’ambiente degli oggetti digitali. L’internet delle cose è anche l’Internet del sé. Le “cose” dell’Internet delle cose comprendono anche i sistemi biologici delle persone, attraverso tecnologie indossabili, dispositivi di identificazione biometrica e sistemi di monitoraggio digitale medico3.

Il confine tra fisico e non fisico, tra online e offline si sta facendo sempre più labile; Internet si è esteso dal solo campo cognitivo degli utenti fino a divenire lo sfondo invisibile della vita quotidiana trasformando la connettività degli esseri umani da una modalità momentanea tramite schermi ad una modalità costante attraverso oggetti di uso quotidiano. L’essere o meno online non dipende più da una scelta dell’individuo di operare o meno con un dispositivo con uno schermo.

Le sfere ibride online-offline penetrano nel corpo, nella mente, negli oggetti e nei sistemi che collettivamente compongono il mondo materiale. Internet non ha più solo a che fare con le comunicazioni e non è nemmeno più un semplice spazio virtuale. La concezione aprioristica della rete come un sistema di comunicazione tra le persone deve essere superata. L’impennata di sistemi che integrano simultaneamente componenti digitali e del mondo reale crea condizioni che mettono profondamente in discussione le nozioni tradizionali della governance di Internet. Non ha più senso vedere gli spazi online come sfere distinte, tecnicamente o politicamente, all’interno di un mondo virtuale separato in qualche modo dal mondo reale. Online e offline sono intrecciati4.

Tale intreccio tra oggetti del mondo reale e ambito della rete richiede un ripensamento della categoria di “utenti Internet”; sarebbe riduttivo limitarsi a conteggiare gli esseri umani connessi alla rete – passati dall’1% (in buona parte concentrati negli Stati Uniti) di metà anni Novanta a circa il 50% della popolazione mondiale nel 2017 –, visto inoltre che il computo non discerne facilmente tra le persone reali e i “bot”, sistemi automatici come i web crawlers che passano in rassegna i contenuti di Internet per indicizzarli, o i “chatbot”, in grado di sostenere conversazioni con gli utenti. Si stima che una percentuale compressa tra il 9% e il 15% degli account Twitter sia composta da “bot” non di rado utilizzati per marketing, propaganda politica, attivismo e campagne di influenza. Al di là del fenomeno degli account automatici, gli oggetti connessi risultano oggi più numerosi rispetto alle persone e si tratta di oggetti che non hanno relazione formale con gli utenti umani, non sono dotati di schermo né interfaccia utente.

Anche individui mai stati online risultano coinvolti da ciò che avviene in rete; tutto è connesso e dirsi “non presenti in Internet” non ha più molto senso. Un attacco hacker nel 2013 ha colpito una importante catena commerciale statunitense ottenendo accesso ai dati personali (carte di credito, indirizzo di abitazione, numero di telefono ecc…) di circa 70 milioni di clienti sfruttando il sistema climatico del network aziendale. Ad essere violati non sono stati soltanto i dati dei clienti che hanno effettuato acquisti sul web ma anche quelli di chi si è recato esclusivamente nei negozi fisici della catena commerciale. Non è dunque indispensabile, sottolinea DeNardis, “essere su Internet” affinché la vita di un individuo possa dirsi in parte dipendente dalla rete. Maggiore è la diffusione delle tecnologie e meno queste si fanno visibili; più sono integrate nei sistemi materiali e meno necessitano di consensi espliciti.

L’integrazione di queste reti di sensori e attuatori nel mondo fisico ha reso la progettazione e la governance dell’infrastruttura cibernetica una delle questioni geopolitiche più significative del Ventunesimo secolo. Ha messo in discussione le nozioni di libertà e le strutture di potere della governance di Internet, e indebolito ancora di più la capacità degli Stati Uniti di affrontare sul piano politico queste strutture tecniche intrinsecamente transnazionali5.

DeNardis evidenzia le strutture di potere integrate nell’ambito infrastrutturale fisico-digitale insistendo sulla rilevanza che l’ibrido fisico-virtuale viene ad assumere a livello economico, sociale e politico. Facendo attenzione a non cadere nel “determinismo tecnologico”, l’autrice si dice convinta che la composizione dell’architettura tecnica sia anche composizione del potere. «Le tecnologie sono culturalmente modellate, contestuali e storicamente contingenti. L’infrastruttura e gli oggetti tecnici son concetti relazionali in cui gli interessi economici e culturali danno forma alla loro composizione»6. Per comprendere le politiche tecnologiche è indispensabile riconoscere tanto le realtà materiali ingegneristiche quanto le costruzioni sociali di queste.

Le leve del controllo della governance di Internet non si limitano affatto alle azioni dei governi tradizionali, ma includono anche: 1. le politiche inscritte nel design dell’architettura tecnica; 2. la privatizzazione della governance, com’è il caso delle politiche pubbliche messe in atto tramite moderazione dei contenuti, termini di servizio sulla privacy; modelli di business e struttura tecnologica; 3. il ruolo delle nove istituzioni globali multi-stakeholder nel coordinare le risorse critiche di Internet oltre confine; e qualche volta 4. l’azione collettiva dei cittadini. Per esempio, la progettazione degli standard tecnici è una faccenda politica. Sono i modelli, o le specifiche, che permettono l’interoperabilità tra prodotti creati da aziende differenti. […] Se i punti di controllo dell’infrastruttura distribuita danno forma, vincolano e abilitano il flusso delle comunicazioni (email, social media, messaggi) e dei contenuti (per esempio, Twitter, Netflix, Reddit), l’infrastruttura connessa con il mondo fisico (corpi, oggetti, dispositivi medici, sistemi di controllo industriale) è in grado di sortire effetti politici ed economici molto superiori7.

Nel rimarcare come la manipolazione diretta e connettiva del mondo fisico attuata attraverso il web possa comportare un miglioramento della vita umana viene però spesso omesso come tali miglioramenti si riferiscano ai tempi e ai fini imposti agli individui dalla “società della prestazione”8 che, nella sua finalità disciplinare si preoccupa di «Come sorvegliare qualcuno, come controllarne la condotta, il comportamento, le attitudini, come intensificare la sua prestazione, moltiplicare le sue capacità, come collocarlo nel posto in cui sarà più utile9. Scrive a tal proposito Salvo Vaccaro:

Alle istituzioni disciplinari con i suoi innumerevoli regolamenti minuziosi e dettagliati, tipici di un apparato amministrativo in via di burocratizzazione e centralizzazione statale nel XVIII e XIX secolo, oggi le nuove tecnologie mediatiche consentono una verticalità abissale della potenza regolativa in grado di controllare persone e cose – basti pensare all’Internet of Things e alla regolazione remota della connessione di funzionamento reciproco umano-macchina specifico alla domotica. Come sempre in ottica foucaultiana, tale potere non è solo repressivo e ostativo, anzi tutt’altro, non fa che ampliare le capacità di conoscenza e di sapere, le forme e i modi del nostro comportamento online e offline, sino a divenire quasi tutt’uno: onlife. Una vita permanentemente connessa, appunto onlife, alimenta e moltiplica a sua volta le opportunità di potere e controllo, grazie al servizio fornito da ciascuno di noi nell’uso del digitale in ogni suo apparato […] e alla governamentalità algoritmica che ne incanala gli usi opportuni, anche al fine di espandere mercati, creare nuovi business e nuove imprese, accrescere profitti e più in generale beneficiare l’economia. La mercatizzazione della società in via di digitalizzazione automatizza la gestione manageriale degli individui sia come corpi fisici che come corpi virtuali, assegnando loro funzioni, standard, obiettivi, distribuendo loro incentivi e disincentivi, integrandoli o espellendoli secondo necessità, su scala mondiale, come ci insegnano i processi di delocalizzazione repentina. Questa nuova biopolitica digitale configura inediti assetti di potere ridisegnando le relazioni che ne tessono la trama e ne delineano forme plastiche, fluide, mobili, e tendenze dinamiche, vorticose, al limite caotiche. La velocità di evoluzione e trasformazione repentine delle innovazioni tecnologiche ne sono l’emblema, la cifra, sarebbe proprio il caso di dire, che si tratta di individuare al fine di cogliere il terreno su cui attualmente ci muoviamo, di intercettare le faglie di resistenza agli effetti di potere che la nuova tecnologia politica scatena, infine di sperimentare inedite forme di conflitto all’altezza con il divenire-digitale delle nostre società e delle nostre vite10.

Al di là dell’auto-propaganda degli artefici della manipolazione diretta e connettiva del mondo fisico attuata attraverso Internet, è impossibile non vedervi una potente forma di controllo, una «forma di manipolazione che può essere talmente prossima al corpo umano da arrivare fin dentro esso e tanto lontana quando lo sono dei sistemi di controllo industriale dall’altra parte de mondo»11.

DeNardis pone l’accento su come la capacità di influenza tra digitale e mondo fisico si dia in entrambe le direzioni: se è ovviamene possibile manipolare il mondo fisco connesso attraverso la rete, altrettanto, agendo sulla realtà fisica collegata a Internet è possibile agire sulla realtà digitale. L’autrice si sofferma sulla questione della governance in un tale contesto a proposito di privacy, sicurezza e interoperabilità. In ambito di privacy vengono, ad esempio, analizzati non solo quegli ambiti – industriali, abitativi, sociali e persino relativi al corpo umano – un tempo nettamente sperati dalla sfera digitale, ma anche gli aspetti discriminatori, come nel caso del ricorso ai dati accumulati online ai fini lavorativi, assicurativi e polizieschi.

Nel volume viene evidenziata «la dissonanza cognitiva tra come la tecnologia si stia rapidamente spostando nel mondo fisico e come le concezioni di libertà e governance globale siano invece ancora legate al mondo della governance e della comunicazione»12. A lungo si è insistito sul ruolo dell’autonomia umana e dei diritti digitali nel contesto della web pensandolo come «una sfera pubblica online per la comunicazione e l’accesso alla conoscenza. L’obiettivo delle società democratiche è stato preservare “una rete aperta e libera”: un concetto acritico che è diventato più che altro un’ideale feticizzato»13. La questione della “libertà di Internet” ha certamente un suo sviluppo storico ma ha sempre teso a concentrarsi sulla libera trasmissione dei contenuti sottostimando tanto la questione dei diritti umani alla luce del contesto cyberfisico quanto il controllo dell’informazione esercitato non solo da parte del potere autoritario ma anche del settore privato14.


Bibliografia

  • Calzeroni Pablo, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  • Chicchi Federico, Simone Anna, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.
  • Dal Lago Alessandro, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017.
  • DeNardis Laura, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021.
  • Foucault Michel, Le maglie del potere, in Archivio Foucault, III. Estetica dell’esistenza, etica, politica (1978-1985), Feltrinelli, Milano 1998.
  • Giannuli Aldo, Curioni Alessandro, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  • Han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.
  • Vaccaro Salvo, Gli algoritmi della politica, elèuthera, Milano 2020.
  • Veltri Giuseppe A., Di Caterino Giuseppe, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017.

Su Carmilla – Serie completa: Culture e pratiche di sorveglianza


  1. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021, p. 17. 

  2. Cfr. Aldo Giannuli, Alessandro Curioni, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019. Su Carmilla

  3. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, op. cit., pp. 23-24. 

  4. Ivi, p. 25. 

  5. Ivi, pp. 32-33. 

  6. Ivi, p. 32. 

  7. Ivi, pp. 33-34. 

  8. Cfr.: Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012; Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 23. Su Carmilla

  9. Michel Foucault, Le maglie del potere, in Archivio Foucault, III. Estetica dell’esistenza, etica, politica (1978-1985), Feltrinelli, Milano 1998, p. 162. 

  10. Salvo Vaccaro, Gli algoritmi della politica, elèuthera, Milano 2020, pp. 141-143. Su Carmilla

  11. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, op. cit., p. 35. 

  12. Ivi, p. 38. 

  13. Ibidem. 

  14. Cfr.: Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017; Giuseppe A. Veltri, Giuseppe Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017. Su Carmilla

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Guerrevisioni. Tendenze iconoclastiche, visioni aumentate, combat video, cinema e videogiochi https://www.carmillaonline.com/2018/08/26/guerrevisioni-tendenze-iconoclastiche-visioni-aumentate-combat-video-cinema-e-videogiochi/ Sat, 25 Aug 2018 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48000 di Gioacchino Toni

«le immagini sono parte integrante del modo di conduzione dei conflitti e non possono essere semplicemente liquidate come vaghe apparenze o come simulacri del reale» (Maurizio Guerri)

Nel volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), diversi studiosi si confrontano con alcuni importanti interrogativi a proposito del rapporto tra immagini e conflitti bellici. «Qual è il nostro sguardo sulle guerre nell’epoca della manipolazione domestica delle immagini, della produzione e della condivisione “democratica” dei video via YouTube, della diffusione “virale” delle notizie (o delle fake-news) sui social [...]]]> di Gioacchino Toni

«le immagini sono parte integrante del modo di conduzione dei conflitti e non possono essere semplicemente liquidate come vaghe apparenze o come simulacri del reale» (Maurizio Guerri)

Nel volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), diversi studiosi si confrontano con alcuni importanti interrogativi a proposito del rapporto tra immagini e conflitti bellici. «Qual è il nostro sguardo sulle guerre nell’epoca della manipolazione domestica delle immagini, della produzione e della condivisione “democratica” dei video via YouTube, della diffusione “virale” delle notizie (o delle fake-news) sui social network? In che modo la modificazione quantitativa e qualitativa dei media ha mutato il nostro modo di guardare gli eventi bellici, rispetto anche solo ad alcuni decenni fa? Che cosa vediamo e che cosa non siamo più in grado di vedere delle guerre contemporanee?» (p. 9).

Il libro analizza il rapporto immagine/guerra nella contemporaneità tenendo ben presente che se quest’epoca da un lato offre inedite modalità comunicative e di produzione diffusa e decentrata delle immagini, dall’altro si caratterizza per una concentrazione monopolistica senza precedenti dei flussi di informazione sia nel web che nelle modalità più tradizionali.

Il corposo volume risulta suddiviso in tre parti: nella prima si ragiona sull’utilità delle immagini dei conflitti mondiali nella comprensione delle attuali guerre; nella seconda si indagano le modalità con cui le arti possono oggi testimoniare gli eventi bellici; nell’ultima parte si analizzano i conflitti contemporanei che si danno grazie alle immagini. Facendo riferimento proprio a ques’ultima sezione del libro intitolata Pensare le guerre con gli occhi (e con le loro protesi), in questo scritto ci soffermeremo sui contributi di Mauro Carbone e Ruggero Eugeni che si occupano rispettivamente della paradossale piega iconoclasta che sembra attraversare una contemporaneità che si vuole votata al visivo come non mai, il primo, e delle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna, il secondo.

Mauro Carbone, nel suo “L’uomo che cade. L’inizio di una controtendenza iconoclastica nella svolta iconica?”, torna, dopo essersene occupato nel libro Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001 (Bollati Boringhieri, 2007), a riflettere su come le immagini televisive dell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, in particolare quelle relative alle persone lanciatesi nel vuoto per sfuggire alle fiamme, dopo essersi impresse nella memoria collettiva a livello planetario grazie ai media, siano immediatamente divenute oggetto di una vera e propria strategia di rimozione. Ad essere in gioco, sostiene lo studioso, sono la memoria e l’oblio collettivi di un evento che ha aperto il nuovo millennio nonché inaugurato quella che W.J.T. Mitchell (Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, La casa Usher, 2012) ha definito l’attuale “guerra delle immagini”.

Alle immagini è spettato un ruolo fondamentale nella percezione collettiva della tragedia dell’11 settembre: non fosse stato per esse, quella delle Twin Towers sarebbe stata una tragedia simile a tate altre e ciò, sostiene Carbone, dovrebbe «aiutarci a considerare sino in fondo l’intrinseca portata politica del nostro rapporto estetico-sensibile col mondo, con cui quello con le immagini fa evidentemente tutt’uno» (p. 305). Secondo l’autore il sistema mediatico si è preoccupato di an-estetizzare il trauma dell’11 settembre 2001 attraverso l’incessante ripetizione dello stesso, ricorrendo alla riproduzione della medesima sequenza televisiva che mostra un aereo che attraversa lo schermo fino a schiantarsi contro una delle due torri provocando un’esplosione spettacolare. Lo studioso riprende a tal proposito ciò che ha scritto Allen Feldman nel suo “Ground Zero Point One: on the Cinematics of History” (2002): “Era come se al pubblico fosse stata data una terapia temporale facendolo testimone, più e più volte, di una sequenza meccanica di eventi che restaurava la linearità del tempo sospesa con gli attentati”. Carbone individua in tale an-estetizzante ripetizione ossessiva della medesima sequenza una certa convergenza e complementarietà con la strategia di rimozione delle immagini degli individui lanciatisi nel vuoto ed è proprio proprio sul rilievo assunto da tali immagini «nel progetto di costruzione di una certa memoria collettiva dell’11 settembre» (p. 306) che riflettere in questo scritto.

La strategia di rimozione delle immagini dei cosiddetti jumpers lanciati nel vuoto prende il via sin dal giorno successivo ai fatti, quando un’ondata di proteste, in particolare negli Stati Uniti, colpisce i quotidiani accusati di sciacallaggio per aver pubblicato soprattutto la fotografia che mostra un uomo, divenuto noto come Falling Man, in una caduta verticale incredibilmente composta con la testa in giù, le braccia lungo i fianchi e una gamba piegata in linea con le geometrie del palazzo. Da allora questa fotografia, ben riuscita dal punto di vista formale, non è più stata pubblicata negli Stati Uniti nonostante possieda una carica attrattiva che l’accomuna all’immagine dell’aereo che impatta con una delle due torri. La straniante perfezione dell’immagine del Falling Man «riesce tanto a sospendere il tempo – proprio come abbiamo sentito Feldman dire che gli attentati hanno fatto – quanto a capovolgere lo spazio. Al punto da spingere a chiedersi se la foto sia stata bandita malgrado le sue qualità formali oppure proprio per queste. Dubbio legittimo, che rivela come la bellezza, anziché mitigare, possa acuire l’atrocità di un’immagine. Dubbio che comunque non deve far dimenticare una ben più generale verità: la documentazione visiva sui cosiddetti jumpers, nel suo complesso, ha avuto una sorte analoga a quella della foto di Falling Man, specie negli Stati Uniti» (p. 307).

Secondo Carbone anche se la strategia di rimozione sembrerebbe derivare da una questione di privacy da rispettare, in realtà già nel corso del primo anniversario della strage sono state soggette ad aspre critiche, dunque rimosse, alcune opere d’arte evocanti i tragici eventi pur senza fare alcun riferimento a individui specifici violandone la privacy. Il risultato è che negli Stati Uniti si è smesso di mostrare e di parlare di quegli individui gettatisi nel vuoto. «Ecco allora che la memoria del “giorno più fotografato e più videoregistrato della storia mondiale” si confessa abitata da una paradossale volontà iconoclastica, che segnerà ambiguamente anche molti altri combattimenti della “guerra delle immagini” esplosa quel giorno» (pp. 308-310).

Volontà iconoclastica che, secondo lo studioso, ritroviamo anche nell’attentato del 2015 alla sede del giornale satirico francese «Charlie Hebdo», definito da «Le Monde» “L’11 settembre francese”. Nel presentarsi come una rappresaglia per la pubblicazione di alcune caricature di Maometto, il gesto palesa la volontà iconoclastica degli attentatori. «Né questa volontà risulta di per sé contraddetta dall’enorme impatto, non solo emotivo ma anche politico, esercitato nel settembre dello stesso anno dalla fotografia del corpo annegato del piccolo migrante siriano Aylan Kurdi sulla spiaggia turca di Bodrum: un impatto che, proprio per la valenza politica assunta, da più parti si cercò di contrastare bollando quella foto come manipolata. E gli esempi di tale volontà iconoclastica – rintracciabile, pur con ovvie e significative differenze, in schieramenti culturali, ideologici e mediatici dichiaratamente opposti – potrebbero continuare» (p. 310).

Nella parte finale dell’intervento, l’autore prende in considerazione la conclusione del romanzo di Jonathan Safran Foer Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda, 2005) in cui un bambino decide di invertire la sequenza delle immagini di un altro falling man e con essa degli eventi, immaginando il padre che dal suolo, salendo con l’ascensore, finisce col raggiungerlo nell’appartamento. «In questo testo e nella sequenza rovesciata d’immagini che l’accompagna sembra agire appunto una precessione reciproca del tragico reale e dell’immaginario infantile, i quali non cessano di rinviare l’uno all’altro pur rimanendo disperatamente divergenti come solo possono esserlo il trauma e l’inconsolabile desiderio di cancellarlo. Emozione contrastata. Emozione dalla cui violenza è impossibile difendersi. Diversamente dal sublime kantiano, lo spettatore non riesce più a distinguersi dal naufrago. Così, se Kant può immaginare il sublime come “l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta”, un testimone dell’11 settembre non ha potuto fare a meno di modificare implicitamente quell’immagine scrivendo: “il dolore che avvolge queste colonne è inimmaginabile e continuiamo a fissarlo come travolti da un mare in tempesta”. Non c’è possibile “distanza di sicurezza” dal naufragio. E tanto peggio per noi se speriamo di poterla creare alzando muri. Perché tale naufragio non si limita a essere “incredibilmente vicino”, come annunciava il titolo del romanzo di Foer, ma è piuttosto il nostro stesso naufragio. Per questo si rivela abitato da quella che prima chiamavo “strategia di rimozione”. Anche per questo una guerra alle immagini percorre l’attuale guerra delle immagini» (p. 317).

Ruggero Eugeni, nello scritto “Le negoziazioni del visibile. Visioni aumentate tra guerra, media e tecnologia”, prende in esame alcune tecnologie di assistenza-potenziamento della visione umana in condizioni di scarsa visibilità, riflettendo soprattutto sulle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna. Dopo aver tratteggiato lo sviluppo di alcune tecnologie visive – image intensification, active illumination, thermal imaging – dapprima in ambito militare e, successivamente, civile, lo studioso analizza alcuni combat video sottolineando come le modalità con cui sono stati montati e la diffusione in internet tendano a trasformarli da materiale di documentazione in propaganda. In molti di questi video esiste un «legame metonimico fortemente esibito tra appropriazione visiva e appropriazione fisica del territorio» (p. 326). Non a caso, continua Eugeni, la conquista dei differenti spazi, nel corso delle operazioni belliche riprese, viene da un lato esaltata dalla natura “embedded” della videocamera (al contempo testimone impersonale e parte integrante del movimento di conquista) e dall’altro resa possibile e visibile dal ricorso a dispositivi di visione notturna, «atto di vittoria preventiva sulle “tenebre” del male che circondano i corpi dei soldati e minaccerebbero altrimenti di inghiottirli» (p. 326). I combat video sono spesso girati in prima persona secondo modalità stilistiche molto simili a quelle che si ritrovano nei videogiochi del genere first person shooters di guerra; è evidente come videogiochi e combat video si rimandino a vicenda.

Nei videogiochi di ambientazione bellica più avanzati si ha una «sovrapposizione metonimica tra superiorità visiva garantita dalle tecnologie di visione notturna, e superiorità tattica espressa in atti di conquista e di “bonifica” del territorio mediante un sistematico sterminio dei nemici impossibilitati ad agire nel buio» (p. 328). Vi sono però altri due elementi importanti messi i luce dall’autore: «la struttura del videogioco in prima persona non solo esprime la conquista visuale, sensomotoria e militare di un territorio, ma permette al giocatore di viverlo direttamente grazie a una esperienza di simulazione incorporata. In secondo luogo, nei paratesti che hanno accompagnato il lancio del gioco la superiorità tecnologica e militare della visione notturna viene fatta rimare metaforicamente con la superiorità tecnologica del videogioco stesso (e quindi, ancora metonimicamente, con la fluidità dell’esperienza di gioco e il relativo piacere), la cui costruzione assume tutti i connotati di una delle operazioni belliche che vengono epicamente narrate» (p. 328).

In questi casi di combattimento al buio registrati attraverso sensori notturni (gli stessi videogiochi simulano tale modalità), lo spettatore viene calato nella medesima situazione di “vantaggio scopico” di cui si avvalgono i combattenti “armati di visori”. «La rilevanza di questo fatto per quanto concerne l’esperienza spettatoriale emerge chiaramente se analizziamo al contrario casi in cui allo spettatore viene negata, almeno a tratti, questa condizione» (p. 329). A tal proposito il saggio porta come esempio la sequenza finale del film Zero Dark Thirty (2012) di Kathryn Bigelow in cui si mostra l’assalto notturno al rifugio in cui è nascosto Osama Bin Laden realizzata montando in alternanza immagini a luce naturale scarsamente visibili e immagini realizzate con visori notturni. Tale alternanza risponderebbe «a una precisa strategia espressiva ed emotiva: nel momento di massima tensione, lo spettatore viene calato in una situazione alternativamente di sollecitazione e deprivazione visuale e sensomotoria. Per un verso la presenza intermittente delle immagini girate coi sensori stimolano il suo coinvolgimento nell’azione secondo un modello di simulazione incorporata […] per altro verso l’irrompere e il prorompere dell’oscurità lo risospingono in una condizione di spaesamento e deprivazione: essi innescano dunque un disperato bisogno di informazione percettiva indispensabile per portare a temine i processi di simulazione incorporata dell’azione precedentemente innescati» (pp. 332-333).

Un effetto visivo analogo lo si ritrova in Flames of War. Fighting Just Begun (settembre 2014), un video di propaganda realizzato e diffuso dall’Isis. «Anche qui le immagini, girate da una helmet cam, sono spesso quasi indistinguibili o completamente buie. Di tanto in tanto tuttavia alcune riprese con sensori notturni mostrano immagini di soldati siriani morti, abbattimento di porte, scene di combattimento, ecc. con assolvenze e dissolvenze al nero a far sì che la piena visibilità della scena sia costantemente compromessa» (p. 333). Non è difficile, continua Eugeni, cogliere la volontà da parte dell’Isis di fare il verso alle sequenze finali del film della Bigelow: «la conquista della base di Raqqa diviene nella retorica del video la eroica “risposta” dei mujahidin di Daesh alla uccisione del leader di Al Quaeda – o per meglio dire: il racconto visuale dell’una diviene la risposta al racconto visuale dell’altra» (p 334).

Nella parte finale del saggio vengono ricostruite le analisi relative alle relazioni tra guerra, media e tecnologie del visibile prodotte da autori come Paul Virilio, Friedrich Kittler e Jean Baudrillard, mettendo però in luce come tale dibattito necessiti di essere aggiornato alla luce dell’uso e degli effetti della visione aumentata dai dispositivi visivi contemporanei.

Se Paul Virilio tende, sin dalla metà degli anni Ottanta, a porre l’accento sull’assorbimento di tecnologie mediali da parte dell’industria militare, indicando in particolare il ricorso nelle guerre novecentesche a tecniche cinematografiche, lo studioso tedesco Friedrich Kittler sostituisce alla “logistica della percezione” di cui parla il francese, una “logistica dell’informazione” e sostiene invece che sono le esigenze belliche a determinare lo sviluppo e la logica dei media.

La questione posta da Virilio circa la progressiva “smaterializzazione” della guerra, la si ritrova per certi versi anche in Jean Baudrillard che da parte sua «sviluppa una teoria dei media basata sull’idea di una loro autoreferenzialità e della cancellazione del loro referente “reale”. Il motto mcluhaniano “il medium è il messaggio” va reinterpretato secondo Baudrillard: i media hanno prodotto una implosione del sistema di distinzione tra la realtà e la sua rappresentazione mediata, e hanno dato luogo a un sistema di simulazione e di iperrealtà diffuse» (pp. 337-338). Mettendo a confronto i due studiosi Eugeni nota che se Virilio «prende in esame tecnologie di svolgimento del combattimento e sottolinea l’importanza crescente del momento scopico di sorveglianza rispetto a quello pratico del combattimento, Baudrillard dal suo canto si focalizza sulle strategie di rappresentazione mediale (soprattutto televisiva) della guerra e sottolinea la sua derealizzazione» (p. 338). Entrambi insistono comunque sul processo di smaterializzazione subito dalla guerra nel momento che questa ha iniziato la sua «interazione con tecnologie visuali sia panottiche che rappresentative: le tecnologie visuali per i due studiosi sottraggono il soggetto da un confronto diretto e pratico con il mondo isolandolo in una dimensione di sguardo distante, simulacrale o impersonale che sia» (pp. 338-339).

Secondo Eugeni, se a proposito delle modalità di relazione tra i media e gli apparati bellici, Virilio e Kittler hanno il merito di aver posto in evidenza una presenza “extramediale” dei media, «il limite del dibattito su media e guerra risiede [nel fatto] di opporre semplicemente tecnologie del visibile mediali e belliche per studiare le forme di scambio e di influenza delle une sulle altre e/o viceversa» mentre, continua lo studioso, in una condizione postmediale pienamente intesa occorrerebbe «radicalizzare questo modello e pensare piuttosto i differenti dispositivi di visual data setting come capaci di lavorare contemporaneamente all’interno di differenti e numerose cornici e pratiche sociali: non solo l’ambito dei media in senso stretto e non solo la ricerca e le applicazioni belliche, dunque, ma anche la sorveglianza, l’astronomia, i trasporti, la produzione industriale, la meteorologia e così via» (p. 340).

Per quanto riguarda invece la questione della smaterializzazione e della virtualizzazione della guerra derivate dall’utilizzo di tecnologie visuali, nonostante il merito di aver sottolineato il ruolo dei media «in una condizione postmediale all’interno dei fenomeni geopolitici contemporanei», le analisi di Virilio e Baudrillard, sostiene Eugeni, non possono essere condivise in quanto «il caso dei sistemi di visione notturna e aumentata dimostrano chiaramente che le tecnologie visuali si pongono al servizio di una relazione situata e incarnata del soggetto con il mondo: esse sono finalizzate ad accrescere la sua “consapevolezza situazionale” al fine di una gestione ottimale del suo agire. Non si assiste dunque a una assolutizzazione autoreferenziale del visibile, quanto piuttosto a una negoziazione dei suoi limiti rispetto all’invisibile» (p. 341).

 

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Tecnologie del dominio. Manuale di autodifesa digitale https://www.carmillaonline.com/2017/11/02/tecnologie-del-dominio-manuale-autodifesa-digitale/ Wed, 01 Nov 2017 23:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41325 di Ippolita

Ippolita, Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale, Meltemi editore – Ippolita, 2017, pp. 288, € 18,00 (*)

[Riportiamo qua le Istruzioni per l’uso contenute nel manuale – Ringraziamo Ippolita e Meltemi editore per la gentile concessione – Ippolita è un gruppo di ricerca e formazione attivo dal 2004 che conduce una riflessione ad ampio raggio sulle tecnologie del dominio e i loro effetti sociali frequentando tando il sottobosco delle comunità hacker quanto le aule universitarie – ght]

La tecnica non è fatta solo di apparecchi e strumenti, ma anche [...]]]> di Ippolita

Ippolita, Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale, Meltemi editore – Ippolita, 2017, pp. 288, € 18,00 (*)

[Riportiamo qua le Istruzioni per l’uso contenute nel manuale – Ringraziamo Ippolita e Meltemi editore per la gentile concessione – Ippolita è un gruppo di ricerca e formazione attivo dal 2004 che conduce una riflessione ad ampio raggio sulle tecnologie del dominio e i loro effetti sociali frequentando tando il sottobosco delle comunità hacker quanto le aule universitarie – ght]

La tecnica non è fatta solo di apparecchi e strumenti, ma anche di idee, ovvero di parole. Le parole costruiscono il mondo intorno a noi, sono occhiali capaci di plasmare corpi individuali e collettivi. Soprattutto, le parole stabiliscono relazioni di potere che possono cristallizzarsi in strutture di dominio. Conoscere un poco della loro storie, tracciare dei collegamenti di senso e cercare di abbozzare un quadro complessivo è l’obiettivo di questo lessico.

Un tentativo, modesto e incompleto, di dar conto delle parole con le quali gli umani descrivono le tecnologie digitali all’inizio del XXI secolo. Termini spesso antichi, di origine greca o latina, nonostante si riferiscano ad artefatti con cui coabitiamo da pochi decenni, a pratiche diventate comuni nel recente passato. Termini a volte vaghi, quasi fossero cortine di fumo per dissimulare una realtà ben poco smart, per nulla luccicante: una realtà fatta di sfruttamento e servitù volontarie, di sottintesi legali e tranelli concettuali.

Ci sono molti modi di leggere questo testo. Ne suggeriamo alcuni. Si può seguire l’ordine alfabetico, e lasciarsi guidare dalla A di Algoritmo alla W di Wikileaks. Oppure si possono seguire i percorsi di lettura, studiati per tagliare in maniera trasversale, per assumere una prospettiva particolare, più filosofica o più tecnica, più attenta ai risvolti psicologici delle interazioni digitali o più concentrata sugli aspetti economici. Ma il nostro suggerimento è di cominciare dall’indice, scegliere una voce che solletica, che incuriosisce o magari disturba, e poi proseguire saltellando da una voce all’altra, seguendo le piccole frecce che collegano fra loro i termini. Andare alla deriva in un caos estremamente ordinato. Ci piace pensare a questo libro come a una specie di rizoma, perciò “si potrà […] entrarvi da un punto qualsiasi, non c’è uno che valga più dell’altro, nessun ingresso è privilegiato […] ci si limiterà a cercare a quali punti è connesso” [G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996, p. 7.].

Alcune parole di questo lessico potrebbero risultare banali, o addirittura fuori luogo, o bizzarre. Sicuramente molte sono rimaste escluse da questo sforzo di sistematizzazione, voci che abbiamo quasi pronte ma non ancora del tutto, voci di cui discutiamo da anni, voci per le quali speriamo di trovare un’altra occasione. Una cosa è certa: le tante persone che hanno contribuito a scrivere quest’opera, in diverse lingue, si sono divertite a farlo, nonostante la fatica, ed è questo piacere che vorremmo far ritrovare ai lettori, perché come al solito abbiamo cercato di scrivere un libro che ci sarebbe piaciuto leggere. Un libro non troppo specialistico, un po’ generico ma non generalista; un panorama complessivo ma non per forza troppo complicato da richiedere uno sforzo eccessivo; una narrazione appassionata, accuratamente selezionata, di quello che tocca le nostre vite quotidiane nei mondi digitali interconnessi. Non avendolo trovato, ci siamo rimboccati le maniche, chiedendo aiuto a tanti amici e affini, e questo è il risultato. Un manuale di autodifesa digitale a modo nostro, con uno sguardo dichiaratamente politico, non neutrale, di parte. Un mosaico per forza di cose incompleto, composto con quello scetticismo metodologico, quella curiosa attitudine hacker che ci piace praticare.

Aspettiamo le vostre critiche e suggerimenti, buona lettura!

Indice dei termini

Algoritmo / Anarco-capitalismo / Big Data / Blockchain / Comunità / Condivisione / Contenimento / Copyright / Criptomoneta / Crittografia / Crowdsourcing / Data Center / Digital labour / Disruption Disruzione / Filter bubble / Free labour / Gamificazione (Ludicizzazione) / Gendersec / Hacker / Hacklab, hackerspace, hackaton, hackmeeting / Hashtag / Identità digitale / Internet, Web, Deep Web, Dark Net, Dark Web / IoT Internet of Things Internet delle Cose / Libertarianesimo / Licenze, copyright, copyleft / Long Tail (Coda Lunga) / Nativi digitali / Open / Peer to peer (p2p) / Panottico Digitale / Pedagogia hacker / Pornografia emotiva / Privacy / Profilazione digitale / Quantified Self / Rituali digitali / Scalability (scalabilità) / Social Media Marketing / Società della prestazione / Tecnocrazia / Trasparenza Radicale / Utente / Web 2.0 & Social media / Wikileaks

Il volume propone alcuni possibili percorsi di lettura suggerendo gli itinerari da seguire

  • Socio-psicologico, l’utente e lo pseudo-spazio dei media sociali: tra reificazione e cura del sé. utente → identità digitale → trasparenza radicale → gamificazione → nativi digitali → pornografia emotiva → comunità
  • Tecno-politico: le macchine e gli umani tra lavoro, non lavoro e denaro gratis. algoritmo → profilazione → Big Data → digital labour → panottico digitale → free labour → disruption → criptomoneta
  • Teoria politica: come siamo arrivati fin qui e dove vogliono portarci. anarcocapitalismo → libertarianesimo → disruption → tecnocrazia → blockchain → Wikileaks → quantified self
  • Hackers: parte del problema e parte della soluzione, siamo tutti hacker? condivisione → open- → p2p → hacklab-hackerspacehackaton → scalabilità → contenimento → crittografi a → Internet, Web, Deep Web, Dark Net, Dark Web → hacker
  • Psico-marketing: un oscuro scrutare. hashtag → social media marketing → crowdsourcing → web 2.0 → long tail → disruption → utente → società della prestazione → gamificazione
  • Antropo-tecniche. rituali digitali → gamificazione → algoritmo → identità digitale → comunità → pedagogia hacker
  • Un percorso per cominciare. Internet, Web, Deep Web, Dark Net, Dark Web → IoT (Internet delle Cose) → data center → filter bubble → hacklabhackerspace-hackaton → licenze → copyright → privacy
  • Un classico di Ippolita. hacklab → Internet, Web, Deep Web, Dark Net, Dark Web → web 2.0 → profilazione → filter bubble → long tail → data center → trasparenza radicale → panottico digitale → società della prestazione → rituali digitali → gamificazione

info@ippolita.nethttp://ippolita.net

(*) Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale. Per leggere una copia della licenza visita il sito web https://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/4.0/deed.it o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA


Tra i saggi pubblicati da Ippolita: Anime Elettriche; La Rete è libera e democratica. FALSO!; Nell’acquario di Facebook; Luci e ombre di Google; Open non è free.

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