prima modernità – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche del potere. La risposta femminile al mito del lusso donnesco nella prima modernità https://www.carmillaonline.com/2019/08/25/estetiche-del-potere-la-risposta-femminile-al-mito-del-lusso-donnesco-nella-prima-modernita/ Sat, 24 Aug 2019 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54129 di Gioacchino Toni

«Le donne, da Eva in poi, sono state rappresentate come seduttrici e causa primaria della perdita di razionalità, saggezza e peccato. A questo, vengono contrapposte le rassicuranti figure della Vergine Maria, la madre e la Madonna. L’Antisatira di Tarabotti, può essere considerata come la prima profonda e prolungata risposta alla tradizione della polemica sul lusso femminile (lusso donnesco), un manifesto politico perfettamente in linea con gli altri suoi scritti di denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne. Ma il testo fa anche più di questo: è una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria [...]]]> di Gioacchino Toni

«Le donne, da Eva in poi, sono state rappresentate come seduttrici e causa primaria della perdita di razionalità, saggezza e peccato. A questo, vengono contrapposte le rassicuranti figure della Vergine Maria, la madre e la Madonna. L’Antisatira di Tarabotti, può essere considerata come la prima profonda e prolungata risposta alla tradizione della polemica sul lusso femminile (lusso donnesco), un manifesto politico perfettamente in linea con gli altri suoi scritti di denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne. Ma il testo fa anche più di questo: è una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria essenziale e naturalizzata. Sovvertendo le regole del gioco, Tarabotti svela l’ipocrisia sociale che aveva visto decorazioni e ornamenti come oggetti della femminilità, e la mascolinità in contrapposizione ad essa». Eugenia Paulicelli

Il mito che nella prima modernità voleva Venezia come città ideale e culla di libertà a cui contribuirono personalità come Cesare Vecellio e Giacomo Franco con le loro pubblicazioni sugli abiti e sui costumi, è stato aspramente contestato da scrittrici veneziane del Cinque e Seicento come Modesta Pozza ed Arcangela Tarabotti (al secolo Elena Cassandra Tarabotti).

La prima, autrice de Il merito delle donne (dialogo tra sole donne pubblicato postumo nel 1600 con lo pseudonimo di Moderata Fonte), ricorre all’artificio retorico di aprire il volume tessendo le lodi alla città lagunare, per poi mostrare come la vita pubblica della Serenissima escluda di fatto le donne, prive di diritti e non considerate parte attiva della comunità cittadina. Alla figura di Arcangela Tarabotti, ancora più sferzante e puntuale nella critica alla società veneziana, la studiosa Eugenia Paulicelli – docente di Letteratura italiana, comparata e Women’s Studies alla City University di New York – dedica un interessante capitolo del suo volume Moda e letteratura nell’Italia della prima modernità (Meltemi, 2019) [su Carmilla].

Costretta dal padre a perdere i voti in giovane età, Tarabotti è autrice di opere come La tirannia paterna, L’inferno monacale, Il paradiso monacale e Antisatira in cui la vita personale, pubblica e politica non sono mai separate dal contesto geopolitico. Si tratta di una produzione caratterizzate da una verve polemica e da una passione che non si ritrovano negli scritti di altre veneziane della prima modernità in cui la giovane monaca benedettina, forte di un’ottima conoscenza degli affari cittadini, della moda e delle consuetudini sociali maschili e femminili, sferra un attacco diretto al cuore dello stato veneziano decostruendone il mito di città della libertà prendendo di mira la struttura dispotica delle istituzioni della Serenissima. In generale, sostiene Paulicelli, le opere della Tarabotti sono caratterizzate da una critica sferzante e disincantata del patriarcato che sottende le istituzioni della società lagunare (famiglia, stato, istruzione ecc.).

Così come Modesta Pozza, anche Arcangela Tarabotti decise di aprire sia Tirannia Paterna (pubblicato postumo) che in Inferno monacale, con una presentazione di Venezia come baluardo di libertà, salvo «sostituire subito dopo quell’immagine con una visione opposta della città: come una prigione, la negazione della libertà, soprattutto per le donne. Per Tarabotti, Venezia diventa l’immagine stessa della misoginia, una città che gode di uno status e un prestigio internazionali, ma dove le donne rimangono cittadine di seconda classe e in cui lo spazio pubblico è loro negato».

I due libri circolarono per qualche tempo in maniera semi-clandestina a Venezia allo stato di manoscritti e nel caso de La tirannia paterna anche dopo la sua pubblicazione il testo continuò ad essere osteggiato tanto da venire bandito dalla Congregazione dell’Indice nel 1661, pochi anni dopo la sua pubblicazione postuma.

Tarabotti riuscì invece a pubblicare in vita Il Paradiso monacale (1643), l’Antisatira (1644), Lettere Famigliari (1650) e Che le donne siano della spetie degli huomini. Difesa delle donne (1651). A darle fama sarà soprattutto l’Antisatira, libro pubblicato anonimamente sotto la sigla D.A.T. in risposta alla Satira (1638 e 1644) scritta da Francesco Buoninsegni, in cui l’intellettuale senese prendeva di mira la moda femminile e con essa le donne. Nella sua replica Tarabotti, oltre a schierarsi per la libertà delle donne di seguire la moda, denunciò come questa toccasse parimenti gli uomini, tanto da insistere particolarmente nel descrivere la vanità maschile.

Nonostante la vita conventuale, la scrittrice riuscì a mantenere importanti contatti con la realtà culturale cittadina anche grazie al parlatoio, una sorta di spazio liminale tra l’isolamento del convento ed il mondo esterno, che «può anche essere visto come una forma di salotto, uno spazio intimo dove si discutevano gli affari pubblici, si scambiavano doni, si organizzavano matrimoni e così via». La studiosa Gabriella Zarri arriva a vedervi un’anticipazione della moda dei salotti francesi che si diffonderà negli stati italiani alla fine del Seicento.

La religiosa riuscì a stabilire legami con gli Incogniti, un gruppo di intellettuali libertini veneziani spesso presi di mira dall’Indice dei libri proibiti, incline ad uno stile di scrittura decisamente sperimentale per l’epoca. «Inutile dire che l’Accademia degli Incogniti era diretta da uomini […] L’Accademia era uno dei più importanti e riconoscibili “punti di ritrovo” per gli intellettuali italiani, sia dentro che fuori Venezia, così come per i letterati francesi».

«Quello che forse l’attraeva di più degli Incogniti», sostiene Paulicelli, «era il loro amore condiviso per la libertà. Deve esserle sembrato che, in questi ambienti, la lingua e le parole fossero libere da regole prestabilite. Nonostante le differenze tra la sua posizione femminista e la misoginia di molti dei letterati degli Incogniti, quello che condividevano era il desiderio di cambiamento e la passione per il potere rivoluzionario delle parole e del linguaggio».

Nelle sue pubblicazioni, Tarabotti si sofferma sull’accesso alla cultura delle donne, sul loro riconoscimento nella vita pubblica, sulla loro libertà e sul loro libero arbitrio. «In tutti i suoi scritti, Tarabotti fa ampio riferimento agli abiti, alla moda, all’apparire e al volto pubblico di uomini e donne, ma è in Tirannia paterna che questo filone del discorso di Tarabotti giunge a compimento. Ciò che collega i suoi scritti sulla moda e quelli sulla tirannia è la questione dell’inganno e di come vengono utilizzati in modo il linguaggio e i segni vengano utilizzati in modo e con scopi mendaci. L’arte di vestire e apparire per Tarabotti è simile all’atto della copertura e della stratificazione che è inerente alla rappresentazione e alla lingua, e dunque, per estensione, alla pratica della dissimulazione».

Nell’Antisatira la scrittrice si sofferma su quegli specifici elementi dell’abbigliamento distintivi della moda maschile nella prima metà del Seicento, denunciando la vanitosa passione degli uomini per le parrucche e i ricci, per i tessuti pregiati e per le vestiti, senza però essere per questo giudicati. «L’attacco di Tarabotti alla mascolinità fu in primo luogo, una risposta meticolosamente dettagliata e ben argomentata che con verve e intelligenza ha decostruito le finzioni della mascolinità come veniva rappresentata sulla scena sociale».

Nel libro la scrittrice si sofferma sull’usanza maschile di alterare, attraverso imbottiture, la forma del corpo, questione dibattuta nel corso del secolo da diversi scritti, come nel caso de La maschera scoperta (1671) di frate Arcangelo Aprosio, in cui viene sminuita la portata morale e simbolica delle trasformazioni del corpo maschile, mentre al contempo viene enfatizzata l’ingannevolezza insita nella medesima pratica da parte femminile. Nella lettura proposta dalla religiosa emerge una differente rappresentazione dell’abbigliamento maschile. «Nel falso ridimensionamento delle immagini di virilità, Tarabotti offre un quadro complesso della politica dello stile, genere e classe durante la sua epoca e offre interessanti argomenti sull’abilità delle donne e sul loro diritto e desiderio di controllare il proprio aspetto e la propria identità culturale».

Il dibattito sul lusso e sulla moda portato avanti nell’Antisatira deve essere collocato all’interno delle questioni della libertà e del libero arbitrio, e per Tarabotti «il diritto legittimo, la libertà e il piacere delle donne di abbellire i loro corpi e le loro apparenze, e il loro accesso a una vita intellettuale/pubblica sono la stessa cosa».

L’Antisatira può dunque essere vista come una risentita e piccata risposta femminile alla tradizionale lettura misogina del lusso donnesco. Il libro, oltre che riprendere la denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne presente negli altri testi della scrittrice, è anche «una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria essenziale e naturalizzata. Sovvertendo le regole del gioco, Tarabotti svela l’ipocrisia sociale che aveva visto decorazioni e ornamenti come oggetti della femminilità, e la mascolinità in contrapposizione ad essa». Si può dunque affermare, conclude Eugenia Paulicelli, che il suo testo risulta rivoluzionario per diversi motivi: «in primis perché difende il diritto della donna alla moda e al lusso, collegandolo al lavoro intellettuale, che può essere considerato parallelo alla cura del corpo. In altre parole, difende il diritto delle donne di essere libere e considera la cura di sé, del proprio corpo, della propria anima e del proprio cervello come atti che sono intrecciati e non separati dal controllo della vita, del comportamento delle donne e dell’economia del patriarcato. Affermando che le donne sono autrici della propria immagine e dei propri libri, Tarabotti può essere vista come una femminista radicale. Con riferimento alla chiesa, ha oltrepassato diversi confini difendendo il lusso invece di esaltare soltanto la castità e la modestia per le donne, e ha decostruito il mito secondo cui gli uomini non erano interessati all’apparire e all’eccesso».


Serie completa Estetiche del potere

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Estetiche del potere. Moda e significati politici nello spazio pubblico della prima modernità https://www.carmillaonline.com/2019/08/20/estetiche-del-potere-moda-e-significati-politici-nello-spazio-pubblico-della-prima-modernita/ Tue, 20 Aug 2019 21:30:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54145 di Gioacchino Toni

Con il termine costume si è soliti riferirsi a valori ideali, usanze e credenze costanti e permanenti che caratterizzano, in una data epoca, il comportamento, il modo di essere, la vita sociale e culturale di una collettività. A differenza del costume, che tradizionalmente si riferisce al mantenimento di tutto ciò che ha a che fare con la vita quotidiana, la moda sarebbe invece una proposta alternativa, quando non vera e propria rottura nei confronti della tradizione.

L’idea che si possa  parlare di moda soltanto a partire dall’Ottocento, riservando invece il [...]]]> di Gioacchino Toni

Con il termine costume si è soliti riferirsi a valori ideali, usanze e credenze costanti e permanenti che caratterizzano, in una data epoca, il comportamento, il modo di essere, la vita sociale e culturale di una collettività. A differenza del costume, che tradizionalmente si riferisce al mantenimento di tutto ciò che ha a che fare con la vita quotidiana, la moda sarebbe invece una proposta alternativa, quando non vera e propria rottura nei confronti della tradizione.

L’idea che si possa  parlare di moda soltanto a partire dall’Ottocento, riservando invece il termine costume ai periodi precedenti, è ormai messa in discussione in quanto così facendo si rischia di rimuovere il dinamismo pur presente anche nelle epoche precedenti alla società industrializzata. Secondo diversi studiosi converrebbe consentire ai due termini di interagire anche alla luce del fatto che all’interno di ogni determinato sistema moda sono comunque operanti tanto stabilità che cambiamento.

Il volume di Eugenia Paulicelli, Moda e letteratura nell’Italia della prima modernità (Meltemi, 2019), passando in rassegna la moda così come è stata testualizzata e codificata attraverso un discorso sul vestire e sullo stile nell’Italia del Cinque e Seicento, contribuisce a spiegare come, sin dai primi secoli dell’età moderna, la moda rappresenti un’importante istituzione sociale agente sull’immaginario collettivo capace di trasmettere significati estetici, politici ed economici nello spazio pubblico.

Se l’abbigliamento e la moda vanno annoverati tra gli strumenti attraverso cui la cultura umanistica ha trasmesso l’ideologia, il gusto e lo stile con cui l’élite europea ha forgiato le sue identità in termini estetici, la produzione letteraria italiana del XVI e del XVII secolo dedicata a tali argomenti permette di comprendere meglio il ruolo politico assunto dalla moda a livello europeo nella prima modernità.

Paulicelli – docente di Letteratura italiana, comparata e Women’s Studies alla City University di New York – oltre ad analizzare testi di Baldassarre Castiglione (Venezia, 1528), Cesare Vecellio (Venezia, 1590 e 1598), Giacomo Franco (Venezia, 1610), Agostino Lampugnani (Bologna, 1648) presenta alcune protagoniste femminili che fanno da contraltare alla costruzione della mascolinità: Elisabetta Gonzaga, Caterina e Anna Sforza, Isabella d’Este, Lucrezia Borgia, Lucrezia Marinella e, soprattutto, Arcangela Tarabotti, a cui dedicheremo presto spazio.

Moda e moderno, sottolinea Paulicelli, hanno comuni radici etimologiche (dal latino modus); moderno si riferisce a ciò che è attuale, contemporaneo ed il termine moda riprende l’idea di norma, modalità, finendo gradualmente per essere associato a quanto appare come novità.

La prima modernità italiana è caratterizzata da un recupero dell’antichità finalizzato a nuovi modelli culturali, politici ed artistici in linea con i nuovi tempi. Come spesso accade nei momenti di grandi cambiamenti, e la prima modernità è sicuramente uno di questi, finiscono col fronteggiarsi l’entusiasmo per le novità e il tentativo di controllarle. «In effetti, nel contesto della moda, l’euforia umanistica di un essere simile a Dio nel controllo della sua apparenza e del suo posto nel mondo, libero di auto-creare, sarebbe contrapposta a norme introdotte per standardizzare la bellezza, le buone maniere, il gusto nel vestire e nello stile, nel senso di “saper vivere”». (p. 36) Nel contesto umanistico, alla celebrazione dello spirito di autodetermiazione dell’essere umano si contrappone l’idea di dover normalizzare la bellezza, le maniere, lo stile ed il gusto nell’abbigliamento.

Nel corso del Cinquecento, parallelamente allo svilupparsi in tutta Europa di una vera e propria curiosità nei confronti della novità, in parte supportata dall’entusiasmo per la scoperta del Nuovo mondo, prende piede una vera e propria “morale contro il cambiamento”. L’abbigliamento, nel suo essere una delle manifestazioni principali di trasformazione, diviene anche uno dei settori principali su cui i moralisti insistono nel condannare la mutevolezza. L’incostanza del costume, esplicitata dalle trasformazioni dell’abbigliamento, agli occhi dei religiosi rappresenta una minaccia alle fondamenta stesse della religione: nella mutazione delle apparenze viene messo in discussione quanto previsto in natura da Dio. La morale contro il cambiamento si inserisce all’interno del tentativo compiuto dal cattolicesimo di definire a livello confessionale l’esistenza quotidiana dell’individuo: la quotidianità diviene il teatro in cui si manifesta la presenza reale del divino tra gli esseri umani e la cultura della trasformazione, che si esplicita nella mutevolezza delle mode, rappresenta una rischiosa messa in discussione della sacralità presente nella quotidianità.

Il diffondersi nei primi secoli di modernità di una letteratura incentrata sull’aspetto del corpo rappresenta un evidente sintomo della formazione di una nuova soggettività. Al di là delle differenze, in tutta la letteratura dell’epoca risulta palese la consapevolezza di come l’aspetto del corpo concorra in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità di un individuo che intende governare il proprio destino.
In diversi testi si rintraccia la necessità di dare “forma e memoria” ai cambiamenti che stanno riformulando il mondo. «Per essere efficaci, le nuove forme dovevano essere accettabili per l’ordine stabilito e per essere accettabili hanno dovuto far quadrato con la tassonomia dei valori dei gruppi delle élite al potere». (p. 47)

La diffusione ed il successo a livello europeo di testi come Il libro del Cortegiano (1528) di Baldassarre Castiglione contribuirono alla standardizzazione culturale e a creare una vera e propria competizione tra le élite relativamente all’aspetto pubblico con cui mostrare il potere detenuto.

Oltre che costruita, l’identità della prima modernità è anche legiferata: l’aspetto non ha a che fare solo con la scelta degli abiti e degli accessori, ma anche con ciò che la legge consente o meno. L’abbigliamento rappresenta uno dei segni più visibili dello status dell’individuo e ciò a maggior ragione in un’epoca di rinnovamento delle relazioni gerarchiche tra le classi dettato da un’ascesa borghese che si rivelerà inarrestabile.

Sono soprattutto i casi di corss-dressing, di slittamento di abitudini e gusti tra le diverse classi, a determinare la nascita di leggi suntuarie volte a preservare e disciplinare l’ordine sociale e il controllo sulle donne, costrette a conformarsi all’immagine di modestia e decoro e al disciplinamento del corpo. Nonostante gli intenti, sottolinea Paulicelli, tali leggi non hanno saputo mantenere l’ordine previsto in quanto spesso aggirate. Da tali infrazioni, da tali slittamenti tra classi, hanno spesso preso vita nuovi stili.

Gli studi femministi hanno mostrato come il ruolo della donna, perlomeno all’interno dell’alta società, nei confronti della moda non sia stato assolutamente passivo. Anzi, il controllo che hanno saputo esercitare sulla moda e sullo stile, nonostante le norme e le leggi, sta ad indicare come l’abbigliamento sia diventato «un luogo in cui attirare l’attenzione sociale su loro stesse all’interno di un panorama culturale che cercava di annientarle come agenti del proprio personaggio, pubblico o privato». (p. 87).

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