Prima Internazionale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 A proposito di internazionalismo https://www.carmillaonline.com/2025/02/05/a-proposito-di-internazionalismo/ Wed, 05 Feb 2025 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86703 di Sandro Moiso

Benedict Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 446, 24,00 euro

Evviva la «zagaglia barbara» («Il Programma Comunista», 24 marzo 1961)

Mentre la centralità dell’ordine occidentale del mondo inizia a venir meno anche in quei settori, come quello ricollegabile allo sviluppo dell’AI, in cui si sentiva più sicuro e mentre la presidenza Trump 2.0 contribuisce a rendere più incerto il sistema delle alleanze che lo hanno garantito negli ultimi ottanta anni, la pubblicazione del testo di Bendict Anderson sulle origini dell’internazionalismo “rivoluzionario” attento ai popoli e alle nazioni estranee al contesto europeo e “biancocentrico” serve [...]]]> di Sandro Moiso

Benedict Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 446, 24,00 euro

Evviva la «zagaglia barbara» («Il Programma Comunista», 24 marzo 1961)

Mentre la centralità dell’ordine occidentale del mondo inizia a venir meno anche in quei settori, come quello ricollegabile allo sviluppo dell’AI, in cui si sentiva più sicuro e mentre la presidenza Trump 2.0 contribuisce a rendere più incerto il sistema delle alleanze che lo hanno garantito negli ultimi ottanta anni, la pubblicazione del testo di Bendict Anderson sulle origini dell’internazionalismo “rivoluzionario” attento ai popoli e alle nazioni estranee al contesto europeo e “biancocentrico” serve da stimolo per una riflessione che, ancor troppo spesso, appare scontata nelle sue conclusioni.

Infatti, andando ad indagare un periodo in cui il socialismo era rappresentato dalle posizioni della Seconda Internazionale, la ricerca di Anderson rivela un’inaspettata e scarsamente studiata vicinanza tra le posizioni espresse dall’anarchismo e quelle proprie dei primi movimenti nazionalisti nati al di fuori del contesto europeo.

Un contesto in cui la Prima Internazionale o Associazione Internazionale dei lavoratori era nata e si era sviluppata a partire non soltanto dalla solidarietà tra i lavoratori dei vari paesi europei, ma anche da quella nei confronti degli insorti polacchi che proprio in quel periodo si battevano contro la repressione e il dominio zarista sulla loro nazione.

Non a caso un personaggio fortemente simbolico di quella stagione fu Giuseppe Garibaldi, l’”eroe dei due mondi”, guerrigliero e abile condottiero, ma scarsamente dotato dal punto di vista della visione e della capacità critica politica, così come lo ritenevano sia Marx che Engels. I quali, pur potendo essere considerati, insieme a Bakunin e altri esponenti dei movimenti politici dell’epoca come Giuseppe Mazzini, tra i “padri fondatori” di quella esperienza, sorta nel 1864 e destinata a concludersi nel 1876, ma già avviata alla sua fine a partire dall’espulsione di Michail Bakunin e di James Guillaume messa in atto al Congresso dell’Aja sulla base delle decisioni prese alla Conferenza di Londra nel 1871, ne furono contemporaneamente tra i maggiori promotori ed affossatori.

Nel 1889, sei anni dopo la scomparsa di Marx, sarebbe sorta una Seconda Internazionale sulle basi delle idee e delle pratiche socialiste espresse a partire dalla socialdemocrazia tedesca, già fortemente criticate dallo stesso filosofo di Treviri nella sua “critica al programma di Gotha”, scritta nel 1875, ma resa pubblica soltanto nel 1891.

Una seconda internazionale che avrebbe rivolto sempre e soltanto uno sguardo paternalistico, talvolta prossimo al razzismo, alle vicende dei popoli colonizzati e ai loro moti di rivolta. Una posizione che facendo propria, in chiave falsamente classista, il concetto del white man’s burden espresso da Rudyard Kipling in una sua poesia del 1899, spostava sulle spalle del proletariato bianco e occidentale e dei suoi partiti politici il fardello rappresentato dalla necessità di educare i popoli “altri”, ritenuti ancora incapaci di esprimere una propria critica teorica e pratica che, in questo caso davvero, ancora li affardellava.

Una posizione “educazionista” che più che in Marx, sempre attento alla novità rappresentate dalle lotte e dalle esigenze dei popoli posti fuori dai confini tradizionali dell’Europa e spesso schiavizzati per poter sostenere l’ineguale sviluppo economico su cui si era fondata la rivoluzione industriale e la nascita del moderno capitalismo1, aveva tratto spunto dalle considerazioni talvolta liquidatorie con cui il suo sodale Friedrich Engels aveva guardato ai popoli slavi e a tutti quelli che egli riteneva “popoli senza storia”2.

Una posizione che è possibile riscontrare ancora oggi in molte delle posizioni espresse a proposito della lotta del popolo palestinese e che, ammantandosi di classismo di maniera e ultra-sinistrismo, nei fatti nega ciò che invece costituì uno dei punti basilari della politica della Terza Internazionale o Internazionale Comunista: il diritto all’autodeterminazione dei popoli e il tentativo di integrare nella lotta del proletariato internazionale le lotte venutesi a determinare sulla base del primo, senza stravolgerne forme e contenuti specifici (Congresso di Baku – settembre 1920).

Benedict Anderson (1936-2015) è stato uno storico che ha saputo coniugare perfettamente la disciplina che ha insegnato lungamente alla Cornell University, International Studies e Storia dell’Asia orientale, con l’antropologia e ibridare la storia politica con la storia delle idee, cosa che lo ha spinto a studiare come si formi l’immaginario nazionalista e a perlustrarne le complesse vicende. Così, come afferma Stefano Boni nella sua prefazione all’edizione italiana di Anarchismo e immaginario anticoloniale:

Anderson tendeva a osservare i fenomeni non partendo dalle prospettive dominanti, spesso quelle emerse nel Nord Atlantico, ma perlustrando appieno le conseguenze della critica anticoloniale: il posizionamento prospettico a fianco dei colonizzati gli permetteva non solo di denunciare la violenza dell’occupazione europea ma anche di individuare i presupposti epistemologici del colonialismo, per scardinarli. […] La sua sensibilita e le sue conoscenze gli permettevano – e questo è forse il lascito piu importante di Anderson – di mettere in discussione assiomi eurocentrici, come l’origine propulsiva del nazionalismo nel vecchio continente, per dare spazio invece a voci neglette e soppresse3.

L’opera più conosciuta di Anderson è sicuramente Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, pubblicato per la prima volta nel 1983 e ripubblicato in una versione più ampia nel 1991. Comunità immaginate è uscito in italiano nel 1996 ed è un testo che insiste sulla comunità e il suo immaginario come premessa della nascita stessa della nazione e del nazionalismo. Comunità è un termine che, come viene spiegato dall’autore, può anche tradursi nel corso del tempo in nazione, ma, se e quando accade, è per effetto di una serie di passaggi successivi, poiché nella “comunità immaginata” è implicita l’idea che il passaggio da una comunità immaginata a una comunità “istituzionalizzata”, cioè alla nazione, si venga costruendo, nel corso del tempo, con una serie di processi legati all’accelerarsi della comunicazione tra i soggetti appartenenti alla comunità (viaggi, stampa, mercati).

Per l’autore tale processo avvenne prima fuori dall’Europa e non all’interno della stessa come tanta storiografia continua a sostenere. La prima idea di “nazione” fu quella che si formò tra i pionieri creoli delle colonie europee del continente americano: che furono i primi sostenitori di una patria nazionale in conflitto con la madrepatria, con la quale, paradossalmente, condividevano sia la lingua che la religione.

È solo dopo questa prima esperienza che nascono, nei primi decenni dell’Ottocento, i nazionalismi europei, che avrebbero avuto come base le lingue nazionali e che si costruirono con la formazione di una burocrazia di funzionari. Dando vita a una comunità, non più fondata su fattori dinastici, ma sulla borghesia in quanto classe che aveva bisogno per le sue attività produttive di una “nazione”, con territorio e lingua comuni e ben delimitati ai fini dello sviluppo di leggi condivise e mercati “protetti”.

Un modello che tornerà, poi ancora, ad essere riportato nelle colonie attraverso gli stati coloniali, soprattutto in Asia e Africa, per il tramite della formazione e del mantenimento di rigide burocrazie e di una istruzione in grado di dare ai colonizzati una medesima lingua, spesso straniera, che avrebbe poi spinto questi a ritrovare le proprie radici originarie, linguistiche e culturali.

Benedict Anderson era contrario ad una visione eurocentrica della storia e a una tradizione che ignorava l’aspetto emozionale del nazionalismo. Il termine che fa la differenza nella sua opera è, come si è già detto, immaginate, un termine che secondo Anderson evoca emozione, appartenenza e che può far comprendere la mobilitazione per la “patria” cui si aspira. Una scelta spiazzante, che rovescia lo sguardo storico (e geografico!) tradizionale e fa dell’autore un maestro e un anticipatore di tante problematiche odierne.

Nello specifico del testo ora pubblicato da elèuthera occorre ricordare non solo che l’autore focalizza il suo interesse su quanto avvenne in Indonesia e nelle Filippine a cavallo tra XIX e XX secolo, ma anche sulla funzione che gli ideali anarchici ebbero nello spingere avanti le rivendicazioni politiche anticoloniali, oltre i limiti di un marxismo, di cui si è già detto, incapace di comprendere sia l’aspetto emozionale di tale genere di lotte che il risvolto necessariamente antimperialistico e non eurocentrico delle stesse.

Anarchismo e immaginario anticoloniale riprende una visione decentrata della storia, focalizzata sulla prospettiva dei colonizzati, aggiungendo un nuovo cruciale elemento: gli scambi tra i vari movimenti anticoloniali e tra questi e gli ambienti politici radicali europei. Si tratta di relazioni intellettuali, di sostegno economico e militare, di consigli strategici su come sottrarsi al giogo imperiale per inaugurare una nazione sovrana. Idee e persone circolano; si attivano coordinamenti e circuiti internazionali di mutuo aiuto che collegano lotte distanti in un sodalizio cosmopolita[…] La narrazione conseguentemente si snoda tra Madrid, Parigi e Londra, ma anche tra Cuba e Rio de Janeiro a ovest, e tra Giappone, Hong Kong, Singapore e Manila a est. I filippini guardavano con particolare interesse alle vicende cubane: nel 1895, l’inizio dell’ultima guerra di indipendenza latinoamericana per liberarsi del morente impero spagnolo annuncia infatti la prima insurrezione armata nazionalista in Asia, quella filippina del 18964.

Sulla copertina della prima edizione inglese (2005) del testo erano affiancate tre bandiere: quella delle lotte di indipendenza cubana (bandiera che diventerà quella nazionale), quella del Katipunan (l’organizzazione segreta anticoloniale filippina del 1894) e il vessillo anarchico e, non a caso, il titolo recitava Under Three Flags, Anarchists and the Anticolonial Imagination.

L’attrazione tra nazionalismo e anarchismo, orientamenti accomunati da una tensione per la
libertà sebbene per molti versi antitetici, in particolare per ciò che concerne la riduzione della comunità politica allo Stato, raggiunse il suo apice nel periodo delle lotte anticoloniali. Nonostante Anderson abbia simpatie marxiste, riconosce appieno l’apporto del movimento anarchico che «alla fine del diciannovesimo secolo divenne il principale veicolo per diffondere su scala globale la lotta al capitalismo industriale, all’autocrazia, al latifondismo e all’imperialismo»5.

Mentre le organizzazioni socialiste focalizzavano la loro attenzione sul proletariato industriale delle metropoli, la rete delle organizzazioni anarchiche agì con maggiore eclettismo interagendo con contadini, manovali agricoli, commercianti, artisti e artigiani. Con una flessibilità che rappresentò un indubbio vantaggio inclusivo, soprattutto in aree a bassa industrializzazione, come nelle colonie. Così un «anarchismo ormai globalizzato, grazie anche alle importanti ondate migratorie che fuoriuscivano dal vecchio continente, contribuì a offrire strumenti pratici e teorici alle lotte anticoloniali.»6 Come afferma l’autore nell’introduzione al testo:

Questo libro è un esperimento che prende le mosse in quell’ambito che Melville avrebbe definito «astronomia politica», poiché prova a tracciare una mappa della forza gravitazionale esercitata dall’anarchismo sui movimenti nazionalisti militanti sviluppatisi ai poli opposti del globo.[…] sebbene l’anarchismo avesse spesso attinto al torreggiante edificio del pensiero marxista, in un’epoca in cui l’emersione di un proletariato industriale, inteso in senso stretto, si limitava essenzialmente ai paesi dell’Europa del Nord, il movimento anarchico mirava a coinvolgere anche contadini e lavoratori agricoli. […] Per di piu, ostile quanto il marxismo all’imperialismo, l’anarchismo non nutriva pregiudizi teoretici nei confronti dei «piccoli» e «astorici» nazionalismi, inclusi quelli provenienti dal mondo coloniale. Gli anarchici furono, infine, piu rapidi a cogliere le potenzialità insite negli importanti flussi migratori transoceanici dell’epoca: Malatesta trascorse quattro anni a Buenos Aires, qualcosa di inconcepibile per Marx o Engels che non lasciarono mai l’Europa occidentale, e il Primo Maggio celebra la memoria dei migranti anarchici, e non marxisti, che furono giustiziati negli Stati Uniti nel 18877.

Per certi versi soltanto Lenin avrebbe saputo accogliere nella sua interpretazione del marxismo molti di questi elementi, ma per farlo avrebbe dovuto rompere radicalmente con la tradizione della Seconda internazionale, così come si è già detto all’inizio. Aprendo però una strada che sarebbe stata più significativa per la liberazione dell’Asia dal giogo coloniale che non per la classe operaia occidentale da quello del capitale.

Un libro quello di Anderson da leggere e meditare, ripercorrendo anche con un senso di stupore le vicende collettive e quelle personali di movimenti e personaggi che troppo spesso la tradizione eurocentrica della sinistra ha cancellato, insieme a quelle dei rivoluzionari asiatici che animano le pagine di un altro bel testo sulle rivoluzioni “altre”, Asia ribelle di Tim Harper (qui). Due testi, comunque, indispensabili per orientarsi ancora oggi tra le nebbie e le distorsioni di troppo facili interpretazioni del divenire storico e del ruolo dei rivoluzionari.


  1. Oltre che agli scritti più conosciuti dello stesso Marx sul colonialismo inglese in India e in Cina, si fa qui riferimento a: E. Cinnella, L’altro Marx. Una biografia, Della Porta Editori, Pisa- Cagliari 2014; K. Marx, Quaderni antropologici. Appunti da L.H. Morgan e H.S. Maine, Edizioni Unicopli, Milano 2009: H. Jaffe, Marx e il colonialismo, Edizioni Jaca Book, Milano 1977 e P.P. Poggio, Marx, Engels e la rivoluzione russa, «quaderni di Movimento operaio e socialista» n.1, Genova, luglio 1974.  

  2. Si veda: R. Rosdolsky, Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia». La questione nazionale nella rivoluzione del 1848-49 secondo la visione della «Neue reinische zeitung», graphos edizioni, Genova 2005.  

  3. S. Boni, Prefazione a B. Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 7-8.  

  4. S. Boni, cit. in B. Anderson, op.cit., p. 11.  

  5. Ibidem, p. 12.  

  6. ivi, p. 13.  

  7. B. Anderson, op.cit., pp. 20-21.  

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Genealogia dello Stato e del moderno potere politico https://www.carmillaonline.com/2024/02/28/genealogia-dello-stato-moderno-e-del-suo-concreto-agire-politico/ Wed, 28 Feb 2024 21:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81195 di Sandro Moiso

Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, (a cura di Carlo Galli), Società editrice il Mulino, Bologna 2024, pp. 336, 29 euro

Nella cultura politica occidentale, fermamente segnata dai residui del moralismo cristiano, due sembrano ancora essere gli autori difficili da maneggiare, soprattutto a “sinistra”: Niccolò Machiavelli e Carl Schmitt. Lontani tra loro nel tempo e per collocazione politica e ideale, hanno contribuito con le loro opere, anche se il secondo era particolarmente restio ad essere appaiato al primo, a fornire validi strumenti per la comprensione e la scomposizione [...]]]> di Sandro Moiso

Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, (a cura di Carlo Galli), Società editrice il Mulino, Bologna 2024, pp. 336, 29 euro

Nella cultura politica occidentale, fermamente segnata dai residui del moralismo cristiano, due sembrano ancora essere gli autori difficili da maneggiare, soprattutto a “sinistra”: Niccolò Machiavelli e Carl Schmitt. Lontani tra loro nel tempo e per collocazione politica e ideale, hanno contribuito con le loro opere, anche se il secondo era particolarmente restio ad essere appaiato al primo, a fornire validi strumenti per la comprensione e la scomposizione dei meccanismi del Potere e dello Stato moderno nei loro elementi essenziali.

Inviso alla Chiesa il primo, le cui opere sono state per lunghissimo messe all’Indice, e al pensiero liberale e di sinistra il secondo, hanno avuto entrambi la capacità di mettere “scientificamente”, per quanto possa essere considerata scienza quella politica, a nudo gli snodi e le caratteristiche autentiche della gestione politica delle società organizzate intorno al modello statale.

Per Machiavelli, soprattutto nel Principe, l’elemento fondativo del poter, dello stato e della loro conquista e gestione è da ritrovarsi nella Forza ovvero nell’uso della violenza organizzata in funzione di tali fini. Per il secondo, a distanza di poco meno di cinquecento anni e dopo le rivoluzioni borghesi che hanno modificato l’assetto dinastico degli Stati moderni, si tratta, di definire gli stessi per mezzo delle categorie dell’eccezione e della decisione. O, per meglio dire ancora, dello stato di eccezione e della autorità basata sulla possibilità/necessità di decidere sullo e dello stato di eccezione. Così, nello svolgimento del discorso, chi scrive cercherà di cogliere il filo rosso che lega il ragionamento novecentesco di Schmitt a quello del cinquecentesco pensiero del teorico politico fiorentino.

Carl Schmitt (1888-1985) insegnò in varie università tedesche, prima di diventare professore all’Università di Berlino nel 1933, incarico che fu costretto ad abbandonare nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale a causa dei suoi discussi rapporti con il regime nazista. Ritiratosi a vita privata, dopo essere stato rilasciato nel 1946 alla fine di un periodo di internamento da parte degli alleati, continuò a lavorare e a pubblicare nel campo del diritto internazionale ed è ancora oggi considerato uno dei massimi filosofi del diritto e dello stato.

L’autore tedesco ha sempre ritenuto che La Dittatura fosse da considerare tra le sue opere migliori, se non tra i suoi capolavori, insieme alla Dottrina della Costituzione (Verfassungslehre-1927) e al Nomos della terra (Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum – 1950)1. In questo testo, pubblicato nel 1921, Carl Schmitt mette a punto l’aspetto decisionistico del suo pensiero affrontando il nesso fra politica e diritto, fra eccezione e norma.

La dittatura è infatti un istituto giuridico che mostra apertamente la sua origine politica, tanto come dittatura commissaria, in cui il dittatore ha come obiettivo la difesa extralegale di un ordinamento minacciato, quanto come dittatura sovrana, in cui il dittatore costruisce un ordine nuovo sulle macerie di un ordine distrutto. In questa seconda accezione, che equivale al potere costituente, si rivela il cuore del decisionismo. Muovendo dall’analisi della prassi dei commissari governativi fino al Settecento e della dittatura di Cromwell e del giacobinismo, Schmitt giunge in fine a prendere in esame la rivoluzione russa guidata da Lenin come una dittatura sovrana.

Le quattro prefazioni che ne accompagnano l’attuale edizione, rispettivamente del 1921, 1928, 1964 e 1978 confermano come tale opera sia da considerarsi centrale nell’evoluzione del suo pensiero, anche se, come ci ricorda Carlo Galli nella Presentazione della stessa « il libro non ha avuto particolare fortuna fra storici e politologi che, portati ad associare la dittatura al totalitarismo e all’antidemocrazia, lo hanno considerato di volta in volta “inaccettabile” (Neumann), “poco più che un libello” (Duverger), “insidioso” (Sartori) e “troppo tedesco” (Cobban) »2. Ciò che rende esecrabile il testo per alcuni suoi interpreti qui appena, e superficialmente, citati può essere, però, considerato proprio come l’aspetto originale che lo rende ancora utile e interessante per il lettore poco ammagliato o abbagliato dal pensiero liberal-democratico. Come afferma infatti ancora il curatore:

Lo scopo di Schmitt non è definire le caratteristiche tipologiche della dittatura, individuare i criteri per classificarla come forma di potere politico, determinarla come genere (distinguendola da tirannide, assolutismo, dispotismo) e come specie (romana, cesaristica, bonapartistica, rivoluzionaria, plebiscitaria, pedagogica, ecc.); né spiegarla contrapponendola a una qualche “normalità” – libertà, democrazia, Stato di diritto, costituzionalismo. In questo libro – che sarebbe stato destinato, secondo il ricordo incerto di uno Schmitt vecchio e ormai lontano dai fatti di cui parlava ad avere rapida fortuna in Italia, grazie a una traduzione in area socialista (anche se probabilmente si era trattato di una recensione) i cui piombi sarebbero scomparsi nell’agosto del 1922 tra le fiamme dell’«Avanti!» devastato dai fascisti3 – l’autore sviluppa la tematica [della realizzazione del diritto] non tanto per giungere a una teoria generale della dittatura come forma di governo quanto per fare della dittatura il nucleo della comprensione dell’origine della forma politica moderna dello Stato4.

La dittatura deve essere quindi considerata come un passaggio decisivo nello sviluppo del pensiero e nella riflessione sistematica del giurista tedesco sull’origine e la funzione dello Stato moderno, cosicché al suo interno

si percepisce lo sforzo di condurre un innovativo discorso scientifico davanti a una contingenza scandalosamente nuova, la rivoluzione russa, e al contempo, mentre argomenta dall’interno di una crisi, l’intento di ricostruire attraverso il nesso di crisi, dittatura, rivoluzione, la storia politica moderna, di trovarne il filo conduttore nell’arco che va dal giacobinismo al bolscevismo, da Sieyès a Lenin, e di individuare nella dittatura il nodo decisivo della politica, lo stare insieme – non neutralizzato – di contingenza e di necessità, di anomia e coazione ordinativa, di eccezione e di forma5.

Discorso che, nel 1922, nella Teologia politica (Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität)6, porterà l’autore a quella definitiva individuazione dell’”eccezione” come concetto cardine del diritto pubblico e della sovranità come “decisione sullo stato d’eccezione” non come attributi apicali dello Stato, ma come intima e fondamentale essenza dello stesso e del suo agire7.

Come sottolinea ancora il curatore, Schmitt « ha l’occhio alla dittatura moderna » e per questo può, e deve nel suo ragionamento, ignorare i modelli di dittatura antica, come quella romana del I secolo a. C., poiché i tratti fondamentali di quella che più gli interessa gli appaiono costituiti dal “razionalismo” e dalla “tecnicità” e da « un agire che si impone immediatamente, senza discussioni né resistenze legali e la interpreta come dipendente dalla contingenza, da una concreta situazione di fatto che deve essere risolta, portata all’ordine […] Una teoria congegnata in modo che è l’eccezione a spiegare la normalità »8.

Occorre qui introdurre ancora un altro discorso sull’opera generale di Schmitt e cioè quello sul fatto, in sé antitetico, che pur nella ricerca di un ordine stabile l’autore tedesco non rinuncia mai alla razionale analisi dello stesso, non potendo far altro che notare e sottolineare come, in realtà, nessun ordine dato possa esserlo “per sempre” e come, per tale motivo, sia, per intrinseche contraddizioni interne o manchevolezze di ordine politico e sociale, destinato ad essere superato e destituito.

Nel suo lavoro sulla Costituzione come fondamento dello Stato moderno9, capace di dare a questo la sua identità non soltanto giuridica, ha sempre sostenuto che, se da un lato, proprio per questo fatto la Costituzione data risulta “immodificabile”, dall’altro, ad ogni nuovo cambiamento o rovesciamento dell’ordine politico statale e sociale dato deve corrispondere una nuova ed “altra” Costituzione. In questo senso uno dei più autorevoli rappresentanti di quella che fu definita “rivoluzione conservatrice” finisce col fornire strumenti validissimi per la messa in discussione di un ordine, ad esempio quello liberal-borghese, che come tutti quelli precedenti, succedutisi nel tempo, si pretenderebbe invece stabile e continuo.

Da questo punto di vista Schmitt si avvicina, senza citarlo e probabilmente senza apprezzarlo, a quanto Marx afferma, fin dal Manifesto del Partito Comunista del 1848, sulla capacità e necessità della borghesia non soltanto di rovesciare e sostituire l’ordine politico, sociale ed economico che l’ha preceduta, ma anche di continuare a rompere tutti i limiti (economici, sociali, giuridici, tecnologici, politici) che si frappongono all’espansione del modo di produzione di cui, in sostanza, è soltanto l’agente.

Infatti Schmitt, nel rivolgere la sua attenzione alla frattura avvenuta in età moderna tra la forma politica dello Stato basata sulla rigida divisione tra gli ordini sociali previsto dal regime monarchico assolutista e quella inaugurata dalla Rivoluzione francese, ancor più che da quella inglese di Cromwell ancora in larga parte fondata sul pensiero religioso più che su quello razionale inaugurato dal pensiero politico illuminista, individua esplicitamente nel potere del popolo e nelle sue istituzioni rivoluzionarie, soprattutto nella Convenzione, l’origine di ciò che egli chiama dittatura sovrana, per distinguerla da quella commissaria.

Solo in tale senso, Schmitt rivaluta il pensiero controrivoluzionario cattolico, non in quanto tale o per ciò che afferma10, ma per il fatto di aver chiaramente individuato, nel rovesciamento del ruolo del monarca e di quello del popolo, la drammatica novità della rivoluzione. Da ciò deriva ancora per il pensatore tedesco « che il popolo si è posto come titolare di una potenza originaria e illimitata: appunto il potere costituente, che però non è un solido fondamento quanto piuttosto un potere oscuro: il lato nascosto, pur nella sua evidenza, dello Stato moderno »11. A questo punto, chi qui scrive pensa che si sia giunti al centro del problema e della funzione della dittatura, nelle sue due diverse forme possibili. Infatti se a Schmitt non interessa definire la dittatura come eccezione rispetto alla pretesa normalità della democrazia costituzionale, così non gli interessa metterla sullo stesso piano dell’assolutismo della prima modernità e del suo governo per il tramite dei commissari.

Il potere costituente, nella sua onnipotenza, è […] indifferente alla forma che pur deve assumere; la potenza originaria del popolo è infatti soggetta a una altrettanto originaria coazione all’ordine e alla forma: «un minimo di ordine deve sussistere». Così la dittatura sovrana è incondizionata commissione d’azione del potere costituente, non di un potere costituito come è invece la dittatura commissaria: per poter agire il potere costituente del popolo deve essere rappresentato da una dittatura sovrana, ovvero da una istituzione politica temporanea e rivoluzionaria, onnipotente (la Convenzione ne è il modello), che vede tutto il presente come un’eccezione perché ciò che attualmente esiste, il vecchio ordine, è da spazzare via, è un non-ordine, mentre al contempo è rivolta a edificare un ordine nuovo, un nuovo potere costituito […] Il passaggio dalla ragion di Stato allo Stato rivoluzionario è il passaggio dalla dittatura commissaria alla dittatura sovrana.
La differenza tra i due tipi di dittatura è, certo, che l’una crea l’ordine, e l’altra lo difende: la dittatura commissaria è fondata giuridicamente tanto nel proprio inizio (un potere costituito) quanto nel fine (gestire e portare a termine un’emergenza), mentre la dittatura sovrana rappresenta (ma non vi si fonda) un’origine e un’energia illimitata e sempre eccedente, quella del potere costituente del popolo, dalla cui indeterminatezza trae un compito indeterminato: determinare e formare un ordine giuridico nuovo. Ma la co-implicazione fra non-ordine e ordine, fra contingenza e necessità, attraverso la decisione, è la medesima. La sovranità sempre decide sul caso d’eccezione: come potere costituito, con l’affidarne a un dittatore commissario autorizzato la gestione, oppure, come potere costituente del popolo, con la dittatura sovrana che unisce la rappresentanza del popolo con l’azione diretta che decide sull’eccezione e le dà forma12.

La prima considerazione da trarre è che qualsiasi forma stato è sostanzialmente dittatoriale, qualunque siano le motivazioni indotte per giustificarne l’esistenza e le attività di governo delle emergenze e no.

Lo Stato moderno di popolo, lo Stato democratico, ma anche ogni Stato in generale, purché politicamente attivo, ha in sé la logica, e il problema, della dittatura […] La dittatura sovrana è l’Ersatz13 moderno dell’autorità tradizionale e del suo ruolo fondativo, ma con un profondo cambiamento: una volta che ha condotto a termine la propria opera, la dittatura sovrana si spegne, mentre al contrario l’autorità è sempre visibile e presente nel monarca: il potere costituente del popolo non è nemmeno nominabile in una Costituzione formale14, che attribuisce la sovranità a questo o quello soggetto istituzionale, limitandola con leggi. Ma ciò non significa che quel potere costituente, e quella dittatura sovrana, non permangano latenti come inquietanti possibilità. [Così] Se il potere costituente del popolo e la rivoluzione sono il fantasma che sempre si aggira dentro lo Stato, la cultura e le istituzioni liberali devono esorcizzarlo, perché troppo destabilizzante e tale da mettere in discussione quelli che per i liberali sono i fondamenti dell’ordine politico: i diritti individuali. E infatti negli ordini liberali il potere costituente del popolo non è previsto come sempre attivo: si spegne nella costituzione15.

La seconda è che qualsiasi rivoluzione, innanzitutto quella proletaria che nella forma bolscevica aleggia sullo sfondo delle riflessioni di Schmitt, costituisce e deve essere per forza un atto di autorità e decisione, qualsiasi sia la forma giuridica, politica e sociale a cui darà vita. Da qui lo scontro inevitabile tra autoritari e anti-autoritari che già si manifestò all’interno della Prima Internazionale ai tempi di Marx. Engels e Bakunin.

La terza considerazione è che lo stesso ordine liberal-democratico borghese nasce da un atto di forza, la rivoluzione francese, e da un potere costituente, riassumibile come fa Schmitt, in quello generico “del popolo”. Fatti tutti che rivelano come questo, come tutti gli altri, sia di fatto transeunte e tutt’altro che destinato a durare in eterno.

All’origine dello Stato moderno non vi è alcun patto sociale, come quello idealizzato da Rousseau per l’origine della società, ma soltanto un atto di forza, e qui chi scrive si ricollega a quanto detto in apertura, come quello previsto da Machiavelli nella sua opera tutt’altro che antitetica rispetto a quella di Schmitt. Perché è il tema della forza a scorrere, per via niente affatto sotterranea, nell’opera dei due pensatori politici. Uno, Schmitt, con lo sguardo rivolto ad Oriente e alla rivoluzione russa, destinata a sconvolgere gli assetti statali e imperiali, coloniali e nazionali sia in Europa che in Asia; l’altro, Machiavelli, appena uscito dall’esperienza “repubblicana” di Girolamo Savonarola e della cacciata dei Medici da Firenze. Esperienza cui fu politicamente contrario a causa del forte stampo religioso impostole da Savonarola, anche se ne condivise gli ideali democratici e popolari.

In fin dei conti, proprio la nascita delle ancor troppo localistiche signorie italiane aveva già rivelato la base autoritaria degli Stati moderni e l’uso della forza come strumento di superamento di un non-ordine allora costituito da una fasulla democrazie comunale in cui gli opposti interessi di Chiesa, mercanti, aristocrazie terriere, artigiani e nascente proletariato urbano di fatto servirono soltanto a sviluppare l’interesse “particulare” di cui si fece campione il Guicciardini e che, nei fatti concreti, limitò ogni rivoluzione borghese in Italia alla collaborazione con l’aristocrazia ancora guerriera e alle sue bande armate mercenarie, prima, e all’unica monarchia, quella dei Savoia, che avesse a disposizione un forza organizzata in un esercito degno di questo nome.

Un’ultima considerazione, valida ancora e forse soprattutto oggi, viene svolta a latere da Schmitt nel 1928, proprio nella sua Dottrina della costituzione:

Potrebbe immaginarsi che un giorno per mezzo di ingegnose invenzioni ogni singolo uomo, senza lasciare la sua abitazione, con un apparecchio possa continuamente esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste opinioni vengano automaticamente registrate da una centrale, dove occorre solo darne lettura. Ciò non sarebbe affatto una democrazia particolarmente intensa, ma una prova del fato che Stato e pubblicità sarebbero totalmente privatizzati. Non vi sarebbe nessuna pubblica opinione, giacché l’opinione così concorde di milioni di privati non dà nessuna pubblica opinione, il risultato è solo una somma di opinioni private. In questo modo non sorge nessuna volontà generale, nessuna volonté général, ma solo la somma di tutte le volontà individuali la volonté de tous.

Qui a colpire non è soltanto l’anticipazione di quanto si è realizzato a poco meno di cento anni di distanza con l’uso e l’abuso dei social media, ma anche la chiara indicazione, se si legge tra le righe, che un’opinione o una volontà non si può esprimere che per il tramite di un partito che, però, non può essere predestinato soltanto alla conservazione del presente all’interno di un meccanismo parlamentare già dato. In questo caso la volontà non può esprimersi che per mezzo di un partito rivoluzionario, autentico strumento bellico di rottura definitiva dell’ordine precedente e non di mediazione; grande, e fino ad ora insoddisfatto, quid di qualsiasi politica antagonista a venire.

Per ragioni di spazio occorre qui, obbligatoriamente, chiudere la recensione e la riflessione di e su un testo e un autore che, pur essendo considerato, spesso superficialmente, come appartenente al solo conservatorismo, all’interno di un pensare sempre “eretico” può rivelarsi ancora molto utili per chi voglia opporsi e ribellarsi al miserabile stato di cose presenti. Questo non per riproporre il superamento delle barriere tra destra e sinistra con cui un facile sovranismo sinistrorso vorrebbe risolvere le difficoltà politiche attuali, ma al fine di avere a disposizione validi e razionali strumenti analitici al fine di una più corretta verifica dei rapporti di forza intercorrenti tra Stato, società e movimenti (oggi ancor troppo deboli sia sul piano numerico che teorico e organizzativo). Soprattutto per superare le illusioni liberali e individualistiche ancor troppo radicate in questi ultimi.


  1. C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984 e C. Schmitt, Il Nomos della terra. Nel diritto internazionale dello « jus publicum europaeum », Adelphi Edizioni, Milano 1991  

  2. C. Galli, Presentazione in C. Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Società editrice il Mulino, Bologna 2024, p. 9.  

  3. Cfr. la lettera del 1969 di Schmitt a Gianfranco Miglio, su cui C. Galli, Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978). Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica in «Materiali per una storia della cultura giuridica», n.1, 1979, pp. 81-160.  

  4. C. Galli, Presentazione in C. Schmitt, La dittatura, op. cit., p. 10.  

  5. C. Galli, op. cit., p. 12.  

  6. C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità in C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Società editrice il Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86.  

  7. In proposito si veda qui  

  8. C. Galli,op. cit., p. 13.  

  9. Si vedano in proposito: C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, Giuffrè editore, Milano 1984 e C. Schmitt, Il custode della Costituzione (Der Hüter der Verfassung,1931), Giuffrè editore, Milano 1981.  

  10. Si veda: C. Schmitt, Donoso Cortés (Donoso Cortes in gesamteuropäischer Interpretation – 1950), Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 1996  

  11. C. Galli, op. cit., p. 16.  

  12. Ivi, pp. 16-17.  

  13. succedaneo, sostituto – NdR  

  14. Si pensi soltanto al dibattito avvenuto in Italia in sede di Assemblea Costituente intorno al diritto all’insorgenza dei cittadini nei confronti di un governo che non dovesse rispettare il patto costituzionale, in cui furono i rappresentanti del cattolicesimo di sinistra (La Pira, Dossetti e altri) a battersi in tal senso contro il fermo divieto imposto all’epoca dalla DC di De Gasperi e dal PCI di Togliatti.  

  15. C. Galli, op.cit., pp. 18-20.  

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L’opera aperta di Marx: un pensiero della totalità che non si fa sistema https://www.carmillaonline.com/2021/11/27/lopera-aperta-di-marx-un-pensiero-della-totalita-che-non-si-fa-sistema/ Fri, 26 Nov 2021 23:10:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69271 di Fabio Ciabatti

Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”. Il lungo presente e i miei studenti. Corso di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, pp. 535, € 35,99.

Marx non può essere considerato un classico. Sono troppe le passioni che ancora suscita la lettura dei suoi scritti per la radicalità della loro critica al sistema capitalistico. Ma c’è di più. Marx rimane un nostro contemporaneo per il carattere aperto della sua opera che, ancora oggi, ci consente di dipanare il filo dei suoi ragionamenti in molteplici direzioni utili per indagare le radici del nostro presente, anche al di là [...]]]> di Fabio Ciabatti

Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”. Il lungo presente e i miei studenti. Corso di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, pp. 535, € 35,99.

Marx non può essere considerato un classico. Sono troppe le passioni che ancora suscita la lettura dei suoi scritti per la radicalità della loro critica al sistema capitalistico. Ma c’è di più. Marx rimane un nostro contemporaneo per il carattere aperto della sua opera che, ancora oggi, ci consente di dipanare il filo dei suoi ragionamenti in molteplici direzioni utili per indagare le radici del nostro presente, anche al di là degli originari programmi di ricerca del rivoluzionario tedesco. Per comprendere questo carattere di apertura, sostiene Paolo Favilli nel suo ultimo libro A proposito de “Il capitale”, bisogna prendere in considerazione il rapporto tra la teoria marxiana e la storia, in un duplice senso. Da una parte bisogna comprendere fino in fondo la “fusione chimica” tra due dimensioni teoriche, quella economica e quella storica, che si intrecciano profondamente nella sua opera e in particolare ne Il capitale; dall’altra occorre capire come le vicende storiche concrete, e in particolare quelle del movimento operaio, abbiano inciso sulla ricezione, l’interpretazione e l’utilizzo del testo marxiano.

Per quanto riguarda il primo punto, bisogna partire dal fatto che per Marx dietro a ogni categoria, anche la più astratta,  c’è sempre una realtà concreta storicamente determinata, mai una realtà universale e eterna. La ricerca della logica specifica dell’oggetto specifico non può prescindere da un’incessante messa a punto degli strumenti concettuali che, per essere adeguati, devono con continuità consumare produttivamente una grande quantità di dati empirici.
D’altra parte Marx non è certo un empirista. Il capitale è, senza dubbio, un lavoro pensato attraverso la categoria di totalità anche se, ed è questo il punto su cui insiste l’autore, non si chiude mai nella costruzione di un sistema. L’opera del rivoluzionario tedesco è un “non finito” che combina Prometeo e Sisifo. 

Sforzo prometeico per abbracciare un insieme di relazioni tendenzialmente “totale” e nel contempo necessità di ritorni, ripartenze, modifica degli strumenti analitici per la comprensione della realtà del capitale in perpetuo mutamento.1

Detto altrimenti il pensiero di Marx è un pensiero della complessità, intendendo questa  categoria in due delle sue principali accezioni:

“complessità” come realtà multiforme, complicata, e “complessità” come realtà “complessiva”, un insieme costituito da parti intenzionalmente legate. … . Le parti non possono essere comprese se non nella prospettiva del tutto, e il tutto senza opera di ricerca empirica, teoricamente fondata, sulle specificità delle singole parti.2

Una complessità che possiamo vedere con chiarezza quando Marx si dedica allo studio di alcune aree coloniali e di marginalità nello sviluppo del capitalismo-mondo. Posto di fronte alla domanda del ruolo della comunità rurale russa per lo sviluppo del socialismo, Marx non fa predizioni sul corso necessario della storia, ma risponde con una serie di frasi ipotetiche. Solo se si fossero realizzate alcune condizioni storico-politiche per l’evoluzione della comunità di villaggio in un contesto di più alta civiltà si sarebbero potute materializzare traiettorie storiche diverse da quelle studiate nel caso del first comer (l’Inghilterra) e che erano servite come base per la costruzione del modello astratto marxiano.

Né la dissoluzione dell’obscina, né il suo sviluppo “come elemento rigeneratore” sono iscritte in una “fatalità” storica, bensì in una contingenza storica in cui operano elementi di determinismo, i diversi lineamenti di una storia di lungo periodo, e altri di volontarismo: le scelte politiche possibili.3

Nell’approccio di Marx, dunque, non abbiamo solo a che fare con la storia, ma anche con il presente come storia. Un presente il cui studio ci  permette di conoscere il  ventaglio di possibilità che ragionevolmente ci si può attendere dalle logiche dei processi in atto.
Ciò detto, non bisogna mai dimenticare che il Marx della maturità è soprattutto un economista politico. Tutto sta nel comprendere la peculiarità della sua concezione di questa materia. L’ambiente economico è sicuramente il primo piano del capitalismo, ma non è “disincarnato”. La riproduzione di rapporti sociali è comprensibile solo tramite l’indagine delle specifiche relazioni tra i membri della “società borghese”, gli “uomini in carne ed ossa”, e la catena delle mediazioni che li collega ai processi di accumulazione. Senza mai dimenticare il ruolo decisivo assegnato alla riproduzione delle forme ideologiche e di coscienza necessarie alla prosecuzione del processo di valorizzazione del capitale. La filosofia non è la strada principale per la critica marxiana delle categorie analitiche dell’economia classica, ma per questa critica rimane importante la “propedeutica dei concetti” e dunque l’utilizzo di una qualche forma di  pensiero filosofico, principalmente di tipo epistemologico.
Solo grazie a una concezione così articolata è possibile porre all’economia “questioni  di senso”, cosa che sarebbe insensata per la stragrande maggioranza degli attuali economisti. In questo contesto, per esempio, si può porre il problema dell’alienazione. Una questione che il giovane Marx pone in termini filosofici, ma che non scompare, pur tramutandosi, nel maturo critico dell’economia politica. Non bisogna però considerare l’alienazione come una situazione di scissione da un astratto ente generico, da una natura umana intesa in senso essenzialistico. Essa, piuttosto, va intesa come lo scontro, lo iato che si apre, all’interno della stessa modernità, tra le spietate logiche dell’accumulazione capitalistica e le potenzialità di realizzazione individuale e collettiva dischiuse dallo sviluppo delle forze produttive promosso dal capitale. Leggere il presente come storia apre alla comprensione delle diverse possibilità di emancipazione che si danno nel nostro mondo per le quali, però, non c’è alcuna garanzia di realizzazione. Consente di vedere lo scarto tra attualità e potenzialità del nostro presente. 

Da quanto fin qui detto appare chiaro che l’idea, spesso ripetuta, del marxismo come Bibbia del movimento operaio è quanto di più lontano possa esserci dagli obiettivi e dal metodo scientifico di Marx. Eppure questa idea è al tempo stesso vera se consideriamo la storia effettiva di un movimento che, nel momento della sua nascita, sentiva il bisogno di una conferma “scientifica”, di una garanzia “in ultima istanza” del suo “giusto” operare nella storia. E con questo arriviamo al secondo punto relativo al rapporto tra Marx e la storia cui abbiamo accennato all’inizio. Questo uso spesso distorto delle categorie di Marx si inscriveva comunque in un processo di crescita delle organizzazioni operaie e di consolidamento della loro autoconsapevolezza. Un processo che rientrava senza dubbio negli intendimenti di Marx. Il fraintendimento della sua opera, paradossalmente, era sempre  una forma di marxismo.
Alla fine dell’Ottocento, quando la maggioranza dei partiti socialisti si stavano costituendo dandosi un’identità “marxista”, il clima culturale e politico favoriva le logiche dell’“assoluta opposizione”. In molti paesi d’Europa nei loro confronti erano in vigore leggi fortemente restrittive, fino alla completa messa fuori legge. Anche i socialdemocratici  tedeschi, con una struttura solidissima e molti parlamentari tra le loro fila, si trovavano nella condizione di una nazione separata all’interno dello Stato. Non sorprende dunque che si sviluppasse una sorta di socialismo “integrale” che si proponeva di  elaborare strumenti concettuali a partire da una propria filosofia, una propria economia politica, una propria sociologia ecc. Un processo di separazione culturale di cui l’asse portante era il marxismo inteso non come una teoria del capitalismo, ma come una concezione complessiva del mondo che consentiva di individuare le tappe per l’affermazione del socialismo all’interno della società capitalistica.

I protagonisti del marxismo diventano movimenti sociali, movimento operaio organizzato, partiti socialisti, comunisti, poi addirittura “Stati socialisti”. Si tratta di marxismo strutturato che risponde a precise contingenze storiche. Semplificando, ma non troppo, si può dire che ciascuna delle “strutture” che ha necessità di assumere una “identità” marxista, s’inventa il marxismo di cui ha bisogno.4

Infine, a partire dalla rivoluzione russa, evento del tutto interno alla Grande guerra, il comunismo del Novecento assume per decenni le caratteristiche del “comunismo di guerra”. E la stessa lettura de Il capitale è soggetta alle leggi belliche. La correttezza della strategia politica e, talvolta, anche delle svolte tattiche, doveva essere dedotta direttamente dall’analisi scientifica. Arrivati a questo punto una “errata” interpretazione di Marx poteva portare alla fucilazione. Con il farsi stato del marxismo assistiamo ad uno scarto decisivo rispetto alla storia precedente che forse andrebbe sottolineato con maggiore forza di quanto faccia l’autore. La miscela instabile tra disciplinamento e autoemancipazione che aveva spesso caratterizzato le organizzazioni operaie, soprattutto quelle più strutturate, non regge più. Una funesta parodia del pensiero marxiano diviene instrumentum regni.
Rimane però il fatto che, a partire dalle vicende tragiche del comunismo di guerra, non si può ridurre la storia del comunismo stesso a una sequela di crimini. In questo modo, sottolinea Favilli, si dimenticherebbe che il pensiero critico ha potuto condizionare le tendenze totalizzanti e disumanizzanti dell’accumulazione capitalistica solo perché si è fatta resistenza reale, antitesi concreta al sistema dominante attraverso la storia del movimento operaio nelle varie forme politiche, sindacali, addirittura istituzionali. Insomma, nella storia dei comunismi sono presenti sia i momenti peggiori sia quelli migliori della storia umana: Gulag ed emancipazione.

L’incontro tra marxismo e movimento operaio, nelle molteplici forme in cui si è dato, non è il frutto di una necessità storica, ma il risultato di una possibilità. Anche se, a posteriori, possiamo dire si sia trattato di un’evenienza molto probabile, date le variabili in campo. Variabili che entrano in gioco in un preciso contesto, nazionale e internazionale. Per questo il ruolo del marxismo nel prossimo futuro non potrà essere, con ogni probabilità, quello del passato. Inutile invocare a ogni piè sospinto la ricostituzione di un autentico partito comunista quale deus ex machina in grado di risolvere tutti i nostri problemi.  Questo, però, non significa affermare che il pensiero di Marx non potrà avere alcun ruolo.
Conviene a questo punto seguire Favilli nella sua ricostruzione dell’evoluzione del pensiero politico di Marx che, dalla concezione quarantottesca di un partito d’avanguardia, passa, con l’adesione all’Internazionale, al tentativo di elaborare un quadro di riferimenti concettuali capace di allargare gli orizzonti del movimento reale, senza sovrapporsi alla sua effettiva esperienza. La forza dei testi scritti da Marx per l’Internazionale consisteva proprio “nella naturalità con cui venivano a coniugarsi il vissuto operaio nell’organizzazione di classe, la valorizzazione della sua esperienza, e gli orizzonti generali dell’emancipazione”.5
Resistenza e azione politica diventano i momenti centrali dell’elaborazione marxiana sull’organizzazione operaia. Si trattava di un modello di intervento intellettuale completamente interno al soggetto sociale che proponeva una “concezione forte di democrazia partecipativa, fondata su profondi e complessi processi di autoemancipazione collettiva”.6 Questo Marx, nota l’autore, potrebbe sembrare oggi quello più inattuale di fronte alla “crisi del soggetto della trasformazione, alla scomparsa della classe generale, e alla metamorfosi dell’attore sociale di massa in spettatore”.7 In effetti oggi l’antitesi ha perduto il nucleo centrale aggregante, la classe operaia dell‘Occidente industriale. L’antitesi però non è scomparsa e, soprattutto, non sono scomparse le condizioni per una sua ricostruzione.

Ora è possibile che la contraddizione capitale lavoro possa non essere percepita come centrale nel contesto della società liquida, ma è certo che nel suo ambito la ricostruzione dell’antitesi può avere funzione aggregante sull’intero panorama delle contraddizioni esistenti.8

Nel mondo contemporaneo assistiamo all’intrecciarsi di due differenti strati temporali: i flussi finanziari e informativi veicolati dalle reti informatiche globalizzate si intersecano con il ritorno su larga scala di forme di sfruttamento selvaggio non dissimili da quelle  sperimentate durante gli albori del capitalismo, quando la logica totalitaria dell’accumulazione non era contrastata da un’antitesi sufficientemente forte. Anche per questo c’è un elemento in comune tra il nostro presente e l’inizio della modernità nei riguardi della costruzione di questa antitesi: “senza la ‘resistenza’ non si inizia nessun percorso”. Oggi, come allora, la resistenza è necessaria contro il nuovo totalitarismo della funzione economica, contro il nuovo pensiero unico. Allora gli scioperi falliti, gli anacronismi di chi difendeva modi di lavoro destinati ad essere superati dallo sviluppo economico e tecnologico crearono le organizzazioni nuove e il nuovo spirito collettivo. Nel capitale-totale del nostro tempo ci sono numerosi semi di quella stessa pianta e anche qualche germoglio. Non possiamo sapere quali daranno frutti. Sappiamo solo che in passato è successo e che certe condizioni di fondo del nostro lungo presente sono rimaste immutate. Per immaginare le possibilità che si aprono nel nostro futuro, dunque, possiamo certamente cercare di comprendere gli elementi di determinismo rintracciabili nella storia di lungo periodo, ma senza mai dimenticare il carattere in ultima istanza irriducibilmente antideterminista della storia.


  1. Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, p. 142. 

  2. Ivi, p. 356. 

  3. Ivi, p. 342. 

  4. Ivi, p. 233. 

  5. Ivi, p. 307. 

  6. Ivi, p. 310. 

  7. Ivi, p. 310. 

  8. Ivi, p. 526. 

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Parigi 1871 – Varsavia 1944 – Kobane 2019? https://www.carmillaonline.com/2019/10/15/parigi-1871-varsavia-1944-kobane-2019/ Tue, 15 Oct 2019 21:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55375 di Sandro Moiso

“Non abbiamo amici, solo le montagne” (proverbio curdo)

Negli ultimi anni ci siamo talmente abituati al pietismo cristiano, al pacifismo imbelle ed inutile, al populismo e al sovranismo di politici miserabili, così come al ritorno sulla scena delle più tristi ideologie nazionaliste e frontiste novecentesche e di una solidarietà pelosa e utile soltanto ai giochi delle politica più infame, da non saper più reagire con il giusto internazionalismo, rivoluzionario e di classe, ai drammi e alle rivolte che agitano il pianeta in queste ultime settimane.

Dal Rojava all’Iraq, dall’Ecuador [...]]]> di Sandro Moiso

“Non abbiamo amici, solo le montagne” (proverbio curdo)

Negli ultimi anni ci siamo talmente abituati al pietismo cristiano, al pacifismo imbelle ed inutile, al populismo e al sovranismo di politici miserabili, così come al ritorno sulla scena delle più tristi ideologie nazionaliste e frontiste novecentesche e di una solidarietà pelosa e utile soltanto ai giochi delle politica più infame, da non saper più reagire con il giusto internazionalismo, rivoluzionario e di classe, ai drammi e alle rivolte che agitano il pianeta in queste ultime settimane.

Dal Rojava all’Iraq, dall’Ecuador a Hong Kong, passando per le gigantesche manifestazioni giovanili in difesa dell’ambiente, della giustizia climatica e della specie, un enorme movimento tellurico scuote le società, all’Est come all’Ovest o in Medio Oriente.
Un tempo almeno si sarebbe cantato Tutto il mondo sta esplodendo…, ma oggi no: ognuno si schiera con una causa e in ogni causa troveremo chi si schiera sulla base di uno degli elementi elencati in apertura oppure con uno dei due fronti in lotta adducendo motivazioni tratte dal grigio frontismo ereditato dal ‘900.

Tutto ciò non indebolisce soltanto i movimenti in lotta contro l’iniquo presente, ma fa sì che vada persa qualsiasi lucida e necessaria capacità di analizzare le mosse di quello che dovrebbe essere il nostro avversario unico (il modo di produzione capitalistico) e quelle che dovrebbero essere messe in atto da un movimento realmente antagonista.

Piace ai media, in tutte le loro forme, parlare di vittime, soprusi, dolore e terrore, in una maniera tale da creare confusione, come succede nel percorso della Salita della Memoria a Brescia, dove con le formelle sono state affiancate vittime e carnefici di una violenza che sembra essere più una manifestazione del Male assoluto che non il prodotto di reali contraddizioni sociali e battaglie di classe. Così, per fare un esempio, il commissario Calabresi può essere posizionato subito dopo l’anarchico Serantini, mentre di Giuseppe Pinelli non si trova neppure traccia.

Così in queste ore drammatiche, mentre il secondo esercito della Nato, appoggiato dalle milizie integraliste, ha iniziato a schiacciare la resistenza curda nel Rojava, tutti si sono affrettati a denunciare il genocidio (che Erdogan stava evidentemente pianificando da tempo) e a condannare l’azione turca, senza però mai toccare l’argomento dell’esperienza organizzativa, politica, economica, ambientale, di parità di genere e militare che le forze democratiche curde stanno da tempo portando avanti in una delle aree più calde (dal punto di vista militare e geopolitico) del pianeta (qui).

Se la questione profughi durante l’estate scorsa, quando la sinistra istituzionale preparava il proprio immeritato ritorno al governo, ha visto mobilitazioni generose e ampie, la mobilitazione in solidarietà con i curdi del Rojava e le loro unità di combattimento e protezione ha incontrato maggiori difficoltà, di modo che le manifestazioni in loro appoggio, anche se gli ultimi giorni hanno visto ampliarsi il loro numero, non sono mai state fino ad ora abbastanza unitarie oppure abbastanza forti da poter premere su un governo vile e pauroso, incapace di prendere posizione proprio a causa degli interessi delle più di 1400 imprese italiane che operano in Turchia, con la quale l’interscambio commerciale italiano ruota intorno ai 20 miliardi di euro annui.

In tale contesto, poi, i dubbi di molti “compagni” o presunti tali deriverebbero dal fatto che i curdi del Rojava hanno accettato, al fine di potersi armare, l’aiuto americano nel periodo della loro sanguinosa lotta contro l’ISIS, con la quale hanno rappresentato l’unica vera opposizione militare vincente all’espansionismo di Daesh nel Medio Oriente.

Altri ancora, incapaci di pensare alla Russia di Putin come a uno dei tanti attori dell’imperialismo nella regione, non riescono a slegare l’attivismo politico e diplomatico, oltre che militare, del nuovo zar di Mosca dalle loro personali e ingiustificate fantasie nostalgiche sull’URSS di staliniana memoria, contribuendo così a proiettare nel mondo contemporaneo ideali frontisti che già contribuirono alla distruzione del proletariato europeo e della sua autonoma iniziativa di classe nel corso del secondo conflitto mondiale.

Purtroppo, però, anche chi cerca in tutti i modi di appoggiare e difendere l’esperienza del Rojava, dimentica la Storia e può illudersi che un cambiamento di alleanza (il passaggio delle milizie curde a fianco delle truppe di Assad, con l’appoggio molto vago della Russia) oppure un intervento diplomatico europeo possano contribuire a risolvere la situazione militare sul campo. No, cari compagni, state sbagliando anche voi. Soprattutto quando si difende il Rojava mettendo in primo piano la sua azione anti-ISIS piuttosto che l’importanza del suo esperimento politico.

Immemori della Storia ignorate un paio di cose niente affatto secondarie.
La prima è data dal fatto che nessun rappresentante dell’imperialismo internazionale, nonostante le gravi contraddizioni politico-militari ed economico-territoriali che lo attanagliano, potrebbe mai difendere con convinzione e mezzi adeguati un esperimento sociale teso alla sua destituzione e a quella del modo di produzione e dei rapporti di forza sociali che lo fondano.

Non solo gli Stati Uniti hanno “tradito”, ma pure gli europei, anche quando fingono di voler condannare il sovrano di Ankara. La cui potenza militare, la posizione geo-politica e, ancora una volta, l’interscambio commerciale (80 miliardi di euro annui con la sola Europa) è più importante per la Nato e l’Occidente di qualsiasi altra considerazione umanitaria e “democratica”.
Anzi in realtà, forse, nessuno ha tradito, neanche Trump: semplicemente ognuno ha agito o agisce in base al proprio interesse prioritario. Ai vertici del quale non sta sicuramente la questione curda o la salvezza del Rojava; mentre tutti sono disposti ad inviare le proprie cannoniere in difesa dei giacimenti di petrolio, come sta accadendo in queste ore per i giacimenti ciprioti (qui), ma non a bloccare collettivamente ed immediatamente la vendita di armi al regime di Ankara.

La seconda questione è anche più semplice anche se, una volta dimenticata la Storia dei conflitti sociali e militari, sembra oggi più difficile da comprendere.
Il dramma che sta per avvenire a Kobane, e nelle altre località dove si è maggiormente manifestato l’esperimento del confederalismo democratico curdo, è già avvenuto altre volta nella Storia degli ultimi 148 anni.

Infatti dopo la sconfitta delle truppe francesi e di Napoleone III a Sedan nel 1870, i comandi prussiani non ebbero difficoltà a lasciare che una parte dell’armata francese si riarmasse per reprimere nel sangue l’esperimento della Comune di Parigi, prima forma di autogestione politica, militare ed economica del proletariato francese ed europeo. Il muro dei federati al cimitero di Père-Lachaise, dove il 28 maggio del 1871 furono fucilati 147 comunardi superstiti dopo la caduta della città nelle mani delle truppe versagliesi, è ancora lì a ricordarcelo, anche se tanti corrono a visitare da turisti quel cimitero ricordando soltanto che lì si trova la tomba di Jim Morrison.

L’avanzata delle truppe di Assad, in compenso, sarà lenta. Putin non vuole una divisione della Siria che metta in pericolo la presenza delle basi russe in quell’area e, contemporaneamente non vuole irritare il novello compare Erdogan, che ha contribuito ad armare con i più moderni sistemi di difesa e di attacco attualmente a disposizione della tecnologia militare russa. Per questo si è già chiamato fuori, mentre i militari siriani si stanno spostando verso Kobane, ma quando arriveranno ancora non si può sapere con certezza.
Motivo per cui vale qui un secondo esempio.

Tutti ricordano la gloriosa e disperata rivolta del ghetto di Varsavia nelle primavera del 1943 (19 aprile – 16 maggio). Unico ghetto ad insorgere contro il tentativo tedesco di deportarne tutti gli abitanti, vide circa cinquecento giovani male armati (con revolver e bottiglie molotov principalmente) tener testa per quasi un mese, sotto il comando di Marek Edelman (membro del Bund – Unione Generale dei Lavoratori Ebrei), a migliaia di soldati tedeschi e membri delle SS.
Sono però di meno coloro che ricordano l’insurrezione dell’anno successivo (1 agosto – 2 ottobre 1944), quando l’intera città insorse contro l’occupazione nazista, mentre le truppe sovietiche si trovavano già alle porte della stessa. I combattimenti portarono ad una prima ritirata delle truppe della Wermacht, che però poi tornarono in forze per sconfiggere la resistenza polacca e massacrare decine di migliaia di abitanti (donne e bambini compresi, naturalmente) sotto gli occhi impassibili dei comandanti sovietici che fecero entrare le truppe tra le rovine della città soltanto nel gennaio del 1945.

Stalin e i sovietici preferirono sicuramente assistere al massacro e alla distruzione della città simbolo delle resistenza polacca dalla riva orientale della Vistola, piuttosto che aiutare un popolo ritenuto non solo nemico, ma anche coraggioso, ribelle e fieramente desideroso d’indipendenza.
Proprio quel popolo che sia la Prima Internazionale che Marx e i volontari garibaldini, nel corso di due sfortunate spedizioni (quella di Francesco Nullo, fucilato dalle truppe zariste a Krzykawka, il 5 maggio 1863, e quella di Stanislao Bechi, caduto a Włocławek il 17 dicembre 1863) cercarono di appoggiare durante l’insurrezione del 1863 contro il dominio zarista.

A settant’anni di distanza l’uno dall’altro, questi episodi sembrano anticipare quello che sarà, in assenza di una maggiore solidarietà internazionalista su scala mondiale, il destino dell’esperimento confederalista del Rojava, a meno che i curdi stessi non scelgano una strada di rinuncia ai loro ideali.
L’invasione turca della Siria del Nord-est ha diverse motivazioni e ancora più diverse sono le contraddizioni in loco che faranno del Vicino Oriente il luogo in cui si scatenerà, molto probabilmente, il prossimo conflitto globale, ma affinché quest’ultima possibilità si dispieghi in tutta la sua orribile determinazione e potenza occorre che il Rojava sia sconfitto, sottomesso e distrutto. Molto probabilmente nel balbettio insignificante dell’Europa (che su quelle sponde finirà di affondare come a Monaco nel settembre del 1938), nel rumore assordante delle manovre diplomatiche di Stati Uniti e Russia, nel mugugnare di opposizioni che dopo aver perso il faro dell’internazionalismo troppo spesso si perdono nel frontismo e nelle dispute ideologiche ormai mummificate, e, soprattutto, tra le urla, i lamenti e le bestemmie dei feriti e dei morenti, dei combattenti e dei civili del Rojava. Ovvero di questa nuova Comune al centro dell’inferno che viene .

Un’area in cui, ancora una volta, si giocherà sulla pelle dei più deboli una partita cinica e spietata, dove anche i profughi diventeranno sempre più un’arma di ricatto nei confronti degli “alleati” europei oppure autentica una volta spostati nel Nord-est siriano ed invitati a difendere il territorio. assegnatogli dal nuovo Saladino, contro i curdi. Anche questa una storia assolutamente non nuova se si pensa che la Francia colonizzò l’Algeria deportando là molti insorti del 1848 e il Regno Unito l’Australia deportandovi sottoproletari e ribelli irlandesi, solo per fare rapidamente due riferimenti storici.

Mentre in un paese politicamente vile da troppo tempo, in cui i combattenti di ritorno dalle miliziue curde sono inquisiti, i traditori di Abdullah Öcalan1, e di qualsiasi altra opzione che non sia quella di servire fedelmente gli interessi del capitale nazionale ed internazionale, fingono di stracciarsi le vesti, stazzonandole peraltro soltanto un po’.

Ultima ora

A dimostrazione della sua ‘democraticità’ e ‘neutralità’, Facebook ha oscurato i profili di alcune testate italiane indipendenti da sempre schierate a fianco della battaglia condotta dai curdi del Rojava. La Redazione di Carmillaonline si schiera e solidarizza con Infoaut, Contropiano, Dinamopress, Radio Onda D’Urto, Globalproject.info e Milanoin movimento.com, nel denunciare l’accaduto, probabile premessa ad ancor più gravi censure future nei confronti di chi si opporrà alla guerra, non solo turca.


  1. Nel 1998 le autorità siriane scelsero di non consegnare il leader del PKK ai Turchi, ma gli intimarono di lasciare il paese. Per Öcalan fu l’inizio di una lunga odissea alla ricerca di asilo politico durante la quale egli si rifugiò prima in Russia da cui fu invitato ad allontanarsi dopo pochi giorni.
    Da Mosca Öcalan giunse a Roma il 12 novembre 1998 dove il leader del PKK si consegnò alla polizia italiana, sperando di ottenere asilo politico, ma la minaccia di boicottaggio verso le aziende italiane spinse il governo D’Alema a ripensarci.
    Non potendo estradare Öcalan in Turchia, e a causa del ritardo nella concessione del diritto d’asilo, che fu riconosciuto a Öcalan troppo tardi, il 16 gennaio 1999, dopo 65 giorni, Öcalan fu convinto a partire per Nairobi.. Il “caso Öcalan” fu origine di critiche al governo D’Alema, accusato tra l’altro di aver trascurato gli articoli 10 e 26 della Costituzione italiana che regolano il diritto d’asilo e vietano l’estradizione passiva in relazione a reati politici.
    Il 15 febbraio 1999 Öcalan fu catturato dagli agenti dei Servizi segreti turchi del Millî İstihbarat Teşkilatı[9] durante un suo trasferimento dalla sede della rappresentanza diplomatica greca in Kenya all’aeroporto di Nairobi e portato in Turchia dove fu subito recluso in un carcere di massima sicurezza. Dove tutt’ora sconta l’ergastolo  

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Errico Malatesta tra crisi dello Stato liberale e crisi del movimento operaio https://www.carmillaonline.com/2018/05/23/errico-malatesta-tra-crisi-dello-stato-liberale-e-crisi-del-movimento-operaio/ Wed, 23 May 2018 20:30:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45822 di Sandro Moiso

F. Bertolucci, R.Carocci, V. Gentili, G.Sacchetti, Errico Malatesta. Un anarchico nella Roma liberale e fascista, (a cura di R. Carocci) BFS Edizioni, Pisa 2018, pp. 176, € 18,00

Quelli appena pubblicati dalla BFS Edizioni sono gli atti del convegno Malatesta un rivoluzionario a Roma, organizzato dall’Associazione di Idee “I Refrattari” a Roma il 28 maggio 2016. Atti la cui la pubblicazione risulta particolarmente importante poiché non soltanto riguardano uno dei principali esponenti dell’anarchismo italiano ed internazionale a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ma anche perché coincide con un periodo particolarmente travagliato e complesso della [...]]]> di Sandro Moiso

F. Bertolucci, R.Carocci, V. Gentili, G.Sacchetti, Errico Malatesta. Un anarchico nella Roma liberale e fascista, (a cura di R. Carocci) BFS Edizioni, Pisa 2018, pp. 176, € 18,00

Quelli appena pubblicati dalla BFS Edizioni sono gli atti del convegno Malatesta un rivoluzionario a Roma, organizzato dall’Associazione di Idee “I Refrattari” a Roma il 28 maggio 2016.
Atti la cui la pubblicazione risulta particolarmente importante poiché non soltanto riguardano uno dei principali esponenti dell’anarchismo italiano ed internazionale a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ma anche perché coincide con un periodo particolarmente travagliato e complesso della vita politica e sociale italiana del XXI secolo.

Nato nel 1853 e morto nel 1932 Errico Malatesta ebbe modo di seguire da protagonista, quasi indiscusso, i travagli del movimento operaio e rivoluzionario negli anni compresi tra lo sviluppo e il fallimento della Prima internazionale, la crisi e le lotte di classe di fine secolo, lo sviluppo del terrorismo di stampo anarchico, la rinascita e il tragico fallimento della Seconda internazionale, il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa e il successivo avvento del fascismo e dei totalitarismi.

“Il primo arresto a 17 anni, a 23 conosce Bakunin, nel 1877 organizza con Cafiero un moto rivoluzionario nel Matese; a 29 anni va in Egitto, poi fugge in Argentina dove per un periodo prova a fare il cercatore d’oro in Patagonia con alcuni compagni; viene accusato di falsificare monete e fa ritorno in Europa; gira l’Europa tra Spagna e Inghilterra vivendo poi da esule a Londra dove svolge il lavoro di elettricista fino a quando, nel 1919, fa ritorno definitivamente in Italia”.1

Poche righe per descrivere una vita politicamente e umanamente avventurosa, che proprio negli anni dell’avvento del fascismo ritroverà la strada di casa. In un momento di crisi e spaesamento del movimento operaio internazionale, diviso tra la vittoria del bolscevismo in Russia e l’affermazione di un movimento reazionario di tipo nuovo quale quello di Benito Mussolini in Italia.
Crisi e spaesamento che avrebbero spinto l’anarchico non più giovane, a cercare nuove risposte e nuove spiegazioni per un fenomeno destinato, poi, a reiterarsi più volte nel tempo fino ai giorni nostri con significativa ridondanza proprio tra quegli oppressi che avrebbero dovuto cambiare la Storia e rinnovare la società dalle fondamenta.

I testi di Bertolucci, Carocci, Gentili e Sacchetti affrontano i temi rispettivamente dell’azione e rivolta morale contro il fascismo tra il 1922 e il 1932; dei rapporti tra Errico Malatesta e il movimento operaio e le sue attività a Roma tra il 1874 e l’anno della sua morte; del suo rapporto con gli Arditi del Popolo e, infine, del rapporto tra anarchia e violenza nella biografia politica dello stesso Malatesta.
A questi si aggiunge una storia, curata da Franco Bertolucci e accompagnata dagli indici analitici, della rivista “Pensiero e volontà” uscita sotto la guida di Malatesta tra il 1° gennaio 1924 e l’agosto del 1926 (quando le leggi fascistissime avrebbero posto fine ad ogni libertà di stampa e di opinione).

Per sottolinearne l’attualità si è scelto di pubblicare qui, quasi integralmente, l’appello di Malatesta alla ristretta cerchia di amici e compagni che avrebbero poi collaborato alla rivista stessa: Luigi Fabbri, Camillo Berneri, Carlo Molaschi, Luigi Bertoni, Francesco Saverio Merlino, Giuseppe Turci, Max Nettlau ed Emma Goldman. Appello che sembra riproporre, anticipandoli, temi che torneranno obbligatoriamente alla ribalta nei mesi a venire.

A quelli che studiano e che lavorano
La rivista che annunziamo, e che vedrà la luce coi primi del prossimo anno, intende rispondere ad un bisogno largamente sentito, quello cioè di studiare i numerosi problemi politico-economici che si affacciano con carattere di urgenza in questo periodo di intensa ed universale commozione sociale e dalla cui soluzione, in un senso o nell’altro, dipenderanno per lungo decorrere di tempo le sorti dell’umanità.
Non ci dilungheremo ora sulle condizioni in cui si trova oggi l’Europa e per essa il mondo intero.
È uno stato di convulsione generale. Tutti gl’interessi, tutti i bisogni, tutte le aspirazioni che hanno in ogni tempo divisi gli uomini tra loro, acuiti fino al parossismo dello squilibrio materiale e morale prodotto dalla grande guerra, si trovano in violento contrasto. E dove non vi è guerra aperta, vi è una compressione eccessiva che mentre impedisce lo scoppio, lo prepara e lo provoca più formidabile che mai.
Da una parte disordine, misera crescente, conati rivoluzionari; dall’altra reazione, militarismo, oppressione. Ed intanto la produzione e gli scambi si disorganizzano e si arrestano e lo spettro della fame si affaccia minaccioso all’orizzonte: già larghe plaghe d’Europa e numerosi strati della popolazione stanno in preda alla fame effettiva e, naturalmente, a tutti i ciechi eccessi che la fame provoca e giustifica.
Tutti sentono, tutti sanno che così non può durare, perché così si dissolve la vita sociale e diventa impossibile la stessa vita materiale. Le classi oppresse, animate da una crescente coscienza, sospinte da bisogni urgenti e sempre meno soddisfatti, non si rassegnano, o non si rassegneranno a lungo, ad uno stato di sofferenze e di umiliazioni che sembrava ormai sorpassato; e le classi sinora dominanti, minacciate esse stesse, oltre che dalla rivolta popolare, dal prepotere di una ristretta oligarchia capitalistica e militarista, cercano e non trovano un ordinamento che dia loro la possibilità e la sicurezza di un tranquillo sfruttamento del lavoro altrui. Che cosa avverrà?
Certo non mancano né la possibilità di produrre abbastanza per soddisfare largamente i bisogni di tutti, né il desiderio nelle masse di lavoro e di pace.
Ma in tutti i paesi la borghesia, o piuttosto quella parte di essa che ancora detiene il comando effettivo, divisa dalle rivalità che producono l’ingordigia ed il cieco egoismo, si mostra incapace di ristabilire un qualsiasi ordine di cose che possa vivere e durare. Ed è bene che sia così perché l’ordine quale potrebbe ristabilirlo una meno malvagia e più intelligente borghesia non sarebbe poi che il ritorno alle condizioni anteriori alla guerra, il ritorno cioè ad uno stato di oppressione temperata, duraturo perché sopportabile, e non farebbe insomma che ristabilire delle condizioni che poi, attraverso nuove guerre e nuove convulsioni, riprodurrebbe la catastrofe attuale.
È la massa degli oppressi e degli sfruttati che deve salvare sé stessa e che salvando sé stessa, assicurerà l’avvenire di tutta quanta l’umanità.
Si va verso un cataclisma generale. Saranno forse nuove guerre internazionali; sarà certamente nell’interno di ciascun paese un alternarsi di rivoluzioni e di repressioni; ma si dovrà poi finire con un assetto qualunque, determinato, se non da altro, dal bisogno generale di riposo.
E questo assetto potrebbe essere l’inizio di una civiltà superiore, ma potrebbe anche essere il naufragio di quella qualsiasi civiltà che, attraverso lavoro, lotte e sacrifizi secolari, l’umanità aveva raggiunto.
La natura del nuovo assetto sociale, che seguirà le convulsioni attuali, e il nuovo corso in cui s’incamminerà la storia umana, dipendono dall’opera degli uomini che prendono parte cosciente ed attiva alle lotte sociali.
Anarchici, noi vogliamo la fratellanza fra tutti gli esseri umani, vogliamo per tutti la libertà, la giustizia ed il massimo sviluppo possibile, morale, intellettuale e materiale. E perciò ci sforzeremo d’indirizzare il pensiero e la volontà dei nostri lettori verso gli scopi nostri. E siccome sappiamo che le idee astratte e le aspirazioni teoriche restano purtroppo dei pii desideri se non si attuano nei fatti nel nodo che le circostanze lo permettono, noi cercheremo le soluzioni pratiche e contingenti dei problemi che prevedibilmente si presenteranno nelle varie fasi delle rivoluzioni che stanno per venire […]

Roma, novembre 1923.

Per la Redazione: Errico Malatesta.


  1. Premessa, pag. 9  

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Terre di mezzo https://www.carmillaonline.com/2018/02/08/terre-di-mezzo/ Wed, 07 Feb 2018 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43275 di Sandro Moiso

Collettivo “Mauvaise Troupe”, CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV, Edizioni Tabor, Dicembre 2017, pp. 416, € 12,00

Prendendo in mano il testo appena pubblicato dalle Edizioni Tabor e tradotto dal francese con l’aiuto sia di compagni italiani che degli stessi autori del collettivo Mauvaise Troupe, ho ripensato all’incontro svoltosi a Venaus il 12 giugno 2016 tra i rappresentanti del Movimento NoTav valsusino, i compagni francesi di Notre Dame des Landes e i delegati di diverse fabbriche autogestite in Argentina, Francia e Italia. In quei giorni in Val di Susa, [...]]]> di Sandro Moiso

Collettivo “Mauvaise Troupe”, CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV, Edizioni Tabor, Dicembre 2017, pp. 416, € 12,00

Prendendo in mano il testo appena pubblicato dalle Edizioni Tabor e tradotto dal francese con l’aiuto sia di compagni italiani che degli stessi autori del collettivo Mauvaise Troupe, ho ripensato all’incontro svoltosi a Venaus il 12 giugno 2016 tra i rappresentanti del Movimento NoTav valsusino, i compagni francesi di Notre Dame des Landes e i delegati di diverse fabbriche autogestite in Argentina, Francia e Italia. In quei giorni in Val di Susa, nel corso delle tre giornate della “Montagna di libri nella valle che resiste”, i rappresentanti di vari movimenti antagonisti nei confronti dello stato di cose presenti avevano cercato di fare un primo punto tra le loro diverse e spesso lontane esperienze.

Proprio in quell’occasione fu presentato, nella sua edizione francese, il testo di cui qui di seguito si parlerà e che affonda le sue radici nelle comuni e allo stesso tempo differenti esperienze che la storia delle battaglie del movimento NoTav e dei compagni della ZAD (attualmente vincitori nei confronti dello Stato francese dopo la dichiarazione di rinuncia al progetto di costruzione del secondo aeroporto di Nantes rilasciata a metà gennaio dal presidente Macron) hanno portato avanti negli anni. L’edizione attuale rende disponibile per il pubblico di lingua italiana la storia incrociata di due esperienze che possono un po’ fungere da simbolo e da modello (si pensi anche solo a come si va estendendo e organizzando la battaglia del movimento NoTap su scala nazionale) per le lotte a venire e la presa di distanza dal modello novecentesco che fu al centro di uno dei dibattiti svoltisi in quegli stessi giorni, in cui si era parlato della morte del ‘900 e delle sue ideologie.

Non ho timore ad affermarlo: si tratta sicuramente del lavoro migliore sin qui realizzato sull’esperienza NoTav e sulla parallela esperienza della ZAD. Sono infatti alcuni militanti della ZAD, riuniti nel collettivo Mauvaise Troupe, a raccogliere le voci degli altri militanti e a dare voce anche a quelli della battaglia NoTav. Un contatto diretto tra realtà di lotta parallele e molto simili nelle finalità e nelle modalità di conduzione della lotta. Non è necessaria una mediazione di qualsiasi tipo (culturale, sociologica, antropologica o altro). Le due realtà si parlano e si narrano con naturalezza. Si confrontano. Definiscono obiettivi. Mantengono e difendono le proprie specificità.
Questo è il tipo di dialogo e di ricerca che può servire alle lotte di oggi e di domani. Non sono le ideologie a parlarsi e a confrontarsi: sono le persone, i fatti e le scelte che ne derivano. Una sorta di assemblea popolare a distanza in cui il lettore è immerso, mentre al contempo può ripercorrere le vicende pluridecennali che stanno ormai alla base, più che alle spalle, delle due lotte.

Lotte che prima di tutto si definiscono sul territorio dove si svolgono e che dal territorio sono determinate: il bocage1 per i francesi oppure la montagna per i valsusini. Territori che portano in sé i segni del rapporto con l’Uomo, ma che a loro volta hanno fortemente segnato il tipo di comunità che li abita. In cui, non bisogna ignorarlo, sia in un caso che nell’altro il senso di comunanza e di appartenenza deriva anche da una forte capacità di azione autonoma, individuale e collettiva, alla base della quale stanno (soprattutto nel caso francese) le forme dei rapporti di proprietà e di lavoro e i conflitti che ne derivano.

Territori segnati non soltanto dalla storia recente, ma anche da quella passata. In cui l’autonomia delle comunità (soprattutto quelle alpine ed occitane) ha caratterizzato le vicende locali anche nei rapporti con i regni, gli stati e gli invasori che di volta in volta hanno cercato di sottometterle alle loro leggi ed ai loro interessi. Territori e comunità in cui la storia di lunga durata incrocia quella degli eventi più vicini a noi. Tutto sommato ancora oggi, ma senza la retorica, la pompa magna e le narrazioni farlocche che invece spesso caratterizzano i nazionalismi statali, finalizzati esclusivamente a giustificare lo sviluppo economico. A qualsiasi costo e come tale definito “progresso”e coincidente di volta in volta con la cementificazione e la distruzione del territorio e dell’ambiente, con la costruzione di un nuovo aeroporto o di una linea ferroviaria ad alta velocità, magari là dove i lavoratori pendolari sono costretti ad ammassarsi e a morire su treni e lungo linee inadeguate e sempre meno soggette ad una efficace manutenzione.

Per chi non lo sapesse, come chiariscono, gli autori e i curatori:

“«ZAD» è una «Zone d’Aménagement Différé» (Zona di sistemazione differita), un dispositivo amministrativo che fornisce a enti locali o a imprese pubbliche il diritto di prelazione sui terreni in vendita in una determinata zona. L’acronimo è stato detournato da parte degli oppositori dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes in «Zone a défendre» (Zona da difendere). La sigla è ormai entrata nell’uso comune e viene utilizzata anche d aaltre lotte in difesa di territori minacciati.”

Una resistenza che affonda le sue radici fin nei tardi sessanta e nell’esperienza del movimento Paysans Travailleurs, che raccolse l’esperienza della convergenza tra operai e lavoratori della Loira Atlantica nel periodo attorno al Maggio del 1968 e portò un turbamento rivoluzionario nel conservatorismo locale.

“Da questa esperienza nascerà poi la Confédération paysanne. In un mondo di contadini senza terra e di mezzadri, l’accesso alla terra e la priorità da dare all’uso rispetto alla proprietà privata sono motivi di duro contrasto. I mezzi dell’azione sono all’altezza delle ambizioni: occupazione di campi e cascine, blocchi di strade e ferrovie… Questi conflitti, con le loro impennate, segnano profondamente la città di Notre-Dame-des-Landes e alimentano questa fase di resistenza all’aeroporto, come dimostra il fatto che le terre della ZAD continuano ad essere coltivate.” (pag. 37)

L’ADECA (Associazione di difesa dei coltivatori interessati dall’aeroporto) nasce nel 1972, a partire da una frattura tra i locali sindacati contadini e la Camera dell’agricoltura, impegnatasi a promuovere l’aeroporto a braccetto con la prefettura. Cui sono seguiti 46 anni di lotte che nel gennaio di quest’anno, come si è detto più sopra, sono giunte ad una, forse, definitiva vittoria.
Ma qui più ancora della storia e della ricostruzione di quelle vicende, che un autentico coro di voci narra fin nei dettagli nel libro, ciò che forse è ancora più importante riconoscere in quell’esperienza, così come in quella del Movimento NoTav della Val di Susa, sono le forme di aggregazione e di organizzazione immediata e dal basso che gli hanno dato le gambe su cui marciare. Un’autentica democrazia diretta che ha finito col costituire anche una nuova forma di organizzazione socio-politica e un modello di vita più umano e in maggior sintonia con l’ambiente circostante.

E’ a questo punto che non posso fare a meno di ricordare una frase spesso ripetuta da un mio caro amico che, da anni, va affermando che “gli hippy erano avanti di 500 anni rispetto ai bordighisti”. Si badi bene, tale affermazione non va intesa in spregio di Amadeo Bordiga, ma delle sette e delle conventicole para-comuniste che da quella esperienza sono, troppo spesso, disgraziatamente sorte. Non per amore di altre sette, -ismi o partitini e partitucoli, ma proprio come rifiuto di tutta la pomposità, la seriosità, il leaderismo e gli errori, a volte comici e troppe altre tragici, che hanno accompagnato nel tempo il tentativo di rinnovare l’esperienza bolscevica scimmiottandone atteggiamenti, metodi organizzativi e parole d’ordine e ottenendo, come unico risultato, quello di dividere i movimenti reali in base a presunte ed inutili carte di identità politica.

Tali pretese identitarie, che si ponevano subito al di fuori dei movimenti con la pretesa di porsi però come forze dirigenti degli stessi, hanno fatto poi sì che quelle lotte (economiche, sociali, ambientali, di genere e tutte le altre ancora sorte a partire dal secondo dopoguerra e dalla fine degli anni sessanta in particolare) fossero spesso risospinte ancora una volta all’interno di quei recinti da cui erano appena fuggite. Lo Stato nazionale continuava ad essere il riferimento reale di ogni trattativa oppure di ogni processo insurrezionale. Si cercava “il cuore” di una macchina spietata e priva di cuore alcuno. Occorreva colpire la macchina per poi riappropriarsene e ricostruirla o, molto più spesso, si cercava di modificarla con riforme proposte dal basso (quanto in basso? mi viene oggi da chiedermi).

Oppure la si difendeva, tout-cour, dalle trame fasciste, golpiste, eversive di destra per salvane, almeno, lo statuto democratico, facendo così di una Costituzione ampiamente compromissoria un modello ineguagliabile di diritto e di democrazia. L’autonomia dell’azione di classe finiva con lo stemperarsi in un oceano di ricette, enunciati e affermazioni troppo spesso apodittiche e auto-referenziali. Trasformando spesso le assemblee in parlamentini da cui l’unica voce assente era proprio, come nei parlamenti reali, quella di chi dava alle lotte le gambe sulle quali camminare.

Il Partito di classe che nella prima parte del ‘900 aveva costituito un punto d’arrivo per unificare una classe operaia concentrata in grandi agglomerati industriali e in vasti stabilimenti dall’organizzazione tayloristica che si era espansa da Detroit a Pietroburgo passando poi agli stabilimenti torinesi di Mirafiori, era anche il prodotto di un immaginario politico di cui l’organizzazione di fabbrica, con la separazione delle mansioni e tra progettazione e produzione, aveva svolto un ruolo fondamentale. E’ difficile credere che il Partito immaginato da Marx corrispondesse esattamente a quello teorizzato da Lenin o, ancor peggio, dal successivo marxismo-leninismo.

In una sorta di interpretazione lamarckiana dell’evolversi dei conflitti di classe e della loro organizzazione, il partito programma della Prima Internazionale si era trasformato nel Partito macchina, apparentemente buono per ogni uso come un tornio o una fresa o la linea di montaggio, con cui raggiungere una determinata capacità produttiva “rivoluzionaria” . Lotte, esperienze reali, auto-organizzazione dovevano essere revisionate alla luce dello scopo produttivo e rimodellate come materie prime alle quali i “lavoratori” attraverso il loro strumento avrebbero dato la “giusta forma”.

Guardiamolo bene quel Partito: gli addetti alla progettazione sviluppavano e delineavano il progetto, gli operai lo mettevano in esecuzione usando gli strumenti consigliati e messi a disposizione dalla Direzione per poi ottenere il risultato voluto. Che poi il risultato sia stato spesso, e soprattutto a partire dagli anni successivi alla Rivoluzione bolscevica, deludente, ridimensionato o addirittura rovesciato rispetto alle aspettative sembrava non importare. L’importante era lo sforzo collettivo, il sacrificio individuale, lo stakanovismo politico del volantinaggio o dell’azione ad ogni costo. In cui a trionfare è sempre l’aurea mediocritas, madre di ogni burocratizzazione istituzionale e sociale: la regola dell’adattamento alla norma e all’esistente anche quando si finge di volerlo cambiare. Dai burocrati dei partiti nati dalla bolscevizzazione staliniana ad Adolf Eichmann, tanto per essere chiari e come ebbe a ricordare forse la più grande interprete della politica del ‘900: Hannah Arendt.

Per troppo tempo l’immaginario e il politico sono stati considerati come campi separati del sapere e dell’operare umano, mentre in realtà il “politico” è soltanto uno dei territori dell’immaginario. Con questa affermazione non intendo affatto ritornare all’idealismo o all’affermazione del primato della mente e dell’idea sulle condizioni materiali. Piuttosto vorrei ribadire con più forza che l’immaginario non può esistere senza affondare profondamente le proprie radici nella concreta realtà materiale di cui è una delle espressioni. Non ci è possibile immaginare nulla che già non esista o senza partire dall’interpretazione dei segnali che il mondo circostante già ci invia.

Proprio per questo ogni atto politico e ogni sua teorizzazione è frutto di una interpretazione dei segnali che la società umana ci trasmette e degli scopi possibili che la specie, e le classi in cui è ancora divisa, prova a perseguire. Sappiamo bene che l’immaginario culturale, politico, economico e morale è, generalmente, dominato dalla visione che le classi dominanti intendono trasmettere alle classi spossessate della facoltà di decidere ed organizzare la struttura socio-economica, ma proprio per questo diventa importante slegare la coscienza e la conoscenza delle classi sfruttate da quella prodotta da quelle al potere.

E’ un vecchio problema del movimento operaio e dell’antagonismo di classe quello di combattere la falsa coscienza, disvelandone contenuti, metodi e finalità. Ma troppo spesso tale riflessione e azione critica si è fermata alla superficie della rappresentazione del mondo, non andando ad incidere sulla produzione reale del mondo e dei rapporti sociali che lo fondano. Occorre abbandonare l’idea di una battaglia teorica destinata a scardinare il pensiero borghese in attesa di una successiva (post-mortem?) trasformazione della società a seguito di un suo miglioramento riformistico o rivoluzionario. E non basta nemmeno detournarne i simboli e le immagini come suggerirono a loro tempo i situazionisti: oggi la pubblicità lo fa quotidianamente, facendo perdere al détournement gran parte del vantaggio precedentemente acquisito.

Tale linea di condotta ha contribuito, involontariamente (forse), al mantenimento e al rafforzamento degli attuali rapporti di produzione, poiché dandoli per scontati e inevitabili, fino ad un radioso futuro, è servita a mantenere e rafforzare le basi materiali delle ideologie dominanti. L’accettazione dei rapporti attuali implica l’accettazione, per quanto critica, sia della legge del valore che dell’estorsione del plusvalore dal corpo vivente della manodopera. Da qui, anche, le teorie del socialismo in un paese solo e della possibilità, discussa negli anni venti, di un’accumulazione socialista. In attesa del radioso avvenire, secondo questa interpretazione, ciò che occorre è cambiare la direzione della macchina, non la macchina stessa. Il prima citato Bordiga fu forse l’unico a intuire la contraddizione interna, non soltanto teorica, a tale formulazione dello sviluppo sociale in divenire ma anche lui continuò a crogiolarsi nell’idea del Partito salva tutto.

Gli hippy, ma insieme a loro parecchi comunitaristi che già li avevano preceduti nel corso del ‘900 e dell’Ottocento, forzarono la mano in questo senso: la società andava cambiata qui, ora e subito. Le comuni, il rifiuto del lavoro salariato e dello sfruttamento, uno stile di vita alternativo basato più sulla lentezza e l’ozio che non sulla produttività e l’assillante ricerca del guadagno andavano a rompere la rappresentazione che la società faceva di se stessa e delle sue leggi “necessarie”. La domanda posta era molto semplice: fino a quando?2

L’immaginario diventa allora il luogo privilegiato in cui i segnali, variamente interpretati dalla mente individuale o collettiva, vengono tradotti in simboli, destinati a costituire la base di ogni discorso (politico, filosofico, scientifico, letterario, culturale, religioso o altro ancora che sia). Cambiarlo, cambiarne i segni e i simboli significa rovesciare non solo l’ordine del discorso, ma le sue leggi, i suoi presupposti, il significato generale della narrazione costruita intorno ad esso. Infine, rovesciare o modificare radicalmente i termini del discorso è l’unico strumento che permette di giungere alla formulazione di un nuovo paradigma, necessario per definire nuovi campi della conoscenza e dell’azione umana.3

Condividerne i significati simbolici diventa allora un modo per condividere la necessità del cambiamento e del rovesciamento che già si presenta nell’agire della comunità umana, agitandone i sogni e i desideri, contribuendo a definirne nuove finalità ed obiettivi; mentre la condivisione dei simboli legati all’ordine socio-economico e culturale dato finisce col contribuire a mantenere in vita ciò che, potenzialmente, è già morto.

Sì, perché fino a quando si è convinti di vivere in un regime di necessità non si riesce ad interpretare i segnali, prodotti dalla storia reale e dalla società materiale, che ci indicano che questo stato di “necessità” è soltanto uno dei possibili scenari. La commedia funziona fino a quando non solo il regista e gli sceneggiatori ne tengono in mano il copione, ma anche e soprattutto perché tutti gli attori e tutte le comparse si impegnano a recitarla bene. A renderla convincente. Se a stonare o a recitare le battute sbagliate è solo uno o sono poche comparse è chiaro che sarà comodo per chi si occupa di casting sostituirli.

E poi si sa, gli attori si affezionano ai loro personaggi, si identificano e credono in loro. Basti citare il povero Bela Lugosi che, dopo aver recitato decine di film in cui interpretava Dracula o altri vampiri, finì col vivere gli ultimi anni credendosi un figlio della notte e dormendo in una bara.

Tornando al libro, posso dire che non è qui possibile, e tanto meno utile, ripercorrere per filo e per segno le vicende parallele delle due lotte, anche per non togliere il piacere e la sorpresa al lettore di ritrovarle nella narrazione viva e trascinante delle voci dei militanti, francesi ed italiani, interpellati e che nessuna ulteriore penna o mestierantismo della scrittura può narrare o sintetizzare meglio.

Rispetto all’edizione francese del 2016 il lavoro della “Cattiva compagnia” tradotto in italiano non presenta la cronologia delle due lotte, l’elenco dei personaggi citati e l’indice analitico finale, probabilmente per non appesantire un testo gia di per sé piuttosto corposo, ma costituisce un testo che potrebbe diventare di riferimento non solo per chi volesse conoscere di più sulle due lotte ma anche per coloro che vogliono liberarsi dai canoni novecenteschi di un agire politico che è più politicantismo che non azione/riflessione di classe per affrontare più efficacemente, e a partire dall’immediato, i compiti futuri legati al superamento del modo di produzione attuale e di una società divisa in classi.

Sorge a questo punto il sospetto che l’accanimento repressivo contro le due comunità messo in atto dagli Stati e dai loro apparati polizieschi4 non siano tanto dovuto al fatto di essersi opposte alla realizzazione di due delle grandi opere inutili cui il capitalismo attuale ci ha abituati in ogni periodo di crisi degli investimenti, ma proprio per la capacità che entrambe le lotte hanno saputo dimostrare in termini di critica e riorganizzazione dell’esistente e, soprattutto, per aver saputo ridisegnare l’immaginario delle classi e degli strati sociali in lotta. Rifuggendo da qualsiasi richiamo al modello di sviluppo dato così per scontato dai media, dai governi e, troppo spesso, anche dalle classi subalterne.

Ecco che allora anche il termine popoli, che compare all’interno dei ragionamenti del libro e dei due movimenti, assume un valore e un significato totalmente diverso da quel “popolo” che oggi, scusate il gioco di parole, spopola tanto a destra che a sinistra. Nel secondo caso il concetto si basa sempre su una base sostanzialmente etnica, linguistica e nazionale (quindi statale) oltre che interclassista ed esclusivista, mentre nel primo caso il concetto serve ad definire coloro che lottano insieme per un obiettivo che travalica i limiti della territorialità per porsi come strumento di liberazione individuale e collettivo allo stesso tempo. Termine che diventa inclusivo così come lo sono diventate le due comunità nei confronti di tutti coloro che le hanno affiancate nella lotta, ne hanno chiesto l’aiuto oppure le hanno raggiunte nella comune convivenza.

Un modello di inclusione attraverso la condivisione di obiettivi e il coinvolgimento in battaglie comuni che non può non rimandare anche all’esperimento comunalistico del Rojava che, a sua volta, ha spesso ricevuto l’appoggio delle due realtà di cui si è fin qui parlato.
Al lettore ora il compito di leggere, sfogliare, trarre ispirazione dalle pagine del libro e dal corredo di fotografie e mappe che lo accompagnano.

Non ho mai amato molto Tolkien e Il signore degli anelli, ma il concetto di terra di mezzo mi sembra adattissimo a definire l’esperienza di un mondo che non è più e, allo stesso tempo, ancora non è. Forse gli hippy e i compagni delle lotte passate più radicali hanno vissuto negli stessi territori dell’immaginario e del reale. Ora, insieme ai compagni della ZAD e del NoTav, tocca noi: A sarà düra, ma vinceremo!


  1. Termine intraducibile in italiano che serve a definire una particolare conformazione territoriale costituita da piccoli campi ed appezzamenti divisi da siepi di confine che nella zona di Notre-Dame-des-Landes è sopravvissuta al dilagare della monocultura  

  2. Per comprendere a fondo lo spirito che animò le iniziative comunitarie degli anni sessanta e settanta, al posto dei soliti film o documentari e testi “alternativi”, consiglio la visione del documentario Valley Uprising di Peter Mortimer e Nick Rosen (2014), oggi disponibile in edizione italiana, con lo stesso titolo, in dvd nella collana Il grande alpinismo come quarta uscita della serie. Si tratta di una ricostruzione attenta delle innovazioni portate nell’alpinismo tradizionale dalle tecniche di arrampicata sviluppatesi in California, nella Yosemite Valley, a partire dagli anni ’50, in cui la costante ricerca della fuga dalla legge di caduta dei gravi, perseguita dai climber americani del celebre Camp 4, costituisce una magnifica metafora della liberazione della specie umana dalle catene del lavoro, della famiglia e dello Stato.  

  3. Valga per tutti la rivoluzione apportata nel pensiero e nella ricerca umana dalla formulazione galileiana, contenuta nel Saggiatore, in cui afferma “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’ universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto“. Ponendo di fatto le basi, nel 1623, del moderno paradigma scientifico.  

  4. Basti pensare al fatto che il presidente Macron, nello stesso momento in cui ha dovuto prendere atto della sconfitta del progetto di nuovo aeroporto,ha ventilato la minaccia di voler comunque espellere gli occupanti dalle terre della ZAD.  

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Donne, amori, fiction, rivoluzioni nell’800 europeo https://www.carmillaonline.com/2016/10/12/donne-amori-fiction-rivoluzioni-nell800-europeo/ Wed, 12 Oct 2016 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33680 di Gianfranco Marelli

marelli-cospiratrici Martina Guerrini, Le cospiratrici. Rivoluzionarie russe di fine Ottocento, BFS Edizioni 2016, pp. 136, € 14,00 Lorenza Foschini, Zoé. La principessa che incantò Bakunin, Mondadori 2016, pp. 190, € 20,00 Maria Zalambani, L’istituzione del matrimonio in Tolstoj, Firenze University Press 2015, pp.208, € 16.90

La storia e la letteratura hanno quasi sempre un solo genere: il maschile. Pure è delle donne e dei loro tormentati amori che soprattutto si racconta. Tuttavia c’è stato un periodo nella storia e nella letteratura europea in cui le donne e i loro amori non hanno fatto solo da sfondo alle eroiche [...]]]> di Gianfranco Marelli

marelli-cospiratrici Martina Guerrini, Le cospiratrici. Rivoluzionarie russe di fine Ottocento, BFS Edizioni 2016, pp. 136, € 14,00
Lorenza Foschini, Zoé. La principessa che incantò Bakunin, Mondadori 2016, pp. 190, € 20,00
Maria Zalambani, L’istituzione del matrimonio in Tolstoj, Firenze University Press 2015, pp.208, € 16.90

La storia e la letteratura hanno quasi sempre un solo genere: il maschile. Pure è delle donne e dei loro tormentati amori che soprattutto si racconta. Tuttavia c’è stato un periodo nella storia e nella letteratura europea in cui le donne e i loro amori non hanno fatto solo da sfondo alle eroiche imprese maschili e ai loro intrepidi piani per la conquista del potere ed il suo solido mantenimento. Certo, ai più verrà in mente il movimento delle suffragette volto a chiedere il suffragio femminile nel Regno Unito nella seconda metà dell’800; ma non è di questo movimento che qui si tratta, bensì di un movimento dai connotati tipicamente maschili: il nichilismo populista russo e la sua letteratura.

Un movimento che, al contrario, nel rivendicare al proprio interno l’uguaglianza di genere (dal momento che le donne ne costituirono sicuramente un aspetto fondamentale), a ragione meriterebbe di essere affrontato – come ha svolto la studiosa Martina Guerrini nel suo libro Le cospiratrici. Rivoluzionarie russe di fine ‘800 – per chiarire non solo la genealogia storica e semantica del termine “nichilismo” fra mille difficoltà ed incertezze, ma anche «collocare nel tempo e nello spazio l’uso di nigilitska, il sostantivo femminile».

Sì, perché ripercorrendo le vicissitudini storico/letterarie del nichilismo russo è impossibile non rilevare quanto la questione femminile sia stata al centro della pratica e della teoria di quell’ “andata al popolo” che contrassegnò nel profondo i cambiamenti sociali e giuridici della Russia zarista a partire dagli anni ’50-’60 del XIX secolo. Non solo infatti gli attentati allo zar e ai suoi governatori videro le donne protagoniste in prima persona, ma sia il movimento nichilista, quanto il movimento populista devono la loro diffusione fra l’intelligencija grazie ad un’attenta politica in favore della condizione delle donne russe che determinò un’iniziale solida unione d’intenti fra le femministe riformiste, le nichiliste e le militanti delle prime organizzazioni populiste. Del resto la situazione delle donne nella Russia zarista era fra le più umilianti, regolamentata da leggi repressive ed oppressive se solo si pensi al fatto che perfino durante il periodo delle grandi riforme – iniziato nel 1861 con l’abolizione della servitù della gleba compiuta da Alessandro II – la legislazione della Russia patriarcale prevedeva che le ragazze rimanessero nella casa paterna fino al matrimonio e, una volta sposate, avevano l’obbligo di risiedere sotto lo stesso tetto coniugale, in quanto le donne erano iscritte nel passaporto interno dei mariti. In tal modo la donna non aveva nessuna possibilità di viaggiare, di trovare un impiego, di istruirsi presso istituti pubblici o privati, e questo sino al 1914 quando il passaporto interno fu abolito. Una situazione di profonda schiavitù che risaliva fino ai tempi della obščina, la tradizionale comunità contadina russa in cui pur in assenza della proprietà privata dal momento che la terra era del villaggio (derevnja) la famiglia era patriarcale e vigeva «la tirannia contro le donne del dvor [il nucleo familiare allargato], oggettivate sia per la valorizzazione economica (attraverso la distribuzione delle mansioni) che per quella riproduttiva e sessuale. Esisteva un’usanza (snochačestvo) – sottolinea Martina Guerrini nel suo studio – risalente ai tempi antichissimi, secondo la quale il capo e padrone del dvor (bol’šak) poteva avanzare la pretesa di avere rapporti sessuali con le giovani nuore in assenza dei mariti».

Contro questa proprietà esclusiva dei maschi nella vita reale si sviluppa una fiorente produzione letteraria e filosofica già a partire dagli anni ’40-’50 sulle riviste russe che, raggiungendo in molti casi le 500 pagine, daranno spazio ad interi romanzi a puntate in cui la riforma agraria, la questione femminile, la libertà dei sentimenti, l’instaurarsi di nuovi rapporti fra uomini e donne, saranno il volano che consentirà al variegato e complesso mondo femminile presente nei movimenti liberali e radicali di quel periodo storico di iniziare il lento cammino verso l’emancipazione della donna. Scrittori come Ivan Sergeevič Turgenev costituiranno infatti uno dei capisaldi della crescita del nichilismo; infatti proprio attraverso il suo romanzo più famoso Padri e figli, pubblicato per la prima volta nel 1862 sulla rivista «Il messaggero russo», sostiene che «un nichilista è un uomo che non si inchina dinnanzi a nessuna autorità, che non presta fede a nessun principio, da qualsiasi rispetto tale principio sia circondato», dopo che un suo precedente romanzo, Rudin del 1857, aveva preso di mira “l’uomo superfluo” cioè l’idealista buono solo a parole, armato di idee propositive, ma nella pratica debole e inetto. Una vera e propria chiamata alle armi [delle belle lettere] già precedentemente dichiarata da Aleksandr Ivanovič Herzen con il suo Di chi è la colpa?(1845/47) in cui aveva messo sotto accusa la morale dominante rivendicando la sua esperienza amorosa di un menage à trois, tema subito ripreso nel romanzo Che fare? di Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, pubblicato nella primavera del 1863 nei numeri 3, 4 e 5 del «Sovremennik», il giornale sul quale l’autore aveva proclamato le proprie idee democratiche e rivoluzionarie prima di essere arrestato, finendo nella Fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo.

Sono proprio questi romanzi/racconti – vere e proprie fiction dell’epoca – a favorire la diffusione del romanticismo e dell’idealismo tedesco nella Russia degli anni ’40, coinvolgendo in un serrato dibattito i circoli letterari e contando sul prestigio di critici letterari come Belinskij, di filosofi come Herzen, e del suo grande amico, il poeta rivoluzionario Nikolaj Platonovič Ogarëv, diventati il ricettacolo in patria e in esilio dell’opposizione all’autocrazia zarista, nonché fonte d’ispirazione per una nuova società nella quale il socialismo francese di Charles Fourier ben si amalgamava con l’uguaglianza di genere e la libertà individuale di matrice nichilista. Tali ideali si trasformarono in breve tempo nei valori basilari del processo di emancipazione femminile condotto in prima persona dalle militanti nichiliste e populiste, impegnate nel rivendicare il diritto all’istruzione, la libertà di sentimento, l’autonomia nelle scelte della propria vita, l’uguaglianza fra i sessi. Comportamenti pratici che la nigilitska manifestava apertamente attraverso l’abbigliamento e il suo aspetto provocatoriamente contrario all’immagine della “signorina pane-e-burro” delle eteree giovani dame in abiti di mussolina e crinoline d’importazione. Infatti – ci descrive Martina Guerrini, ammiccando ad una antesignana divisa black-bloc – «abbandonate le mussole, i nastrini, le piume, gli ombrellini della signora russa, la nichilista nel 1860 indossa semplicemente un abito di lana completamente nero, che scivola dritto e ampio dalla vita, con i polsini e il colletto bianchi. I capelli sono tagliati corti e portati lisci, abitualmente indossa occhiali scuri, prevalentemente blu». Un atteggiamento pratico e coerente con lo strumento dei “matrimoni fittizi” – diffusi fra i giovani nichilisti degli anni ’60, «attraverso i quali uomini solidali sposavano giovani donne per strapparle alla tirannia familiare, affrancandole anche dal matrimonio una volta ottenuta la loro “liberazione”» – che minava radicalmente una delle principali istituzioni del regime zarista e della chiesa greco ortodossa, la famiglia, al punto da dover coinvolgere a fini repressivi la Terza sezione della Cancelleria privata di sua Maestà Imperiale (istituita nel 1826 con il compito di spiare gli stranieri residenti in Russia, i partiti stranieri considerati sovversivi e … di interessarsi delle petizioni di separazione), nota come polizia politica particolarmente attenta al controllo delle organizzazioni clandestine populiste come Zemlja i Volja (Terra e Libertà).

Così tratteggiato l’ambiente delle nichiliste e populiste russe, un ambiente in cui i romanzi e i saggi filosofici si trasformeranno in “manuali di vita” atti a comprendere il passato e ad essere fonte di profezia per il futuro, il libro di Martina Guerrini si sofferma su alcune figure femminili che hanno influenzato il movimento, imprimendovi il carattere, le idee, i sentimenti: Vera Ivanovna Zasulič, Sof’ja L’vonovna Perovskaja, Ol’ga Spiridonova Liubatovič, Vera Nikolaevna Figner, Olimpia Kutuzova Cafiero. Sebbene Vera Zasulič sia indubbiamente considerata la donna che maggiormente influenzò l’ambiente populista indirizzandolo a compiere attentati contro gli autocrati zaristi, il libro della Guerrini indaga approfonditamente la figura di Olimpia (Lipa) Kutuzova. Vera Zasulič ferì gravemente, il 24 gennaio 1874, il governatore di Pietroburgo, generale Trepov, responsabile di aver causato la morte in carcere del populista Bogoljubov (frustato in carcere fino a farlo impazzire, in quanto non si era tolto il berretto innanzi a lui); fu però assolta dal tribunale civile suscitando sorpresa ed entusiasmo nell’ambiente liberale europeo – mentre Olimpia Kutuzov fu protagonista in patria e all’estero di una spericolata attività politica che la condusse ad incontrarsi con il gotha del movimento rivoluzionario di fine ‘800, a partire da Mikail Bakunin, Carlo Cafiero (che sposò nel 1874: un legame difficile, vissuto a distanza, e spezzato dalla pazzia del coniuge) e gli internazionalisti italiani con i quali partecipò ad azioni sovversive, quali la tentata insurrezione romagnola del ’74 , in cui Lipa ebbe l’incarico di precedere Bakunin e «portarvi della dinamite cucita in un asciugamano avvolto attorno alla vita». Un incarico che – ricordano i suoi Mémoires, riportati nel libro della Guerrini – rischiò di farla saltare in aria alla stazione di Milano, sorpresa da un violento temporale i cui tuoni avrebbero potuto far detonare la dinamite e decimare la folla dei viaggiatori attorno a lei; al ché «per evitare la strage – sostiene la protagonista – uscii nella piazza e, con l’angoscia al cuore, attesi l’istante in cui la dinamite sarebbe scoppiata, e io assieme a essa». Fortuna volle che non accadde nulla e la dinamite fu gettata nel Reno, dal momento che l’insurrezione non avvenne neppure.

Sicuramente l’incontro con l’anarchico Bakunin, avvenuto a Locarno nella primavera del 1873, segnò profondamente la formazione politica e umana di Olimpia al punto che l’autobiografia inizia proprio dall’incontro con il rivoluzionario russo, tracciandone un profilo delicato, affettuoso, attento soprattutto a difendere la parità fra i generi nei rapporti interpersonali. Scrive infatti Lipa: «Un giorno gli chiesi, per conto di due italiane che abitavano con noi [alla villa “La Baronata”, sopra Lugano acquistata con i soldi di Cafiero nel 1874, ultimo domicilio di Bakunin, della moglie Antonia e rifugio per molti rivoluzionari, ndr.] di intervenire sugli italiani affinché modificassero l’atteggiamento nei confronti delle loro mogli, viste generalmente in Italia come schiave. Bakunin trattò a lungo l’argomento e le sue parole suscitarono una forte impressione. In seguito le due italiane aderirono anch’esse al movimento rivoluzionario e una delle abitanti della Baronata prese parte, nel 1876, all’insurrezione nel Matese». Dettaglio che aiuta a comprendere meglio il carattere antisessista di Bakunin, già pienamente espresso nella sua opera principale Stato e Anarchia in cui denuncerà il valore “contro rivoluzionario” del patriarcato contadino, dove l’esercizio dispotico del padre, del marito e del fratello maggiore ha fatto della famiglia «la scuola della violenza e dell’istupidimento trionfante, della vigliaccheria e della perversione quotidiana al focolare domestico» [Feltrinelli, 1973, p. 246]. Queste idee lo condurranno a scrivere – nel programma dell’Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista, fondata a Berna nel 1868 durante il congresso della Lega per la Pace e la Libertà – quanto «l’Internazionale, mirando all’emancipazione di tutta l’umanità, con ciò stesso mira ad abolire lo sfruttamento di una metà dell’umanità da parte dell’altra». Richiesta di una completa uguaglianza fra i sessi, che sarcasticamente farà dire a Marx – incline a una visione tradizionalista dei rapporti fra maschio e femmina – quanto Bakunin sognasse «l’uomo ermafrodita!»

marelli-zoe E il ritratto di un uomo ermafrodita traspare inconsapevolmente nel libro di Lorenza Foschini Zoé la principessa che incantò Bakunin, una fiction di “passioni e anarchia all’ombra del Vesuvio” scritta da una delle note mezzobusto dei telegiornali di Stato con vena di gossip, scoop e frivolezze varie. Un peccato, perché la ricerca intrapresa dalla giornalista nell’approfondire la figura di Zoja Sergeevna Obolenskaja inseguendo per mari e per terre i suoi discendenti ancora in vita avrebbe consentito una trattazione storica, seppur romanzata, più vicina alla realtà dei fatti. Ma lontani sono ormai i tempi in cui la letteratura coincideva con il prolungamento della vita, essendo la vita un prolungamento della letteratura; i nostri sono tempi – direbbe Hannah Arendt – dove la società di massa non vuole la cultura, ma gli svaghi. E come un piacevole svago è la lettura del libro della Foschini, amabile nel condurci negli interni aristocratici napoletani, luoghi d’incontro della nobiltà europea affascinata dal grand tour d’Italie percorso da teste coronate e rampolli di antiche casate e della rampante borghesia, tutti affascinati dal pittoresco agreste paesaggio del sud mediterraneo. Del resto l’autrice nel descrivere l’ambiente blasonato della Napoli post-risorgimentale confrontandola con i bassi e con la vita contadina della vicina Ischia, un po’ s’immedesima avendo dalla sua una famiglia imparentata con i Caccioppoli, il cui famoso matematico Renato nacque dal padre Giuseppe e dalla sua seconda moglie, Sofia Bakunina, figlia del rivoluzionario russo che soggiornò per due stagioni (1866-1867) nell’isola Verde ospite della Principessa Obolenskaja, così che Lorenza Foschini e la sua dinastia erano soliti trascorrere le vacanze estive a Ischia nella gran villa di proprietà, nascosta dalla pineta.

Lorenza Foschini scrive, nell’introduzione al suo libro, di aver «scoperto che il periodo napoletano del nobile rivoluzionario sia stato uno dei più felici e produttivi della sua vita movimentata e finanziariamente stentata». Questi, fuggito rocambolescamente qualche anno prima dall’esilio siberiano assieme ad Antonia, la giovane polacca sposata di soppiatto quando era in cattività, e immediatamente ritornato sulle barricate dopo aver fatto scalo a San Francisco per approdare finalmente a Londra dai fraterni Herzen e Ogarëv, che in esilio erano diventati il faro dell’opposizione liberaldemocratica europea pubblicando il giornale «Kolokol» (La campana) – nel breve soggiorno ischitano aveva conosciuto la principessa Obolenskaja che gli consentì di ottenere una «straordinaria felicità», ospitandolo con la consorte ed altri amici nella sua sontuosa villa al mare. Qui ella si trovava per far cambiare aria alla terzogenita, Marusja, cagionevole di salute, ma soprattutto per stare lontana dal marito – Aleksej Vasilevič Obolenskij, governatore di Varsavia – del quale era insofferente e altresì desiderosa di trasferirsi all’estero per allontanarsi dalla società russa: «vocazioni abbastanza diffuse negli ambienti colti e aristocratici». Un quadro idilliaco, romantico e molto pittoresco, tratteggiato con il gusto dei particolari estetici e con lo spolvero di impressioni socio-psicologiche, in cui la miseria dei bassi napoletani scuote l’animo sensibile della Principessa al punto da spendersi per la causa rivoluzionaria, spendendo i propri soldi e allarmando lo Zar Alessandro II e la sua corte, tanto da sollecitare il marito e il padre – Sergej Pavlovič Sumarokov, uno degli uomini più influenti dell’Impero – a riportarla in fretta e furia in Russia.

Così la prima parte del romanzo si snocciola, presentandoci i protagonisti di una passione amorosa e rivoluzionaria, dove la rivoluzione sembra prevalere sull’amore, in cui “l’ermafrodita” Bakunin «si lasciava adorare, senza ricambiare» al punto da doversi difendere dalle attenzioni di due sorelle che – prima l’ una e poi l’altra – avrebbero voluto sposarlo, riuscendo a cavarsela «con grande abilità richiamandosi ad alti ideali che lo costringevano a rifiutare quello che definì “una passione ardente, tempestosa, legata ai sensi, non all’anima”. “No”, scriveva alla più insistente delle due, “la mia vocazione è un’altra … Voglio realizzare questo bell’avvenire. Voglio diventarne degno. Poter sacrificare ogni cosa a questo sacro scopo. Ecco la mia sola ambizione. Ogni altra felicità m’è preclusa!”». Di questa presa di posizione, scritta quando Bakunin aveva vent’anni, Lorenza Foschini arma il suo format letterario [a quando quello televisivo?] al fine di spiegarsi l’assurdo amore di un ultracinquantenne sdentato per una giovane sedicenne polacca conosciuta durante l’esilio siberiano, sposata e portata nei suoi peregrinaggi in giro per il mondo, comprese le ville Attanasio di Casamicciola e Arbusto di Lacco Ameno – prima del buen retiro a La Baronata – dove la povera Antonia annoiata, assisteva agli intimi intenti sentimental/rivoluzionari fra il marito e la nobildonna russa nel bel mezzo di passeggiate fino alle pendici dell’Epomeo, e nottate trascorse chine sullo scrittoio a dettare/copiare proclami rivoluzionari, lettere ai fratelli internazionalisti, articoli al giornale partenopeo «Libertà e Giustizia» per dichiararsi definitivamente un “anarchico”. Fortuna vuole che “ogni altra felicità” gli fosse preclusa, in modo che la giovane moglie seppe consolarsi con il giovane internazionalista Carlo Gambuzzi (che poi sposò, essendo il padre dei suoi figli, e che Bakunin altruisticamente riconobbe come propri al fine di alleviarli da un peso gravoso), e la Principessa ribelle non resistette alle amorevoli cure del fervente bakuninista Walerian Mroczkoski Ostroga, di ben undici anni più giovane e suo inseparabile compagno dal quale ebbe un figlio, Felix, che da grande convisse in unione libera con la figlia del noto geografo anarchico francese Élisée Réclus.

Ma la storia che vogliamo finire di raccontare affiora con più forza nella seconda parte del romanzo, poiché la trama vira su toni cupi e drammatici essendo la Principessa assillata dalle pretese del padre e del marito per riportarla docile e pentita in Russia, al punto da far leva sui cinque figli che secondo la legislatura zarista sono proprietà paterna e pertanto obbligati a raggiungerlo anche contro il loro desiderio di rimanere con la madre. S’inscena così la partenza di Zoé Obolenskaja dall’amata Ischia al fine di raggiungere la Svizzera, luogo più sicuro e apparentemente impermeabile alle pretese dello Zar di strapparle i figli, nonché ritrovo di molti esuli russi e rivoluzionari internazionali ai quali Bakunin affida la Principessa lodandone l’afflato rivoluzionario. Sono questi anni difficili e travagliati e la lotta tra marxisti e bakuninisti in seno alla Prima Internazionale non fa certo prigionieri, soprattutto perché la partita è il controllo dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, e la segreteria – fin dalla fondazione nel 1864, saldamente nelle mani di Marx – teme che le sezioni italiane, svizzere, belghe, spagnole sorreggano la visione federalista ed antiautoritaria degli anarchici bakuniani. Di questo e di altro si fa breve cenno, riportando lo scontro Marx/Bakunin nell’alveo di personalismi civettuoli e umori caratteriali da “prime donne” che offuscheranno l’amorevole passione di Zoé Obolenskaja per il nobile rivoluzionario russo, divenendo lei stessa «la figura di spicco, posizione a cui in effetti ha sempre aspirato, di quel mondo in continua ebollizione dei rivoluzionari che si raccolgono intorno a lei lusingandola ed esaltandola». Sia quel che sia, la storia prende una brutta piega per la pressione insistente dello Zar Alessandro II nei confronti del generale Obolenskij – «questo bigotto inginocchiato davanti a tutti i pope di Mosca e San Pietroburgo e prosternato davanti al suo imperatore» – che gli impone di diseredare la moglie e di recarsi in Svizzera per prelevargli con la forza i figli. Senza più un soldo e scoperto il suo rifugio segreto da un agente della III Sezione, Zoé Obolenskaja, la mattina del 17 luglio 1869, fu bruscamente svegliata nella sua casa dall’invasione minacciosa di «alcuni membri della prefettura e altri del Consiglio cantonale – dietro di loro, seminascosto, s’intravedeva il principe Obolenskij – [che …] si facevano largo a suon di spintoni entrando nella stanza dei ragazzi, intimando alla vecchia balia di non muoversi, e strappandoli dal letto ancora addormentati».

Non saremo certo noi a svelare lo svolgersi intricato della fiction che d’ora in avanti assumerà ritmi sempre più incalzanti e avvincenti; ci permettiamo però di rilevare alla giornalista Foschini e rivelare ai suoi appassionati lettori che sarebbe stato più elegante – oltre ad essere intellettualmente più onesto – non pretendere di render noto alcuno scoop, se per farlo si è costretti ad inventarselo di sana pianta. Il riferimento è all’affermazione che Lev Tolstoj si sia ispirato alla vicenda familiare tormentata di Zoé Obolenskaja per raffigurare nel suo grande romanzo Anna Karenina i personaggi di Anna e di Oblonskij. Perché se è lecito aspettarsi da una storia romanzata licenze stravaganti e fantasiose nel rispetto degli avvenimenti storici [e di ciò bisogna dar atto all’autrice del libro di aver mantenuto fede alla cronaca], spiace constatare l’imbroglio assai grossolano di attribuire patenti di paternità del tutto inesistenti, sebbene la vicenda del Principe Obolenskij che strappa i figli alla fedifraga Zoé, assomigli al dramma vissuto da Anna Karenina. Innanzitutto, com’è noto, fu lo stesso Tolstoj ad ammettere di essersi ispirato ad un fatto di cronaca: il suicidio per amore della convivente di un vicino dello scrittore a Jasnaja Poljana, Anna Stepanovna Pirogova, avvenuto il 6 gennaio 1871; secondariamente, all’onomatopea somiglianza dei cognomi Oblonskij/Obolenskij, non corrisponde affatto la somiglianza dei caratteri, essendo esattamente il primo (spaccone e impenitente sciupa femmine) il contrario del secondo (un timorato di dio, pavido e succube del volere altrui). Certo, si tratta di un piccolo peccato veniale. Sennonché dovendo noi trattare delle donne, degli amori, delle fiction e delle rivoluzioni nell’Europa dell’800 non siamo stati capaci di sorvolare su di un romanzo che – come ha ben documentato nel suo libro, L’istituzione del matrimonio in Tolstoj, Maria Zalambani, docente di letteratura russa all’università di Bologna – ha contrassegnato il pensiero e lo stesso processo di emancipazione femminile delle donne russe, caratterizzandone il dibattito sulle riviste e nei circoli letterari dell’epoca.

marelli-matrimonio Il saggio in questione – dal quale abbiamo tratto molti spunti e che ci ha consentito di focalizzare con più precisione il tema qui affrontato – è uno studio storico, sociologico, giuridico e letterario la cui tesi tende a dimostrare quanto il rapporto fra letteratura e società, nella Russia del XIX secolo, sia stato particolarmente fecondo. «Nell’impero zarista – scrive nell’introduzione al saggio Maria Zalambani – dove la società civile non si era sviluppata come nel resto dell’Europa e le iniziative e i movimenti sociali non erano riusciti ad incidere sull’opinione pubblica come in Occidente, le belle lettere venivano chiamate a rispondere a interrogativi di ordine filosofico, storico, sociale e artistico. Il romanzo russo dell’Ottocento, che oltrepassa i confini della semplice fiction e nelle cui pagine si dibattono tutte le questioni attorno alle quali ruota l’interesse dell’intelligencija, diventa in questo modo il sismografo del suo tempo». Questa visione letterarioocentrica, in una realtà sociale peraltro contrassegnata da un alto tasso di analfabetismo, ci conduce a considerare quanto la capacità di raffigurare realmente le tensioni e le problematiche vissute in una cerchia ristretta della popolazione possano condizionare comportamenti e mentalità dell’intera società, sapendo la cultura letteraria assorbire la realtà e addirittura prefigurarla in una fiction, contraddicendo l’assunto secondo il quale la vita va vissuta e non letta, in quanto la lettura della vita permette di viverla anticipandola negli scritti di autori. Soprattutto se questi hanno la forza espositiva e la potenza esplicativa dei grandi romanzieri russi.

Come abbiamo in precedenza osservato, i romanzi di Herzen, Turgenev , Černyševskij hanno avuto grande importanza nell’affrontare la questione femminile e il ruolo della donna nella società russa, al punto da influenzare il pensiero politico-filosofico del nascente movimento nichilista e populista, segnando il dibattito anche nel campo istituzionale e religioso, sorpresi dalla forza con la quale erano state messe in discussione i sentimenti, la sessualità, l’indipendenza della donna all’interno di un’istituzione sacra come il matrimonio. Una forza che la centralità della letteratura ha saputo esercitare con «forti “effetti di potere” sul pubblico e sulle strutture mentali dei lettori, trasformando l’arte da semplice specchio della realtà in produttrice di essa». Se pertanto l’analisi sociale trasse alimento dalla critica letteraria, è perché – ponendo la figura femminile come protagonista cardine della trama narrativa – obbligò i lettori e i critici ad una riflessione sul ruolo della donna nella società e in particolar modo sulla sua funzione produttiva/riproduttiva in seno all’istituzione familiare, sorgente vitale del sistema autocratico zarista e religioso. Infatti il matrimonio, l’educazione dei figli, l’amore fra i coniugi, il sesso, il tradimento assurgeranno a veri e propri grimaldelli per scardinare la società patriarcale e la sua cultura repressiva nei confronti delle donne, della loro autonomia all’interno della famiglia, della loro libertà di istruzione e sviluppo della propria personalità, da interessare trasversalmente l’intero mondo russo al punto che i romanzi – pubblicati a puntate sulle riviste letterarie – verranno letti e discussi criticamente quasi fossero «un vero e proprio programma politico per la trasformazione della società, un codice comportamentale per l’individuo, un modo di comprendere il passato della nazione e una fonte di profezia per il futuro».

Limpido paradigma sono i romanzi di Lev Nikolaevič Tolstoj ed in particolar modo Felicità familiare [1858-1859], Anna Karenina [1785-1877] e La sonata a Kreutzer [1887-1889] che, grazie alla notorietà e alla fama del conte, influenzeranno il dibattito nella Russia delle seconda metà dell’800 sull’istituzione del matrimonio e il ruolo della donna nella società, contrapponendosi sia all’indirizzo progressista e rivoluzionario della critica populista, sia al conservatorismo reazionario della Chiesa e dell’autocrazia zarista. Dopotutto Tolstoj era consapevole del fatto che lo scrittore esercita un’influenza sul lettore, tanto da ribadire, nel saggio del 1898 Che cos’è l’arte, quanto «l’arte deve essere dominata dall’elemento morale, a scapito dell’elemento artistico, al fine di esercitare un influsso benefico sull’animo del pubblico». Un impegno moralistico che Maria Zalambani rileva come sia stato un prezioso contributo nel processo di revisione critica dell’istituzione del matrimonio nella Russia di Alessandro II, influenzando grazie alla notorietà dello scrittore il dibattito sulla famiglia borghese coronata dal sentimento chiamato a sancire la “felicità familiare” in contrapposizione al tradizionale matrimonio combinato in cui lo sposo veniva scelto dai genitori senza interpellare la predestinata, poiché «quello che avvicinava i due fidanzati era: un’estrazione sociale comune, beni di simil sostanza e un atteggiamento serio e consapevole verso il santo istituto del matrimonio». Ma, al contempo, Tolstoj si mostrò fiero oppositore dell’emancipazione femminile propugnata dai vari Herzen, Turgenev , Černyševskij – a loro volta influenzati dal dibattito allora scoppiato in Francia sul culto dell’amore libero che contrapponeva i suoi fautori George Sand e Jules Michelet al misogino Pierre-Joseph Proudhon – polemizzando aspramente con la pubblicistica e la letteratura populista, tanto da opporsi fermamente al triangolo amoroso proposto nei romanzi Di chi è la colpa? e Che fare?, dal momento che con «“Felicità familiare” l’eroina fugge di fronte ad un terzo componente, mentre in Anna Karenina il tragico finale annulla ogni possibilità di vita alternativa a quella legittimamente coniugale. […] Infine, ne La sonata a Kreutzer, il fantasma del triangolo amoroso e del tradimento viene annientato dalla follia omicida di Pozdnyšev».

I tre romanzi tolstojani ripercorrono le tappe che condussero l’arretrata società russa al trapasso del periodo feudale verso l’immatura società industriale di fine XIX secolo, seguendo di pari passo l’affermarsi dell’istituzione del matrimonio da quello combinato a quello borghese, per poi prefigurarne la sua crisi; un percorso contradditorio compiuto da Tolstoj, poiché – come la critica del suo tempo già aveva sottolineato – se contribuisce da un lato alla crescita sociale ponendo la questione femminile al centro dei suoi romanzi, dall’altro lato il suo cristianesimo radicale conduce ad una morale intransigente che colpevolizza e condanna le donne o a una vita sacrificata al matrimonio [è il caso di Maša che rinuncia alla felicità dell’amore per dedicarsi alla “felicità familiare”], o al sacrificio della propria vita [Anna Karenina si suicida in quanto succube delle condizioni sociali che non le consentono di essere libera per aver avuto il coraggio dell’imprudenza nel render pubblico l’adulterio], o addirittura nel condannarle – e con loro gli uomini – alla più completa castità, negando la possibilità di un amore carnale perfino all’interno del matrimonio borghese [deprezzando il sentimento amoroso come un bisogno animalesco al punto da accettare l’inevitabile gesto uxoricida di Pozdnyšev ne La sonata a Kreutzer]. Una contraddizione che attraversa l’intera società russa e che il saggio di Maria Zalambani documenta nei pur minimi dettagli, rilevando in che modo e con quale intensità Tolstoj abbia avuto la capacità di scuotere la mentalità sia dei più accaniti conservatori, sia dei più radicali riformatori, a dimostrazione di quanto scrisse Le Goff: «La mentalità è ciò che cambia più lentamente. La storia della mentalità è la storia della lentezza nella storia». Una lentezza che ancora oggi le donne faticano nel sopportare di essere considerate la costola di Adamo; di un Adamo capace sempre meno di cambiare mentalità.

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Ripensare la sete: critica situazionista della società della merce https://www.carmillaonline.com/2016/09/14/ripensare-la-sete/ Wed, 14 Sep 2016 20:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33177 di Sandro Moiso

una bibita Gianfranco Marelli, Una bibita mescolata alla sete, BFS Edizioni 2015, pp. 128, € 12,00

[L’Internazionale Situazionista può essere senza dubbio considerata come uno dei più luminosi esempi di pensiero critico radicale espresso dalle lotte della seconda metà del ‘900. Il principale motivo per potere sostenere ciò risiede nel fatto che tale movimento, nelle sue espressioni più significative, ha saputo anticipare e tentato di fornire gli strumenti teorici per realizzare una rivoluzione che non fosse soltanto frutto e figlia della necessità, ma anche, e soprattutto, della ricerca della felicità collettiva e individuale e della piena realizzazione dell’essere [...]]]> di Sandro Moiso

una bibita Gianfranco Marelli, Una bibita mescolata alla sete, BFS Edizioni 2015, pp. 128, € 12,00

[L’Internazionale Situazionista può essere senza dubbio considerata come uno dei più luminosi esempi di pensiero critico radicale espresso dalle lotte della seconda metà del ‘900. Il principale motivo per potere sostenere ciò risiede nel fatto che tale movimento, nelle sue espressioni più significative, ha saputo anticipare e tentato di fornire gli strumenti teorici per realizzare una rivoluzione che non fosse soltanto frutto e figlia della necessità, ma anche, e soprattutto, della ricerca della felicità collettiva e individuale e della piena realizzazione dell’essere sociale. In questa ricerca i situazionisti presero le distanza dalle forme partitiche ed organizzative prodotte fino ad allora dal Movimento Operaio, sganciando il pensiero antagonista dalla semplice critica della miseria economica, destinata sempre a produrre soltanto ipotesi di carattere economicistico e riformista, per misurarsi più in generale con l’immaginario che stava alla base di tale produzione ideologica. Così, oltre che critici del lavoro salariato e della società divisa in classi e dello Stato che la giustificava, i rappresentanti dell’ Internazionale Situazionista appuntarono i loro strali su quelli che fino ad allora erano stati aspetti minori, e spesso dimenticati, della teoria rivoluzionaria: le merci, intese come strumento di soddisfazione di bisogni profondi di realizzazione individuale e collettiva attraverso il consumismo, e il tempo libero, inteso come momento dedicato al consumo più che ad una effettiva liberazione dell’individuo e della collettività dal lavoro salariato e dalla schiavitù capitalistica. Nel fare ciò furono forse i primi ad individuare il terreno del politico come uno dei territori dell’immaginario collettivo. Immaginario che se non fosse stato rovesciato non avrebbe fatto altro che prolungare la schiavitù capitalistica basata sul lavoro salariato e sul consumo mercantile di tutto ciò di cui era stato precedentemente espropriato l’essere umano proletarizzato. Anche una volta “fatta” la Rivoluzione, come la drammatica esperienza sovietica e stalinista avevano già fin troppo bene dimostrato. Proprio per questo furono i primi e migliori interpreti del’68, avendo saputo anticiparne i contenuti e gli slogan più originali (“L’immaginazione al potere”) fin dai primi anni sessanta. In questo senso l’ultimo testo di Gianfranco Marelli, studioso da sempre del Situazionismo e dei suoi protagonisti,1 si rivela una guida magistrale per cogliere tutte le sfumature della critica della società delle merci operato dal detournment situazionista nei confronti di quella insaziabile sete di felicità che accompagnava, e probabilmente accompagna ancora, la lotta di classe e che veniva però tradita da un immaginario ancora basato sul consumo di un prodotto già a monte reificato in forma mercantile. Si trattasse, o si tratti ancora, pure di sentimenti, sogni e ideali. Come lo stesso Marelli dimostra ancora una volta in questa occasione non sempre tutto filò liscio e gli stessi critici del “reale” non poterono sempre esimersi dalla critica a cui furono sottoposti dalla “realtà” in grazia anche dei forti personalismi che caratterizzarono e finirono col dividere tra di loro i principali esponenti del movimento, ma ciò non toglie che quella esperienza sia degna ancor di grande attenzione. Qui di seguito pertanto si riproducono le pagine 62 e 63 del testo in questione, utili al fine di riassumere i caratteri generali della “politica” situazionista.]

una bibita 1 Il linguaggio nuovo e irriguardoso nei confronti delle esperienze rivoluzionarie precedenti, applicato ad una critica tagliente della passività cui l’uomo è costretto in ogni momento della sua vita dall’estraneità, dalla separazione, non più circoscritta al solo tempo di lavoro, ma diffusa nell’arco dell’intera esistenza indotta a consumare merce – in quanto che perfino il tempo libero è ormai totalmente scandito dai ritmi delle macchine del consumo e del divertimento obbligatorio che lo consumano e l’uomo, dopo essere stato il «capitale più prezioso», diventa il «bene di consumo più apprezzato»-, finisce per incontrarsi con la protesta giovanile nata dal degrado urbano, sociale e culturale di quelle stesse città di cui i situazionisti furono i primi a denunciare la funzione di controllo e repressione attuata attraverso una manipolazione ideologica consistente nell’appagare artefatti bisogni dei suoi abitanti, che proprio per questo si trovavano continuamente e necessariamente insoddisfatti e frustrati.
La costruzione di basi situazioniste – vere e proprie zone liberate dall’occupazione del mondo della merce in cui viene messa in scena lo spettacolo della divisione, dell’estraneità, della vacuità –finì per recepire le istanze di partecipazione, comunicazione, realizzazione espresse dalla nuova coscienza dei giovani proletari: «la coscienza di non essere in nulla padroni della propria attività, della propria vita».2 Non per nulla, l’attenzione mostrata dai situazionisti nei confronti della gioventù ribelle che, apparentemente «senza causa», esprimeva con rabbia incontrollata il proprio rifiuto della vita così come era organizzata dalla società dello spettacolo. Diventò uno degli aspetti più trattati dalla rivista (soprattutto a partire dal numero 9 in poi), cercando – nella puntuale e minuziosa descrizione degli avvenimenti- di fornire gli insorti le ragioni delle ribellioni che, a partire dagli anni ’60 del XX secolo a Napoli, come Caracas, a Tolone come ad Algeri , a Londra come a Praga, negli USA come in Giappone e in Congo, caratterizzarono le sommosse sociali nei quartieri degradati delle città; ribellioni «contro la merce, contro il mondo della merce e del lavoratore-consumatore gerarchicamente sottoposto alle regole della merce»,3 in cui il saccheggio, lo sciopero selvaggio, l’insubordinazione a qualsiasi imposizione gerarchica, confermeranno definitivamente ai situazionisti l’urgenza di porre, non più in modo oscuro, «la questione di una nuova organizzazione rivoluzionaria, che comprenda abbastanza bene la società dominante, per funzionare effettivamente, a tutti i livelli, contro la società dominante: per trasformarla integralmente senza riprodurla in nulla».

una bibita 2 Non più dunque, operai soddisfatti, come avevano sostenuto i patiti riformisti, i sindacati collaborazionisti, gli pseudo rivoluzionari e l’ala destra dell’I.S., ma proletari ribelli in cerca di un’organizzazione rivoluzionaria che sapesse fare i conti con il fallimento della rivoluzione e con la necessità di reinventarla. Di questo furono convinti assertori i situazionisti, attivandosi affinché il pensiero teorico, a partire dallo stesso Marx, fosse riscoperto, riconsiderando altresì le posizioni degli anarchici nella Prima Internazionale, il blanquismo, il luxemburghismo, il movimento dei Consigli Operai, Kronstadt e i machnovisti; ma non certo – puntualizzarono orgogliosi- «per un fine di eclettismo universitario, o di erudizione, ma unicamente con il fine di essere utile alla formazione di un nuovo movimento rivoluzionario, del quale vediamo in questi ultimi anni tutti i segni premonitori e del quale siamo noi stessi un segno premonitore».4


  1. Si vedano i suoi: L’amara vittoria del stuazionismo, BFS 1996; L’ultima Internazionale. I situazionisti oltre l’arte e la politica, Bollati Boringhieri 2000; la “voce” Internazionale Situazionista per il secondo volume di L’Altronovecento. Il sistema e i movimenti [Europa 1945-1989], Jaca Book 2011  

  2. Il declino e la caduta dell’economia mercantile-spettacolare , in Internazionale Situazionista n°10, marzo 1966, pag.7  

  3. Ibid. pag.4  

  4. I brutti giorni finiranno, I.S. n°7, aprile 1961, pag.12  

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Prima Internazionale https://www.carmillaonline.com/2014/11/15/prima-internazionale/ Sat, 15 Nov 2014 04:10:34 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18676 di Alfio Neri

Prima InternazionalePrima Internazionale. Lavoratori di tutto il mondo, unitevi! Indirizzi, Risoluzioni, Discorsi e Documenti. Edizione del centocinquantennale, a cura di Marcello Musto, Donzelli Editore, Roma 2014, pp.256, € 25,00

Negli anni Settanta questo libro avrebbe davvero spopolato. Sarebbe stata un’autentica bomba. Avrebbe creato un dibattito enorme. Poteva fare davvero piazza pulita di molti luoghi comuni. Molte cose sarebbero apparse sotto una nuova luce. Non sto facendo affermazioni avventate. Gli anni Settanta erano abitati da militanti con una formazione culturale trascurata. Era un’epoca in cui premeva l’immediato, la [...]]]> di Alfio Neri

Prima InternazionalePrima Internazionale. Lavoratori di tutto il mondo, unitevi! Indirizzi, Risoluzioni, Discorsi e Documenti. Edizione del centocinquantennale, a cura di Marcello Musto, Donzelli Editore, Roma 2014, pp.256, € 25,00

Negli anni Settanta questo libro avrebbe davvero spopolato. Sarebbe stata un’autentica bomba. Avrebbe creato un dibattito enorme. Poteva fare davvero piazza pulita di molti luoghi comuni. Molte cose sarebbero apparse sotto una nuova luce. Non sto facendo affermazioni avventate. Gli anni Settanta erano abitati da militanti con una formazione culturale trascurata. Era un’epoca in cui premeva l’immediato, la grande svolta sembrava proprio dietro l’angolo. La stessa fiducia riposta in tante organizzazioni politiche era legata più a una mitologia rivoluzionaria che alla realtà storica. Non la voglio fare lunga, dico solo che questa lettura avrebbe davvero fatto un gran bene.

Il libro curato da Marcello Musto è una raccolta di documenti della Prima Internazionale. I suoi meriti sono molti. Colpisce la correttezza espositiva. Qualche doverosa parola di introduzione viene giustamente fatta, ma i documenti non sono mai affogati da commenti che interrompono inutilmente il flusso argomentativo. L’intervento del filologo, che è presente, non nasconde i testi sotto un mare di parole. I documenti sono raggruppati per temi e seguono un ordine tendenzialmente cronologico. Il libro è leggibile tutto di un fiato, ma consente di focalizzare molte specifiche questioni.

Un’occhiata superficiale mostra che Marx non era solo. La Prima Internazionale era tutto un ribollire d’idee (talvolta confuse) portate avanti da personaggi assolutamente unici. Da un punto di vista teorico Marx era sicuramente preparatissimo ma, da un punto di vista politico, la sua presenza era valorizzata da molti altri personaggi di assoluto primordine. Marx non era il profeta del socialismo; nella Prima Internazionale i profeti del sole dell’avvenire erano davvero parecchi. Marx era solo un militante fra tanti che, per capacità e preparazione teorica, tendeva a risaltare.

Nella prima fase della storia dell’organizzazione, gli avversari di Marx erano i mutualisti francesi. Questi si rifacevano a Proudhon e sognavano una qualche strategia politica ed economica per affrontare l’incipiente proletarizzazione. Da un punto di vista operativo chiedevano che il lavoro avesse l’accesso al credito bancario. Questa posizione, oggettivamente poco dinamica (ricorda per impostazione le posizioni teoriche delle cooperative rosse), era avversata dalla segreteria londinese (fra cui Marx) e dall’incipiente corrente libertaria. La convergenza teorica fra la segreteria e le correnti autonomiste (che poi diventeranno anarchiche) è palese. Erano unite da diverse questioni centrali. Entrambe teorizzavano l’azione operaia come fattore strategico di emancipazione sociale. Entrambe avevano idee simili sullo stato borghese e sulla necessità storica di abbatterlo. Entrambe erano a favore dell’internazionalismo e dell’opposizione alla guerra. Erano divise dall’idea che vi potesse essere una rivoluzione a breve termine, non dalla questione se fosse auspicabile o meno una rivoluzione sociale. Per molti anni gli anarchici e la segreteria londinese furono oggettivamente alleati contro i mutualisti e contro i sindacati riformisti inglesi. Questi ultimi avevano promosso materialmente l’Internazionale per impedire le azioni di crumiraggio da parte del capitalismo inglese (per esempio lanciarono una mobilitazione per impedire il reclutamento di sarti belgi durante lo sciopero dei sarti londinesi). Di fatto però i sindacati inglesi, nel dibattito, espressero sempre una sconcertante debolezza teorica. Nelle riunioni londinesi la parola era spesso presa da altri gruppi più radicali. Legati da una comune sensibilità rivoluzionaria, Marx e gli anarchici belgi, svizzeri e francesi avevano posizioni teoriche sorprendentemente simili.

I documenti della Prima Internazionale mostrano sempre un’organizzazione aperta al dibattito. Sembra banale dirlo ma Marx non era leninista e la Prima Internazionale non era la centrale cospirativa di un oscuro partito di rivoluzionari di professione. Il dibattito novecentesco sul partito rivoluzionario come strumento strategico di presa del potere politico è completamente estraneo a queste pagine. Inoltre la sensibilità rivoluzionaria allontanava Marx anche dall’ortodossia scientista ed economicista della socialdemocrazia. Esistevano luoghi in cui si contava più di altri (ne sia prova la quantità di documenti editi a Londra) ma la presenza di vivace dibattito interno mostrava un’apertura mentale che farebbe invidia a molte organizzazioni rivoluzionarie contemporanee. Banalmente, la Prima Internazionale non era un’organizzazione settaria.

Quarto_Stato[1]La raccolta dei testi focalizza anche la rottura con gli anarchici e la decisione di spostare la segreteria negli Stati Uniti. Mentre nell’Europa continentale la maggioranza delle federazioni si schierava con gli anarchici, Marx si opponeva con fermezza alla loro strategia politica. Tuttavia, malgrado lo scontro aperto, il tono della polemica rimaneva sempre molto più rispettoso di quanto si possa immaginare (e intendiamoci Marx quando si trattava di insultare e di satireggiare aveva una creatività linguistica assolutamente ragguardevole). La rottura non riguardava due visioni teoriche contrapposte ma piuttosto due diverse strategie politiche. Entrambi erano su posizioni rivoluzionarie. Entrambi auspicavano la fine dello stato. Entrambi volevano organizzazioni rivoluzionarie ma anche strutture di massa aperte e democratiche. Queste posizioni erano lontane anni luce dai deliri economicisti della socialdemocrazia e dalle pratiche manipolatrici dell’Internazionale Comunista. La documentazione, talvolta ingenua, non aveva nulla dei deliri gesuitici del Novecento. Certo, con il senno di poi, oggi gli anarchici dell’azione insurrezionalista sembrano proprio degli eroici sprovveduti; i mutualisti con l’idea del credito agli artigiani e alle cooperative sembrano degli illusi; anche Marx, quando redigeva il saluto dell’Internazionale per la rielezione di Lincoln nel 1864, sembra veramente un’anima bella. Però le cose importanti sono altre. Con tutti i loro limiti, i documenti erano lontani anni luce dalle paludi novecentesche fatte di citazioni strumentali che occultavano svolte inconfessabili.

Per queste ragioni, il paziente lavoro di Musto è importante. Da un punto di vista storiografico molta parte della storia nel Novecento è già tutta in queste pagine. Socialismo, Comunismo e Anarchismo nacquero nei dibattiti riportati da questi documenti. Il loro battesimo si svolse davvero in lunghe riunioni di militanti sconosciuti. Con il senno di poi possiamo anche sorridere delle loro facili speranze. Però le ragioni che vi stavano dietro ritornano ancora oggi con forza. Per questo i documenti della Prima Internazionale sono qualcosa di più di un importante capitolo di storia antiquaria. La loro rilettura ci permette di ripensare i possibili percorsi del nostro futuro. La storia della Prima Internazionale non è un capitolo chiuso di storia ottocentesca perché ci permette di affrontare meglio vecchi problemi. Per esempio il leninismo non è l’esito necessario del dibattito organizzativo della prima Internazionale. Anche in passato era chiaro che si poteva essere rivoluzionari senza essere leninisti. Tuttavia questi documenti, letti senza filtro ideologico, mostrano che lo spirito della Prima Internazionale era pluralista. L’organizzazione si divide su dibattiti razionali senza scomuniche e senza inutili deliri psichiatrici. Inoltre, letteralmente, Marx e gli anarchici erano su posizioni teoriche talvolta davvero molto vicine. Oggi il contesto politico e sociale è mutato profondamente. Per questo questa vecchia contrapposizione non ha ormai più nulla di attuale e di necessario. La Prima Internazionale era un’organizzazione pluralista, rivoluzionaria e democratica. Il minimo che si possa dire è che qualsiasi prassi rivoluzionaria non potrà prescindere da queste scelte strategiche. É evidente che il cammino da fare è ancora lungo.

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Il sogno di Cafiero https://www.carmillaonline.com/2014/06/03/sogno-cafiero/ Mon, 02 Jun 2014 22:19:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15108 di Sandro Moiso

cafieroPier Carlo Masini, Cafiero, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp. 280, € 20,00

Amici, vediamo di affrettare il più presto che possiamo la rivoluzione, imperocché, lo vedete, i nostri amici si lasciano così morire: o in carcere, o in esilio, o pazzi per forti dolori”. Le parole finali, pronunciate con commozione, del discorso tenuto da Carlo Cafiero ai funerali di Giuseppe Fanelli, già compagno del Pisacane, veterano dell’Internazionale e morto pazzo a 49 anni nel 1877, sembrano contenere una premonizione del destino del Cafiero stesso.

Vita e destino che  nel loro sviluppo e nella loro drammaticità, costituiscono il nerbo [...]]]> di Sandro Moiso

cafieroPier Carlo Masini, Cafiero, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp. 280, € 20,00

Amici, vediamo di affrettare il più presto che possiamo la rivoluzione, imperocché, lo vedete, i nostri amici si lasciano così morire: o in carcere, o in esilio, o pazzi per forti dolori”. Le parole finali, pronunciate con commozione, del discorso tenuto da Carlo Cafiero ai funerali di Giuseppe Fanelli, già compagno del Pisacane, veterano dell’Internazionale e morto pazzo a 49 anni nel 1877, sembrano contenere una premonizione del destino del Cafiero stesso.

Vita e destino che  nel loro sviluppo e nella loro drammaticità, costituiscono il nerbo e la forza di quella che costituisce, di fatto, la biografia più importante dell’internazionalista pugliese e, allo stesso tempo, “l’opera nella quale si riassume e si esalta la vicenda umana e intellettuale del suo autore1.

Pier Carlo Masini (1923 – 1998) può infatti essere considerato uno dei rappresentanti più insigni del lavoro storiografico militante svolto in Italia sul Movimento Operaio e le sue origini.
Amico, sin dalla gioventù, di Gianni Bosio fu da questi invitato ad entrare nel comitato di redazione della rivista “Movimento operaio” fin dalla sua fondazione, ma preferì sempre mantenere la propria autonomia di militante anarchico nei confronti di imprese di carattere più istituzionale, più vicine agli storici di area socialista e comunista.

Questa scelta se, da un lato, ne fece una sorta di “isolato” nel panorama intellettuale italiano del dopoguerra e degli anni successivi, dall’altro gli permise di sviluppare una maggiore attenzione nei confronti di quelle posizioni anarchiche e comuniste che da sempre avevano segnato la specificità del movimento operaio italiano nel suo sviluppo storico. Le “eresie” del movimento operaio, da quelle anarchiche a quelle della Sinistra Comunista Italiana cui avrebbe voluto dedicare uno studio dal titolo “La sinistra dissidente: i gruppi minoritari di sinistra in Italia dal 1926 al 1961”, costituirono infatti, fin quasi al termine dei suoi giorni, il vero campo di indagine dello storico toscano.

Anche se la prima edizione della biografia di Carlo Cafiero uscì nel 1974, gli studi che ne avevano permesso la realizzazione erano iniziati circa 25 anni prima. E se altre furono ancora le opere centrali del lavoro di ricerca di Masini2 , certo il Cafiero costituì un po’ il coronamento di una ricerca durata una vita. E l’attuale riedizione dell’opera è completamente rivista alla luce delle ricerche che l’autore continuò a condurre praticamente fino alla fine dei suoi giorni.

Più volte, nel corso della sua vita, lo studioso si era trovato a ripercorrere fisicamente le orme di Carlo Cafiero; talvolta casualmente e, talaltra, volontariamente come quando, nel 1947, con una comitiva di compagni anarchici aveva percorso il cammino seguito dalla banda del Matese settant’anni prima, nel 1877. Ma quello che avvicina di più lo storico al soggetto del suo studio fu proprio la passione militante che fece sì che molti dei suoi studi facessero spesso la loro prima comparsa nelle riviste militanti di carattere libertario oppure nelle edizioni di Azione Comunista ancor più che in quelle di indirizzo meramente storiografico.

Il motivo di ciò lo si può ben individuare in una lettera, riportata nella postfazione curata da Franco Bertolucci, scritta ad Aldo Venturini, il 23 luglio 1955, dopo che Giangiacomo Feltrinelli aveva allontanato dalla direzione di “Movimento operaio” Bosio per sostituirlo con Armando Saitta.
Saitta, insieme ad altri storici «puri», ha la fissazione del superamento dei limiti «corporativi» della storia del movimento operaio, nel senso che la storia della classe operaia dovrebbe essere parte di una storia unitaria, e quindi in definitiva «l’altra faccia» della storia della borghesia in quanto classe egemone. Questa impostazione, giusta se si limitasse a postulare l’inquadramento della storia del movimento operaio nella storia generale, civile, della società tutta intera, presenta il pericolo di una interpretazione neutra, non militante, di questa storia, o peggio di una sua interpretazione «borghese»” (pag. 251)

Questa opposizione militante ai dogmi ed alle derive istituzionali legate alla storiografia “di partito” sembra richiamare idealmente lo scontro che accompagnò la breve ed intensa vita politica di Cafiero che, dopo essersi avvicinato alla Prima Internazionale in occasione della Comune di Parigi, ebbe poi, soprattutto con Friedrich Engels, un duro confronto proprio sulle modalità di indirizzo e direzione di quella prima esperienza di organizzazione sovranazionale e partitica dei lavoratori.

Engels che, qui occorre dirlo, proprio sul movimento operaio italiano prese una delle sue maggiori cantonate, finendo col liquidare un’esperienza che si andava sviluppando tra mille difficoltà, ma anche con apporti originali ed interessanti, con supponenza, settarismo e autoritarismo prettamente teutonico. E che ottenne come unico risultato quello di fare approdare Carlo Cafiero e il nascente movimento operaio italiano sulle sponde dell’anarchismo bakuniniano.

Brevissima e intensa fu la stagione vissuta politicamente da Cafiero prima che la follia, forse già in lui latente, lo trascinasse fuori dal mondo e lo immettesse nel circuito dei manicomi e dell’interdizione. Poco più di dieci anni, tra il 1871 e il 1883.
Un ex-leader del Movimento Studentesco, anni fa, scrisse un libro di memorie sul ’68 intitolandolo presuntuosamente “Formidabili quegli anni”. Come si sarebbe potuta intitolare, allora, un’opera dedicata alla vita del militante anarchico ottocentesco?

Dalla adesione alla Prima Internazionale alla prima traduzione italiana del primo libro del Capitale di Marx in compendio; dalla promozione delle assemblee internazionali di lavoratori da cui sarebbe scaturita l’Alleanza Internazionale dei Lavoratori e dal primo esperimento guerrigliero-insurrezionale in chiave socialista sulle montagne del Matese fino alla formazione del primo raggruppamento politico socialista degli operai in Italia.

Questo lo straordinario percorso di un rivoluzionario che, proveniente da una famiglia agiata e ricca del Sud, spese fini all’ultimo quattrino per favorire la causa rivoluzionaria, riducendosi in miseria. Come testimonia un rapporto della questura di Milano del 1882: “Pel trionfo del suo programma e della lotta internazionale ha sciupato tutto il suo patrimonio di qualche centinaio di migliaia di lire, sussidiando i compagni e somministrando loro i mezzi per la distruzione della proprietà e dell’ordine attuale e per la guerra fra le classi sociali” (pag. 3).

Un’esperienza che, al contrario di quanto pensato da Engels, proiettò il nascente movimento operaio italiano in un ambito internazionale rendendolo da subito protagonista centrale delle lotte dell’ultimo quarto del XIX secolo. Accanto ai terroristi e ai populisti russi che all’epoca avevano iniziato a scuotere il modo ad Oriente come ad Occidente e di cui Cafiero finì con lo sposare, con esiti deludenti per entrambi, una delle rappresentanti più sconosciute, Olimpiada Kutuzova, che aveva percorso a piedi migliaia di verste nella steppa russa per fuggire dalla prigionia siberiana.

Ma molti altri nomi entrano nella sua biografia: da Michail Bakunin, con cui fu legato da un autentico rapporto di collaborazione e, talvolta, di amore-odio dovuto alla spendaccioneria del secondo, a Errico Malatesta con cui condivise la militanza e, anche, la partecipazione al fallito moto insurrezionale del Matese. Dalla bellissima Anna Kuliscioff, donna intelligente e indipendente di cui sicuramente si innamorò, ad Andrea Costa da cui fu separato sia a causa dell’amore per la stessa Kuliscioff sia, soprattutto, per le scelte politiche che questi avrebbe fatto a favore dello strumento partitico e parlamentare. Ma in cui, alla fine, lo stesso Cafiero, rassegnandosi un attimo prima della follia, riconobbe l’inevitabile passaggio verso la maturità politica del movimento.

Nato il 1° settembre del 1846 da una famiglia benestante di Barletta, “ben accetta a Dio, al re, alle banche e perfino agli elettori” (pag. 2), e dopo aver lasciato gli studi presso il seminario vescovile di Molfetta per seguire gli studi in Legge presso l’Università di Napoli, Cafiero fu, fino ai 24 anni, un giovane di bell’aspetto e dai modi elegantissimi, amante della vita mondana, del teatro e delle donne. Che nel 1870 si trovava a Parigi, ma che alle prima avvisaglie della guerra franco-prussiana lasciò per recarsi a Londra.

Qui, proprio in occasione della Comune di Parigi entrò in contatto con Marx ed Engels da cui “venne incaricato di recarsi subito in Italia per accertare lo stato del movimento e imprimergli un orientamento rispondente all’indirizzo del Consiglio Generale” dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (pag. 11).

Da quel momento Carlo sarebbe diventato non solo la pecora nera della sua famiglia che, come riferiva ancoro lo stesso rapporto della Questura di Milano, “non condivide ma deplora i suoi principi di condotta”, ma anche uno degli uomini su di cui si concentrò maggiormente l’attività di indagine e repressione delle Questure d’Italia. E fu la Comune, più ancora che la teoria del nascente socialismo scientifico, l’impulso decisivo per Cafiero, così come per tanti altri giovani italiani, a incamminarsi dietro le bandiere dell’Internazionale3 .

A partire da questo punto, con tutte le rotture e le scelte che ne seguiranno, ebbe origine una vita intensa (conclusasi a 46 anni nel 1892), una militanza quasi unica che portava in sé già tutti i germi dell’anomalia o dell’eresia italiana all’interno del Movimento Operaio. Una specificità che si sarebbe manifestata negli anni a venire non solo nella diffusione del movimento anarchico, ma, anche, nella formazione di un socialismo che sarebbe poi sfociato, con la nascita del PC d’I di Amadeo Bordiga, in una delle esperienze più radicali del comunismo novecentesco e di cui il pensiero di Gramsci avrebbe costituito soltanto uno smorto riflesso.

Un percorso che dagli ideali risorgimentali e democratico-borghesi avrebbe portato, già nello stesso Cafiero, all’intuizione di una società altra e che ebbe nel Sud d’Italia e, soprattutto a Napoli vista alla fine dell’ottocento come la polveriera d’Italia, uno dei suoi centri principali di evoluzione.
In cui il comunismo a venire non sarebbe più stato frutto dell’Utopia, ma ben radicato nelle lotte dei lavoratori, nella loro autonomia politica, nel contributo degli intellettuali che tradivano la loro classe d’appartenenza e nello sviluppo delle conoscenze tecnico-scientifiche. Un sogno dirompente che, forse inconsapevolmente, anche Lenin avrebbe fatto in seguito suo quando, nelle pagine del Che Fare?, avrebbe affermato che bisogna sognare!4

E’, dunque, quella di Masini un’opera da leggere e da studiare, pagina dopo pagina, per chiunque sia interessato alla storia del movimento operaio. Di cui non costituisce soltanto un’analisi delle origini, ma che proietta già il lettore in tutte le problematiche che questo ha dovuto e deve ancora affrontare nel suo percorso di liberazione dalla schiavitù salariale e dallo sfruttamento coatto dell’umanità.
Un testo che costituisce un autentico modello di indagine e di storiografia militante ed è davvero con orgoglio che la Biblioteca Franco Serantini di Pisa può rivendicarne la pubblicazione della nuova edizione ampliata.

Per finire, un libro appassionante, anche per la scelta operata dell’autore che, in una lettera del 1973, rivelava, in questi termini, di essere ben conscio della sua struttura espositiva: ”Devo precisarti che da vent’anni a questa parte i miei interessi si sono spostati da una angolazione storico-politica a quella storico-socio-psicologica. Insomma di Cafiero mi ha interessato e mi interessa molto di più delle sue vicende avventurose ed esterne (alle quali ho dato peraltro il dovuto spazio), la sua vicenda umana, la sua personalità, le ragioni della sua pazzia. Ma tutto questo giova ad una trascrizione drammatica e rende più moderna una interpretazione della figura” (pag. 268)


  1. Franco Bertolucci, Postfazione. Pier Carlo Masini, gli studi su Cafiero e la Prima Internazionale, pag. 233  

  2. Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta, Rizzoli, 1969; Storia degli anarchici italiani nell’epoca degli attentati, Rizzoli 1981 e, ancora, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana, Milano 1978  

  3. Si veda anche a tal proposito Maria Grazia Meriggi, La Comune di Parigi e il movimento rivoluzionario e socialista in Italia (1871 – 1885), La Pietra, Milano 1980  

  4. Ecco che cosa bisogna sognare!
    “Bisogna sognare!”. Scrivendo queste parole sono stato preso dalla paura. Mi è sembrato di trovarmi al Congresso di unificazione e di avere in faccia a me i redattori ed i collaboratori del Raboceie Dielo. Ed ecco il compagno Martynov alzarsi ed esclamare minacciosamente: “Scusate! Una redazione autonoma ha il diritto di ‘sognare’ senza l’autorizzazione preventiva dei comitati del partito?”. Poi si alza il compagno Kricevski, il quale (approfondendo filosoficamente il compagno Martynov che ha da molto tempo approfondito il compagno Plekhanov) continua ancora più minaccioso: “Dirò di più. Vi domando: ha un marxista il diritto di sognare se non ha dimenticato che, secondo Marx, l’umanità si pone sempre degli obiettivi realizzabili e che la tattica è il processo di sviluppo degli obiettivi che si sviluppano insieme con il partito stesso?”.
    La sola idea di queste domande minacciose mi fa venire la pelle d’oca, e non penso che a trovare un nascondiglio. Cerchiamo di nasconderci dietro Pisariev.
    “C’è contrasto e contrasto – scriveva Pisariev a proposito del contrasto fra il sogno e la realtà. – Il mio sogno può precorrere il corso naturale degli avvenimenti, ma anche deviare in una direzione verso la quale il corso naturale degli avvenimenti non può mai condurre. Nella prima ipotesi, non reca alcun danno; anzi, può incoraggiare e rafforzare l’energia del lavoratore… In quei sogni non c’è nulla che possa pervertire o paralizzare la forza operaia; tutt’al contrario. Se l’uomo fosse completamente sprovvisto della facoltà di sognare in tal maniera, se non sapesse ogni tanto andare oltre il presente e contemplare con l’immaginazione il quadro compiuto dell’opera che è abbozzata dalle sue mani, quale impulso, mi domando, l’indurrebbe a cominciare e a condurre a termine grandi e faticosi lavori nell’arte, nella scienza e nella vita pratica?… Il contrasto tra il sogno e la realtà non è affatto dannoso se chi sogna crede sul serio al suo sogno, se osserva attentamente la realtà, se confronta le sue osservazioni con le sue fantasticherie, se, in una parola, lavora coscienziosamente per attuare il suo sogno. Quando vi è un contatto tra il sogno e la vita, tutto va per il meglio”. Di sogni di questo genere, disgraziatamente, ce ne sono troppo pochi nel nostro movimento. La colpa è soprattutto dei rappresentanti della critica legale e del codismo clandestino, tronfi della loro lucidità e del loro senso del concreto.
    (Lenin, Che fare?, Einaudi 1971, pp.196 – 197)  

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