prigione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Etnografie del carcere tra Sud e Nord globale https://www.carmillaonline.com/2025/05/11/etnografie-del-carcere-tra-sud-e-nord-globale/ Sun, 11 May 2025 20:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87778 di Gioacchino Toni

Francesca Cerbini, Prison lives matter. Etnografie del carcere tra Sud e Nord globale, elèuthera, Milano 2025, pp. 208, € 18.00

Prison lives matter di Francesca Cerbini mette in luce l’importanza della ricerca etnografica nell’affrontare il carcere e chi si trova a viverlo. Il luogo di prigionia viene indagato come manifestazione di repressione per eccellenza e laboratorio «in cui la creazione ad hoc di utili nemici più o meno immaginari, persone deprivate della benché minima umanità in nome della nostra sicurezza e libertà, fomenta la costruzione di una società militarizzata, sotto controllo e marcatamente diseguale» (p. 8). Gli uomini [...]]]> di Gioacchino Toni

Francesca Cerbini, Prison lives matter. Etnografie del carcere tra Sud e Nord globale, elèuthera, Milano 2025, pp. 208, € 18.00

Prison lives matter di Francesca Cerbini mette in luce l’importanza della ricerca etnografica nell’affrontare il carcere e chi si trova a viverlo. Il luogo di prigionia viene indagato come manifestazione di repressione per eccellenza e laboratorio «in cui la creazione ad hoc di utili nemici più o meno immaginari, persone deprivate della benché minima umanità in nome della nostra sicurezza e libertà, fomenta la costruzione di una società militarizzata, sotto controllo e marcatamente diseguale» (p. 8). Gli uomini e le donne che si ritrovano reclusi in tali strutture sono presi in considerazione dall’autrice come soggetti reali, tra Sud e Nord globale, non di rado espressione «di quelle frange della popolazione per lo più razzializzate, escluse dai benefici del sistema produttivo e finanziario legale e dall’esercizio di una cittadinanza spendibile per l’acquisizione di diritti» (p. 8).

L’approccio etnologico con cui Cerbini guarda all’universo carcerario, focalizzato, come detto, sulle esperienze dei soggetti che lo vivono e sulla loro visione del mondo, la induce a ritenere che il concetto di istituzione totale, a cui si è fatto a lungo riferimento, non si riveli oggi utile a definire tale universo anche alla luce del fatto che sembra essersi dissolta la distinzione netta tra ghetto urbano e prigione, tanto da presentare inedite forme ibride di autogestione o co-gestione fra Stato e detenuti.

A partire dalle etnografie condotte nell’ultimo decennio negli istituti di pena del Sud e del Nord globale, Cerbini propone un radicale cambio di prospettiva che, scardinando l’univocità del “penitenziario ideale”, sinonimo di ordine e disciplina, consente di individuare connessioni ed elementi di continuità tra “dentro” e “fuori”, tra carcere e società, manifestando le tante forme di violenza con cui si attua la governance nei confronti dei soggetti sottoposti, in un modo o nell’altro, a restrizioni di libertà.

Diversi studi etnografici condotti nelle carceri del Nord hanno mostrato come i penitenziari, con i loro piccoli e grandi aggiustamenti e adattamenti all’ambiente circoscritto e circostante, attraversati da resistenze e addomesticazioni, finiscano per scardinare l’idea di carcere come sinonimo di ordine e disciplina, come «istituzione governata esclusivamente dalle autorità statali con un controllo chiaro, se non assoluto, sui confini dell’istituzione, sui suoi flussi, sull’irreggimentazione di tempo, spazio e popolazione» (p. 174).

Ad essere scardinato è il concetto stesso di «ordine come prodotto della razionalità statale e disordine come risultato del governo dei reclusi», e con esso l’assunto «occidentalista, di stampo evoluzionista, che vede nell’agire autonomo dei reclusi (e ancor più delle recluse, costrette da modelli di genere molto più vincolanti e regolatori della loro esperienza carceraria) l’inesorabile sopravanzare della giungla nel “giardino ordinato” del penitenziario classico» (p. 174).

Diversi studi, debitamente riportati dall’autrice, «non si sono limitati a mettere in discussione la netta distinzione tra pubblico (lo Stato) e privato (autogoverno), formale e informale, dentro e fuori, legale e illegale; a denunciare i colpevoli – i reclusi – o un colpevole – lo Stato – pur mostrando i limiti strutturali di un sistema, la sua violenza inaudita e la disuguaglianza sociale che il carcere incarna a partire dalla selezione iniqua di coloro che vi soggiornano» (p. 174).

Da tali studi non deriva una visione edulcorata di ciò che accade nelle prigioni, “post-coloniali” e non – l’autogoverno carcerario lungi dal rappresentare una sorta di “riscatto” degli ultimi –, bensì emerge come i gruppi umani che le vivono abbiano trovato modalità efficaci di sopravvivenza, si siano dotati di regole in maniera da evitare per forza di cose massacrarsi tra loro.

L’apporto più importante delle etnografie esplorate dall’autrice «è consistito proprio nella restituzione di un ventaglio di pratiche di governo del penitenziario difficilmente ascrivibili a formule univoche e cristallizzate». Tale restituzione, sottolinea Cerbini, «è stata possibile operando un passaggio preciso: dal pensare il carcere come un’istituzione con le sue luci e ombre al pensarne il funzionamento partendo dai soggetti che lo vivono, o meglio dalla loro “visione del mondo”» (p. 176).

L’approccio etnografico, nel suo tentativo di comprendere «le dimensioni trans-locali e trans-carcerarie», si è rilevato utile a «pensare l’incarcerazione al di là della retorica ufficiale autolegittimante e delle semplicistiche narrazioni post-coloniali che considerano le prigioni del Sud globale sfrenate e barbariche in contrapposizione alle prigioni (in teoria) ordinate e controllate del Nord globale, sia per sovvertire i concetti binari, assolutisti che ne fanno da corollario» (p. 177).

Ciò che è emerso, puntualizza Francesca Cerbini, è «un carcere diverso non in ragione delle discrepanze, delle mancanze del carcere del Sud globale a beneficio implicito (o esplicito) delle carceri del Nord. Tale cambio di prospettiva è stato possibile ripercorrendo all’inverso il cammino della deumanizzazione di carcerati e carcerate, riconoscendo che colonia, post-colonia, “razza”, e povertà hanno un legame profondissimo che conforma un continuum della violenza dalle molteplici varianti spazio-temporali» (p. 178).

Con l’approccio etnografico si sono aperte inedite possibilità comparative in cui le differenze mostrano «come localmente si declinino le spinte globali universalizzanti che dall’economia finiscono per influenzare la politica, l’attività legislativa, e con essa la mobilità e l’immobilità a cui le persone sono costrette», mentre le similitudini permettono di sottrarre «“unicità”, “peculiarità” e sensazionalismo a quelle realtà penitenziarie che si discostano in modo più o meno eclatante dal carcere “ideale”» (p. 179).

Le ricerche etnologiche evidenziano, dunque, «cosa accade nell’antipanottico, ossia mostrano contesti, relazioni, poteri che a uno sguardo poco allenato alle alternative teoriche decentrate sembrano alludere soltanto all’indisciplinatezza di un modello penitenziario. Certe caratteristiche invece non sono “esotismo” né una brutta copia, né una situazione sfuggita di mano, quanto più probabilmente conformano un complesso di pratiche, esperienze e circostanze che rimettono in discussione il concetto di ordine e caos, o meglio tutto ciò che sappiamo sul carcere» (p. 179).

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Il mondo della prigione tra alterità e realismo storico. La morte di Francis Turatello / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/02/28/il-mondo-della-prigione-tra-alterita-e-realismo-storico-la-morte-di-francis-turatello-2-2/ Tue, 28 Feb 2023 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76073 di Emilio Quadrelli e Bruno Turci

La morte di Francis più che l’inizio della fine sembra essere la puntuale registrazione di una trasformazione interna al mondo della prigione e della illegalità retrodatabile di almeno un paio d’anni quando, sia all’interno del carcere ma soprattutto all’esterno, le organizzazioni criminali iniziano a farsi egemoni. Quella composizione prigioniera a lungo ‘politicamente egemone’ già sul finire del 1978 inizia a essere messa all’angolo mentre sempre più massiccia e ramificata diventa, anche nelle carceri speciali, la presenza delle organizzazioni criminali. Non va ignorato infatti che, nel circuito [...]]]> di Emilio Quadrelli e Bruno Turci

La morte di Francis più che l’inizio della fine sembra essere la puntuale registrazione di una trasformazione interna al mondo della prigione e della illegalità retrodatabile di almeno un paio d’anni quando, sia all’interno del carcere ma soprattutto all’esterno, le organizzazioni criminali iniziano a farsi egemoni. Quella composizione prigioniera a lungo ‘politicamente egemone’ già sul finire del 1978 inizia a essere messa all’angolo mentre sempre più massiccia e ramificata diventa, anche nelle carceri speciali, la presenza delle organizzazioni criminali. Non va ignorato infatti che, nel circuito normale, le organizzazioni criminali avevano iniziato a prendere gradatamente il sopravvento almeno da un paio d’anni quando, con l’apertura delle Carceri speciali, la frazione più radicale era stata separata dall’insieme del corpo prigioniero. All’interno delle carceri normali le organizzazioni criminali erano state l’elemento determinante della pacificazione e di quella complementarietà propria della relazione “crimine – polizia”. Questa funzione normalizzatrice, a partire dal 1979, viene esportata nell’ultima roccaforte della composizione prigioniera in pieno tramonto. Su questo aspetto occorre minimamente soffermarsi al fine di non dare adito a interpretazioni prone al complottismo e amenità simili. La funzione normalizzatrice della criminalità organizzata non è il frutto di un accordo sancito da questo o quell’apparato statuale con i vertici della mafia, della camorra e via dicendo. Non dobbiamo pensare a un salotto dove gli uomini delle due parti si incontrano e stabiliscono un ipotetico piano d’azione ma alla assoluta similitudine tra apparati statuali e apparati criminali. Le organizzazioni criminali funzionano come elemento di normalizzazione poiché rappresentano e incarnano la statualità dentro i mondi illegali. Non sono, come una letteratura prona al legalitarismo ama definire, l’anti-stato1, ma lo Stato sotto altra forma. La logica e i comportamenti della criminalità organizzata sono comportamenti statuali in tutto e per tutto o, nella migliore delle ipotesi, la loro è una funzione concertativa. Le organizzazioni criminali, tutte interne ai processi di valorizzazione del capitale, non possono mai essere fuori e contro le istituzioni ma sempre dentro. Quel processo di normalizzazione che lo stato era riuscito a intraprendere dopo l’ondata rivoluzionaria del ’77 non lascia certo immuni i mondi della prigione. Catturata e rinchiusa, insieme alle soggettività comuniste, la parte più radicale dell’illegalità dentro il circuito delle Carceri speciali, il mondo della prigione era stato sostanzialmente normalizzato. Gran parte della popolazione prigioniera aveva iniziato a essere il frutto maturo di quella ‘guerra a bassa intensità’2 che, attraverso l’eroina, stato e padroni avevano condotto contro un’intera generazione operaia e proletaria, mentre un’altra era formata da quelle non secondarie schiere legate alle organizzazioni criminali tradizionali e, ancor più, da quelle emergenti come la NCO o la Nuova famiglia. Repentinamente il mondo delle ‘batterie’, che era stato in grado di imporre il suo potere per circa un decennio, evapora e, con questo, quella critica della prigione che gli aveva fatto da sfondo. Ma la critica della prigione era stata possibile solo grazie all’esistenza di ‘comunità belligeranti’ che della dimensione collettiva aveva fatto il suo stile di vita. Nel mondo degli individui che inizia a prendere forma non può esservi spazio per alcuna dimensione collettiva e tanto meno comunitaria. I peggiori incubi hobbesiani si fanno concretezza storica. Nel mondo delle Carceri speciali l’omicidio di Turatello indica esattamente la consumazione di questo passaggio. Ma, a questo punto, è giunto il momento di far parlare Bruno che di tutto ciò è stato un testimone non secondario.

3. Nel ventre del mostro

Allora, Bruno, sono passati quasi quaranta anni dalla morte di Francis. Come in tutte le cose il tempo permette di osservare e raccontare gli eventi con più distacco e minore emotività. Prima di affrontare ciò che è accaduto e le sue conseguenze puoi tracciare un breve profilo di Francis sul quale si è detto e scritto di tutto e il contrario di tutto?

Intanto partiamo da una constatazione solo apparentemente banale: sono passati una quarantina di anni. Sicuramente, se questa domanda mi fosse stata rivolta allora, avrei dato risposte diverse. Questo non perché nel tempo io abbia cambiato giudizio e opinione su Francis ma perché oggi posso leggere quanto accaduto con una visione e comprensione delle cose che all’epoca non avrei potuto avere. Il dolore e l’amarezza per quella morte rimangono intatti, ciò che è cambiata è la comprensione di che cosa è successo a Nuoro. Ho voluto fare questa piccola premessa perché la ritengo essenziale per tutto ciò che proverò a dire, sperando di riuscire a farmi capire. Parto quindi da Francis e dal mio rapporto con lui. Con Francis ci eravamo conosciuti a Milano nel ’76 durante la mia latitanza. Da Genova mi ero spostato a Milano dove facevo principalmente rapine. Molte nel milanese, anche se in alcuni casi mi spostavo anche in Liguria e in Piemonte. Francis l’ho conosciuto in uno dei suoi locali e abbiamo immediatamente simpatizzato e iniziato a costruire un legame che, in brevissimo tempo, si è fatto quanto mai solido e fraterno. Non a caso ero considerato, a tutti gli effetti, il suo Delfino. Francis aveva in mano tutto il giro delle bische oltre a un certo numero di locali, anche se non disdegnava, visto il suo passato, le rapine. Si è detto che Francis controllava Milano ma è una affermazione che va abbastanza smentita. La verità più vicino al vero è che Francis, più che controllare Milano, non faceva controllare Milano. Cosa voglio dire? Voglio dire che Francis aveva sicuramente un peso rilevante su Milano e che sicuramente era a conoscenza di tutto ciò che a Milano si muoveva ma non imponeva alcuna forma di governo e di controllo sugli altri. Il suo problema era che nessuno agisse per intralciare in qualche modo le sue attività, dopo di che rispettava tutti e da tutti pretendeva rispetto. Questo suo modo di agire faceva sì che nessuno gli si mettesse contro e che, al contempo, tutti avessero un occhio di riguardo nei suoi confronti.

Tutto questo che relazione ha con la sua morte?

Come ti ho detto oggi mi è molto più facile inquadrare la morte di Francis perché mi permette di osservarla ben oltre il fatto in sé. La morte di Francis ha significato la fine di un’epoca e questo mi è stato chiaro solo in seguito quando gli effetti di quella morte si sono fatti sentire in tutti gli ambiti e gli aspetti del nostro mondo, del nostro modo di vivere e di concepire i rapporti con gli altri. Andando al sodo, Francis è stato ucciso perché alcuni gruppi volevano prendersi Milano. Sicuramente Cutolo e la NCO che avevano grosse mire su Milano, ma anche i palermitani e soprattutto i catanesi che perseguivano lo stesso obiettivo e con non poca determinazione. Cutolo e i catanesi sono stati i principali ispiratori, mentre i palermitani si sono limitati a assecondare il progetto. A uccidere Francis, non a caso, è Barra, uomo di Cutolo, Faro, uomo dei palermitani, Maltese, un povero idiota fatto su da Faro, e Andraus, vero e autentico Giuda perché fino a un attimo prima era legatissimo a Francis e si è repentinamente venduto ai catanesi. Francis penso che potesse immaginare tutto tranne che nei suoi confronti ci fosse una cospirazione in corso. Con la sua morte e la veloce disgregazione della sua rete organizzativa esterna la sua epopea tramonta e con questa un’intera epoca. Ma forse occorre dire che la morte di Francis più che l’inizio della fine è un po’ il punto di arrivo di una trasformazione in atto da tempo. Io credo che solo pochi anni prima un fatto del genere non sarebbe potuto accadere perché il clima presente dentro le carceri non lo avrebbe permesso. Molti si sarebbero opposti, non tanto per una particolare simpatia nei confronti di Francis, ma perché le logiche che hanno portato alla uccisione di Francis non avrebbero trovato legittimità dentro le prigioni. Ora provo a spiegarmi.

Prima di proseguire una domanda. Nel passeggio nel quale Francis viene ucciso vi sono anche due della tua ‘batteria’, Cesare e Paolo: come reagiscono alla cosa? La domanda mi sembra legittima per almeno due motivi: in prima battuta perché, a quanto mi risulta, i loro rapporti con Francis erano più che buoni e, aspetto ancora più importante, sapevano benissimo il legame di fratellanza esistente tra te e Francis. Non prendere posizione, ovvero non intervenire in difesa di Francis, non significa anche registrare una sorta di rottura con te e, come immancabile conseguenza logica, mettere fine a quel legame proprio dell’essere ‘batteria’? La morte di Francis non rappresenta anche la vostra fine? Non opporsi alla morte di Francis non significa forse rompere in maniera netta e recisa quei vincoli di amicizia e fratellanza che erano stati alla base del vostro essere?

Sicuramente sì. È chiaro che starsene a guardare mentre viene ucciso uno che è un mio fratello significa, se la parola fratello ha un senso, non solo e semplicemente non avere alcun riguardo nei miei confronti ma rompere il legame con me. Ma se rompi il legame con me significa che a venire meno sono tutti i presupposti che in quel legame erano impliciti. A quel punto è evidente che continuare a parlare di ‘batteria’ non ha più il senso di prima, e infatti molte cose iniziano a cambiare. Gli anni successivi di questo ne saranno una triste conferma3. Qualcosa è successo e tutti quanti, in qualche modo, rimaniamo travolti da quel qualcosa che modifica tutto. Come si può descrivere tutto questo? Direi che, a un certo punto, abbiamo cessato di essere e pensarci come gruppo, come banda, come essere il pugno chiuso di una mano, per diventare, invece, tante dita isolate che si incontrano solo per motivi di interesse rimanendo però dita singole. In qualche modo sicuramente continuiamo a esistere come gruppo, siamo ancora i ‘genovesi’, ma siamo già diventati una cosa diversa.

Torniamo però al carcere. Perché la morte di Francis segna un vero e proprio passaggio epocale? Perché da quel momento in poi nulla sarà più come prima? Quali equilibri, in sostanza, una figura come quella di Francis garantiva?

Il passaggio è così spiegato. Nelle carceri, anche se occorre precisare negli speciali perché nel circuito normale le cose erano ormai molto diverse, a contare era solo e unicamente la biografia del singolo ossia non aveva importanza a chi eri legato e neppure lo spessore delle tue azioni così come, visto che all’epoca c’erano numerosi politici, neppure a quale fede o gruppo appartenevi. Le simpatie di Francis, per dire, erano dichiaratamente di destra, tanto che a Nuoro stava in cella con Concutelli, ma sicuramente non aveva prevenzioni di sorta nei confronti dei comunisti. Quando faceva colloquio il pacco lo divideva con tutta la sezione senza curarsi a quale credo politico appartenessero. Tra noi degli speciali, anche perché di fatto ci conoscevamo da tempo, c’era una relazione di fratellanza basata proprio sulla stima e la fiducia che ognuno di noi nutriva per l’altro. Possiamo dire che c’era un rapporto sostanzialmente egualitario. Nessuno, dentro gli speciali, ha mai avuto il problema del mangiare, delle sigarette o dei vestiti. Chi aveva di più dava a chi aveva di meno perché l’unica cosa che contava era l’essere o meno un ‘bravo ragazzo’. Francis, le cui disponibilità economiche non erano certo irrisorie, di questo vero e proprio ‘stile di vita, ne rappresentava un po’ il paradigma. Questo cosa significa? Significa che in questo clima contano i singoli e non le loro appartenenze anche perché le appartenenze sono sostanzialmente del tutto simili: o batterie di rapinatori o veri e propri cani sciolti o lupi solitari. Nessuno, in poche parole, era interessato a diventare una forza egemone dentro il carcere anche perché, questo il fatto veramente decisivo, tutti, o almeno la stragrande maggioranza, avevano in mente una sola cosa: evadere. Non bisogna dimenticare infatti che negli speciali, almeno nella prima fase, finiscono coloro che o sono evasi, spesso armi in pugno, o hanno cercato di farlo. I prigionieri degli speciali stanno dentro ma hanno costantemente la testa rivolta a fuori. Non vogliono diventare i padroni del carcere, vogliono unicamente andarsene. Questo il collante che lega tutti ed è ovvio che se questo è il comune sentire tutto il resto non può che essere conseguente. Ciò che palesemente rimane estraneo in questo scenario sono il denaro e l’interesse. Con l’ingresso prepotente delle organizzazioni, la NCO ma non solo, tutto questo cambia. La prigione diventa una specie di parlamento dove non si ci parla più come biografie ma come componenti. Ci sono i cutoliani, i catanesi, i palermitani, i milanesi, i genovesi, i brigatisti, quelli di prima linea e così via. Questo comporta una mutazione decisiva perché implica una divisione e un modo diverso di ragionare. Inoltre le organizzazioni criminali non sono interessate a scappare ma a governare il carcere insieme all’esterno: la morte di Francis è l’esatto corollario di questa logica. Francis viene ucciso perché cutoliani, palermitani e catanesi vogliono prendersi Milano, le bische e non solo, per questo dovevano rimuovere Francis il quale, tra l’altro, era prossimo alla scarcerazione e da lì a poco sarebbe tornato nella sua Milano. Fare la guerra a Francis fuori sarebbe stato un problema non solo perché poteva contare ancora su un saldo gruppo di fedelissimi ma perché, con ogni probabilità, tutti gli indipendenti avrebbero sicuramente appoggiato più volentieri Francis piuttosto che gli altri. L’omicidio di Francis, inoltre, infrange un tabù quello di non uccidere se non di fronte a prove certe di infamia. Uccidere per interesse non era ammesso e così, sfregio nello sfregio, Francis verrà accusato dai suoi assassini di infamia e di collaborazionismo con la direzione carceraria4.

Quali saranno, quindi, le ricadute concrete all’interno della prigione di questo episodio?

Saranno enormi. Ma già come si è consumato l’atto in sé è indicativo. Nessuno, tranne Concutelli, prova a difendere Francis. Credo che solo qualche mese prima questo non sarebbe accaduto e di fronte a quell’aggressione del tutto immotivata, almeno secondo il costume che regolava il carcere, i più si sarebbero messi di mezzo e avrebbero impedito l’omicidio e a finire sotto accusa sarebbero stati gli aggressori. Col senno di poi credo che sia sensato dire che l’omicidio di Francis più che essere l’inizio della fine sia un po’ il capolinea di quello che ormai nelle carceri era avvenuto. L’omicidio di Francis non farà altro che rendere esplicito ciò che era implicito ormai da qualche tempo.

Potresti essere più chiaro?

Voglio dire che il modo in cui si è consumato l’omicidio implica palesemente il fatto che quel vincolo e quel legame che aveva caratterizzato il mondo degli speciali si è ormai eclissato, il senso di appartenenza e fratellanza è ormai poco più che un contenitore vuoto. Da lì in poi tutto ciò sarà estremamente evidente e al limite del banale. Non tutti, ma quasi, correranno a arruolarsi in questa o quella organizzazione o comunque a essere da queste sovradeterminati. Con la morte di Francis un’epoca è decisamente chiusa e il mondo della prigione diventa un’altra cosa.

Quanto appena affermato dalle parole di Bruno Turci è ulteriormente rinforzato da un altro attore sociale con alle spalle una lunga attività di rapinatore autonomo, un vero e proprio lupo solitario il quale, pur ‘lavorando’ con diverse batterie, non ha mai stipulato vincoli eccessivamente stretti con nessuno. La sua testimonianza appare preziosa perché, per molti versi, sintetizza al meglio ciò che era il mondo della prigione e ciò che repentinamente è diventato.

In maniera molto sintetica puoi raccontarmi come hai vissuto la morte di Turatello e tutto ciò che nelle carceri è seguito?

Io conoscevo Francis da tempo e con lui ho sempre avuto ottimi rapporti tanto che, in una circostanza, mi ha anche regalato delle armi lunghe delle quali con il mio gruppo avevamo bisogno per fare un lavoro. Tuttavia non sono mai stato legato in alcun modo a lui, io ho sempre fatto rapine e non mi sono mai interessato di altro. A volte andavo a giocare in una delle sue bische o passavo la serata in qualche suo locale ma nulla di più. Sicuramente era un amico e un gran bravo ragazzo sempre disponibile a dare una mano a chi si trovava in una qualche difficoltà. La sua morte non mi ha stupito più di tanto perché che il clima nelle carceri speciali fosse cambiato era già evidente da qualche tempo. Questo io, probabilmente perché non legato a nessuno in maniera particolarmente stretta, ho avuto modo di percepirlo con un certo anticipo.

Per quali motivi?

Perché, un giorno dopo l’altro, questi delle organizzazioni e specialmente i cutoliani prendevano campo e palesemente chi non si affiliava veniva guardato con sospetto se non considerato come un vero e proprio nemico. In più, cosa che per noi era del tutto impensabile, iniziavano a vedersi atti di sopraffazione nei confronti dei meno attrezzati sino a arrivare all’emissione di sentenze di morte per il solo fatto che qualcuno non si sottometteva ai capricci di un qualche camorrista del cazzo.

Per esempio?

Le cose più indegne. Ho visto dei bravi ragazzi essere marchiati come infami solo perché si erano rifiutati di pulire i piatti o lavare gli indumenti di un qualche piccolo boss. L’aria nelle carceri era diventata irrespirabile tanto che, neppure in pochi, proprio per togliersi da quella situazione invivibile hanno chiesto di essere posti volontariamente in isolamento.

Quindi, secondo te, la morte di Turatello è una sorta di frutto maturo della trasformazione che aveva ormai pervaso il mondo carcerario?

Sì, è così. Francis muore perché, tutto sommato, anche se diverso da noi con noi condivideva un modo di vivere che per questi delle organizzazioni era decisamente incompatibile. (V. P.)

Giunti a questo punto proviamo a trarre una qualche sintetica conclusione. La morte di Turatello segna, dentro la prigione e i mondi illegali, per prima cosa la fine della dimensione autonoma e di obiettiva contrapposizione al potere che un certo tipo di illegalità aveva coltivato e praticato. Con ciò siamo ben lungi dal voler ascrivere gangster e batterie nell’ambito della rivoluzione ma, con molto più realismo, asserire che la stagione dei Turatello, dei Cochis e tantissimi altri può essere considerata come una sorta di breve estate dell’anarchia dentro i mondi illegali i quali, se una qualche assonanza con quanto si stava muovendo nella società, lotte operaie, lotte studentesche, rivolte nelle carceri, lotte femministe, guerriglia diffusa e lotta armata, hanno sicuramente avuto, è stato sul piano esistenziale più che politico. Turatello rifiuta l’offerta dello stato non certo perché nutra una qualche simpatia nei confronti dell’azione Moro ma perché lui è un ‘bravo ragazzo’ e ‘bravi ragazzi’ sono i brigatisti mentre, per definizione, chi sta con lo stato è solo un infame. Non diverso è il punto di vista di Cochis il quale, anche lui uomo con maggiori simpatie a destra che a sinistra, non ha un attimo di dubbio nel rigettare l’allettante offerta dei carabinieri. Questa illegalità era tanto irriverente quanto irriducibile alle logiche del potere e, dentro una complessiva normalizzazione degli assetti sociali, doveva essere rimossa. Con lei doveva essere rimossa, e qua la non secondaria assonanza con ciò che si consuma in fabbrica, quel senso di essere collettivo che aveva caratterizzato l’operaio in lotta. Ciò che viene annichilito è, insieme al senso di appartenenza collettiva, l’idea stessa della lotta. Niente più lotta in fabbrica, niente più rivolte nelle prigioni, niente più cortei interni in fabbrica, niente più evasioni dalle carceri bensì il rigido ripristino di robuste gerarchie sociali inamovibili. Individui atomizzati e de-solidarizzati, sotto il controllo rigido e ferreo di un potere burocratico, diventano gli abitanti della prigione ma questa è esattamente la società italiana che prende forma negli anni Ottanta. Questa società può certamente felicemente convivere con ogni forma di organizzazione criminale ma non può tollerare gangster e banditi. È il tempo storico di Turatello a venir meno e, con questo, quello di un’intera tragica epopea. Ma il tempo storico che segna la fine dell’epopea di Turatello è esattamente il tempo storico entro il quale tutti noi siamo immessi così come quella tragica epopea è stata per intero anche la nostra epopea poiché, tutti, siamo stati da una parte o dall’altra della barricata. Del resto, in mezzo, può starci solo la barricata.

(Fine)


  1. Uno dei maggiori sostenitori di questa tesi è sicuramente Pino Arlacchi: al proposito si può vedere La mafia imprenditrice. Dalla Calabria al centro dell’inferno, Milano, Il Saggiatore, 2007.  

  2. Sul ruolo avuto dagli apparati statuali nella diffusione massificata dell’eroina controrivoluzione preventiva si veda Rai Storia, Operazione Blumoon. Eroina di stato.  

  3. Di come la ‘batteria’ dei genovesi finisca con l’andare in frantumi se ne avrà una corposa riprova quando, nell’ottobre del 1990, venne ucciso Gaetano Gardini ‘Gughi’ per opera del clan mafioso Fiandaca ma su mandato di Cesare Chiti, proprio uno degli elementi di maggio spicco, sin dalle origini, della ‘batteria dei genovesi’. Per molti versi si assiste a qualcosa di molto simile a quel Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese, curiosamente uscito un mese prima della morte di ‘Gughi’, film che racconta con grande realismo il dissolversi di ogni legame amicale all’interno dei mondi criminali e l’imporsi di un cinismo individualista sostanzialmente narcisista. C. Lash, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in una età di disillusioni collettive, Vicenza, Neri Pozza, 2020.  

  4. Ciò è quanto, infatti, sostiene V. Andraous («Dissi io a Barra di unirsi all’omicidio Turatello», Spazio 70) il quale nega l’esistenza di mandanti ma rivendica interamente a sé l’ideazione dell’omicidio a seguito della collaborazione di Turatello con la direzione penitenziaria. Sembra importante rivelare come l’uso della calunnia, da quel momento in poi, divenne moneta corrente in tutto il mondo carcerario. Gran parte degli omicidi che segnarono drammaticamente quella stagione furono giustificati, appunto, attraverso l’accusa di collaborazionismo quando, in realtà, erano solo questioni di affari. Quando un gruppo doveva liberarsi di un concorrente per prima cosa si adoperava per mettere in moto la ‘macchina del fango’. A ciò non si sottrassero neppure le Brigate rosse le quali, dopo le scissioni interne, iniziarono bollare come ‘infami e traditori’ i nuovi avversari politici.  

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Il mondo della prigione tra alterità e realismo storico. La morte di Francis Turatello / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/02/25/il-mondo-della-prigione-tra-alterita-e-realismo-storico-la-morte-di-francis-turatello-1/ Sat, 25 Feb 2023 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76039 di Emilio Quadrelli e Bruno Turci

È l’appartenenza a un campo – la posizione decentrata – a permettere di decifrare la verità e di denunciare le illusioni e gli errori attraverso cui vien fatto credere – gli avversari fanno credere – che ci si trova in un mondo ordinato e pacificato. (Michel Foucault, Bisogna difendere la società)

1. Bravi ragazzi

Nel testo che segue proveremo a descrivere un passaggio storico del mondo della prigione e dei coevi mondi illegali. Andando decisamente contro corrente cercheremo di evidenziare come questi, contrariamente alle retoriche [...]]]> di Emilio Quadrelli e Bruno Turci

È l’appartenenza a un campo – la posizione decentrata – a permettere di decifrare la verità e di denunciare le illusioni e gli errori attraverso cui vien fatto credere – gli avversari fanno credere – che ci si trova in un mondo ordinato e pacificato. (Michel Foucault, Bisogna difendere la società)

1. Bravi ragazzi

Nel testo che segue proveremo a descrivere un passaggio storico del mondo della prigione e dei coevi mondi illegali. Andando decisamente contro corrente cercheremo di evidenziare come questi, contrariamente alle retoriche discorsive dominanti e alla considerevole letteratura di genere che l’accompagna siano del tutto interne a ciò che comunemente vengono definiti mondi legittimi e rispettabili. Basti pensare alle fortune a cui sono andati incontro romanzieri come Auguste Le Breton ed Edward Bunker che hanno costruito i loro successi inventando mondi criminali, e coeve retoriche culturali ed esistenziali, del tutto privi di fondamenti. Mentre l’esatto, e ben più realistico, modello narrativo decisamente in opposizione a questo genere di scrittura lo si trova, per esempio, in uno scrittore come Gian Carlo Fusco di cui è senz’altro utile ricordare Duri a Marsiglia (Einaudi, 2005). Sottolineando come, a conti fatti, i mondi illegali abbiano ben poco del carnevale ma, al contrario, siano una sorta di sintesi estrema del mondo e delle sue trasformazioni, ma non solo. Secondo gli autori tanto i mondi illegali ma soprattutto la prigione sono una corposa anticipazione di quanto, attraverso un processo a cascata, si sta delineando per farsi modello egemone in tutti gli assetti sociali1.

Metodologicamente il testo utilizza lo stile di ricerca proprio dell’etnografia e all’importanza che questa assegna e riconosce alla narrazione degli attori sociali2. Una di queste, quella di Bruno Turci, coautore del testo, è riportata con nome e cognome mentre per le altre due, su richiesta esplicita degli intervistati, ci si è limitati a una semplice sigla.
Detto ciò entriamo nel merito della questione iniziando con il dire che il testo che presentiamo prende le mosse da un evento che, all’epoca, suscitò non poco clamore: l’uccisione di Francis Turatello3 avvenuta il 17 agosto 1981 nel Super carcere di Nuoro. Un evento che, almeno in apparenza, potrebbe rientrare in quel consueto ‘regolamento di conti’ di cui il mondo illegale non è certo parco e, per questo, essere tranquillamente circoscritto ai rituali propri di un determinato ambito sociale e coeve retoriche ‘culturali’ Un fatto, sicuramente eclatante visto lo spessore del personaggio, ma che avrebbe ben pochi motivi per andare oltre i perimetri della ‘cronaca nera’. A uno sguardo solo un poco più attento, invece, la morte di Turatello assume a pieno titolo la caratura del ‘fatto storico’ tanto da potersi considerare lo sparti acque tra due epoche storiche. Vediamone il perché.

Cominciamo intanto, al fine di non creare malintesi di sorta, con l’inquadrare la figura di Francis Turatello. Questi non ha nulla di romantico e solo in parte ha a che fare con la cornice culturale ed esistenziale delle batterie degli anni Settanta4. Turatello è figlio di un’altra epoca anche se, non diversamente dalle batterie, rappresenta una rottura radicale rispetto ai mondi tradizionali della malavita. Turatello è, con ogni probabilità, la prima figura di gangster5 che si affaccia sulla scena dei mondi illegali di questo Paese. Non per caso la sua storia si dipana a Milano una città che da sempre ha anticipato, e anche di molto, le profonde trasformazioni sociali ed economiche dell’intera nazione. Per chi ha poca dimestichezza con questi mondi può essere utile richiamare alla mente il Delon della saga Borsalino. Turatello ha molto del Roch Siffredi così come non poche sono le analogie dei mandanti del suo assassinio con il Giovanni Volpone, ‘anima nera’ della saga sopra ricordata. Niente a che vedere, quindi, con i personaggi maledetti e dannati del noir francese degli anni Sessanta e primi Settanta, e neppure con quella pur particolare critica dell’economia politica che caratterizza i personaggi e le gang di gran parte di questo genere cinematografico6. Turatello, nonostante nella sua carriera possa vantare furti, rapine e sequestri, passa alla storia come il ‘re delle bische’ tanto che, non casualmente, è praticamente irrisoria la bibliografia che lo riguarda, minima la rievocazione cinematografica e sempre in relazione ad altri personaggi7 così come quasi inesistente il materiale documentario che lo riguarda. Nelle numerose riprese che ricostruiscono le vicende criminali degli anni Settanta e primi Ottanta sono tantissimi i casi in cui i personaggi della malavita parlano di lui, ma egli non compare pressoché mai8. Del resto: «io sono solo un commerciante» era il modo in cui amava definirsi e di solito i commercianti risultano poco appetibili a qualunque forma di mitopoiesi. Da buon ‘commerciante’ dedito agli affari Turatello ha sempre evitato con cura ogni forma di notorietà e protagonismo tanto che, ricordando uno degli episodi mediatici maggiormente noti della sua biografia, ha sempre cercato di minimizzare la ‘guerra’ avuta con la ‘banda Vallanzasca’ riconducendola a una semplice incomprensione dovuta a una serie di spiacevoli malintesi, ma non solo. Vista l’eccessiva notorietà che, grazie a una campagna stampa particolarmente ghiotta di climax noir, quella vicenda gli stava provocando, Turatello fece di tutto non solo per smorzarne i toni ma per approdare velocemente e senza colpo ferire a una pacificazione. Strategia che portò avanti con non poco successo visto che, di lì a poco, non solo la pace fu ampiamente sancita ma Turatello fece da testimone di nozze a Renato Vallanzasca. La ricerca della notorietà non era proprio nelle corde di Turatello, gli affari sicuramente sì.

Gestire le bische e i locali notturni di una città come Milano significa avere tra le mani un giro di affari se non di una multinazionale sicuramente di una grande azienda e intrattenere rapporti che vanno di gran lunga al di là dei ristretti mondi illegali. I locali e le bische di Turatello non sono scalcinati bar dove attempate entreneuse spillano qualche quattrino a sprovveduti e mesti avventori o retrobottega dove per qualche ora accanto a salumi e formaggi si stende un improvvisato panno verde ma vere e proprie eccellenze frequentate da un pubblico per lo più rispettabile e con grande disponibilità di mezzi. In sostanza Turatello fornisce un servizio sicuramente illegale sotto il profilo giuridico-formale ma del tutto legittimo per la stragrande maggioranza della popolazione milanese9. Grazie a ciò il potere di Turatello è enorme, ma è un potere che non esercita in maniera dittatoriale e tanto meno ha tendenza al monopolio. Certo il business delle bische è suo e su quel terreno, come non poche testimonianze dell’epoca sono lì a ricordare, non ammette intrusi, ma tutto ciò che si muove fuori dal gioco d’azzardo per Turatello non ha interesse10. Blindati rigidamente i confini delle bische la filosofia di vita di Turatello è molto semplice: vivi e lascia vivere. È un uomo che sicuramente esercita potere senza esserne però particolarmente attratto e questo è del tutto in linea con la sua dimensione di gangster. Turatello è figlio di quella mentalità dove l’essere un ‘bravo ragazzo’ – di qua la sua obiettiva affinità elettiva, culturale più che esistenziale11, con il mondo delle batterie – è il solo e unico passaporto che conta. Nel corso della sua vita Turatello, per esempio, non si fece problemi a aiutare, attraverso l’invio di vaglia postali e pacchi di cibo e vestiario, un numero cospicuo di detenuti in difficoltà senza chiedere nulla in cambio. Nella weltanschauung di Turatello centrale ed essenziale è il modo in cui il singolo si comporta nel mondo, il suo agire e l’onestà che dimostra nella relazione con i suoi simili tutto, questo indipendentemente dallo spessore delle sue gesta e, ancor meno, dai legami organizzativi che può vantare. Questo credo Turatello non lo ha mai abbandonato neppure quando una sospensione della sua weltanschauung gli avrebbe consentito di risolvere in fretta e furia i suoi problemi con la giustizia.

Nel 1978, infatti, durante il sequestro Moro si ritrovò a colloquio con alcuni emissari dei Servizi che gli offrirono una libertà pressoché immediata e successive coperture per i suoi affari se si fosse adoperato, attraverso i suoi uomini, per picchiare e torturare i brigatisti di maggior spicco al fine di ottenere una qualche utile informazione su Moro. Turatello, uomo di destra, neppure portò a termine il colloquio mandando, ancorché in modo garbato a quel paese, gli emissari dello stato12. Tentativi di questo tipo, del resto, sono stati tutto tranne che fulmini a ciel sereno e pare opportuno ricordarne almeno un paio sia per dare modo al lettore di calarsi il più possibile nello scenario che stiamo descrivendo, sia per evidenziare quanto il mondo della prigione soggiace per intero al cosiddetto mondo normale. Al proposito basta ricordare l’offerta fatta dai carabinieri a Rossano Cochis, un esponente della ‘banda Vallanzasca’, della libertà in cambio dell’assassinio di Renato Curcio insieme al quale era detenuto nel carcere dell’Asinara. Anche in questo caso, benché in maniera decisamente meno elegante, Rossano diede una risposta del tutto identica a quella di Turtello13. Questi episodi hanno ben poco della curiosità ‘esotica’ ma, al contrario, rafforzano sia l’idea di quanto il carcere abbia ben poco del ‘mondo alla rovescia’ ma sia parte costitutiva e costituente del mondo reale, di quanto lo stato, sicuramente in quel periodo, vi entrò prepotentemente e vi giocò un ruolo di primo attore e, per altro verso, di come il gangster quanto il ragazzo delle batterie condividessero una comune ‘visione del mondo’ che impediva loro, si potrebbe dire ontologicamente, di scendere a patti e collaborare con gli apparati statuali. Questa non è cosa da poco e spiega, già di per sé, il motivo per cui le organizzazioni criminali si siano sbarazzate di Turatello.

Proprio in relazione ai loro comportamenti nei confronti dei prigionieri comunisti e della guerriglia è possibile trovare un non secondario indicatore di come questi mondi dovessero essere rimossi al fine di ricondurre crimine e prigione in quella relazione di et et con la polizia che ha, almeno in gran parte, caratterizzato il rapporto tra mondi illegali e forze dell’ordine14.
Significativamente, quello che non riuscì con Turatello e Cochis andò, almeno parzialmente, a buon fine poco dopo quando nel carcere di Cuneo, il 2 luglio 1981, si consumò il tentato omicidio di Mario Moretti15. Qui, però, le cose vedono come protagonisti attori sociali di tutt’altro tipo. A sferrare l’attacco a Moretti fu Salvador Farre Figueras e si trattò di un evento che lasciò tutti stupiti poiché i due neanche si conoscevano e, per di più, pensare a Figueras come braccio armato dei carabinieri sembrava a dir poco impossibile. Questi era stato condannato all’ergastolo proprio per l’uccisione di due carabinieri a Moncalieri e, una volta catturato, fu sottoposto a torture tali che lo resero impotente. Difficile, per tanto, pensarlo come possibile collaboratore di questi. Solo qualche tempo dopo, e sul piano della sola deduzione, una spiegazione divenne possibile. Figueras era un uomo di Tommaso Buscetta il quale proprio nel carcere di Cuneo ottenne la semi libertà. Sicuramente, anche se la cosa venne fuori in tempi successivi, aveva iniziato a collaborare sin da subito e, con ogni probabilità, l’agguato a Moretti faceva parte del pacchetto degli accordi stipulati con i carabinieri dell’Antiterrorismo i quali avevano fatto del carcere di Cuneo un loro centro operativo in stretta cooperazione con i Servizi. Lo stesso maresciallo del carcere Angelo Incandela, come egli stesso ha ammesso nella biografia pubblicata a fine carriera, era a tutti gli effetti al servizio dei gruppi speciali dei carabinieri16. Buscetta, con ogni probabilità, non ha dovuto fare altro che mandare una fibbia 17 a Figueras e questi, da buon soldato della famiglia, ha eseguito l’ordine senza domandarsene il motivo. Tali fatti hanno ben poco della nota di colore ma diventano elementi estremamente utili per immergersi nel clima che si respirava dentro le carceri speciali, per rendersi conto di quanta aderenza avessero essi con quanto andava delineandosi nel Paese e, per altro verso, dell’assoluta complementarietà tra apparati statuali e organizzazioni criminali. All’interno di questo scenario va colta l’origine della morte di Turatello. Proviamo a spiegarlo.

2. Uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraqua

Per comprendere ciò che andremo ad argomentare occorre fare una, per quanto sintetica, immersione nella dimensione ‘macro’, dobbiamo, cioè, descrivere il mutamento epocale entro il quale tutti i rapporti sociali iniziano a scomporsi e a ridefinirsi. Sul finire degli anni Settanta, come è stato ben argomentato da Foucault 18, siamo di fronte a una trasformazione che, per molti versi, ha la stessa intensità e radicalità di quella conosciuta dentro il primo conflitto mondiale e del suo corollario, la crisi del ’29. Due passaggi storici che avevano obbligato il comando del capitale a prendere atto del ruolo strategico che le masse subalterne rivestono all’interno dei nuovi assetti sociali e la necessità di un loro riconoscimento politico e sociale. Questi passaggi erano stati caratterizzati dalla messa in forma del modello keynesiano che nello stato-piano aveva trovato il suo involucro politico19. Negli anni Settanta assistiamo alla messa in mora di tale modello e all’affermazione delle retoriche ordoliberali e neoliberiste. Questa la cornice entro la quale iniziano a ridefinirsi tutti i rapporti sociali e la conseguente frantumazione del ‘mondo di ieri’. La prigione non solo non è esente da tutto ciò ma ne viene letteralmente travolta così come travolti risultano tutti quegli ambiti dove le masse, nella loro dimensione collettiva, avevano svolto un ruolo di assoluto protagonismo. Ciò che si consuma attraverso l’omicidio Turatello, o meglio il senso di questa operazione, ha una non secondaria avvisaglia dentro il mondo della fabbrica. Come vedremo, l’arco di senso di quanto si consuma in fabbrica soggiace a retoriche e logiche del tutto simili se non proprio identiche a quelle del mondo della prigione.

C’è un passaggio, il licenziamento dei 61 operai Fiat avvenuto il 9 ottobre 197920, che farà da apripista alla cosiddetta marcia dei 40.00021 che ne incarna al meglio il senso. Al proposito riportiamo brevi passi di un’intervista a un operaio Fiat coinvolto in quell’episodio il quale, di qui l’interesse per questa testimonianza, giunge alle medesime conclusioni a cui perviene Bruno nell’intervista riportata in seguito.

Tralasciando gli aspetti propriamente più politici dei licenziamenti e di ciò che si portavano appresso, vorrei capire che cosa cambia in fabbrica tra gli operai?

Cambia molto, per non dire tutto. Cambia soprattutto quel clima di fratellanza e unità che da anni era stata la grande forza della fabbrica. Vi è in atto una trasformazione che non è solo politica ma, come dire, culturale, esistenziale… per spiegarti: è come se ci fossero gli operai ma la classe operaia fosse assente. C’è sicuramente paura, perché l’offensiva Fiat è grossa, ma c’è anche la perdita di una identità. Forse perché non si vedono sbocchi, forse perché nel frattempo la società è cambiata e la stessa idea di appartenenza di classe comincia a non essere più percepita come un valore aggiunto ma addirittura come un qualcosa di negativo. L’impressione che si ha è che di fronte si abbia a che fare con tanti singoli per i quali essere operaio non significa più nulla. La battaglia che conduciamo è tutta sulla difensiva e non per caso la perdiamo. Solo qualche tempo prima questo sarebbe stato impensabile, la Fiat avrebbe corso sul serio il rischio di essere occupata e invece ciò che si muove intorno ai nostri licenziamenti non è molto.

Quindi, per chiudere, quando ci sarà la cosiddetta marcia dei cosiddetti 40.000 non sarà proprio una sorpresa?

Assolutamente no. Quella marcia è stata il semplice corollario di un clima che in fabbrica si era ormai fatto egemone. La stessa lotta che si stava consumando ai cancelli della Fiat era solo una parodia delle lotte di un tempo. La fabbrica si era normalizzata, le gerarchie nuovamente in sella ma questo era successo anche dentro la testa di gran parte degli operai. Se alla marcia dei capi non c’è stata reazione è perché la classe è come se fosse implosa. Questa, almeno così la vedo io, è stata la conseguenza di quello che iniziavi a vedere fuori dalla fabbrica. Tutta quella socialità operaia che prima faceva parte di un comune modello di vita era evaporata, ognuno stava cominciando a vivere isolato dagli altri, chiuso in casa, viveva, ecco, privatamente. La marcia dei capi ha registrato tutto questo. In poche parole rimanevano gli operai ma non c’era più la classe operaia. [N. A.]

Quanto ascoltato descrive, seppure in maniera sintetica, una mutazione che non può che definirsi epocale. Ciò ha ricadute radicali all’interno di tutti gli ambiti sociali e i mondi illegali non ne sono certo immuni: anzi, per molti versi, ne sintetizzano la portata nella maniera più cinica e brutale. La nuova grande trasformazione pone drasticamente fine a quel mondo eroico che aveva fatto da sfondo all’epopea dei banditi, trasformando, tranne rare eccezioni, l’insieme di quei soggetti sociali che per anni avevano calpestato i re, o almeno ci avevano provato, in individui privi di vincoli e legami sociali. A riprova di come i mondi illegali siano ben distanti dall’essere altro ma costituiscano l’esemplificazione portata sino all’estremo degli ordini discorsivi dominanti finendo con l’anticipare quella ‘società degli individui’22 che, qualche anno dopo, diventerà la cornice della teoria critica politica e sociologica. Se, come precedentemente ricordato, l’autunno nero della Fiat dell’80 segna il corposo incipit della nuova era, anche all’interno dei mondi illegali è possibili datare la formalizzazione di quest’ultima con il 17 agosto 1981, giorno in cui nel carcere speciale di Nuoro viene ucciso Francis Turatello.

Il senso di questo passaggio viene osservato, con non poca lucidità, da Bruno che della vicenda Turatello coglie sia le ricadute per l’intero mondo illegale sia l’inizio della fine anche della propria batteria. Ciò che per le cronache giornalistiche si riduce a un semplice, per quanto ‘eccellente’ regolamento dei conti tra criminali, per Bruno il portato di ciò è ben distante dall’essere una banale questione interna alla malavita ma è il dispiegarsi per l’appunto di una nuova era che, nella trasvalutazione di tutti i valori, porrà una pietra tombale sul mondo di ieri.

Non è privo di interesse e significato osservare la sostanziale affinità, sul piano dell’ordine di senso, tra il modo in cui Bruno analizza questo evento e come l’operaio precedentemente ascoltato racconta ciò che ha comportato la sconfitta subita alla Fiat per la classe operaia. Si tratta di una relazione che ha ben poco di eccentrico e ancor meno di ideologico poiché banditi e operai hanno scandito il tempo dell’utopia e dell’assalto al cielo pressoché in contemporanea. Mondo della prigione e mondo della fabbrica hanno segnato e scandito, quasi in simultanea, i passaggi storico-politici della radicalità proletaria di questo Paese. Tanto che a ogni insorgenza operaia ha corrisposto un’insorgenza prigioniera e viceversa. Molti eventi sono lì a confermarlo. L’11 aprile del 1969, in concomitanza con le giornate operaie a ridosso dei fatti di Battipaglia23, a Torino scoppia la rivolta delle Nuove24 ed è solo un anticipo di quanto, neppure due mesi dopo, andrà in scena a corso Traiano 25. Facendo un rapido passo in avanti arriviamo al 1976/1977 quando le evasioni armate e di massa diventano la normalità dentro la prigione26, e su quello che, nel frattempo, sta maturando all’esterno non sembra neppure il caso di doversi soffermare: nel momento in cui il punto più alto della critica alla prigione prende forma e sostanza, nella società l’utopia si fa concreto progetto storico-politico. Non è difficile, allora, comprendere come quando la grande sarabanda giunge al termine altri eventi finiscano con l’assumere un significato storico. Se la ‘marcia dei 40.0000’ ha comportato la fine della forza del mondo operaio, la morte di Francis significa la messa in mora di una certa tipologia di illegalità e di tutte le retoriche che l’avevano sostanziata. Così come dopo la sconfitta Fiat scompare la classe operaia e rimangono semplicemente gli operai, con l’omicidio consumato a Nuoro iniziano a evaporare gangster e batterie e al loro posto rimangono solo figure illegali che inizieranno a rapportarsi al mondo come individui senza più tempo e storia. Chiusa questa sintetica introduzione entriamo direttamente nel vivo del racconto.

(Fine prima parte – continua)


  1. Cfr. E. Quadrelli, Gabbie metropolitane: modelli disciplinari e strategie di resistenza, Firenze, La Casa Usher, 2013.  

  2. Per una buona esposizione del metodo etnografico e della sua validità per i mondi della ricerca sociale si veda, A. Dal Lago, R. De Biasi (a cura di), Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Roma – Bari, Laterza, 2002.  

  3. Cfr. A. D’Agostino, Francis faccia d’angelo. La Milano di Turatello, Milano, le Milieu, 2012.  

  4. Cfr. E. Quadrelli, Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, Roma, Derive Approdi, 2004.  

  5. Sul carattere urbano del fenomeno gangsteristico rimane fondamentale, per quanto datato, il lavoro di F.M. Trasher, The gang: a study of 1.313 gangs in Chicago, Chicago, University of Chicago Press, 1927. La Scuola di Chicago è stata, con ogni probabilità, uno dei più fecondi e innovatori istituti di ricerca sociale con un approccio non positivista e funzionalista, ma particolarmente attento al punto di vista degli attori sociali così come, al contempo, ha messo in campo un’analisi dei fenomeni urbani che, ancora oggi, almeno sul piano metodologico, offre preziose indicazioni. Sui fenomeni urbani rimane ancora oggi particolarmente stimolante il lavoro di R.E. Park, E.W. Burgess, R.D. McKenzie, La città, Edizioni di Comunità, Milano 1965.  

  6. Esemplificativi al proposito film come La gang del parigino di J. Deray (Francia – Italia 1977) e I senza nome di J.P. Melville (Francia – Italia 1970).  

  7. Turatello fa una fugace presenza nel film di G. Tornatore, Il camorrista (Italia 1986), che è incentrato sulla figura di Raffaele Cutolo; compare, come personaggio di sfondo, in Altri uomini di C. Bonivento (Italia 1997), che ruota intorno al personaggio di Angelo Epaminonda, mentre in Gli angeli del male di M. Placido (Francia – Italia – Romania 2010) è un personaggio del tutto secondario rispetto a Renato Vallanzasca che è il vero soggetto del film.  

  8. Si vedano a esempio i filmati, reperibili su YouTube, prodotti da Spazio 70 che raccolgono le principali vicende criminali degli anni ’70 e primi anni ’80.  

  9. Sull’interazione tra mondi criminali e società legittima si veda: A. Dal Lago, E. Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Milano, Feltrinelli, 2003.  

  10. A tale proposito è particolarmente indicativo il filmato Epaminonda racconta la Milano delle bische, Spazio 70.  

  11. Culturale più che esistenziale poiché in Turatello era del tutto assente quella contrapposizione al potere propria delle batterie. Cfr. E. Quadrelli, Andare ai resti, cit., pp. 66 – 71  

  12. In D’Agostino, Francis, p. 163  

  13. In Quadrelli, Andare ai resti, p.123  

  14. Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2014.  

  15. Cfr. M. Moretti, Brigate rosse. Una storia italiana, a cura di C. Mosca e R. Rossanda, Milano, Baldini & Castoldi, 2002.  

  16. P. Nicotri, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. I misteri degli anni ’80 nel racconto del maresciallo Incandela, Venezia, Marsilio, 1994.  

  17. Gergale, significa mandare o ricevere un messaggio il quale, il più delle volte, implica l’ordine di una esecuzione.  

  18. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2015.  

  19. Cfr. A. Negri, Crisi dello stato-piano, organizzazione, comunismo, Milano, Feltrinelli, 1974.  

  20. Al proposito si veda il libro–testimonianza di P. Baral, Niente di nuovo sotto il sole…i 61 licenziati Fiat preparano l’autunno ’80 e le fortune dell’automobile?, Torino, Edizioni Ponsimor, 2003.  

  21. Per una buona ricostruzione di questa vicenda si veda Con Marx alle porte. I 37 giorni della Fiat, Milano, Nuove Edizioni Internazionali, 1980.  

  22. Cfr. Z. Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Bologna, Il Mulino, 2002.  

  23. Per una ricostruzione di questi eventi si veda V. Campagna, La rivolta di Battipaglia, Padova, Ar, 1988.  

  24. Cfr. Ci siamo presi la libertà di lottare, Torino, Edizioni Lotta continua, 1973.  

  25. Per un’ottima ricostruzione di questi fatti si veda D. Giacchetti, La rivolta di Corso Traiano. Torino luglio 1969, Pisa, BFS Edizioni, 2019  

  26. Cfr. Quadrelli, Andare ai resti, pp. 203 – 215  

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Comincia adesso. Fughe ed evasioni quotidiane https://www.carmillaonline.com/2016/06/22/comincia-adesso-fughe-ed-evasioni-quotidiane/ Tue, 21 Jun 2016 22:01:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31085 Cover Evasione_fronte2di Redazione

Simone Scaffidi, Comincia adesso. Fughe ed evasioni quotidiane, Eris Edizioni, 2016, pp. 232, € 13.00

Segnaliamo l’uscita della raccolta Comincia adesso. Fughe ed evasioni quotidiane curata da Simone Scaffidi e edita da Eris Edizioni. Si tratta di un progetto che ha coinvolto 32 autori: 16 scrittori e scrittrici, e 16 disegnatori e disegnatrici, chiamati a raccontare la fuga, l’evasione, da una condizione di costrizione. Parte del ricavato di questo progetto andrà a sostegno della Biblioteca Popolare Rebeldies (vedi in basso il riquadro “trasparenza” di [...]]]> Cover Evasione_fronte2di Redazione

Simone Scaffidi, Comincia adesso. Fughe ed evasioni quotidiane, Eris Edizioni, 2016, pp. 232, € 13.00

Segnaliamo l’uscita della raccolta Comincia adesso. Fughe ed evasioni quotidiane curata da Simone Scaffidi e edita da Eris Edizioni. Si tratta di un progetto che ha coinvolto 32 autori: 16 scrittori e scrittrici, e 16 disegnatori e disegnatrici, chiamati a raccontare la fuga, l’evasione, da una condizione di costrizione. Parte del ricavato di questo progetto andrà a sostegno della Biblioteca Popolare Rebeldies (vedi in basso il riquadro “trasparenza” di Eris, per sapere dove va il tuo contributo se decidi di acquistare il libro) che da anni si occupa di far entrare i libri in carcere fuggendo logiche paternalistiche e ricattatorie ai danni dei detenuti e delle detenute. In calce trovate le parole di Valerio Evangelisti, impresse in quarta di copertina, l’introduzione alla raccolta di Simone Scaffidi, e alcune delle illustrazioni che animano questo volume.

Il progetto grafico di copertina è di Sonny Partiplo. Gli autori e le autrici dei racconti sono: Veronica Pacini, Deborah Sannia, Marilù Oliva, Clelia Bettini, Slavina, Lorenzo Iervolino, Alberto Prunetti, Fabrizio Lorusso, Paolo Pasi, Filippo Casaccia, Filippo Sottile, Andrea Staid, Claudio Morandini, Simone Torino, Luca Gallo, Marco Capoccetti Boccia. Gli illustratori e le illustratrici dei racconti sono: Alice Socal, Marco Martz, Luigi Filippelli, Daniele La Placa, Rocco Lomabardi, Gianluca Costantini, Margherita Tramutoli, Hurricane Ivan, Valentina Addabbo, Nicola Gobbi, Lucia Biagi, Silvicius, Claudio Calia, Francesco Frongia, Cristina Portolano, Armin Barducci.

Valerio Evangelisti (quarta di copertina)
Secondo Hobbes la fuga è un diritto di ogni prigioniero. Intendeva proprio l’evasione, ma di modi di fuggire ce ne possono essere tanti. In questa antologia ne troverete un’intera gamma, descritta nel migliore dei modi. Cambia la gabbia da cui si scappa, ma non la liceità di sottrarsi, in varie forme, alla costrizione.

Jack London, ne Il vagabondo delle stelle, permetteva a un carcerato di superare le sbarre di Alcatraz lasciando imprigionato il corpo in una camicia di forza, e facendo vagare la mente altrove. Dovrebbe essere il primo passo per ogni aspirante fuggitivo. Anzitutto immaginare la libertà, introiettarne la nozione. Poi dedicarsi, eventualmente, al lavoro concreto.

Questo libro è una guida esaustiva all’arte della fuga. Ma attenzione: così come il prigioniero ha diritto a evadere, allo stesso modo il carceriere ha liceità morale di ricatturarlo e tenerlo rinchiuso. L’ideale è evidenziare un capovolgimento di situazione, verificabile nei fatti. Il secondino è il vero recluso; il detenuto è un uomo libero. Il primo non può vagabondare tra le stelle, non riesce nemmeno a concepirle. Il carcerato sì.

Comincia Adesso Prezzo

Una galera narrativa in mare aperto – Simone Scaffidi
Quello che stringete tra le mani è un raro esemplare di galera narrativa. Una nave agile che solca il mare aperto delle inquietudini quotidiane, alla ricerca di un’onda liberatoria che restituisca il senso della fuga. Il suo equipaggio è composto da autori e autrici condannati a remare sottocoperta in acque di impedimenti e restrizioni, di parole arrabbiate e disegni increspati. Ma tutte e tutti, lungi da rassegnarsi a questa condizione di subalternità, bramano ammutinamenti e ricercano nell’evasione un altrove collettivo, un orizzonte e un immaginario liberi dall’oppressione.

Le cose sono andate più o meno così. Un curandero e una bruja tricefala – che si nasconde sotto le malcelate spoglie di casa editrice indipendente – si sono incontrati e hanno deciso di armare una nave di carta e di grafite. Porto per porto si sono andati cercando volenterosi escapisti dalla penna e dalla matita facile, i quali, valutata la proposta, hanno accettato di imbarcarsi in questa impresa, consapevoli dell’importanza del gruppo quando si architetta un’evasione.

Una volta a bordo ad alcuni di loro, quelli con le penne tra le dita, sono state affidate le parole e agli altri, quelli con le matite tra i capelli, i disegni. Ai primi è stato chiesto di sviluppare il proprio racconto immaginando la fuga, o il tentativo di fuga, da una condizione di costrizione liberamente eleggibile tra le infinite che popolano le nostre esistenze. Ai secondi è stato invece dato il compito di trasporre in immagini le parole dei primi, incrociando dialoghi e punti a capo, con schizzi di china e punti di fuga. Il risultato è una raccolta di racconti illustrati sull’incertezza e la liberazione della fuga. Un elogio senza celebrazione dei fuggiaschi e delle fuggiasche di tutti i giorni.

Sulla nave sono saliti in trentadue e nella penombra della stiva illuminata da ceri incerti si sono sistemati a coppie su precarie assi di legno. Sedici a babordo e altrettanti a dritta. Ciascuna pariglia, formata da un/a cantastorie e un/a illustrastorie, afferra con quattro mani un remo, che si oppone alla forza contraria dell’acqua, ricercando la resistenza necessaria al moto. Le pale disegnano nell’aria e nel mare ellissi irregolari che vanno a comporre i sedici movimenti di quest’opera. Sedici storie illustrate che s’intrecciano senza soluzione di continuità, garantendo il ritmo della remata ed evitando lo stallo della galera.

Tuttavia, sebbene l’equipaggio non sembri intenzionato a tirare i remi in barca, non siamo riusciti a trovare un porto sicuro al quale approdare. Siamo sempre in mezzo al mare, curandero e bruja inclusi, a immaginare insieme ai lettori e alle lettrici una strategia che renda più dolce il nostro navigare a vista. A nulla è servito il salto collettivo da poppa per raggiungere la terraferma, siamo ritornati a nuoto a bordo della contraddizione di sempre, quella che non permette la fuga definitiva e spettacolare, ma esige quotidiani ammutinamenti individuali ed evasioni collettive organizzate.

Anche per questa ragione, e per molte altre ancora, metà dei proventi della vendita di ogni singolo libro andranno alla Biblioteca Popolare Rebeldies, progetto senza fini di lucro con sede a Cuneo che si occupa di far arrivare libri ai detenuti, direttamente e senza intermediari, ribadendo il diritto alla lettura all’interno del carcere e fuggendo logiche meramente assistenzialiste o subdolamente ricattatorie. Inoltre, come tutte le pubblicazioni di Eris Edizioni, quest’opera è distribuita con licenza Creative Commons per garantire la libera circolazione dei saperi – e delle galere narrative – nell’insidioso mare dell’editoria nostrana.

L'illustrazione di Alice Socal al racconto "È giusto così" di Veronica Pacini

L’illustrazione di Alice Socal al racconto “È giusto così” di Veronica Pacini

L'illustrazione di Rocco Lombardi al racconto "La falena" di Clelia Bettini

L’illustrazione di Rocco Lombardi al racconto “La falena” di Clelia Bettini

L'illustrazione di Lucia Biaci al racconto "Amori tossici" di Slavina

L’illustrazione di Lucia Biaci al racconto “Amori tossici” di Slavina

L'illustrazione di Claudio Calia al racconto "La pena" di Filippo Casaccia

L’illustrazione di Claudio Calia al racconto “La pena” di Filippo Casaccia

Armin Barducci

L’illustrazione di Armin Barducci al racconto “Io non sono più io, son quello là” di Simone Torino

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NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei Cartelli della Droga https://www.carmillaonline.com/2015/06/03/narcoguerra-cronache-dal-messico-dei-cartelli-della-droga/ Tue, 02 Jun 2015 22:46:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23057 di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può [...]]]> di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può tranquillamente attraversarne migliaia di chilometri senza mai percepire un clima di violenza sanguinaria. Eppure… esiste anche l’altro Messico, quello che Fabrizio Lorusso sviscera nei suoi reportage, nei suoi approfondimenti giornalistici, nei racconti di vita quotidiana. E lo fa con esemplare giornalismo narrativo, che attualmente è l’unica fonte di informazione attendibile, non essendo schiava di una gabbia ristretta di “battute” né di censure, o meglio di autocensure, perché tutti, quando scriviamo per una certa testata, abbiamo in mente che questa ha un preciso proprietario e quindi certi limiti ce li mettiamo da soli, prima ancora che vengano imposti. Ovviamente, il giornalismo narrativo non può che trovare spazio in un libro, che poi faticherà non poco a trovare uno spazio nell’editoria. Oppure – come è il caso di alcuni di questi scritti – lo spazio se lo prendono su internet, l’universo che ci illude di essere liberi di esprimere qualsiasi opinione: peccato che, siamo sinceri, finiamo per leggerci l’un l’altro, cioè tra quanti una certa sensibilità già ce l’hanno, senza scalfire la cosiddetta “informazione di massa”, che altro non è se non disinformazione massificata.

Esiste, dunque, anche l’altro Messico, dei corpi appesi ai cavalcavia, delle teste mozzate e infilate sui pali, dell’orrore che ormai viene acriticamente ascritto ai “narcos” quando nessuno capisce più se siano effettivamente i ben armati e ben entrenados Zetas (in maggioranza ex militari di reparti speciali e mercenari centro e sudamericani con master in centri di addestramento di Usa e Israele), o se si tratti di squadroni della morte, milizie di latifondisti, regolamenti di conti d’ogni sorta, ed eliminazione spiccia di oppositori sociali.

E questa è anche la mia schizofrenia, perché…

Il Messico è dove torno ogni anno per qualche mese e dove vorrei concludere i miei giorni, e se, dopo averci vissuto per anni tanto tempo fa, continuo questo incessante andirivieni, forse è per un inconfessabile timore dell’abitudine: ovunque vivi per troppo tempo, finisci per vederne solo i difetti e non più i pregi. Io vado e vengo perché, come un vampiro, continuo a succhiarne gli aspetti migliori. Troppo comodo, lo so. Ma è così. Amo talmente il Messico, da impedirmi di trasformarlo in una consuetudine, in una routine quotidiana che ne assopirebbe le emozioni: è un po’ come con le droghe, l’assuefazione ti priva di rinnovare la sensazione inebriante della prima volta. Meglio rinnovare la crisi di astinenza – chiamiamola struggente nostalgia – che assuefarsi, svilendo quel miscuglio di energie rinnovate e sensazioni ineguagliabili che mi dà ogni volta che ci torno. Se non tornassi ma rimanessi per “sempre”, temo che l’abitudine spegnerebbe tutto.

Odoya Bandiera messicana coca proiettiliE chiarisco: la semplificazione di “pregi e difetti” è improponibile, proprio perché semplifica l’immane complessità della situazione. Difetti: non si può relegare a questo vocabolo l’orrore dei morti ammazzati. Pregi: quei milioni di messicani che in ogni istante ti dimostrano quanto siano diversi dall’orrore, con la loro sensibilità, creatività, ribellione, resistenza… dignità. La cronaca, purtroppo, privilegia gli orribili e trascura i dignitosi.

Leggendo i coraggiosi scritti di Fabrizio Lorusso (coraggiosi per il semplice e spietato fatto che lui, lì, ci vive e si espone alle eventuali conseguenze) riconosco me stesso come ero trent’anni fa: lodevole donchisciotte che, penna – o tastiera – in resta, affronta i mulini a vento dei todopoderosos di sempre, di ieri e di oggi… E in fin dei conti, oggi, mi appare come un’illusione, il tentativo di informare gli altri sulla realtà, perché la sensazione è che tutti (be’, quasi tutti) se ne freghino, della realtà. Quindi, è un’utopia. Ma cosa saremmo, senza illusioni e utopie?

Nada más que amibas. Saremmo parassiti intestinali, tanto per restare sul campo messicano. Miserabili parassiti assuefatti a una realtà ingiusta e insopportabile. È per questo, che abbiamo bisogno di illusioni e utopie. Persino dell’illusione che, scrivendo, informando, potremmo rendere meno feroce e nefasto questo mondo in cui viviamo. Che è anche l’unico che abbiamo.

Petizione del collettivo Paris-Ayotzinapa: “NO alla presenza del presidente messicano Enrique Peña Nieto alle celebrazioni del 14 luglio 2015” – LINK Firma

Prossime presentazioni a Milano: 13 giugno Libreria Les mots e 16 giugno Macao

Leggi l’introduzione del libro: QUI – Risvolto/Riassunto del libro+Bio: QUI 

Pagina NarcoGuerra: QUI – Scarica PDF Indice + Intro + Prologo del libro: QUI

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La visita. Storie e pensieri da una prigione messicana https://www.carmillaonline.com/2014/03/19/la-visita-storie-e-pensieri-da-una-prigione-messicana/ Tue, 18 Mar 2014 23:00:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13532 di Fabrizio Lorusso

Prigione Messico Florence Cassez[Questo reportage narrativo si basa sugli appunti, le riflessioni e le esperienze legate ad alcuni incontri del 2011 e 2012 con la francese Florence Cassez, in prigione dal dicembre 2005 nel penitenziario femminile di Tepepan a Città del Messico e condannata a 60 anni per rapimento. Dopo anni di conflitti diplomatici tra Messico e Francia, nonostante la polarizzazione estrema dell’opinione pubblica e le strumentalizzazioni politiche del caso, Florence è stata liberata nel gennaio 2013 perché il processo, secondo la Corte Suprema messicana, era stato viziato da gravi violazioni e incoerenze, oltre [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Prigione Messico Florence Cassez[Questo reportage narrativo si basa sugli appunti, le riflessioni e le esperienze legate ad alcuni incontri del 2011 e 2012 con la francese Florence Cassez, in prigione dal dicembre 2005 nel penitenziario femminile di Tepepan a Città del Messico e condannata a 60 anni per rapimento. Dopo anni di conflitti diplomatici tra Messico e Francia, nonostante la polarizzazione estrema dell’opinione pubblica e le strumentalizzazioni politiche del caso, Florence è stata liberata nel gennaio 2013 perché il processo, secondo la Corte Suprema messicana, era stato viziato da gravi violazioni e incoerenze, oltre che da un montaggio televisivo orchestrato dalle autorità al momento dell’arresto, F.L.].

Rompere il muro del silenzio, dal mattino. Porto abiti speciali: pantaloni marroni di tela, rigorosamente senza cintura, scarpe verdi innocenti, camicia sobria e giacca antivento, antisilenzio. Zero vivacità cromatica. Direzione Sud, Mexico City Sur, zona dominata dalle classi medie metropolitane. Le gincane e l’aria mattutina mi distraggono. Parcheggio la moto, più splendente se la lascio affianco al mio palo della luce preferito, quello sbilenco, sempre pendente. Nella città mostro più grande del mondo sono un sopravvissuto del traffico, sento che la libertà sono quest’aria e la strada, preziose anche se inquinate. Per ordini superiori, per la forza dello stato, applico la norma, svuoto le tasche e il cervello. Lo sciacquo con una meditazione forzata e repentina. Tutti gli averi, il cellulare, le chiavi, i ciondoli, gli eccedenti e gli eccessi, il buon umore e le idee, tutto quanto insomma, l’ho lasciato in custodia al padrone della trattoria di fronte, buon uomo.

“A chi fai visita da queste parti, muchacho?”, mi chiede. Uomo curioso. “A una che, pare, è proprio ben voluta da queste parti perché non la lasciano andare via, sono sette anni ormai”, rispondo. Intanto bevo avidamente il succo d’arancia che, da sempre, è puntuale. Cinque minuti prima delle dieci e sono pronto. Esco dall’ultimo minuto di tranquillità, attraverso la strada, abbandono speranze e asprezze, come il vate sulla soglia degli inferi. L’avvicinamento induce fantasie: gabbie di caramello in fusione e gendarmi di carta igienica, crollando su se stessi. Riciclati ad altri usi, più igienici, appunto.

L’ora esatta. Aprono la porta ed è giorno, s’alza il sole messicano e stridono le sbarre delle celle. Accedo all’area federale, circondato da gente davvero molto federale. E’ uno dei tristi depositi delle e dei dimenticati del paese. Sono quasi un quarto di milione, gli oblii stipati, cioè le persone respinte dalla società per “essersi comportate male”, forse.

Favorisco il mio permesso di soggiorno e l’agente uniformato ripone la mia identità in un cassetto di legno marcio. La imprigiona nella polvere, in pasto alle termiti. Gli andrà di traverso la marca da bollo plastificata, ne sono sicuro, e sorrido. Quindi sono un altro per un po’, come sono un altro al lavoro, per la strada, in famiglia o all’università. La danza dei soggetti sperduti. Abbiamo passaporti e tesserini, tanti “Io” viaggianti nella vita. A volte tentiamo di riconciliarli per farli convivere e, quando non si sopportano proprio, ci sono terapie e terapeuti che promettono miracoli per aiutarci, dicono.

Comunque qui io sono “la visita”. Gli abitanti del posto, anzi le abitanti del posto, sono invece delle liste di numeri ordinali e hanno colori diversi: le beige attendono un giudizio, le blu scontano una pena. D e f i n i t i v a m e n t e. Oggi partecipo anch’io del cosiddetto “reinserimento sociale”, fuori dalla società, in un’enclave asociale.

“Chi viene a trovare? Florence per caso?”, chiede uno sbirro. La parola Florence mi rimette in libertà, istantaneamente, mi rimanda alla città di Lorenzo de Medici o ai gigli, alla flora e ai sensi. Non alla prigione. Non glielo confesso, sto zitto. La mia voce risponde: “Sì”, e filtrano sguardi solenni. Se hai la faccia da güero, da straniero, sanno già da chi vai. Nel CeReSo femminile, il Centro de Readaptación Social del quartiere Tepepan, sono abituati al viavai di forestieri e giornalisti, c’est normal. “Cassez”, risposta esatta. “Adelante”.

Giustizia o vendetta? La stampa fa solo casini. “Se c’è un delitto, ci sarà un castigo per qualcuno, la verità in fondo non conta”, sostengono alcuni. Contano di più le cifre, le prove e i video, anche se fasulli, dei successi nella lotta alla criminalità. Ci vuole un’espressione convincente, la facciata restaurata del “buon governo” che sparla al mondo. “Lavoriamo per te e la tua famiglia, sicurezza stellare e legalità, lo stato di diritto, diritto fino a casa tua”, ripete il disco.

E così succede che un interesse nazionale fabbricato dai media e dalla politica va a scontrarsi furiosamente con un altro interesse nazionale, altrettanto fittizio come lo è il concetto stesso di nazione. La Francia vuole prendersi la rivincita della sconfitta nella Battaglia di Puebla, quando il Generale Ignacio Zaragoza, fedelissimo del presidente Benito Juárez, vinse contro l’armata imperiale inviata da Napoleone III. Il Messico decide che è ora di vendicare l’affronto di Massimiliano d’Asburgo, effimero incoronato dell’impero francese in Messico tra il 1864 e il 1867, mandato da Trieste a morire fucilato in terra azteca.

Di ritorno nel nostro secolo, la riedizione sciovinista del teatrino è opera di Sarkozy e Calderón. I grandi capi tribù, rumorosi e populisti. E nel mezzo ci sono le persone, le vittime, la presunta innocente trasformata in colpevole e, infine, la verità violentata. Ci sono i montaggi televisivi di un ministro, l’impavido Genaro García Luna, che formalmente dirige il dicastero della pubblica sicurezza, ma s’occupa soprattutto della propaganda. Le nazioni, comunità immaginate della modernità, sono più bestiali, più beceramente fiere, se vivono solamente del loro nazionalismo.

Lei m’aspetta, sta ridendo di gusto con una signora del rione popolare di Tepito, noto anche come “Barrio Bravo” o quartiere selvaggio, indomabile quadrilatero dalla mala fama nel centro della capitale. Una scheggia impazzita del Messico profondo. La donna veste di blu, come Florence, ma lei non è condannata per sequestro di persona. E’ dentro per un omicidio che giura di non aver commesso. “Ho difeso mio figlio, sono andata alla Commissione per i Diritti Umani per denunciare i poliziotti che l’avevano torturato dopo il suo primo arresto e come ritorsione sono venuti a prendere me, e poi anche lui”, confessa. “Molti disprezzano Tepito, senza sapere che ormai i gringos, gli americani, considerano tutto il Messico come il ‘Tepito del mondo’ e si prendono gioco di noi”, conclude la Doña. Mi chiede di portare una lettera ad alcuni amici del quartiere e la scriviamo insieme. “Mi sento sola, mandatemi qualche visita, fatemi sapere di mio figlio, grazie”, conclude la missiva.

Ci spostiamo dal corridoio all’ampia sala riservata alle visite dei parenti e degli amici. I bagni sono in fondo, i tavoli di plastica nel centro, e c’è un negozietto coi beni di prima necessità in un angolo del salone. “Ciao, come va?”. “Bene, más o menos”. Saluto, bacio sulla guancia, uno solo, non tre come in Francia. Se non rinunci al tuo sorriso, da qui puoi uscirne vincitore. Se non perdi il decoro, non ti perdi. Gli anni passano, la speranza no. Alcuni insegnamenti. La depressione è la Nemica, eterna compagna indesiderata. Nelle gabbie amare di metallo, in carcere, anche la Solitudine è onnipresente, nonostante ci sia sempre qualcuno intorno a te. Cento guardie su di te.

Cos’è la presunzione? E quella d’innocenza? Un principio astratto, uno scherzo legale o una semplice dicitura inserita per caso nella Costituzione? Dovrebbe essere un pilastro del cosiddetto “stato di diritto” in democrazia. Perché più di quattro detenuti su dieci sono vestiti di beige e rimangono in cattività anche per alcuni anni? Giustizia lenta, ma soprattutto svogliata, inerte. Risorse scarse e indifferenza, come fosse giusto, come fosse funzionale.

Eccoli lì, sono i presunti colpevoli, la negazione vivente e abusata del principio d’innocenza, e vivono la prigionia nell’attesa del giudizio finale. Se sono accusati di crimini gravi, non possono difendersi in libertà, di là dal muro, ma restano nella zona del silenzio. Non sono più presunti innocenti, ma dei “pericoli”. Ma cos’è un delitto grave? Spesso dipende dal giudice e da chi è l’accusato. Interpretazioni, denari, oblazioni, reverenze e manipolazioni fanno assai la differenza. Bisogna proteggere la società, si dice. Quella società che loro, presumibilmente (?), hanno offeso. Discutibile, ma giusto, secondo i più. La pubblica opinione.

Se esistesse in Messico un accettabile fair play giudiziario e investigativo, un arbitro vero e legittimo che sanzionasse gli ideatori della “fabbrica dei colpevoli” nazionale e i corrotti d’ogni casta e livello, allora il ragionamento funzionerebbe, sarebbe fluido, quasi giusto. Ma non è così. Gli studenti e i professori della facoltà di giurisprudenza dell’ateneo più grande del mondo, la Universidad Nacional Autónoma de México, hanno del sarcasmo da vendere. E, infatti, dicono che in Messico un bicchier d’acqua e un ordine di carcerazione non si negano mai a nessuno.

Ci sediamo. Caffè solubile, acqua in bottiglia, una tovaglietta. Io ho portato i biscotti. Parliamo. Ore di dubbi, per conoscere, per capire che cos’è successo, cosa dice la gente e com’è l’esistenza in quello spazio di sospensione. Mancano ancora 53 anni, una vita, sepolta. Ma c’è una speranza, i riflettori sono accesi. “E’ una famosa, ha degli appoggi nelle più alte sfere”, si vocifera. Ronzii, fischi nelle orecchie, è la politica, la strumentalizzazione, i mezzi di comunicazione, e in fondo nell’epicentro del rumore si è più soli che mai, laggiù nella stanza, nella cella.

Viviamo il Messico, non solo in Messico, e fa male sapere e spiegare che non c’è pace. Impunità e delitto son due lati della stessa medaglia, la guerra comincia dalla marea delle ingiustizie quotidiane. Per chi le subisce, non c’è voce possibile, né per i colpevoli né per gli innocenti, e così il confine tra di loro sfuma, digrada nei gangli perversi del sistema. Il funzionario non funziona e non ha mai funzionato. L’assedio del mutismo, il muro del silenzio, sta nella mente, non è cemento ma idea. Tutti siamo prigionieri della nostra storia o di noi stessi, delle nostre abitudini e credenze, di stereotipi e pregiudizi. Alla fine tutti siamo prigionieri politici delle nostre teste e presunti colpevoli di qualcosa. Basta saperlo e provare a disfarsi della gabbia.

Mi devo fare da parte. La mañana è diventata tarde, sono le 12 e qualche minuto, c’è un’altra “visita” dopo di me. Un abbraccio amichevole, un au revoir, e un pensiero a chi di visite ormai non ne ha più, a chi non ha voce per superare il muro e ha perso ogni speranza.

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Mario e gli altri: criminalizzazione della protesta sociale a Città del Messico https://www.carmillaonline.com/2014/01/22/mario-e-gli-altri-criminalizzazione-della-protesta-sociale-a-citta-del-messico/ Tue, 21 Jan 2014 23:09:07 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12271 di Andrea Spotti

mario libreA poco più di tre mesi dalla sua detenzione Mario Gonzalez è stato condannato. Lo studente anarchico, detenuto a margine del corteo contro la riforma educativa e in memoria della strage del ’68 in Piazza Tlatelolco dello scorso 2 ottobre, è stato ritenuto colpevole del reato di “Attacco alla Pace Pubblica” dalla giudice Marcela Arrieta, che lo ha sentenziato alla pena di 5 anni e 9 mesi da scontare nel carcere di Santa Martha Acatitla, sito nella zona sudorientale della capitale messicana. La sua vicenda, attorno alla quale è cresciuto in questi mesi [...]]]> di Andrea Spotti

mario libreA poco più di tre mesi dalla sua detenzione Mario Gonzalez è stato condannato. Lo studente anarchico, detenuto a margine del corteo contro la riforma educativa e in memoria della strage del ’68 in Piazza Tlatelolco dello scorso 2 ottobre, è stato ritenuto colpevole del reato di “Attacco alla Pace Pubblica” dalla giudice Marcela Arrieta, che lo ha sentenziato alla pena di 5 anni e 9 mesi da scontare nel carcere di Santa Martha Acatitla, sito nella zona sudorientale della capitale messicana. La sua vicenda, attorno alla quale è cresciuto in questi mesi un movimento di solidarietà dentro e fuori i confini nazionali, è indicativa del clima repressivo che si vive a Città del Messico dall’insediamento del sindaco Miguel Angel Mancera a questa parte.

In sintonia con il presidente Enrique Peña Nieto, che sin dall’inizio del suo mandato, cominciato nel dicembre 2012, ha dovuto far fronte alle proteste popolari, il governatore di centrosinistra sta portando avanti una governance autoritaria che ha ridotto drasticamente gli spazi di agibilità politica per i movimenti sociali nella capitale. Questi, infatti, sono sottoposti a una vera e propria persecuzione poliziesca e giudiziaria, la quale, secondo quanto denunciano varie organizzazioni per la difesa dei diritti umani, rischia di mettere in discussione le stesse libertà costituzionali.

Arrestato su un autobus pubblico mentre si recava al corteo insieme ad altri otto compagni, Mario rappresenta un classico caso in cui le autorità si occupano di costruire il colpevole a tavolino. Quello dei giovani in questione, in altri termini, è stato un arresto preventivo fatto con lo scopo di fornire un capro espiatorio all’opinione pubblica alla fine dell’ennesima manifestazione terminata in disordini e duramente repressa dalla polizia locale che, per l’occasione, era guidata personalmente dal primo cittadino.

Noti all’autorità per la loro partecipazione alle lotte in difesa della scuola pubblica e per il loro attivismo all’interno di organizzazioni studentesche d’ispirazione anarchica, i fermati si prestavano perfettamente ad essere usati per svolgere il ruolo dei “violenti di turno”. Il contesto è quello di una massiccia campagna di criminalizzazione delle componenti più radicali dei movimenti messicani, dai professori della CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores de la Educación) al Bloque Negro, orchestrata ad arte da governo locale e media mainstream, e orientata a creare un clima di tensione intorno alle mobilitazioni contro le riforme strutturali che hanno animato la città durante tutto l’autunno.

manceraDello studente ventitreenne e della sua odissea giudiziaria si era occupato Fabrizio Lorusso un paio di mesi or sono, documentando il drammatico sciopero della fame che stava portando avanti per chiedere la propria liberazione. Grazie a questa forma di lotta, Mario è riuscito a rompere la cappa di silenzio e indifferenza che aleggiava sulla sua ingiusta detenzione. Tuttavia, dopo 56 giorni senza ingerire alimenti, è stato costretto a interrompere il digiuno a causa del drastico deterioramento delle sue condizioni di salute che minacciava di mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza. Dal 22 novembre è ricoverato nell’ospedale Torre Medica, da dove verrà trasferito a Santa Marta (uno dei penitenziari più violenti della città) appena recuperate le forze.

A questo proposito, durante la conferenza stampa del 15 gennaio scorso, Raquel Ramirez, appartenente alla squadra di medici del movimento della Sexta zapatista che segue il caso, ha denunciato la scarsa qualità dell’attenzione clinica prestata a Mario da parte del personale medico dell’ospedale. Quest’ultimo, oltre a violare costantemente il diritto all’informazione del paziente e dei suoi familiari, omettendo di comunicare i risultati delle analisi cui viene sottoposto, pare infatti più intenzionato a farlo aumentare di peso per inviarlo il prima possibile dietro alle sbarre, che a fornigli un’alimentazione adeguata alla sua condizione. Il risultato di questa scelta nutrizionale è che la massa grassa nel corpo di Mario cresce molto di più di quella muscolare, il che, lungi dal rappresentare il percorso corretto per recuperare il peso-forma del giovane, potrebbe complicare ulteriormente il funzionamento del suo metabolismo, già colpito da una pancreatite acuta e reso vulnerabile dall’abbassamento delle difese immunitarie provocato dallo sciopero della fame.

Se l’arresto è avvenuto in violazione di ogni garanzia (gli imputati hanno dichiarato di essere stati per ore vittime delle torture fisiche e psicologiche praticate dagli agenti, prima di essere presentati al pubblilco ministero), il processo ha avuto poco a che fare con i crismi stabiliti dal cosidetto stato di diritto, come denunciato dai legali di Mario, Guillermo Naranjo e Lizbeth Lugo, della de la Liga de Abogados Primero de Diciembre. Dal loro punto di vista, il percorso processuale è stato caratterizzato da molte “anomalie e irregolarità”, oltre ad essere stato viziato ab origine dalla volontà politica di dare un castigo esemplare a Mario al di là della sua effettiva responsabilità.

In effetti, l’intero castello accusatorio si basa esclusivamente sulle contraddittorie testimonianze dei poliziotti che hanno effettuato gli arresti i quali, dopo aver inizialmente dichiarato di essere stati testimoni oculari dei danneggiamenti provocati dal presunto lancio di artefatti esplosivi da parte degli imputati, hanno poi cambiato versione, sostenendo invece di essere giunti sul posto solo dopo aver ricevuto la chiamata di un automobilista, di cui si sono in seguito perse le tracce. Anche la criminalizzazione mediatica, inoltre, ha inciso nel processo. Tanto che tra gli elementi citati per giustificare la “pericolosità sociale” di Mario, e dunque la necessità della sua detenzione preventiva, si trovano anche alcuni servizi giornalistici di TvAzteca e MilenioTv. Insomma, dal punto di vista della difesa, l’unica cosa che il processo è riuscito a dimostrare è l’estraneità di Mario e gli altri processati ai reati di cui li si accusa.

no-a-la-criminalizacion-de-la-protesta-socialNonostante non abbia rappresentato una sorpresa per il giovane avvocato, la sentenza è “assurda e contraddittoria”, dal momento che condanna l’imputato per un reato che implica l’aver provocato danni a cose o persone senza però riuscire a dimostrare che i presunti vandalismi abbiano effettivamente avuto luogo e che, proprio per questo, è costretta ad assolvere Mario dall’obbligo di risarcimento dei danneggiamenti provocati (al contrario di quanto abitualmente accade in situazioni del genere). Ma non solo. La sentenza è anche “indignante” e “contraria al diritto”; poiché si accanisce nei confronti dello studente castigandolo con una pena decisamente eccessiva, se si considera che si tratta di un reato non grave e della sua prima condanna.

Questo accanimento, d’altra parte, si giustifica con l’intenzione – tutta politica – della giudice di impedire la richiesta di pene alternative e imporre la detenzione carceraria come unica opzione possibile. Contro questa prospettiva, i legali di Mario presenteranno appello, anche se non si dichiarano fiduciosi nell’autonomia del Tribunale Supremo di Giustizia del Distretto Federale (TSJDF), il quale ha dimostrato di subordinare la sua azione agli interessi politici del capo del governo della capitale.

Quello di Mario, purtroppo, non è un caso isolato. Altre condanne a 5 anni e nove mesi per il reato di Attacco alla Pace Pubblica (frutto di processi altrettanto discutibili secondo gli avvocati difensori) si sono abbattute sul fotografo indipendente Josè Alejandro Bautista, arrestato da un gruppo di agenti in borghese mentre documentava la mobilitazione del 2 ottobre; e su Rigel Barrueta, fermato invece durante il #1Dmx. A questi verdetti, bisogna poi aggiungere i quasi tre anni più multa appioppati agli studenti Gonzalo Amozurrutia, Pavel Noriega e Juan Velàzquez, detenuti all’interno di una stazione della metro, a conclusione della giornata di mobilitazione del #1S. Sono in attesa di giudizio, infine, circa trenta imputati con storie simili (alcuni dei quali si trovano in stato di privazione della libertà) che a breve dovrebbero ricevere la sentenza per gli stessi capi d’accusa e per i quali, stando le cose in questi termini, è difficile essere ottimisti.

Al di là della questione giudiziaria, è l’insieme della strategia di governo dell’amministrazione Mancera a preoccupare movimenti sociali e organizzazioni per la difesa dei diritti umani (tra gli altri, l’Associazione Nazionale Avvocati Democratici, Article 19, Limeddhh e Centro Prodh). In rotta con la tradizione progressista della città, il suo governo sta nei fatti lavorando alla normalizzazione dell’anomalia rappresentata dalla capitale – storicamente posizionata all’opposizione rispetto al governo centrale – per inibire la possibilità stessa della protesta, nel pieno della stagione delle (contro)riforme strutturali lanciata dal presidente Peña Nieto, il cui stampo liberista ha prodotto e produce mobilitazioni che hanno finito spesso per invadere le strade della metropoli, principale punto di visibilità delle lotte nel paese.

L’atteggiamento aggressivo e provocatorio messo in campo dalle forze dell’ordine locali durante i cortei (che quasi sempre finiscono con numerosi feriti e arresti indiscriminati); oltre che la scelta di bloccare il libero accesso delle manifestazioni a Plaza de la Constituciòn, cuore pulsante della città, trasformata nel giro di un solo anno in un recinto invalicabile per i movimenti, sono esempi concreti del radicale cambiamento nella gestione del conflitto operato dall’amministrazione di Mancera.

A questa svolta nella gestione della piazza, corrispondono le trasformazioni legislative messe in essere dal parlamento locale, come il Protocollo di Controllo delle Moltitudini, approvato in seguiro agli scontri di piazza del primo dicembre 2012, e la recente riforma del codice penale della capitale, i quali aumentano le pene per i reati legati a manifestazioni e proteste, allargando i margini legali per l’intervento repressivo da parte delle forze di polizia.

Vanno segnalate, infine, due leggi che si propongono di regolare lo svolgimento delle manifestazioni a Città del Messico, proposte da un deputato del partito di destra, il PAN (Partido Acciòn Nacional), e dallo stesso capo del governo cittadino, con l’obiettivo generale di imporre dei limiti alla possibilità di organizzare mobilitazioni nella capitale del paese. Si va dalla messa al bando dei blocchi stradali, alla proibizione di manifestare in zone specifiche della città, come il centro storico e le principali arterie cittadine, dal divieto di svolgere iniziative prima delle 11 e dopo le 18 a quello di organizzare proteste contro leggi già votate dal parlamento, per fare solo qualche esempio.

Questa situazione, con la quale si sta cercando di sancire a livello legale quanto imposto di fatto nel corso degli ultimi mesi a suon di manganellate, lacrimogeni lanciati ad altezza uomo, denunce e sentenze esemplari, non promette nulla di buono per il futuro della democrazia e della partecipazione a Città del Messico e nel resto del paese, poiché rischia di mettere in discussione l’esercizio di diritti fondamentali quali quello all’opinione e alla manifestazione del dissenso da parte della cittadinanza.

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#MarioLibre – Mario González: 52 giorni di sciopero della fame a Città del Messico https://www.carmillaonline.com/2013/11/30/mariolibre-mario-gonzalez-51-giorni-di-sciopero-della-fame-a-citta-del-messico/ Fri, 29 Nov 2013 23:00:37 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11065 di Fabrizio Lorusso

Mario libre 2Da 52 giorni lo studente e attivista ventitreenne Jorge Mario González García sta facendo uno sciopero della fame nel penitenziario oriente di Città del Messico e le sue condizioni di salute stanno diventando drammatiche. Mario è stato catturato dalla polizia della capitale messicana lo scorso due ottobre. Quel giorno ci sono stati oltre 100 arresti, in maggioranza arbitrari, e forti scontri tra i manifestanti e la polizia in diverse zone della città durante la manifestazione commemorativa della strage di [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Mario libre 2Da 52 giorni lo studente e attivista ventitreenne Jorge Mario González García sta facendo uno sciopero della fame nel penitenziario oriente di Città del Messico e le sue condizioni di salute stanno diventando drammatiche. Mario è stato catturato dalla polizia della capitale messicana lo scorso due ottobre. Quel giorno ci sono stati oltre 100 arresti, in maggioranza arbitrari, e forti scontri tra i manifestanti e la polizia in diverse zone della città durante la manifestazione commemorativa della strage di stato del 2 ottobre del ’68 in Piazza Tlatelolco. Mario è sotto processo per “attacchi alla pace pubblica” che sarebbero stati provocati durante la manifestazione del #2OctMX. Si tratta di una fattispecie giuridica piuttosto generica che si presta a interpretazioni e manipolazioni e in cui può rientrare una varietà di comportamenti: infatti, viene usata comunemente da parte delle autorità per arrestare le persone che partecipano alle manifestazioni di piazza e i dissidenti politici senza badare troppo alla forma e al rispetto dei diritti. Mario è stato arrestato insieme ad altri dieci compagni dalla polizia della capitale nel pomeriggio del 2 ottobre, prima che cominciasse la manifestazione, quando il gruppo si trovava su un bus. E’ stato sicuramente un arresto preventivo, al di fuori di qualunque idea di “stato di diritto”.

In una retata della polizia, i ragazzi sono stati catturati e identificati e poi sottomessi a vessazioni e torture. Sono stati picchiati e aggrediti anche con scariche di pistole elettriche, nonostante non abbiano opposto resistenza all’arresto. Più tardi, solo varie ore dopo, Mario è stato presentato in questura ed è stato messo a conoscenza delle accuse contro di lui. Mario è perseguitato dalle autorità ormai da tempo perché è anarchico e ha preso parte a vari movimenti e atti di contestazione in passato: ha partecipato alla riforma dei piani di studio delle scuole superiori CCH (Colegios Ciencias y Humanidades) dipendenti dalla UNAM (Universidad Nacional Autónoma de México), al movimento studentesco che negli ultimi anni s’è inimicato le autorità universitarie e ha ricevuto una denuncia, poi lasciata cadere perché era stata fabbricata, per aver presumibilmente danneggiato un negozio nel contesto di una manifestazione studentesca. Ha anche partecipato nel 2013 all’occupazione del rettorato della UNAM che ha scatenato un conflitto tra l’università e gli studenti delle scuole secondarie, anche se alla fine tutte le “questioni” legate alla sua militanze sono state risolte a livello giudiziario senza ulteriori problemi.

L’8 ottobre scorso, dopo il pagamento di una cauzione, tutti i prigionieri del 2 ottobre sono usciti. Anche Mario ha messo piede fuori dal penitenziario, ma è arrivata subito la beffa: appena uscito dal Reclusorio Oriente è stato di nuovo arrestato perché considerato “socialmente pericoloso”. Da allora ha cominciato uno sciopero della fame che ha deciso di mantenere fino alle ultime conseguenze. Nel frattempo le autorità e una parte dei mass media hanno declassato la protesta a un semplice “digiuno” per sminuirne la portata.

La cattura e l’imprigionamento di Mario González, come lui stesso ha scritto in un comunicato apparso il 27 novembre sul blog del suo comitato di sostegno, sono “delle cose assurde”, delle “enormi menzogne”, visto che le autorità “si rifiutano di riconoscere ciò che è ovvio: che questa non è altro che una vendetta politica”. Inoltre, denuncia González, ex alunno della scuola superiore CCH Naucalpan: “Qui e anche nel reclusorio sono stato costantemente torchiato per iniziare a mangiare, ma ho potuto continuare lo sciopero della fame comunque”. Con questa protesta Mario cerca di uscire di prigione e di affrontare in libertà il suo processo.

Nell’udienza del 26 novembre il giudice Marcel Ángeles Arrieta non ha risolto la sua situazione giuridica come ci si aspettava dato che non ha concesso all’imputato la libertà e ha rimandato la decisione al 10 dicembre anche se per quella data lo stato fisico del prigioniero potrebbe risultare compromesso permanentemente. Inoltre la giudice considera che Mario ha un profilo di “alta pericolosità sociale” per cui, malgrado i capi d’accusa siano per crimini “non gravi”, deve restare in carcere.

Mario libre 1Il difensore di Mario, l’avvocato dell’associazione Liga Primero de Diciembre Guillermo Naranjo, ha sottolineato come durante l’udienza non si siano potute presentare le prove in difesa di Mario, non si è arrivati a nessuna conclusione e meno a una sentenza perché i poliziotti chiamati dal PM che avrebbero dovuto testimoniare contro lo studente non si sono presentati, pur essendo stati avvisati per tempo. “Nessun poliziotto si vuol prendere la responsabilità di farlo condannare. Lui semplicemente si trovava dove sono successi i fatti, lì dicono che c’erano varie persone e in seguito ricompare in questura col PM che gli appioppa accuse e responsabilità”, ha spiegato Naranjo.

Il principio della presunzione d’innocenza è stato accantonato e neutralizzato a favore di una non dimostrata “pericolosità” del prigioniero, e questo rappresenta un retrocesso evidente nella difesa dei diritti umani nel paese, soprattutto perché non ci sono elementi chiari nell’accusa e meno ce ne sono per poterlo condannare e rinchiudere. Pertanto lo stesso avvocato sospetta che il processo si stia allungando oltremodo perché Mario starebbe “sfidando” l’autorità con il suo sciopero della fame.

Naranjo spiega in questo modo la situazione: “Purtroppo, e questo prova che c’è una linea da seguire, il magistrato ha fissato una nuova udienza per il 10 dicembre, dimenticando che Mario è immerso in un processo sommario e che la data doveva essere fissata nei cinque giorni successivi per poter essere posticipata, nonostante lei sapesse che Mario sita facendo lo sciopero della fame. Se non si presentano di nuovo, i poliziotti dovranno pagare una multa, ma a noi non interessa questo, ci interessa che si porti a termine l’udienza. Che bisogno c’è di spostare due volte l’udienza di qualcuno che è accusato di un delitto sommario, non grave, perché i poliziotti non sono venuti? Sarà che non possono sostenere quanto dicono?”.

Il 27 novembre in conferenza stampa la madre di Mario González, Patricia García Catalán, ha rilasciato alcune dichiarazioni contundenti sulla battaglia di suo figlio: “La mia posizione di fronte alla decisione di mio figlio di portare avanti uno sciopero della fame è di rispetto e solidarietà totali, mio figlio è un uomo molto cosciente e autocritico. E’ un militante sociale, una persona con ideali, con progetti e davvero penso che dal momento del suo arresto, che è stato arbitrario, hanno provato a generare in lui indignazione. Perché trattarlo così se lui non fa male né colpisce nessuno? Quel che ha fatto è semplicemente alzare la voce e dire ‘adesso basta’”.

Tanto Patricia García come suo figlio hanno detto che la giudice María de los Ángeles Arrieta, responsabile del caso, ha sostenuto che per dargli la libertà sarebbero dovuti arrivare degli ordini “dall’alto”. Pertanto la famiglia di Mario, le reti social, la stampa indipendente e i cittadini si stanno mobilitando affinché “dall’alto” si proceda a rispettare i diritti umani e si correggano gli errori (probabilmente in mala fede) del sistema penale, della polizia e della sua famigerata macchina giudiziaria: la “fabbrica dei colpevoli”.

Mario libre 3Isabel Varela, una professoressa che ha dato lezioni a Mario, ha attribuito la responsabilità di questi abusi a “Miguel Ángel Mancera, sindaco di Città del Messico; a José Narro Robles, rettore della UNAM, perché cinque giorni prima del suo arresto lo aveva minacciato tramite un documento presentato dall’avvocato generale dell’università; al procuratore di giustizia della capitale per non fare il suo lavoro come deve; alla Commissione dei Diritti Umani della capitale che ha fatto finta di niente e che nulla ha fatto per Mario; alle giudici Celia Marín Sasaki e Marcela Ángeles Arrieta e al direttore del Reclusorio Oriente, Ermilio Velázquez, che ha contribuito alla tortura più grande ai danni di Mario”.

Effettivamente lo scorso 22 novembre lo studente è stato trasferito, contro la sua volontà, dal carcere all’ospedale del quartiere di Tepepan e lì i dottori hanno cercato di farlo mangiare con la forza. Mario, invece, ha resistito, continua con la sua protesta e non ha accettato l’alimentazione artificiale. Il medico dell’attivista, Sebastián Ponce, ha descritto così le sue condizioni a 50 giorni dall’inizio dello sciopero della fame: “Mario González è debilitato fisicamente, con una pressione arteriale bassa, dolori di stomaco e nausea; diminuzione drastica del peso e sensazione di freddo per la perdita di grasso e massa muscolare; ha perso 15 kg e se continua così nei prossimi giorni presenterà un danno epatico, renale e circolatorio, il che potrebbe compromettere il suo stato emodinamico e quindi la sua vita”.

Su YouTube si sta diffondendo un video intitolato ¡Mario libre! Súmate a la exigencia per  “esigere la libertà di Mario González, che è stato arrestato arbitrariamente sul trasporto pubblico il #2octMX”. Si moltiplicano anche le iniziative per le strade e i picchetti di protesta, mentre su Twitter l’hashtag #MarioLibre è il riferimento per informarsi e diffondere iniziative su questo caso che sta diventando un banco di prova e una spina nel fianco per il sistema di giustizia e per lo stesso sindaco di Città del Messico, Miguel Ángel Mancera. Blog di Mario: http://solidaridadmariogonzalez.wordpress.com/

Altri articoli in italiano: Andrea Spotti su PopOff.Globalist & Radio Onda D’Urto

 

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Libertà per Alberto Patishtán, prigioniero politico in Chiapas https://www.carmillaonline.com/2013/05/19/liberta-per-alberto-patishtan-prigioniero-politico-in-chiapas/ Sat, 18 May 2013 22:00:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=5703 di Fabrizio Lorusso

patishLo chiamano il Prof, El Profe. E’ ormai un simbolo delle lotte contadine e dei prigionieri politici in Chiapas e in tutto il Messico. Nel 2000 venne arrestato senza mandato di cattura e poi condannato a sessant’anni di carcere. Condannato a scontare una pena equivalente all’ergastolo per un delitto che non ha commesso, Alberto Patishtán, maestro-contadino di origine tzotzil è un aderente della Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) e rappresenta uno dei tanti casi controversi ed emblematici del sistema di ingiustizia messicano, della fabbrica dei colpevoli e [...]]]> di Fabrizio Lorusso

patishLo chiamano il Prof, El Profe. E’ ormai un simbolo delle lotte contadine e dei prigionieri politici in Chiapas e in tutto il Messico. Nel 2000 venne arrestato senza mandato di cattura e poi condannato a sessant’anni di carcere. Condannato a scontare una pena equivalente all’ergastolo per un delitto che non ha commesso, Alberto Patishtán, maestro-contadino di origine tzotzil è un aderente della Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) e rappresenta uno dei tanti casi controversi ed emblematici del sistema di ingiustizia messicano, della fabbrica dei colpevoli e della malagiustizia. Ma è anche un simbolo per le sue lotte che da fuori e da dentro la prigione ha saputo condurre in questi anni a favore delle vittime di abusi giudiziari nel paese e delle popolazioni indigene da sempre ai margini. La famigerata “Fabbrica dei colpevoli” messicana non si ferma mai.

Su Carmilla abbiamo parlato in più occasioni del caso giudiziario, politico e mediatico della francese Florence Cassez (che era solo una goccia nel mare delle ingiustizie), condannata a 60 anni di prigione (ne ha scontati 7) in Messico e ora rimandata in Francia dopo una sentenza storica della Corte Suprema. Le è stata concessa una revisione o “amparo” (una figura giuridica messicana traducibile come “tutela dei diritti” o “giudizio d’appello”) e l’ha liberata per il mancato rispetto del “giusto o dovuto processo” da parte delle autorità. Non da “solo” 7 anni ma de ben 12 anni un altro caso fa emergere le carenze e gli abusi del sistema penale di questo paese, soprattutto contro i militanti politici (non era il caso di Florence): si tratta del professore indigeno del Chiapas Alberto Patishtán, un attivista che negli ultimi mesi è riuscito a rompere il muro del silenzio che lo circondava.

Questa volta, però, la Corte Suprema messicana ha usato criteri diversi e ha voltato le spalle alla giustizia. Alcuni si salvano, altri no. Magari perché sono prigionieri politici e sono scomodi al sistema, oppure perché sono indigeni e marginali come ha scritto l’attivista e poeta Javier Sicilia, fondatore del Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità in questa lettera. Un racconto dettagliato del caso l’ha fatto Andrea Spotti. Di seguito ho tradotto una sintesi del caso da Desinformémonos.Org e ho inserito un documentario appena uscito in spagnolo sul caso del profe Patishtán (vedi sotto), F. L.] 

 

Documentario “Alberto Patishtán. Vivere o morire per la verità e la giustizia” di Koman Ilel e il Movimento del Popolo del Bosco per la Libertà di Alberto Patishtán. Testo di Alma Sánchez – Durata 60′ 30” – Anno 2013.

L’attivista sociale di etnia tzotzil Alberto Patishtán Gómez è stato messo in prigione per la morte di sette poliziotti in un’imboscata realizzata da un gruppo armato nel territorio comunale di El Bosque (Chiapas, estremo Sud messicano) nell’anno 2000. Lui non s’è mai dato per vinto e dalla prigione s’è organizzato insieme ad altri detenuti per avere giustizia. E’ diventato un instancabile difensore dei diritti umani ed è il prigioniero politico più emblematico in Chiapas attualmente. Questo documentario ricostruisce, partendo da interviste e testimonianze, i veri motivi che hanno portato Patishtán in prigione. Vediamo come il suo popolo ha lottato per cercare di liberarlo ed anche le ingiustizie che da parte degli organi ufficiali di giustizia sono state commesse contro di lui e, di conseguenza, contro tutti i popoli organizzati del Chiapas.

Aggiornamento sul caso

Il 30 aprile scorso l’avvocato di Patishtán, Sandino Rivero, ha informato che il fascicolo sarebbe arrivato al Tribunale Collegiale (incaricato di dirimere il caso dopo la decisione negativa della Corte Suprema) nel lasso di circa 15 giorni, dopo di che è probabile che la risoluzione sia immediata. Il Centro per i Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas ha reso noto che la campagna internazionale per la libertà del professore tzotzil è riuscita a trasformare l’hashtag #LibertadPatishtan in un trending topic su Twitter. Le lettere inviate sono state 62.935 e hanno superato l’obiettivo di 4.686 lettere, una per ogni giorno di reclusione.

Le lettere recapitate ai magistrati del Primo Tribunale Collegiale di Tuxtla Gutiérrez (capitale del Chiapas), e al magistrato Juan Silva Meza, del Consiglio della Magistratura Federale, sono state 5.986. Intanto gli attivisti Solidarios de la Voz del Amate, i gruppi, collettivi e militanti del mondo intero continuano a esprimersi in favore della libertà del prigioniero politico Alberto Patishtán Gómez e anche i membri della Commissione per i Diritti Umani della Camera dei Deputati proprio nei primi giorni di maggio si sono pronunciati per la sua libertà. Nella stessa settimana il governatore Manuel Velasco s’è recato nella comunità El Bosque per annunciare la costruzione di un campo sportivo e non s’è espresso sul caso Patishtán, anche se qualche settimana prima gli aveva fatto visita nel penitenziario di San Cristóbal de las Casas, in Chiapas.

Patish libertadRiassunto delle mobilitazioni 

Il 19 aprile scorso il compleanno di Patishtán è stato festeggiato con protesta mondiale. Migliaia di persone hanno manifestato per la libertà de “el profe”, come è chiamato con affetto dai suoi amici e compagni. Le manifestazioni sono state realizzate in tantissimi paesi e città (vedi anche su FB): Tuxtla Gutiérrez, Città del Messico, Tijuana, Guadalajara, Morelos, Spagna, Francia, Stati Uniti, Grecia, Argentina, Italia, Canada, Svezia, Danimarca, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Austria, Brasile, Belgio, Regno Unito, Cile, Colombia e Svizzera.

L’organizzazione civile Las Abejas de Acteal ha letto un comunicato in cui ha espresso la sua profonda indignazione per la liberazione (in un processo farsa) dei 15 paramilitari che nel 1997 parteciparono al massacro di 45 indigeni tzotzil [parte della strategia repressiva del governo dell’ex presidente Ernesto Zedillo contro l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, EZLN] ed ha voluto anche esigere la libertà di Alberto Patishtán. Le Abejas hanno precisato riguardo alla giustizia: “Signori magistrati: è vero che voi non avete rispettato i popoli indigeni, ma ad ogni modo vogliamo dirvi como si vedono le vostre azioni a partire dalla nostra visione del mondo indigena tzotzil… Che succede per esempio se un’autorità è corrotta e agisce in modo parziale e favorisce un colpevole? Quello che succederà è che quell’autorità viene rimossa dalla comunità, ma questo non è il peggio. Il peggio è che quelle persone perdono tutto il rispetto e la fiducia che meritavano come autorità”.

 

Infine inserisco l’ultima lettera di Patishtán datata 13 maggio 2013.

All’Opinione Pubblica

Ai mezzi di Comunicazione Statali, Nazionali e Internazionali

Ai Mezzi Alternativi

Agli aderenti alla Sesta

Alle Organizzazioni Indipendenti

Ai Difensori dei Diritti Umani

Prigioniero Politico della Voz del Amate, Alberto Patishtan Gómez, Aderente alla Sesta, recluso nel “Centro di Riadattamento Sociale” (CeReSo) No. 5 San Cristóbal de Las Casas, Chiapas.

Noi tutti, messicani e messicane, desideriamo vivere sotto il tetto della Giustizia e della Dignità, ma solo vediamo giorno dopo giorno le richieste di quella Giustizia che i nostri fratelli aspettano, così come noi reclamiamo come persone detenute ingiustamente dall’ingiustizia. A quasi 13 anni dall’incarcerazione, di nuovo aspetto la decisione del Primo Tribunale Collegiale del Ventesimo Distretto del Chiapas, questa volta spero che studino e analizzino esaustivamente secondo diritto e che così io possa ottenere la libertà.

Allo stesso modo insisto con il Governatore Manuel Velasco Coello affinché esegua le liberazioni immediate di tutti i miei compagni Solidarios de la Voz del Amate, così come s’era espresso durante la sua visita in questo penitenziario il 18 aprile, così come l’ha dichiarato in altre occasioni questa storia di ingiustizia non deve ripetersi più, deve prevalere la Giustizia, e come esempio deve realizzarsi con i già citati casi perché sono casi di competenza dello stato del Chiapas.

Da ultimo invito la Società Civile e le Organizzazioni Indipendenti Statali, Nazionali e Internazionali a continuare a chiedere la Giustizia vera che tutti e tutte vogliamo.

¡Vivir o Morir por la Verdad y la Justicia!

Fraternamente

Prigioniero Político La Voz del Amate

Alberto Patishtan Gómez (firma)

Penal No. 5, San Cristóbal de Las Casas Chiapas, a 13 de mayo de 2013.

 

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