precarizzazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx https://www.carmillaonline.com/2020/09/26/genere-e-capitale-per-una-lettura-femminista-di-marx/ Sat, 26 Sep 2020 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62837 di Silvia Federici

«La rivoluzione comincia nella casa e parla il linguaggio della lotta delle donne» Silvia Federici

[A partire dalle rivendicazioni degli anni Settanta del secolo scorso per il “salario al lavoro domestico”, Silvia Federici, nel volume Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx (DeriveApprodi, 2020), rapporta il pensiero di Marx con l’ottica femminista. Passando per la critica della concezione di un soggetto universale della storia e seguendo le tracce della produzione di valore, ricchezza e sfruttamento nella sfera della riproduzione, Federici intende individuare nel femminismo contemporaneo gli strumenti per [...]]]> di Silvia Federici

«La rivoluzione comincia nella casa e parla il linguaggio della lotta delle donne» Silvia Federici

[A partire dalle rivendicazioni degli anni Settanta del secolo scorso per il “salario al lavoro domestico”, Silvia Federici, nel volume Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx (DeriveApprodi, 2020), rapporta il pensiero di Marx con l’ottica femminista. Passando per la critica della concezione di un soggetto universale della storia e seguendo le tracce della produzione di valore, ricchezza e sfruttamento nella sfera della riproduzione, Federici intende individuare nel femminismo contemporaneo gli strumenti per l’emancipazione dell’intera umanità. Pubblichiamo di seguito un assaggio del volume ringraziando l’editore per la gentile concessione – ght]

Silvia Federici è attivista femminista, scrittrice e docente universitaria tra le protagoniste, negli anni Settanta del secolo scorso, del movimento internazionale per il Salario al Lavoro Domestico. Negli anni Novanta, dopo un periodo di insegnamento e di ricerca in Nigeria, Federici ha partecipato ai movimenti no global e contro la pena di morte negli Stati Uniti, dal 1987 al 2005 ha insegnato politica internazionale, women’s studies e filosofia politica alla Hofstra University di Hempstead (New York). Autrice di numerosi saggi di filosofia e di teoria femminista, recentemente si è occupata dei processi di globalizzazione capitalista tenendo conferenze in ogni parte del mondo. Tra le pubblicazioni di Silvia Federici in lingua italiana si segnalano: Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista (Ombre Corte, 2014) e Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (Mimesis, 2015). Su Carmilla è possibile leggere la Prefazione a quest’ultimo volume.

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Che senso ha oggi interrogarsi sul rapporto tra femminismo e marxismo? La domanda è legittima considerando l’abbondante letteratura che già esiste su questo tema e che è destinata a crescere, dato il rinnovato interesse da parte di una nuova generazione di «femministe socialiste» per questo rapporto. Tuttavia, come ha osservato Shahrzad Mojab nell’introduzione a Marxism and Feminism (2015), il problema del rapporto tra questi due movimenti teorico-politici è tuttora irrisolto. Come ribadisco nei saggi raccolti in questo volume, persiste nel marxismo l’incapacità di distanziarsi da quegli aspetti dello schema teorico marxiano che si sono rivelati incompatibili con il progetto di liberazione dell’umanità dalla povertà e dallo sfruttamento: una tendenza allo statalismo, il culto della tecnologia e dell’industria, una concezione strumentale della natura, la sottovalutazione dell’importanza del lavoro di riproduzione e degli effetti disastrosi del sessismo e del razzismo.

D’altra parte, l’articolazione di una visione femminista anticapitalista fatica a imporsi, nonostante la crescita di tale esigenza tra i nuovi movimenti femministi che stanno emergendo in gran parte del pianeta. Per affrontare questa problematica, per riflettere sul rapporto tra femminismo e marxismo, ho raccolto in questo volume alcuni materiali scritti negli anni Settanta e altri che risalgono a tempi più recenti. Ciascuno rappresenta un momento nello sviluppo di un discorso femminista su Marx e al tempo stesso un tentativo di rispondere alla domanda implicitamente posta da Mojab. Assolvere a questo compito vuol dire innanzitutto interrogarsi su una serie di tematiche che sono state al centro della critica femminista a Marx. Prima tra queste la questione del lavoro come strumento per la produzione della ricchezza sociale e oggetto di contrattazione operaia e pianificazione istituzionale.

Che cosa ha permesso a Marx e ai suoi epigoni di pensare il lavoro solo o principalmente come produzione industriale e rapporto salariato? Perché Marx ha ignorato nella sua analisi del capitalismo le stesse attività che quotidianamente riproducono la vita umana e la nostra capacità lavorativa? Come discuto nei saggi che compongono il volume, è qui, intorno al nodo della definizione di lavoro, che una prospettiva femminista si dimostra imprescindibile poiché capace di rendere visibile un mondo di relazioni essenziali alla nostra vita e irriducibili alla meccanizzazione, che il marxismo non ha mai sfiorato.

Ripensare femminismo e marxismo significa anche porre al centro della «lotta di classe» la problematica delle divisioni costruite dal capitalismo all’interno della «classe» – soprattutto attraverso la discriminazione razziale e sessuale – un tema quasi completamente assente in Marx. Come sappiamo, Marx ha denunciato sia i rapporti patriarcali che il razzismo, non solo nei suoi scritti ma anche nei suoi interventi all’Internazionale. Tuttavia manca nell’opera di Marx un’attenzione alla funzione delle gerarchie del lavoro costruite in base al genere e alla razza, nella storia dello sviluppo capitalistico. Manca una riflessione sul ruolo del sessismo e del razzismo come elementi strutturali dell’organizzazione del lavoro e della produzione nella società del capitale.

Eppure non possiamo ignorare che è proprio a causa di queste divisioni, e per la capacità da parte dei governi e del capitale di mobilitare settori del proletariato come strumenti di una politica razzista e per la repressione delle lotte sociali, che il capitalismo ha potuto riprodursi fino a nostri giorni, e questo nonostante, per Marx, l’estensione globale dei rapporti capitalisti sia l’elemento unificante del proletariato mondiale.

È stato affermato che la discriminazione in base al genere e alla razza è da considerarsi un fattore contingente nella storia del capitalismo e non una sua necessità logica (Harvey 2015). Ma ciò significherebbe considerare il capitalismo in termini astratti, come un sistema che cresce su se stesso senza confrontarsi con la resistenza delle forze sociali che, pur nella subordinazione, conservano una propria autonomia. Invece, tutta la storia dello sviluppo capitalistico fino ai nostri giorni, testimonia il suo carattere strutturalmente sessista, razzista e coloniale. Da qui la denuncia, sempre più articolata, da parte di movimenti antirazzisti e anticoloniali, del marxismo come teoria e politica Eurocentrica, incapace di esprimere i bisogni che sorgono dalle lotte di quanti si riproducono con lavori informali, non rimunerati, a basso livello tecnologico, in condizioni di totale precarizzazione, e tuttavia costituiscono la maggioranza della popolazione del pianeta.

Non ultimo, ripensare Marx in un’ottica femminista e antirazzista significa contestare l’assunto tipico del movimento socialista circa il ruolo emancipatorio dell’industrializzazione, a cui spesso Marx affida il compito di rivoluzionare i rapporti sociali e costruire le basi materiali del comunismo. Come ho diffusamente scritto, Marx sembra dimenticare che la maggior parte del lavoro che si compie anche nei paesi più tecnologicamente avanzati è irriducibile alla meccanizzazione. Nonostante i tentativi di produrre robots capaci di sopperire alla cura di anziani, bambini e infermi, l’industrializzazione del lavoro di riproduzione domestico appare sempre più un obbiettivo irraggiungibile e indesiderabile.

Si deve aggiungere che privilegiando lo sviluppo della produzione industriale come condizione essenziale, a livello planetario, di un’economia basata sulla giustizia sociale e l’abbondanza, inevitabilmente Marx, e con lui il marxismo in tutte le sue forme, ha sottovalutato la distruzione ambientale prodotta dall’industria, specialmente con l’espansione della chimica e della produzione digitale. Si dirà che Marx non poteva prevedere i mari soffocati dalla plastica, la morte delle barriere coralline o la contaminazione dei fiumi frutto dell’industrializzazione dell’agricoltura e degli scarichi industriali. Non poteva immaginare incendi tanto estesi da mettere in pericolo le città, come si stanno verificando in Australia e in California mentre scrivo queste pagine. Eppure, la certezza con cui egli guarda a un futuro in cui l’umanità potrà dominare la natura grazie all’industria su larga scala, e plasmarla per il bene comune, oggi non può che apparire cieca e arrogante.

Tuttavia, muovere queste critiche a Marx non significa disconoscere l’importanza storica del metodo marxiano e dell’analisi dell’organizzazione capitalistico del lavoro che ci ha consegnato. Significa piuttosto riconoscere che ha sottovalutato la capacità distruttiva dello sviluppo capitalistico, tanto da identificare la stessa produzione industriale che oggi distrugge il nostro pianeta e divora gli organismi viventi che lo popolano, come un fattore fondamentale della liberazione dell’umanità. Qui si pone l’importanza del femminismo. Mettere in crisi il capitalismo non è sufficiente. È essenziale non riprodurre le ingiustizie e le diseguaglianze contro cui abbiamo lottato. In questo senso, un femminismo anticapitalista determinato a «mettere la vita al centro» della politica sociale – come vuole il femminismo popolare che sta sorgendo in varie parti d’Europa e soprattutto in America Latina – ci sembra il modo più idoneo per realizzare il «seme rivoluzionario» del marxismo.

 

 

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Meritocrazia e valutazione al servizio della flessibilizzazione del lavoro https://www.carmillaonline.com/2018/04/21/meritocrazia-valutazione-al-servizio-della-flessibilizzazione-del-lavoro/ Fri, 20 Apr 2018 22:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45140 di Gioacchino Toni

Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 192, € 15,00

«La valutazione, nel nostro mondo neoliberista, è divenuta un potente strumento di potere» – «Valutare vuol dire sempre più misurare tutto con lo stesso metro: il denaro, il capitale» Angélique del Rey

Pare ormai essere del tutto normale, se non addirittura doveroso, essere sottoposti a giudizio insindacabile o farsi giudici. Basti pensare ai tanti programmi televisivi che mostrano concorrenti desiderosi di sottoposti al cinico e spietato giudizio altrui.

Ciò che accade in video [...]]]> di Gioacchino Toni

Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 192, € 15,00

«La valutazione, nel nostro mondo neoliberista, è divenuta un potente strumento di potere» – «Valutare vuol dire sempre più misurare tutto con lo stesso metro: il denaro, il capitale» Angélique del Rey

Pare ormai essere del tutto normale, se non addirittura doveroso, essere sottoposti a giudizio insindacabile o farsi giudici. Basti pensare ai tanti programmi televisivi che mostrano concorrenti desiderosi di sottoposti al cinico e spietato giudizio altrui.

Ciò che accade in video non è poi così dissimile da quanto avviene nella vita quotidiana; ormai in tutte le interazioni sociali si è valutati e chiamati a valutare e non importa se si tratta di un esame, un colloquio di lavoro, una prestazione erogata, una merce acquistata o venduta. Persino l’abitudine a rilasciare giudizi perentori sul web sottostà alla medesima logica introdotta attraverso una potente e suadente macchina narrativa che si è fatta luogo comune. Un esempio significativo di logica valutativa lo si può individuare nei sistemi scolastici, a proposito dei quali scrive Francesco Codello nella Prefazione al libro di Angélique del Rey:

La logica meritocratica si propone di trasformare i giovani da soggetti a oggetti, e la funzione dei sistemi scolastici è innanzitutto quella di fornire al mercato del lavoro globalizzato e fluido soggetti-oggetti malleabili e utilizzabili (spendibili) in contesti diversi, privi di contenuti problematizzati, ma ricchi di capacità di adattamento psicologico e professionale (imparare a imparare). Abbiamo ormai consumato il passaggio strategico dall’idea di istruzione obbligatoria a quello di formazione obbligatoria, dall’uomo produttore a quello consumatore. Ecco perché in passato l’attenzione era rivolta all’acquisizione delle conoscenze mentre adesso è rivolta all’acquisizione delle competenze. Il sistema scolastico è transitato dall’essere al servizio dell’economia all’essere al servizio di uno dei settori strategici dell’economia. La sua mission è infatti quella di formare adeguatamente i lavoratori alle esigenze della logica capitalistico-finanziaria, di educare e stimolare il consumatore, di aprire le scuole stesse alle strategie pervasive dei mercati. Il futuro lavoratore (fin da studente) deve essere flessibile, adattabile, competitivo, animato da spirito d’impresa e soprattutto responsabile, ovvero conscio che il suo interesse coincide con quello generale (cioè con quello delle classi dominanti). La pedagogia delle competenze, così come delineata nelle otto competenze-chiave contenute nelle Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa del 18 dicembre 2006, ha colonizzato l’insieme dei sistemi educativi del globo (pp. 11-12)

Angélique del Rey, docente di filosofia in un centro per adolescenti della periferia parigina, nel suo libro La tirannia della valutazione indica nella valutazione lo strumento centrale della flessibilizzazione contemporanea del lavoro, strumento comportante una vera e propria “precarizzazione psicologica” dell’individuo. Scrive Codello che con il pretesto dell’efficienza «si valuta solo la capacità di adattamento al sistema complesso e globale di valutazione, ai suoi tempi, spazi, luoghi, modi, relazioni, incitando a una competizione esclusivamente finalizzata al raggiungimento del risultato (a qualsiasi costo), promuovendo questo nuovo soggetto-oggetto dal “cervello aumentato”, piegando l’espressione libera e spontanea del proprio specifico sé alle esigenze delle batterie valutative appositamente confezionate» (pp. 10-11).

Attraverso la valutazione, presentata come oggettiva, ogni individuo tenderebbe a ritenersi «soddisfatto del posto che occupa nella piramide sociale perché è quello che gli compete in base agli sforzi (esiti) che ha saputo mettere in campo, perché è quello che si è meritato» (p. 11). L’internazionalizzazione dei sistemi valutativi nella scuola, si sostiene nel libro, è da ritenersi in linea con un modello educativo “formativo” che ha trasformato l’istituzione scolastica in una fabbrica di allievi preformanti, di “risorse umane”. Tali strumenti valutativi, continua Codello, pretenderebbero di misurare ciò che in realtà non è misurabile,

si propongono di dare un valore quantitativo a una qualità. La competenza è infatti quella capacità tutta personale di tradurre concretamente in un contesto specifico le proprie abilità e conoscenze. Pertanto, non può essere misurata quantitativamente ma solo qualitativamente, poiché dipende da un insieme di fattori che esigono continue verifiche nella pratica. La competenza dunque definisce la capacità di portare a termine una funzione, un insieme di compiti. Tradizionalmente, è vista come il risultato di una padronanza delle conoscenze acquisite, del saper-fare, dei comportamenti adeguati e delle esperienze pratiche. Ma dalla fine del XX secolo, questo buon senso ha lasciato il posto a una nuova interpretazione del termine “competenza”, che ora non significa più solo una somma di saperi efficaci, ma rimanda sempre più a una capacità astratta di mobilitare le proprie conoscenze (qualunque esse siano). Ciò che caratterizza l’approccio a queste nuove competenze, predominante a partire dagli anni Novanta, è che gli obiettivi educativi, più che a trasferire contenuti, mirano a conseguire una capacità di azione. Una competenza non è riducibile a specifici saperi, né a specifici saper-fare o comportamenti. Questi sono solo risorse che l’allievo non deve necessariamente possedere, ma che deve essere in grado di mobilitare, in un modo o nell’altro, per la realizzazione di un compito particolare. Queste nuove modalità valutative inducono perciò a insegnare solo ciò che è misurabile o che si ritiene tale. Quindi non solo condizionano le modalità di insegnamento e le didattiche che ne conseguono, ma soprattutto plasmano e rendono validi solo alcuni modi di apprendere […] Questo fenomeno sta producendo l’insegnamento dell’ignoranza, depauperando i saperi, abbassando i livelli, svuotando di criticità i contenuti. Quello che è ormai divenuto una sorta di supermarket dell’istruzione, l’istituto scolastico, dà spazio a una didattica che produce segmentazione e meccanizzazione dell’apprendimento, attraverso una pratica valutativa standardizzata che si basa sul rispondere a domande (test) e che ha ormai rinunciato a stimolare la proposizione di domande e a mantenere acceso un pensiero critico e divergente (pp. 13-14).

Secondo Angélique del Rey, a partire dagli anni Duemila, nelle scuole in cui la valutazione tradizionale è stata affiancata da valutazioni che pretendono di individuare gli alunni “a rischio di fallimento scolastico” si è finito col predisporre la conformità occupazionale dei bambini sin dalla tenera età attraverso un registro personale delle competenze che «sempre più rimanda a patologie e handicap, nonché a una potenziale propensione criminale» (p. 18). Inoltre, continua Rey, dalla fine degli anni Ottanta la “logica della competenza” ha iniziato ad affiancarsi al sistema di valutazione basato sulle qualifiche proponendosi di sostituirsi presto. Tale nuova logica renderebbe la valutazione uno strumento centrale nella flessibilizzazione del lavoro inducendo a una “precarietà psicologica”. A partire dagli anni Ottanta, con l’avvento del New Public Management, dapprima nel mondo anglosassone, poi a livello pressoché globale, al posto della tradizionale modalità burocratica di valutazione basata sulla legittimità democratica e sul “controllo a posteriori”, è stata introdotta una “gestione delle prestazioni” ove la valutazione sarebbe riconducibile a “parametri di efficacia basati sul denaro”.

La tirannia delle nuove forme di valutazione si basa anche sulla loro presunta oggettività. Benché tendano a imporsi sulla totalità della vita individuale e sociale, danno di sé un’immagine ben diversa da quella di un potere: si presentano cioè come una semplice “informazione”, se non come un discorso di… verità. E con l’avanzare delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il giudizio di valore presente in ogni valutazione tende a svanire dietro l’impostazione automatica di una misura… autoreferenziale: se un blog o un sito web riceve molti “mi piace”, vuol dire che è di buona qualità e merita di essere frequentato (p. 20).

Le critiche rivolte alla valutazione tendenzialmente vengono percepite come irresponsabili perché, sostiene Rey, il presupposto implicito è che la valutazione, nel duplice significato di conoscenza e di giudizio, sia un prerequisito di ogni scelta razionale, dunque non è ragionevolmente possibile dirsi contro. Il problema, continua l’autrice, non consiste nell’essere pro o contro la valutazione in generale; occorre piuttosto comprendere come si sia prodotto un tale degrado della vita sociale che ha condotto a curare, educare, lavorare sempre peggio e con maggior sofferenza. «Le nuove forme di valutazione hanno l’intento di “ottimizzare” il “capitale umano” e l’azione pubblica, ma chiaramente ottengono il risultato opposto» (p. 21). Occorrerebbe allora chiedersi perché la valutazione abbia finito col produrre una caricatura della meritocrazia, dell’efficienza e dell’oggettività. Si dovrebbe comprendere come l’ideologia della valutazione abbia finito col creare identificazione, “servitù volontaria”, tra gli individui.

L’intero discorso portato avanti da Rey nel suo libro si fonda sulla convinzione che «la vera problematicità delle nuove forme di valutazione, più che sulla loro illegittimità (che pure sussiste), sta nell’incapacità di rispettare i processi che sono all’origine di ogni vitalità sociale» (pp. 21-22). Secondo l’autrice il razionalismo valutatore contemporaneo

rivela un processo di “deterritorializzazione” della misura e del giudizio insiti nella valutazione. Questo processo è un risultato di ungo periodo, ma se da tempo, e oggi più che mai, va incontro a una resistenza passiva (che tende per definizione a forzare), si pone allora la questione di comprendere se tale resistenza possa diventare attiva grazie a una riterritorializzazione delle pratiche di valutazione. È possibile che queste, riagganciandosi alla “situazione”, riacquistino significato ed efficacia? (p. 23).

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Strange Fruit https://www.carmillaonline.com/2017/10/22/strange-fruit/ Sun, 22 Oct 2017 19:12:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41257 di Alessandra Daniele

PD.jpgDurante le funeree celebrazioni per il decennale del PD, Renzi ha respinto con tono indignato l’accusa di fascismo, protestando ancora una volta la natura democratica e addirittura progressista del suo partito, che è sempre stato il principale rappresentante italiano dell’oligarchia politico-finanziaria che sta trascinando il pianeta alla rovina. Come dice anche la Bibbia, l’albero si riconosce dai frutti. E il sedicente centrosinistra italiano è un albero che produce strani frutti da sempre. Dalla Prima Repubblica, col consociativismo spartitorio DC-PCI e la cosiddetta solidarietà nazionale antiterrorismo che produsse le leggi speciali, alla Seconda Repubblica della definitiva fusione fra i resti di PCI e [...]]]> di Alessandra Daniele

PD.jpgDurante le funeree celebrazioni per il decennale del PD, Renzi ha respinto con tono indignato l’accusa di fascismo, protestando ancora una volta la natura democratica e addirittura progressista del suo partito, che è sempre stato il principale rappresentante italiano dell’oligarchia politico-finanziaria che sta trascinando il pianeta alla rovina.
Come dice anche la Bibbia, l’albero si riconosce dai frutti.
E il sedicente centrosinistra italiano è un albero che produce strani frutti da sempre. Dalla Prima Repubblica, col consociativismo spartitorio DC-PCI e la cosiddetta solidarietà nazionale antiterrorismo che produsse le leggi speciali, alla Seconda Repubblica della definitiva fusione fra i resti di PCI e DC.
Il primo governo Prodi fruttò la precarizzazione del lavoro con la legge Treu.
Il successivo governo D’Alema (colui che adesso si proclama l’ultimo strenuo difensore della sinistra) fruttò la criminale partecipazione dell’Italia alla guerra nella ex Jugoslavia, col bombardamento di Belgrado.
Negli ultimi sei anni nei quali è stato al governo con la destra berlusconiana, il PD ha proseguito l’operazione di sistematica cancellazione dei diritti dei lavoratori, tentando ripetutamente di smantellare la Costituzione antifascista, continuando a partecipare a tutte le guerre neocoloniali disponibili, e finanziando campi di concentramento per la Soluzione Finale del problema immigrazione.
Strani frutti. Gli stessi del pezzo blues di Billie Holiday Strange Fruit sulle vittime impiccate dei linciaggi razzisti.

Blood on the leaves and blood at the root
Black bodies swinging in the southern breeze

È questo il partito per il quale gli scissionisti da riporto dell’MDP si offrono di provare a recuperare una manciata di voti, in cambio d’una scodella sotto al tavolo dei vincitori.
Riverito ospite dalla Gruber, questa settimana Matteo Renzi ha insistito a definire il PD un partito di sinistra. Di tutte le cazzate che ha raccontato nella sua carriera, questa è la più grottesca.
Il Cazzaro ha fallito il compito che gli era stato affidato di liquidare la Costituzione, e ora lo stesso establishment che aveva orchestrato la sua ascesa sta cercando di sostituirlo col più efficiente duo Gentiloni-Minniti. La rissa in Viscoteca Bankitalia che imbarazza il governo è quindi uno scontro tutto interno al sistema di potere rappresentato dal PD, e chiunque lo vincerà a perdere saremo noi.
E continueremo a perdere, finché l’albero degli impiccati non sarà finalmente abbattuto.

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Madri assassine, responsabilità sociali e strategie di distrazione di massa https://www.carmillaonline.com/2017/02/09/36152/ Wed, 08 Feb 2017 23:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36152 di Gioacchino Toni

COVER_fariello-madri-assassineSara Fariello, Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post-patriarcato, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2016, pp. 106, € 8,00

Madri assassine di Sara Fariello affronta la questione del figlicidio mettendo in evidenza come, al di là della morbosa attenzione dell’opinione pubblica alimentata dai media, i processi di stigmatizzazione e di criminalizzazione della donna nel ruolo di madre assassina risultino «funzionali al mantenimento e al rafforzamento di un sistema che, da un lato, smantella il Welfare e le garanzie a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici e, dall’altro, tende ancora – o di [...]]]> di Gioacchino Toni

COVER_fariello-madri-assassineSara Fariello, Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post-patriarcato, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2016, pp. 106, € 8,00

Madri assassine di Sara Fariello affronta la questione del figlicidio mettendo in evidenza come, al di là della morbosa attenzione dell’opinione pubblica alimentata dai media, i processi di stigmatizzazione e di criminalizzazione della donna nel ruolo di madre assassina risultino «funzionali al mantenimento e al rafforzamento di un sistema che, da un lato, smantella il Welfare e le garanzie a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici e, dall’altro, tende ancora – o di nuovo – ad estromettere le donne da alcuni ambiti per relegarle, dopo i movimenti di liberazione ed emancipazione degli anni ’70, nel ruolo di “buone madri”» (p. 11).

Nel saggio i figlicidi vengono affrontati con un’ottica sociologica che sposta lo sguardo dalla prospettiva individuale di ogni singola figlicida alla società ed alle sue responsabilità. «I figlicidi rappresentano qui solo un “pretesto” per parlare di soggettività femminili, crisi del Welfare e diritti negati in un’epoca che stiamo imparando a definire “post-patriarcale” o “neo-patriarcale”» (p. 13). Con il termine “post-patriarcale” la studiosa fa riferimento ad un contesto trasformato dalle conquiste e dalle libertà femminili che permettono alle donne di accedere alla sfera pubblica ed al mondo del lavoro, mentre con il termine “neo-patriarcale” si riferisce al ritorno del patriarcato sotto nuove spoglie. «La femminilizzazione del mondo del lavoro e dello spazio pubblico, infatti, non corrisponde ad un reale rafforzamento del ruolo della donna, ma ad un’ulteriore fase del processo di sfruttamento delle risorse femminili, operato da un sistema che alterna vecchi registri misogini alla capacità di appropriarsi delle abilità femminili per piegarlo ai suoi fini. In questo contesto, la libertà femminile diventa una nuova forma di schiavitù rispetto ai valori consumistici del neo-liberismo e rispetto ai dispositivi utilizzati per gestire pubblicamente le soggettività» (p. 13).

La studiosa si sofferma sulla distinzione tra infanticidio e figliocidio. Nel primo caso ci si riferisce all’uccisione del neonato subito dopo il parto e se tale fenomeno in passato veniva legato a gravi situazioni di emarginazione, ignoranza e precarietà economica, oggi, nelle società occidentali, tende ad essere letto come reato commesso dalle giovani madri, spesso non sposate che presentano fenomeni di “negazione della maternità” tanto che il parto sovente giunge del tutto inaspettato. L’infanticidio in alcune società antiche è incoraggiato dai valori culturali e dalla legislazione. Il figlicidio rappresenta invece, per certi versi, un caso più complesso ed avviene solitamente dopo il primo anno di età, quando tra madre e figlio si è già stabilita una precisa relazione di affetto ed accudimento.

«La tendenza ad attribuire alla donna che uccide i propri figli delle limitate capacità mentali […] non è solo propria del discorso giuridico ma, più in generale, riguarda il modo “comune” di accostarsi al fenomeno, ed è questo forse il motivo per cui la tematica in questione è stata sempre studiata e analizzata dal punto di vista della psichiatria e della criminologia. Si tratta di un discorso stereotipato, fondato su una rappresentazione culturale della donna che la vede completamente incapace di uccidere e di esprimere una tale violenza fisica se non per cause psicopatologiche. Sembra sia questo l’unico modo di reagire allo sgomento provocato dall’irruzione nel nostro immaginario, che tende ad attribuire alla maternità un valore assoluto, di immagini di violenza e di brutalità sui propri bambini da parte di donne in apparenza “normali”» (p. 24).

Tale tipo di omicidio non può essere spiegato ricorrendo all’idea che sia determinato dalla “pazzia” o da un “raptus”. Solitamente il figlicidio è preceduto da situazioni ricorrenti che, soprattutto in Italia, sembrano scarsamente ricevere la giusta attenzione da parte non solo di medici ed assistenti sociali ma anche, e soprattutto, della famiglia. Esiste una “responsabilità sociale” alla base di tali tragedie che, secondo la studiosa, è stata sino ad ora scarsamente indagata e troppo spesso si sorvolano le responsabilità di politiche che stanno progressivamente smantellando il Welfare. La precarizzazione dei rapporti di lavoro e la mancanza di reti sociali solidali rendono la vita delle donne-madri particolarmente difficile. «Esistono forse oggi condizioni sociali che favoriscono l’esplosione della tragedia: molte giovani coppie entrano in crisi proprio con l’arrivo del primo figlio poiché la trasformazione dei ritmi e delle abitudini di vita che la nascita di un bambino provoca – perdita dell’intimità e del tempo libero, cambiamenti legati alla sfera psico-fisica – s’intrecciano a condizioni di difficoltà economica e precarietà occupazionale» (p. 31). Inoltre, sottolinea la studiosa, la maternità acuisce l’ineguaglianza all’interno della coppia.

Pur avendo perso smalto rispetto al passato, la “mistica della maternità” fatica ad essere considerata parte delle grandi costruzioni politiche e culturali della “civiltà dell’uomo”. Secondo la studiosa per riportare l’infanticidio alla “normalità” occorre che questo sia contestualizzato all’interno delle trasformazioni della vita privata e pubblica ed occorre indagare la percezione che una donna ha di se stessa e del mondo. È forse possibile immaginare che nelle madri-assassine si manifestino i segnali di una società in profonda crisi: «un senso di soffocamento all’interno di contesti familiari e sociali frustranti, di meccanismi percepiti come privi di senso come terribilmente vincolanti delle aspirazioni personali; inoltre, un vivo senso d’inadeguatezza rispetto a ruoli sempre più performanti, nella vita professionale come in quella affettiva. Una società, basata ancora sulla divisione sessuale dei ruoli, in cui non è prevista nessuna responsabilità o modalità collettiva per il soddisfacimento (non alienante) dei bisogni, ma che ha (ri)collocato tale soddisfacimento all’interno dei rapporti affettivi più importanti: dentro e fuori la famiglia, alla donna viene chiesto di soddisfare e riconoscere il bisogno altrui, vecchi, malati, bambini e maschi adulti, nella misura in cui le si impedisce di riconoscere il proprio. Viviamo d’altronde in una fase storica e sociale nella quale le donne sono continuamente sotto pressione in casa come nel mondo del lavoro: da un lato, esse sono un “bacino strategico” per il capitalismo flessibile e cognitivo che “mette a valore” le attitudini comunicative, relazionali e di cura che si considerano tradizionalmente “femminili” in ragione del loro ruolo riproduttivo, dall’altro esse vivono e sperimentano condizioni di precarietà sempre peggiori […] Di fronte alle “richieste” sempre più pressanti di un sistema economico e lavorativo che pretende partecipazione, disponibilità infinita di tempo e risorse, anche in assenza delle tutele minime, le donne sono spesso costrette a indietreggiare per poter preservare la sfera privata degli affetti» (pp. 38-39).

Fariello, dopo aver spiegato come il “post-patriarcato” contemporaneo sia caratterizzato da un “patriarchismo di ritorno” che determina una “maternità intrappolata dal politicamente corretto”, nel Secondo capitolo del saggio passa in rassegna la figura della madre nella riflessione femminista a partire dalle considerazioni di Simone de Beauvoir di metà Novecento, passando per il pensiero della differenza, sino ad affrontare le proposte che mettono in discussione l’idea di una soggettività femminile unitaria e che vedono la costruzione sociale e discorsiva dell’identità soggettiva come il risultato della combinazione del “genere” con altri assi di differenza (razza, classe sociale, orientamento sessuale…).

modello femminile 005Nel Terzo capitolo vengono analizzati i “Processi di stigmatizzazione nella società sessista”. A lungo le teorie sulla delinquenza hanno ragionato sul divario tra il tasso di delinquenza maschile e quello femminile a partire dalla subalternità sociale femminile e dalla presunzione di un’inferiorità biologica ed intellettuale della donna giungendo così, di fatto, a concepire le donne come “naturalmente incapaci di condotte autonome”, dunque anche di atti di devianza. Nelle teorie della criminalità femminile elaborate nel corso degli anni Settanta del Novecento, si individua nel “genere” una variabile per comprendere la devianza e l’aumentata propensione delle donne all’atto criminale viene ricollegato al processo di emancipazione femminile: sarebbe l’accesso della donna a ruoli in società solitamente maschili a comportare un suo maggior coinvolgimento in attività illecite.

Dunque, sostiene Fariello, «se volessimo leggere il probabile aumento dei reati legati al figlicidio materno all’interno di tali prospettive teoriche, potremmo affermare che il motivo per il quale le donne compiono reati strettamente legati alla propria condizione biologica è che esse sono sostanzialmente relegate in un ambito familiare; se, al contrario, fossero maggiormente coinvolte nella società e occupassero posizioni rilevanti anche nel mondo del lavoro, con ogni probabilità commetterebbero più crimini tradizionalmente “maschili” quali la frode, i furti, la truffa o i reati dei “colletti bianchi”. È, dunque, proprio l’ambito familiare, lo scenario d’elezione del crimine femminile in ragione del “ruolo” assegnato alla donna nell’ambito della vita domestica: essa è, da un lato, vittima della violenza maschile, e dall’altro, artefice di altre violenze» (pp. 80-81).

Il femminismo radicale «sottolinea l’importanza dei meccanismi di “costruzione” sociale della devianza occupandosi dei modi in cui il sistema economico capitalista favorisce e produce l’oggetto “criminalità” attraverso la creazione di una società maschilista e patriarcale caratterizzata dal dominio degli uomini sulle donne (qui, dunque, l’aspetto del crimine scivola in secondo piano). Il maschilismo definisce il valore di una donna in relazione alla famiglia e conferisce agli uomini il controllo sulla riproduzione. In questa prospettiva, la liberazione delle donne dal dominio maschile, attraverso l’acquisizione di nuove consapevolezze e il controllo sul proprio corpo, non provocherebbe un aumento dei tassi di criminalità femminile ma, al contrario, faciliterebbe sia la riduzione dei reati commessi dalle donne, sia un calo della violenza maschile sulle donne. Di conseguenza, è possibile ipotizzare che anche i reati di “figlicidio”, così come quelli di “femminicidio”, tenderebbero a diminuire se le relazioni sociali e familiari si ristrutturassero intorno ad un modello diverso» (p. 83).

Statisticamente i crimini commessi dalle donne sono soprattutto contro il patrimonio e ben raramente si tratta di omicidi. Nonostante ciò i delitti “al femminile” che ottengono le prime pagine dei giornali e la ribalta televisiva sono quelli contro la persona, in tal modo «viene confermato e si riproduce lo stereotipo culturale (nel quale si riflettono gli assunti della criminologia positivista e delle teorie biologiche) che rappresenta la donna come un essere incapace di violenza e, nel caso di devianza, come biologicamente anormale, come una “malata” o una “pazza” da curare o allontanare dalla società» (p. 86).

Fariello sottolinea come «gran parte dei figlicidi sembra essere compiuto dai padri, ma tali delitti vengono spesso classificati come stragi familiari o suicidi allargati poiché gli uomini uccidono spesso, insieme ai figli, anche le proprie mogli e compagne. Gli omicidi in famiglia, cioè, sono equamente distribuiti tra uomini e donne e quindi non è vera l’affermazione per la quale le madri uccidono di più. La differenza è che i padri tendono ad uccidere figli più grandi a causa dei contrasti e dei conflitti familiari. Uccidono di meno i bimbi piccoli perché hanno un ruolo diverso da quello delle madri e non li percepiscono come una propaggine di se stessi, una parte da eliminare» (pp. 86-87). Perché allora non esiste la figura del “padre assassino”? Perché l’uccisione di un figlio da parte di un padre non provoca lo stesso stupore che si riscontra quando è una madre ad uccidere?

La parte conclusiva del saggio è in buona parte dedicata alle modalità con cui i media affrontano i casi di “madri assassine” ed a tal proposito la studiosa insiste sul ruolo di “distrazione di massa” svolta soprattutto dal mezzo televisivo. «È come se la “televisione del crimine” – c’è chi ha parlato di “televisione assassina”– sostituisse la televisione dell’informazione e dell’inchiesta sociale, dal momento che si riducono gli spazi concessi ad altri tipi di notizie, come quelle riguardanti la crisi economica. In altri termini si potrebbe affermare che la “questione criminale” soppianta la “questione sociale” anche nelle dinamiche mass-mediatiche delle società post-fordiste. L’ipotesi che si fa strada è che questi meccanismi non rispondano solo ad esigenze di “commercializzazione”, ma siano utilizzati anche per orientare l’attenzione dell’opinione pubblica in un senso piuttosto che in un altro, con modalità e tecniche discorsive che “distraggono” i cittadini-telespettatori e che, spesso, confondono le idee» (p. 89).

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Antropomorfosi del capitale https://www.carmillaonline.com/2015/03/20/antropomorfosi-del-capitale/ Thu, 19 Mar 2015 23:01:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21424 di Sandro Moiso

biolavoroMelinda Cooper e Catherine Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi 2015, pp. 254, € 18,00

Difficilmente Marx, quando scrisse le sue pagine sulla sussunzione reale di tutti i processi di produzione e valorizzazione delle merci all’interno del capitale e, quindi, della sua completa appropriazione di ogni attività umana,1 avrebbe potuto immaginare che si potesse giungere alla situazione affrontata dalla ricerca di Melinda Cooper e Catherine Waldby.

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di Sandro Moiso

biolavoroMelinda Cooper e Catherine Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi 2015, pp. 254, € 18,00

Difficilmente Marx, quando scrisse le sue pagine sulla sussunzione reale di tutti i processi di produzione e valorizzazione delle merci all’interno del capitale e, quindi, della sua completa appropriazione di ogni attività umana,1 avrebbe potuto immaginare che si potesse giungere alla situazione affrontata dalla ricerca di Melinda Cooper e Catherine Waldby.

Un testo importante che induce, necessariamente, a rivedere gran parte della storia del lavoro in regime capitalistico e delle strategie messe in atto per mantenere nelle mani del capitale il comando sulla forza-lavoro, anche laddove si siano rese necessarie delle riforme “democratiche” per la sua gestione.

Una ricerca che, guarda caso, ha avuto modo di svilupparsi a partire dal mondo anglo-sassone, in cui il pragmatismo degli obiettivi da raggiungere impone il superamento dell’attività meramente speculativa e permette, perciò, di conseguire risultati concreti nella ridefinizione dei nuovi contesti operativi con cui l’antagonismo sociale si trova oggi a fare i conti. Svolta a partire dall’ambiente universitario di Sidney che ha aiutato significativamente, anche dal punto di vista economico, le due autrici, come le stesse tendono a precisare fin dai ringraziamenti.

Melinda Cooper, docente presso il dipartimento di politiche sociali dell’Università di Sidney, e Catherine Waldby, professoressa presso l’Academy of Social Sciences of Australia e direttrice del Biopolitics of Science Research Network presso la stessa Università, fin dalle prime pagine focalizzano la loro attenzione sul lavoro clinico di coloro che prestano i propri tessuti, i propri corpi e il proprio liquido seminale a quella moderna branca dell’investimento capitalistico che passa sotto il nome di bioeconomia, di cui le ricerche e i prodotti del settore biomedico rappresentano uno dei settori di punta.

Settore nei confronti del quale “negli ultimi anni si è infatti formata un’ingente mole di opere sul lavoro cognitivo specializzato degli scienziati e sulla sua centralità nell’economia della conoscenza” mentre, allo stesso tempo, “la questione del lavoro di coloro che forniscono «in vivo» i materiali essenziali alla sperimentazione clinica e la questione dei tessuti – di chi li mette a disposizione – in nessun luogo sono state analizzate nei termini di un vero e proprio lavoro” (pag. 21)

Lavoro che, in ultima istanza e come ben dimostra il testo, sembra porsi come l’ultima frontiera dello sfruttamento fisico. Dallo sfruttamento della forza-lavoro allo sfruttamento del corpo tout court, in una dimensione ancora diversa da quella del corpo sfruttato a servizio delle schiavitù sessuali e della prostituzione. Sfruttamento che, in entrambi i casi, richiede un abbassamento dei costi di riproduzione della forza lavoro o dei corpi impegnati nelle varie mansioni.

Uno sfruttamento che vede poi, ancora una volta, al suo centro la donna e il suo corpo e in cui la diversità di genere o di “etnia” diventa determinante proprio ai fini del contenimento dei costi.
Uno sfruttamento in cui, capitale variabile e capitale costante, lavoro morto e lavoro vivo finiscono col coincidere nel corpo e/o sul corpo dello stesso essere umano, facendo sì che il capitale finisca non soltanto con l’essere il motivo dello sfruttamento, ma anche col fondersi con l’oggetto stesso dello sfruttamento e della produzione, portando a compimento definitivo quell’assunto di Marx contenuto nel “Capitolo VI inedito” per cui “lo sviluppo della ricchezza cosale avviene in opposizione e a spese dell’individuo umano”.2

Si potrebbe dire, a lettura ultimata, a spese, ancora una volta, dell’intera specie umana che si vede potenzialmente deprivata di quella che costituisce la caratteristica peculiare di tutte le specie viventi: quella di riprodursi liberamente. Mentre oggi, per le fasce meno garantite della popolazione, la riproduzione, oltre ad essere diventata un improbabile lusso, si è trasformata in una sorta di sfruttamento, ai fini della valorizzazione capitalistica, delle proprietà fisiologiche degli individui.

In tale contesto, anche se il mercato dei servizi di carattere biologico-riproduttivo è certamente molto più ristretto di quello tradizionale dei beni di consumo su scala planetaria, ciò che conviene maggiormente dal punto di vista dell’investimento e della speculazione finanziaria è legato proprio alla sproporzione tra il costo effettivo del lavoro-clinico e le plusvalenze realizzate a partire dal suo sfruttamento. Ma, per giungere a tali sviluppi del processo di valorizzazione, si è reso necessario giungere ad una totale precarizzazione ed esternalizzazione dei rapporti di lavoro.

Da quando la produzione taylorista di massa ha raggiunto i propri limiti di redditività durante gli anni settanta, le aziende si sono mosse alla ricerca di alternative flessibili al suo diffuso assetto di organizzazione verticale, basato su una forza lavoro impiegata in modo permanente e a tempo pieno su scala nazionale. L’esternalizzazione implica una serie di strategie economiche: il subappalto, la cessione di segmenti non trascurabili di produzione a società terze; l’utilizzo di società di sevizi per adempiere alle funzioni necessarie a riprodurre il lavoro stesso (pulizia, ristorazione), […] la precarizzazione sistematica della forza lavoro. I posti a tempo pieno e indeterminato nelle aziende diventano sempre più residuali, così come settori sempre maggiori della forza lavoro vengono assegnati dalle agenzie di lavoro interinale. Assunti con contratti di lavoro part-time a tempo determinato o addirittura con contratti di lavoro a chiamata giornaliera e a ore.

Queste forme di lavoro non garantiscono certezza e continuità del reddito. Esse non godono neppure delle tutele legali che caratterizzano il contratto a tempo indeterminato, […] nessun diritto alla contrattazione sul luogo di lavoro. Le strategie di esternalizzazione hanno determinato l’imporsi di un’organizzazione flessibile e in rete del commercio «in cui le imprese trovano le risorse mancanti grazie all’abbondanza dei subappaltatori e di una forza-lavoro malleabile in termini di occupazione»” (pag. 45) Il che sintetizza abbastanza bene come il job act non costituisca tanto un «errore di percorso» nella normale dialettica tra capitale e lavoro mediata dallo Stato, quanto piuttosto un vero e proprio piano di ristrutturazione complessiva del lavoro e del suo costo nell’attuale fase di crisi del capitalismo occidentale.

Tanto più che “I rapporti flessibili che intercorrono tra datore di lavoro e lavoratore servono a ridurre i tempi di inattività nel processo di lavoro e trasferire l’incertezza delle fluttuazioni economiche dall’azienda alla forza-lavoro stessa. Se le regole di mercato per un determinato prodotto cambiano, l’azienda può assumere nuovi precari, licenziare i precedenti, senza termini di preavviso stabiliti per legge, con scarse restrizioni rispetto alla durata della loro giornata lavorativa. […] «Tutto ciò che non è direttamente produttivo è scartato in quanto tempo di non-lavoro, i costi di mantenimento della forza-lavoro vengono trasferiti ai lavoratori stessi»” così che “ il contratto di servizio senza interruzione, inteso come rapporto tra datore di lavoro e lavoratore definito per legge, può essere sostituito da un appalto di servizio, ovvero da un contratto commerciale a progetto per la fornitura di beni o servizi” (pag. 46)

Ed è proprio questa precarizzazione istituzionalizzata del lavoro che apre la strada al lavoro clinico di cui si parla nel testo: “quello di coloro che forniscono i materiali in vivo per il mercato della fertilità e partecipano alle sperimentazioni cliniche, […] organizzato, almeno negli Stati Uniti, come un appalto di sevizi, con particolari conseguenze per gli uomini e le donne che mettono a disposizione gameti e uteri per gli aspiranti genitori , così come per i soggetti che effettuano test clinici a contratto per conto delle organizzazioni di ricerca” (pag. 47)

Ma, come dimostra bene la ricerca di Cooper e Waldby, questa moderna riorganizzazione del lavoro affonda le sue radici in tempi non proprio recenti. In provvedimenti e strategie politiche ed economiche che sono servite a lasciare sempre una porta aperta alla possibilità di una ripresa del pieno comando capitalistico sul lavoro anche in periodi apparentemente più favorevoli ad un ampliamento dei diritti dei lavoratori.

Una di queste strategie è stata, per esempio, negli Stati Uniti quella della diversificazione dei livelli salariali e dei diritti dei lavoratori maschi bianchi rispetto a quelli delle lavoratrici donne e dei lavoratori afro-americani. In pieno New Deal infatti “la Social Security, legge approvata nel 1935, era «il solo e più importante atto in direzione della creazione di un welfare per gli Stati Uniti» eppure essa «selezionava e segmentava gli americani in base alla classe, classificando la popolazione in base a occupazione e status lavorativo. In aggiunta tale legge distingueva gli americani in base alla razza». Questi compromessi sociali hanno istituzionalizzato determinate gerarchie tra i diritti alle tutele sul lavoro e hanno valorizzato particolari forme di attività produttive. Esse hanno effettivamente protetto il corpo industriale maschio e bianco, dai rischi e dai pericoli connessi al luogo di lavoro caratteristico della produzione di massa, valorizzando una forma specifica di forza-lavoro […] Una netta distinzione di sfere evidente, se prendiamo in esame i tipi di lavoro che non rientrano nelle suddette tutele. Nel caso degli Stati Uniti, i provvedimenti della Fair Labor Standard non comprendevano la vendita al dettaglio, il lavoro agricolo, i servizi domestici, impieghi solitamente svolti da donne e afro-americani” (pag. 49)

Salta immediatamente all’occhio, per il lettore più attento, il paragone possibile tra quella situazione e quella creata anche dallo Statuto dei Lavoratori italiano, oggi allegramente mandato al macero, con le differenze che l’articolo 18 istituiva nei fatti tra lavoratori di serie A (grandi aziende), serie B (quelli delle aziende inferiori ai 15 dipendenti) e serie C (quelli dei contratti a termine, a chiamata o di scopo).

Ma non sono stati soltanto i contratti diversificati, anche in periodi di espansione economica e di lotte sociali, ad aver lasciato aperta la porta al ritorno trionfale del pieno comando capitalistico sul lavoro. C’è stata anche la teoria economica, in particolare quella della Scuola di Chicago.
I più accaniti sostenitori del lavoro esternalizzato sono i teorici del capitale umano della scuola di Chicago, i quali dalla fine degli anni Cinquanta hanno cominciato ad elaborare le fondamenta concettuali per la privatizzazione dei rapporti di lavoro e la contrattualizzazione dei «servizi biologici» che si sarebbe realizzata concretamente solo in seguito.
Il concetto di capitale umano è diventato sinonimo di tutto il lavoro economico, ed è in gran parte utilizzato per indicare la necessità di investire nel sociale, allo scopo di rendere la forza-lavoro sempre più ubbidiente e «flessibile», adattabile ad ogni tipo di mansione
” (pag. 53)

Il capitalismo post-fordista mette al lavoro la vita in sé, «superando la distinzione tra produzione e riproduzione» fino a costituire una nuova forma di «biolavoro». In queste condizioni ogni «teoria del valore-lavoro» deve intendersi come «una teoria del valore della vita» […] L’industria farmaceutica esige un numero sempre più elevato di soggetti per la sperimentazione, per rispondere all’imperativo dell’innovazione. Il mercato della riproduzione assistita continua ad espandersi, dal momento che sempre più persone vogliono avere un figlio proprio ricorrendo alle tecniche di fecondazione assistita o di maternità surrogata […] Le industrie delle scienze della vita si basano su un’ingente forza-lavoro ancora non riconosciuta, cui vengono richiesti servizi legati ad esperienze molto viscerali, come il consumo di farmaci in via di sperimentazione, la trasformazione ormonale, l’eiaculazione, l’estrazione di tessuti e la gestazione, con procedure biomediche più o meno invasive” (pp. 30-31)

Oggi l’industria farmaceutica trova i soggetti per le proprie ricerche[…] individuando nuove fonti di manodopera sperimentale nelle svariate forme di esposizione al rischio determinate dalle riforme neoliberiste di lavoro e Welfare. Oggi, le organizzazioni di ricerca a contratto reclutano abitualmente i soggetti di ricerca della fase I tra disoccupate/i, lavoratrici/ori a giornata, ex-detenute/i e migranti privi di documenti, proprio quel tipo di manodopera che quotidianamente sopporta le condizioni più pericolose e precarie di lavoro […] Nell’era post-fordista dell’informalizzazione generalizzata del lavoro, quella della sperimentazione clinica è la manodopera precaria per eccellenza, caratterizzata dalla «libertà» di assumersi rischi psico-fisici maggiori” (pag. 43)

Un’ultima citazione per chiudere il cerchio e prima di concludere: “Sorprende dunque che gli economisti della Scuola di Chicago e i teorici del diritto siano stati così veloci nell’anticipare la commercializzazione del biologico e nel sostenere la contrattualizzazione completa dei mercati dei tessuti umani. Richard posner e Richard Epstein, figure di spicco della Scuola di diritto ed economia, si sono impegnati per la piena applicaziobne dei contratti di maternità surrogata: Epstein si è spinto persino a raccomandare l’uso di strumenti contrattuali eccezionali […] allo scopo di far rispettare il trasferimento del figlio dalla madre surrogata ai suoi aspiranti genitori, mentre gary Becker ha sostenuto la necessità di ricorrere a incentivi monetari per aumentare la quantità di organi disponibili per trapianti, sia da donatori in vita che da cadaveri” (pp. 53-54)

Occorre fermarsi qui, anche se i dati di interesse e gli esempi contenuti nel testo sono ancora tantissimi e utilissimi. Il dato incontrovertibile è, però, che il capitale è entrato nei corpi e la lotta con la specie per la sua sopravvivenza passa oggi anche attraverso i corpi trasformati in macchine per la sperimentazione. Il capitale cerca di farsi natura e nel fare ciò la distrugge o, perlomeno, cerca di appropriarsene distruggendone le funzioni primarie di sopravvivenza e riproduzione.

Oggi si fa un gran parlare di procreazione assistita, come di una nuova frontiera del diritto e delle libertà individuali, ma intanto la natalità italiana è scesa al livello più basso dal 1861 e le statistiche ci dicono che a Brescia, per esempio, mediamente ogni donna ha un tasso di natalità di 0,8 figli. Negli anni della recinzione delle terre comuni e della espulsione dei piccoli contadini e dei braccianti dalle terre inglesi, nella seconda metà del Seicento, la natalità media delle famiglie diseredate era di 0,9 figli:3 il calo delle nascite non sarà forse allora collegato alla crisi economica, alla mancanza di risorse e alla devastazione ambientale? E l’appropriazione da parte di un segmento della società del diritto a riprodursi a discapito della stessa possibilità per il segmento più povero e meno garantito, non ci indica forse che la guerra definitiva tra capitale e lavoro e tra capitale e specie è appena cominciata? Per questo il libro di Cooper e Waldby può fornirci intanto un utile compendio per iniziare ad orientarci nel conflitto già in atto.


  1. La questione è ampiamente riassunta e sviscerata in Jacques Camatte, Il capitale totale. Il «capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica, Dedalo libri 1976  

  2. Giovanni Dettori – Nicomede Folar, Nota sulla traduzione a J.Camatte, op.cit, pag. 7  

  3. Si confronti Wally Seccombe, Le trasformazioni della famiglia nell’Europa Nord-Occidentale. Mille anni di storia tra feudalesimo e capitalismo, La Nuova Italia 1997  

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