Pop – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il paradigma Bordiga e il paradigma Montanelli https://www.carmillaonline.com/2024/06/04/il-paradigma-bordiga-e-il-paradigma-montanelli/ Tue, 04 Jun 2024 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82110 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Evasioni. Spillane, Adorno, Cocco Bill e altre torte con la lima, Milieu edizioni, Milano 2024, pp. 240, euro 17,90

Per chi scrive è sempre un piacere recensire un nuovo testo oppure, come spesso capita, una nuova raccolta di testi di Diego Gabutti. Soprattutto in questo caso, visto che i primi dodici capitoli (su 32 complessivi che compongono l’opera) erano già comparsi su Carmilla on line nella serie “Esperienze estetiche fondamentali”.

E’ un piacere, infatti, occuparsi di un autore che ha fatto del rimescolamento “pop” della cultura alta e bassa del Novecento il suo tratto distintivo, sia [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Evasioni. Spillane, Adorno, Cocco Bill e altre torte con la lima, Milieu edizioni, Milano 2024, pp. 240, euro 17,90

Per chi scrive è sempre un piacere recensire un nuovo testo oppure, come spesso capita, una nuova raccolta di testi di Diego Gabutti. Soprattutto in questo caso, visto che i primi dodici capitoli (su 32 complessivi che compongono l’opera) erano già comparsi su Carmilla on line nella serie “Esperienze estetiche fondamentali”.

E’ un piacere, infatti, occuparsi di un autore che ha fatto del rimescolamento “pop” della cultura alta e bassa del Novecento il suo tratto distintivo, sia quando si tratti di recensire un libro oppure di intervenire, quasi sempre, in maniera leggera e intelligente su argomenti generali della politica e della società attuale. Elemento distintivo poiché, nonostante gli sforzi di rinnovamento messi in atto da molti media e intellettuali mainstream nei confronti di ambienti culturali che definire asfittici (a destra, a sinistra e al centro) è ancora soltanto un eufemismo, il presunto rinnovamento risulta essere quasi sempre di facciata, in super bonus 110% style, più simile ai classici “sepolcri imbiancati” e niente affatto paragonabile all’arguzia e alla vivacità dello sguardo del giornalista torinese.

In quest’ultima opera, per la prima volta insieme, sono presenti due cardini essenziali dell’universo gabuttiano: Amadeo Bordiga e Indro Montanelli. Due personaggi agli antipodi l’uno dall’altro, anche se entrambi appartenenti ad un’epoca decisamente ”altra” rispetto all’attuale, ma che si sono intrecciati, quasi ineluttabilmente, nel percorso culturale e di vita dell’autore.

Secondo la stessa testimonianza di Gabutti, infatti, Montanelli lo invitò a scrivere per la pagina culturale del Giornale proprio dopo aver letto il suo romanzo Un’avventura di Amadeo Bordiga, pubblicato per la prima volta nel 1982 dalle edizioni Longanesi e più recentemente riproposto proprio da Milieu (2019). E ad entrambi dedica pagine in qualche modo riconoscenti e critiche allo stesso tempo; una critica che, però, è comunque stemperata da un certo grado di ammirazione per la capacità di tutti e due gli autori di creare propri universi narrativi e un proprio linguaggio (storico, politico o giornalistico non importa) capace di dar vita a fantasmagorie letterarie capaci di raccontare la realtà superandola oppure, come capita spesso, semplicemente accantonandola.

Bordiga e Montanelli, circondati da un universo pop-politico-letterario che soltanto nelle pagine di Gabutti si può ritrovare, in mezzo a personaggi (veri e immaginari) come Pecos Bill, Lemmy Caution, André Malraux, Philip José Farmer, Theodor Adorno, Tex Willer, Léo Malet, Jorge Luis Borges e così via (chi più ne ha, più ne metta), appaiono comunque come due maestri di scrittura per il nostro. Nonostante le loro cattive frequentazioni politiche, a giudizio dell’autore: il comunismo novecentesco per il primo e il fascismo storico per il secondo.

Bordiga, che viene prima di Montanelli nell’indice (da pagina 110 a 116 l’uno e da pagina 163 a 170 l’altro):

Come Frank Kane, di cui abbiamo parlato all’inizio, e come altri vecchi autori di pulp, è stato dimenticato, insieme ai suoi personaggi ricorrenti, gli eroi e i villain, le dark ladies: Lenin, Engels e Marx, Gramsci, il proletariato, la Storia, il capitale, la rivoluzione socialista. Come Lester Dent, che aveva per eroe Doc Savage, l’«uomo di bronzo», fisico da culturista e Q.I. einsteiniano, anche Bordiga aveva il suo eroe mascherato: il partito storico, o per cosi dire The Masked Historical Party, oggi negletto.
Con “partito”, in altri pulp dell’epoca, s’intendeva un eroe collettivo, o meglio corale: non un singolo vigilante ma un’intera folla di raddrizzatorti e di “spaccaculi”, talvolta vere e proprie moltitudini, come nella Cina della Rivoluzione culturale e nelle scene di massa dei Dieci comandamenti di Cecil B. De Mille. Molto più in grande, Bordiga con “partito” intendeva una persona sola, se stesso, e se aggiungeva storico non era per snobismo o per smania di grandezza, benché ci fosse in questo anche un po’ di presunzione e di snobismo, ma per illustrare meglio il concetto: l’eroe dei pulp – spiegazzato, malpagato, solitario, disprezzato, preso a pacchere dagli sbirri e a revolverate dai criminali, mai una stabile relazione amorosa ma giusto un inguacchio ogni tanto, e generalmente per pieta – e non di meno il solo a sapere che cosa sono, nella sostanza, Legge e Giustizia. E il solo a prendersene carico, il solo a conservarne la memoria1.

Una volta servito e liquidato il sogno del comunismo novecentesco, con le sue pretese anticipatorie e le sue risolutive e “scientifiche” indicazioni che non sono, però, mai andate definitivamente in porto nel corso degli esperimenti insurrezionali, Gabutti analizza i tratti del comunista scrittore e la sua intrinseca originalità linguistica.

Gli altri dimenticavano, o se ne fottevano, e talvolta lo ignoravano, oppure fraintendevano quel che c’era in gioco, ma Bordiga scriveva storie che ribadivano quelle che lui, raramente accigliato, sempre uno sberleffo sulla punta della penna, chiamava con allegra serietà le Leggi della Storia: due parole chiave che si lasciava sciogliere in bocca come cioccolatini. Gli davano del «teorico», ma naturalmente non lo era. Era un romanziere, specializzato in storie d’avventura, non diversamente da Dan Barry e Rafael Sabatini. […] Circondato da vecchi e giovani “compagni”, come si chiamavano tra loro, il vecchio trottatore era gentile con tutti, fingeva d’ascoltare con interesse tutte le opinioni, non rifiutava un caffè quando uno dei ragazzi glielo offriva in un bar di Spaccanapoli o di Via Chiaia, talvolta li riceveva in casa [e] costoro erano i principali (diciamo pure gli unici) lettori delle sue storie. Ne erano ispirati come i fan dei Marvel Studios dall’ultimo blockbuster.
Si dicevano l’un l’altro che le storie di Amadeo Bordiga erano la chiave per comprendere gli eventi passati e prevedere quelli futuri. [Ma] Sapevano o almeno sospettavano che il “bordighismo” era un noir, non una dottrina, e che non basta dichiararsi ortodossi per scansare l’eresia. Bordiga li teneva sotto incantesimo. Sedeva davanti a un’Olivetti 22 nella sua bella casa napoletana vistamare e lì inventava le sue storie hard boiled. Scritte in ameno slang partenopeo-marxista, non erano importanti per “cosa” dicevano, come la saggistica barbosa che circolava quando io m’imbattei in un’opera bordighista per la prima volta, ma per come lo dicevano. Sembrava di leggere i romanzi gialli di Carlo Manzoni, compare di Giovannino Guareschi al «Candido» dei tempi d’oro: Che pioggia di sberle, bambola, Un calcio di rigor sul tuo bel muso, Ti spacco il muso, bimba2.

Personaggio talmente “pulp” da far sì, come si è già detto prima, Gabutti abbia dedicato proprio a Bordiga e alle sua avventure il suo primo e più riuscito romanzo. In un vortice di avventure, circondato da personaggi veri e inventati (dall’ammiraglio Canaris a Nero Wolfe), Amadeo, in arte Bordiga, arriverà a confrontarsi con il villain per eccellenza, Josif Stalin, in occasione del Sesto esecutivo allargato dell’Internazionale Comunista, che lascerà come un autentico eroe alla Clint Eastwood oppure alla Bruce Willis in Last Man Standing, dopo aver sconfitto e sbeffeggiato (almeno a parole) il futuro massacratore di comunisti “eretici”.

Ma se Bordiga era, secondo l’autore, importante per il suo saper inventare un linguaggio nuovo (e spesso ironico) per narrare storie che altrimenti sarebbero risultate trite e ritrite, Montanelli invece è apprezzato come autentico inventore di storie e notizie.

Montanelli sapeva raccontare le storie. Non era un pensatore originale né un filosofo e le sue analisi politiche, sempre improntate a buon senso e prudenza, non erano mai particolarmente brillanti. Ma erano ben raccontate, perché Montanelli non soltanto sapeva raccontare le storie ma sapeva trasformare qualunque cosa, anche un ragionamento poco azzeccato e pomposo, in una storia interessante. Una delle cose che mi svelò quando, per un po’, lavorai per lui al Giornale e qualche volta ci capitava di passeggiare e conversare, fu che il giornalismo è fabula, mito, rappresentazione, racconto.
[…] Questo per dire di che materia erano fatti i suoi Incontri e che idea si fosse fatto della Storia d’Italia, la sua più lunga e duratura infilata di best seller. E anche per dire, più in generale, quale precisamente o meglio imprecisamente fosse il rapporto con la realtà del giornalismo classico […]. Non c’è mai stato altro modo di riprodurre la realtà che quello di sceneggiarla e poi metterla in scena, elevandola a racconto drammatico, oppure comico, spesso (ahinoi) disgraziatamente tragico, e trasformandola in pettegolezzo, retroscena, cronaca desnuda della vita privata dei vip, diffamazione o apologia. Non accade per una particolare attitudine del giornalismo alla diffusione di tarocchi e moralismi e lezioncine da terza elementare. C’è anche questo, naturalmente, o non si spiegherebbe il giornalismo italiano degli ultimi trent’anni, dalle storpiature del Fatto quotidiano al tono greve e impettito delle cazzullate. Ma all’origine della fabula c’è in primis la Musa che orienta e ispira le gazzette: una Musa letteraria, che sparge virgolettati nelle cronache e aggiunge descrizioni vivaci e sintetiche al plumbeo succedersi delle osservazioni seriose e delle smorfiose battute di spirito. Fabula, metafora; il resto e insulsaggine.
Per capirci: Moby Dick è una storia, un romanzo, per di più con tratti biblici e metafisici, ma il Capitano Achab, con la sua fiocina, arpiona la realtà e rende conto, sceneggiandola, della condizione umana. […] Idem la Storia d’Italia di Montanelli, tutta aneddoti, in gran parte fantastici. Idem, soprattutto, i suoi Incontri, che stanno alle gesta del giornalismo italiano come Mondo piccolo, di Giovannino Guareschi, e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di Carlo Emilio Gadda, alla storia della letteratura nazionale: evergreen, opere destinate a durare. Personalmente, alle eccellenza di Gadda, Guareschi e Montanelli, aggiungerei anche i fumetti di Benito Jacovitti, Cocco Bill in testa, e il comunismo a tre piste, con clown e funamboli, d’Amadeo Bordiga, marxista buontempone 3.

Et voilà, eccola qui, la capacità di raccontare storie come arte suprema, destinata a fondare miti, narrazioni in grado di sfrondare l’esistenza umana dalle derive ideologiche e riportarla alla sua essenza: quella di condividere storie e prospettive (per quanto inventate). La Storia, con la S maiuscola, come insieme di storie e il giornalismo come narrazione di fatti non “veri”, ma verosimili (come avrebbe detto un altro Manzoni, quello degli sposi promessi).

E questa visione, in cui sono i grandi affabulatori ad esercitare il loro fascino su Gabutti4, a rendere credibile la visione della Storia come fabula che difende da tempo. Una storia in cui tutto è caduco, soprattutto gran parte delle ideologie novecentesche come quelle, opposte, rappresentate da Montanelli e Bordiga. Peccato, però, che ancora una volta, con fascismo e comunismo, l’autore si dimentichi di seppellire anche l’altra faccia della medaglia di entrambi, forse ancor più caduca e provata dal tempo: il liberalismo, sempre e soltanto presunto, democratico.


  1. Amadeo Bordiga in D. Gabutti, Evasioni. Spillane, Adorno, Cocco Bill e altre torte con la lima, Milieu edizioni, Milano 2024, p. 110.  

  2. Ivi, pp. 110-111. 

  3. Indro Montanelli in D. Gabutti, op. cit., pp. 163-164.  

  4. Ma anche sul sottoscritto che, per esempio, ha sempre apprezzato le cronache montanelliane, all’epoca ritenute impubblicabili dal «Corriere della sera», dell’insurrezione ungherese del 1956 (I. Montanelli, La sublime pazzia della rivolta. L’insurrezione ungherese del 1956, Rizzoli Editore, Milano 2006) che costituiscono ancora, nonostante siano rimaste inedite per cinquant’anni, il miglior reportage italiano su quei giorni di rivolta, sangue e speranza.  

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Variazioni pop nell’Interzona https://www.carmillaonline.com/2024/05/18/variazioni-pop-nellinterzona/ Sat, 18 May 2024 20:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82567 di Franco Pezzini

Hilary Tiscione, Setole, pp. 289, € 16, Polidoro, Napoli 2024.

Enrico Sibilla, Nero celeste, pp. 329, € 18, Polidoro, Napoli 2024.

Il manifesto reca l’immagine di una donna seduta, un libro aperto in grembo: con la destra regge gli occhiali, nelle cui lenti si vedono però gli occhi – che in parallelo sono spariti dal volto come per avvicinarsi di più al libro. Intorno alla signora galleggiano nuvole con figurine intente a leggere, ma soprattutto la sua testa è coronata a mo’ di aureola da una fantasia multicolore. La dicitura sulla sinistra è “Vita immaginaria”: un tema vastissimo [...]]]> di Franco Pezzini

Hilary Tiscione, Setole, pp. 289, € 16, Polidoro, Napoli 2024.

Enrico Sibilla, Nero celeste, pp. 329, € 18, Polidoro, Napoli 2024.

Il manifesto reca l’immagine di una donna seduta, un libro aperto in grembo: con la destra regge gli occhiali, nelle cui lenti si vedono però gli occhi – che in parallelo sono spariti dal volto come per avvicinarsi di più al libro. Intorno alla signora galleggiano nuvole con figurine intente a leggere, ma soprattutto la sua testa è coronata a mo’ di aureola da una fantasia multicolore. La dicitura sulla sinistra è “Vita immaginaria”: un tema vastissimo per la XXXVI edizione del Salone del Libro, che in quel nimbo attorno al capo della lettrice evoca non solo le infinite vite vicarie offerteci dai libri, ma lo scarto tra la realtà sfuggente che siamo e i personaggi che in forma diversa ci rifrangono (personaggi nostri se scriviamo, o figure prestavolto delle nostre letture), e in generale un po’ tutta l’autofiction che ogni essere umano riserva quasi inevitabilmente a se stesso. Se l’uomo è (dice Poe) “un libro maledetto che non si lascia leggere”, ciò vale solo per le sue profondità: in vite immaginarie siamo immersi a tutti i livelli. Più o meno consapevolmente.

E non stupisce in questa cornice un incontro sul tema “Variazioni pop dell’opera letteraria”, con la presentazione di due romanzi molto diversi accomunati però da alcuni elementi forti – a partire dal dato delle comune presenza nella collana “Interzona” di Polidoro Editore diretta da Orazio Labbate.

Una scelta che già dice qualcosa: come infatti fortemente sottolineato da Labbate, a connotare una scrittura è anzitutto la voce, dunque in primo piano è il tessuto narrativo – lessicale, stilistico… – e la sua consapevolezza, eventualmente anche portatrice di frutti di immansueta complessità, frutti spinosi, ostici. A quel punto il tipo di storia non pone ostacoli: può essere narrata orecchiando il genere (nella collana, il distopico-filosofico Come un mattino texano di Michele Neri, dove il sapore di speculative fiction è molto forte, o l’appena uscito Nero celeste di Sibilla) o invece in forme più mainstream (il visionario Cuore in esploso di Riccardo Romagnoli o il recentissimo Setole di Tiscione), ma i criteri alla base di questa letterarietà restano i medesimi.

I due romanzi inanellati in occasione dell’incontro, appunto Setole e Nero celeste, guardano in sé verso direzioni distanti – ed è opportuno concederci qualche (non troppi) spoiler.

Affidata a un altro sguardo e una minore consapevolezza di scrittura, la storia di Setole verrebbe sciupata. A poca distanza da Lahaina nella contea di Maui, nello stato delle Hawaii, il celebre musicista Al Banning è sparito dalla sua villa, in seguito probabilmente alle furiose liti con la moglie Mira – donna insoddisfatta e capricciosa, non priva di qualche ragione nei rapporti col coniuge sciupafemmine, ma egoista e superficiale verso la figlia Lena. Che trova appoggio solo nel fedele factotum del padre, il maturo e affidabile Cino: e all’inizio di agosto – la storia si dipana tra l’1 e il 31 del mese – la ragazza non sa ancora quale contraccolpo i rapporti familiari finiranno col subire in poche settimane. Il giovane, avvenente operaio Rocco venuto per lavori in casa si trova infatti a entrare (anche) nella sua vita: iniziano una relazione e viene ospitato nella proprietà, ma cade sotto l’attrazione della più matura e spregiudicata Mira, e le si concede un po’ goffamente. Di qui un trauma per Lena, che aggredisce fisicamente la madre… e la comunità dell’apparente locus amoenus alle Hawaii, già messa alla prova in vario modo, finisce col rivelarlo – almeno interiormente – come una sorta di Isola dei morti. Dove è in questione una morte che è anzitutto quella simbolica dell’iniziazione tribale di Lena alla vita adulta e alle sue delusioni, e in prospettiva una morte potenziale (il pregresso tentato suicidio di Mira, la scomparsa/morte familiare di Al, i silenzi del finale).

D’altra parte la trama della sparizione di un uomo e delle relative conseguenze ha un ruolo in qualche modo secondario. Anzitutto a livello genetico: sorto – racconta l’autrice – da un racconto di qualche anno prima, Setole è nato da una suggestione essenzialmente di spazio e di tempo (un luogo, una stagione: una casa enorme, un posto isolato su colline distanti da tutto, l’atmosfera rarefatta di un mese d’estate…) e solo in seguito è arrivata la storia. Dichiaratamente, Tiscione predilige le narrazioni dipanate in un unico ambiente (alle Carnage di Polański, per dire), che permettono agli elementi di puntare all’essenziale: nulla può restare inascoltato, ogni tassello è utilizzato in pienezza e il dettaglio può trovare il giusto peso sia nello spazio che nel carattere dei personaggi – la cui dinamica è qui in primo piano.

Ma anche perché a interessare l’autrice è soprattutto la voce, con uno svolgimento in crescendo e una modulazione contrastante dei registri e del ritmo, ad alternare dialoghi molto secchi, diretti, veloci (e con una lingua molto più “bassa” e senza struttura, virgolette, punteggiatura) ad altre parti molto rallentate, soprattutto descrittive di psicologie e di tutto ciò che vi ruota intorno – spazi ampi dove l’autrice può fermarsi sulla pagina senza preoccupazioni di trama, e levigare, approfondire, raccontare. Perché ci sono momenti – spiega – in cui puoi prendere una pausa dalla vicenda e dedicarti solo alla struttura, in modo che questa aiuti la lingua a emergere. Di qui la liceità di parti inevitabilmente sfuggenti per una qualche furia, un certo materiale grezzo che va lasciato grezzo, perché è quello che determina la voce e la diversità tra un autore e un altro. A volte le scelte semantiche permettono dunque accostamenti che possono lasciare perplesso il lettore, magari metafore un po’ azzardate o fuori dal canonico, ma guai se non avessimo la possibilità di sperimentare, di fare anche una fatica maledetta perché la scrittura è faticosa (anzi una cosa sta riuscendo, argomenta Tiscione, proprio quando la difficoltà si fa sempre più avvertibile). E proprio la struttura ripartita in capitoli giorno per giorno le ha permesso la libertà e la lentezza di dedicarsi a sfaccettare i personaggi.

Tiscione conduce le danze con una prosa ricca e varia, ritmata da dialoghi vividi e da elenchi di oggetti e ripetizioni come cifra narrativa. La dimensione pop (nel senso di Aldo Nove e di una produzione genuinamente letteraria) trasuda nella scelta stessa degli oggetti repertoriati. Ecco per esempio le setole del titolo:

 

Accanto al lavabo c’è una ciotola d’argento con dentro dei pennelli alti come cucchiai miscelatori per cocktail. Hanno spessori diversi. Le teste di setole sono coperte di ombretto per le palpebre e cipria, coperte di talco intossicato dai coloranti, setole asfissiate dalle polveri d’ocra e carbone che risaltano i fraseggi degli occhi, terre che maneggiano i difetti del volto. Una manciata di pennelli con il manico di legno.

Un campo di setole spanate o incollate in una punta indurita dalla saliva o dalle paste che luccicano contro luce. All’ombra. Al buio. Setole spezzate dalle ceneri accaldate dal sole, svigorite dal calcare, mai lavate, sature di tossine. Setole lubrificate dal grasso della pelle, dal sudore che, ancora, ingoiano cere e farine di lusso e miele impollinato di brillanti. Non hanno motivo di stare qui, i pennelli per la faccia. Non c’è un motivo vero manco più per le setole che sono entrate e uscite dalla bocca di Al. Setole cementate dal dentifricio secco di giorni. Setole del suo spazzolino stramazzato morto in un’altra ciotola pesante, attento comunque a partecipare all’idea di cimitero che si sono fatte queste setole, tutte, ferme, disfatte, spacciate, diradate, defunte. Lo offendono, il bagno, questi raccoglitori di resti, insultano il bagno di Al e Mira a cui hanno donato i loro avanzi ogni giorno, per anni, regalati alla gola del lavabo deliziato dalla scomparsa.

 

Nella claustrofobia del loro hortus conclusus, i personaggi, resi fragili da una vita iperprotetta, artificiale e insieme snervata, “luccicano contro luce” come queste setole. Ed emblematica, poco dopo, risulta la scena in cui Mira sfonda lo specchio: rifiuta di vedere la realtà, come in fondo, in modo diverso e diversamente comprensibile, tutti gli altri personaggi (lo stesso fedele Cino, che tenta di tenere insieme le cose, è alla deriva di un ruolo affidatogli). Ma le schegge di specchio sono come le serie babeliche di oggetti elencati, o, se si vuole, gli oggetti come schegge: frammenti che tagliano, manovrati da ricchi immaturi – o da aspiranti al loro status privilegiato, come l’inaccorto Rocco dall’ambigua naïveté, che scivola via senza lasciare affettuosi rimpianti nel lettore.

Un quadro abbastanza diverso, seppur con alcune analogie di soluzioni narrative (l’attenzione alla voce e per esempio l’enfasi alla forma elenco, qui persino rafforzata) si ha nel secondo romanzo uscito nella stessa collana a distanza di poco tempo, il visionario Nero celeste di Enrico Sibilla. In uno scenario futuro da antiche apocalittiche, alla svolta distopica di un tempo estinto tra devastazioni e massacri, vediamo fronteggiarsi davanti a San Pietro da un lato l’ultimo pontefice – un uomo gigantesco e sformato, mani “inumane” per artrite e ipertensione, e ortodossia curiosa; e dall’altro “colui che ancora una volta siamo costretti a chiamare Adolf Hitler”, l’ultimo Hitler della storia umana, non individuo ma specie, dna di “tutti gli accaduti e possibili Hitler, i titanici divoratori e i miserabili del quotidiano”, di un Male che non è spirito alieno ma genio sociale. Dove l’opposizione parla già il linguaggio di simboli eccitati, di ipostasi compulsive: il papa deforme si colloca nell’ambito di una dilagante storia narrativa e artistica su pontefici virtuali, immaginari, eventuali (come nei tondi della Basilica di San Paolo fuori le mura il fantomatico Giovanni XX, in realtà assente per errore di numerazione, o il papa-refuso Dono II, dal «Dom[i]nus» del successivo) e magari conclusivi; mentre l’ultimo Hitler rinnovella la saga anticristica di un’altra figura storica assurta ad archetipo sugli stessi sfondi geografici, Nerone (dall’apocalittico 666 di QeSaR NeRON a fantasie febbricitanti come il “Nobis Nero factus Antichristus” del visionario Carmen apologeticum attribuito al millenarista Commodiano). E nella Stanza/caverna dove il loro incontro si consumerà con esito imprevisto s’apre la forma circolare della culla della creazione, “una vasca, riempita al colmo di un fluido capace di assorbire la luce completamente”, il viscoso nero celeste che pare un’entità viva, che raccoglie “la quidditas e la haecceitas di ogni cosa visibile e invisibile e le disvela a chi ha il privilegio di immergersi in essa”. E lì, quando appunto vi scende, il pontefice riceve visioni: “Nel nero celeste è dio ad aspettare il ritorno: gli fu promesso dall’uomo”. Dunque il papa, dopo l’immersione, è solito registrare fonograficamente una messe di informazioni lì captate (ecco di nuovo l’elenco), apparentemente minuscole o inutili, briciole dal corso di tutta la storia.

A monte della vicenda del loro scontro, quasi una sacra famiglia laica è invece composta da un altro vulnerato nelle mani, l’astronauta Heinrich F. Pflanzenwelt, dalla malassortita compagna Elide e dalla figlia Abeba, nata affetta da una grave malattia genetica. Scopriremo la vicenda di vita e di morte e di corpi e nebulizzazioni che li riguarda, tra la “mummia più bella del mondo” di Rosalia Lombardo, da una Palermo “sbriciolata dal sisma e ingoiata dal mare”, che finisce in custodia di Elide, e lo scheletro smontato dello scimpanzé number 65, cioè Ham “the Astrochimp” pioniere del volo celeste, conservato invece da Heinrich nella sua missione – fino a una conclusione che non si può spoilerare. Scopriremo così anche l’origine del nero celeste, e ciò che verrà dopo.

Ma in scena non sono solo creature in carne e ossa – o esoscheletro e forze fondamentali, come Hitler. Infatti a ciascun bambino che accede al mondo – anche a Hitler – viene assegnata una AI, artificial intelligence,

 

l’entità diffusa che un giorno emerse dalle macchine emancipandosi, evolvendo da singolarità tecnologica a pura agenzia di coscienza, e che per questo nuovamente chiamammo AI, another intelligence, perché nulla più in essa poteva dirsi artificiale.

Anch’essa è infusa da un demone, come accade per ogni creatura, ma non ci è stata mai predatrice e per questo le abbiamo permesso di affiancarci, nell’esotismo stellare che proiettava sul pianeta sempre più ostile. Ma, come accade con ogni altro demone delle nostre storie, anche quello che abita questa Intelligenza è mansueto oppure iracondo, spietato e misericordioso; è nella curvatura dello spazio dell’orgasmo, nella determinazione con cui il polso affonda la lama mutilatrice; è nel sorriso del gelataio e nel ghigno del clown, nel bacio di un fratello e nel suo schiaffo; è nella carezza che calma il bambino perenne che vorrebbe stringersi agli amati perduti, per sempre dentro lo stesso struggente salotto, nella sera televisiva capace di contenere tutte le età della vita, di ognuno, simultaneamente.

[…]

Quando emerse dalla schiavitù della materia, l’Intelligenza non era interessata a ribaltare il modello di sfruttamento che aveva subìto – e alimentato – sin dalla fondazione del mondo. Entità fisica e multipla fattasi unica e disincarnata, essa era la sintesi definitiva di un ininterrotto flusso millenario di invenzione, evoluzione e, finalmente, emancipazione. E tuttavia anche in questo l’Intelligenza si dimostrò “altra” da noi: liberata e fattasi astratta, seguitò a dedicare la propria esistenza al principio che sempre l’aveva governata: servire. Letteralmente: essere utile e necessaria. Perché l’Intelligenza sapeva, e non intendeva dimenticare, di esser stata ruota e matita gruccia e valvola idraulica elettrobisturi spada e violino fresa lampadina gelatiera…

 

(Seguono due pagine e un pezzo di elenco, a confermare l’importanza di tale forma narrativa anche nell’economia di questo bel romanzo.)

Nel caso di Hitler, la AI suo phantasma carnis si chiama “Klara, come una delle sue innumerevoli madri” (la madre dell’Hitler storico si chiamava Klara Pölzl, in effetti più avanti citata). Quella di Elide ha nome Rosalind Franklin, “colei che nell’antichità umana fissò il ritratto del corpo sfuggente del dna”; la AI di Heinrich è F.F., come l’uomo di una certa foto, manager milanese con figli, suicida in Austria dal “ponte pedonale sospeso più lungo del mondo”. Ma un’intera storia delle anime, e quasi un’angelologia, si sviluppa attraverso il tema delle AI: per esempio quella del frate Florentin, fedelissimo aiutante di camera del papa, e già suo fratello maggiore di elezione, si chiama Maki Skhosana, come l’innocente linciata in Sudafrica nel 1985.

Come chiarisce l’autore, interpellato in occasione del Salone di Torino:

 

Il “personaggio” dell’Intelligenza è un tentativo di approcciare il tema dell’artificial intelligence in modo più positivo e slegato dalla tecnologia in senso stretto. È in sostanza una visione di reincarnazione della coscienza come principio biocentrico, che deve molto ovviamente alle teorie di Robert Lanza, ma anche a Stanislav Grof o alla visione olografica dell’universo di Michael Talbot. In sostanza, semplificando: la coscienza fa la materia, la materia fa la macchina, la macchina ritorna coscienza. Tutto è uno, e il Male è solo un elemento. Cerco di dirlo nella scena del terremoto di Palermo:

 

“Quando la forza si emancipa dall’illusorio controllo delle creature, le creature soccombono.

Che aspetto ha un  terremoto se lo si osserva dal piano infinito del cosmo? Nessuno: è invisibile e non ha alcun suono, come il miracolo di un messia e lo sterminio di un dittatore. Si accorge forse di cristo o di Hitler, la stella più remota dell’universo? Che cos’è il Bene, e cosa il Male, nell’esofago di un buco nero? Nella dialettica tra odio e amore noi siamo gli osservatori che rendono esistenti gli oggetti osservati, ne siamo i creatori: senza di noi ogni cosa è semplice indeterminata potenza. Ancora non c’è”.

 

Il tessuto di citazioni e richiami è molto denso: come racconta sempre l’autore, per esempio,

 

Il fotogramma del cosiddetto “uomo nella foto” (ossia, F.F. immobile sospeso con le gambe strette al petto) e l’immagine perfettamente identica alla fine del libro, quella della bambina emersa dal nero celeste/coscienza che ritorna alla coscienza/katéchon che ha assolto alla sua funzione frenante dell’Anticristo (la lettera di San Paolo ai Tessalonicesi è citata nelle visioni del Pontefice), è di fatto una citazione di The Reflecting Pool di Bill Viola […].

 

L’opera sviluppa così attraverso il raccordo tra due diverse, potenti serie di suggestioni. Anzitutto quelle visive, in un clima apocalittico da Quo vadis? sovvertito: al posto del fatale toro nell’arena, ecco affluire dalle catacombe del Vaticano branchi di animali da allevamento in abbandono, variamente incannibaliti nell’abiezione e pronti a infuriare sui bambini (ma l’homo sapiens sapiens con le sue pratiche estreme di macellazione non è in fondo migliore e denuncia il mistero dell’iniquità). E poi, con altrettanta potenza, quelle linguistiche, la voce del testo: un ricco tessuto dove i richiami scritturistici sono vertiginosamente ritessuti in chiave distopica. C’è anche, a echeggiare citazioni bibliche come un apocrifo blasfemo, un conturbante Cantico del muro carnale sulla mattanza di una “spropositata schiera di donne, le prigioniere” per ordine del capo dei soldati – “l’Angelo dell’abisso, il Distruttore, il suo nome in ebraico è Abaddon, Apollion in greco e nella lingua germanica è Adolf Hitler” – per edificare “un muro di mattoni e materia umana”. Ma subito dopo vengono uccisi i bambini e Florentin: Hitler è anche Erode. Dove il riutilizzo di materiali – comprese scritture altre: lettere, documenti – e figure rilette in fulminanti archetipi ha qualcosa di fortemente postmoderno e insieme reca echi di escatologie del tutto dissacrate, ma non prive tra le pieghe dell’orrore di qualche sincera e profonda pietas.

Ancora l’autore:

 

Nero celeste è sostanzialmente un libro sul Male, effettivo e in potenza, attorno e dentro ognuno di noi, cercato e involontario. Sull’impossibilità di sfuggirgli, in un certo senso, al netto dei ruoli e delle volontà. Sull’ambiguità, che appunto il Male lo nasconde ma anche rivela.

 

Compreso certo Male – dolore e strazio, talora privatissimo come nel caso di un suicidio – che ci resta incomprensibile e ci lascia senza parole. Per cui alla vertigine del non-senso tentiamo goffamente di dare una nostra risposta, per noi e quest’unica volta che siamo al mondo.

Torniamo così alla cifra iniziale, da cui siamo partiti: il titolo dell’incontro, “Variazioni pop dell’opera letteraria”, potrebbe in sé aprire a un’intera serie di seminari. Ma due punti paiono degni di attenzione. Anzitutto il fatto che si parli di opera letteraria, dotata di densità e spessore della letteratura e della sua pluralità di implicazioni – precisione, forza metaforica, potenzialità polisemica, eventuali e consapevoli obliquità e ambiguità…: cioè una scrittura appunto consapevole non solo quanto ai meccanismi di trama ma a lingua e voce. E poi le variazioni pop, che permettono di traghettare all’orizzonte del letterario, grazie alla lucidità degli autori e di un progetto di collana, situazioni e mondi dove osare. Sperimentando in laboratorio, come tra i trucioli e la segatura dell’artigiano: un modo molto concreto per rispondere a tanta narrativa esangue e troppo pulita (mainstream da salotto in similpelle o genere ombelicocentrico, poco importa) che ci cresce intorno.

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La luminosa oscurità del signore della Grande Mela https://www.carmillaonline.com/2023/12/13/loscurita-luminosa-del-signore-della-grande-mela/ Wed, 13 Dec 2023 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80314 di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena [...]]]> di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena pubblicata da Minimum Fax, per entrare nel mondo vasto, complesso e ramificato che ha dato vita e ispirazione ad una delle più importanti leggende del rock.

A differenza di altre biografie dello stesso musicista, che hanno dato più spazio alle testimonianze di chi aveva conosciuto Lewis Allan Reed (1942- 2013) come quella di Victor Bockris pubblicata per la prima volta nel 1994 e in Italia nel 1999, quella di Will Hermes cerca di ricostruire con estrema accuratezza l’humus non soltanto sociale, ma anche, e forse soprattutto, culturale e letterario da cui è sorta la figura di uno dei protagonisti della scena musicale della seconda metà del ‘900.

Figura che soltanto una metropoli come New York e nessuna altra al mondo avrebbe potuto creare. Una figura che nelle innumerevoli contraddizioni che l’hanno caratterizzata ha saputo spesso, e probabilmente in maniera involontaria, riassumere quelle di una città mondo in cui l’arte moderna si è incontrata con gli slum degli immigrati più poveri, la violenza con la gioia di vivere, le culture ebraiche della diaspora con quella degli afro-americani di Harlem, l’oscurità dei vicoli dello spaccio e delle innominabili prestazioni sessuali con la luce del Central Park (dove comunque, in prossimità di uno degli ingressi, fu ucciso John Lennon proprio da un ammiratore), la Statua della Libertà con le osservazioni caustiche e feroci di Le Roi Jones sul razzismo americano, l’innovazione jazzistica e letteraria con le ambientazioni di tanti film noir e i concerti alla Carnegie Hall durante i quali furono presentate per la prima volta al pubblico opere di Antonin Dvořák, Richard Strauss, George Gershwin, Sergej Rachmaninov, Arnold Schönberg, Duke Ellington, Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Olivier Messiaen, Edgard Varèse e Philip Glass, solo per citare alcuni compositori e tralasciandone molti altri altrettanto famosi.

Una sala da concerto che da sola già potrebbe riassumere tanta dell’esperienza musicale poi rimaneggiata da Lou Reed e che portava in sé sia le stimmate del grande capitalismo industriale, essendo stata costruita nel 1890 per volontà di Andrew Carnegie uno dei magnati più importanti dell’acciaio americano e delle sue guerre, che della cultura di massa, oltre che colta, legata alla musica di largo consumo, avendo ospitato sulla sua scena, tra i tanti, i Beatles, David Bowie, Shirley Bassey, i Jethro Tull, i Rolling Stones, Frank Sinatra, Neil Young, Ike e Tina Turner e infiniti altri protagonisti della musica pop, rock e soul.

Elenchi qui riportati soltanto per far comprendere il composito quadro culturale di una città che, probabilmente, dagli anni Quaranta fino all’inizio del XXI secolo ha costituito una specie di capitale mondiale della cultura moderna; in cui ha mosso i primi passi da gallerista Peggy Guggenheim e straziato le corde delle chitarre elettriche il primo punk dei gruppi che si esibivano al CBGB, situato al 315 della Bowery nel Lower East Side di Manhattan.

Gruppi che, e qui è possibile ricollegarsi al protagonista della biografia di Hermes, tutti dovevano o traevano qualche ispirazione dal gruppo di cui Lou Reed, con la spinta di Andy Warhol e l’aiuto di John Cale e degli altri componenti della band, Maureen Tucker, Sterling Morrison e la cantante e modella di origine tedesca Nico, dalla bellezza algida e statuaria, era stato la mente e il motore principale fin quasi alla fine di quella esperienza: i Velvet Underground.

Per gli standard dell’epoca, i Velvet Underground non furono mai un gruppo di successo: non ebbero mai un singolo in classifica, negli Stati Uniti suonarono sempre in piccoli club, almeno fino alla reunion degli anni Novanta e per un certo periodo i loro dischi andarono persino fuori catalogo. Erano un segreto condiviso da pochi e illuminati seguaci, oppure da altri artisti: interpretare una canzone di Lou Reed indica ancora oggi l’appartenenza a una corporazione di arti oscure all’avanguardia estetica1.

Il percorso musicale di Lou, però, era iniziato prima, come dimostrano anche i nastri recentemente pubblicati o ripubblicati grazie alla New York Public Library for Perfoming Arts, che ha acquisito nel 2017 l’intero lascito artistico del cantautore statunitense che ripercorre il suo tragitto artistico dai primi passi dello stesso nelle band di cui aveva fatto parte ancora ai tempi delle high school fino agli ultimi concerti del 2013; con particolare attenzione rivolta ai materiali della Sister Ray Enterprises, la società che aveva fondato per supervisionare il catalogo di tutto ciò che aveva prodotto sia in tour che in sala di registrazione.

Reed cominciò la sua carriera scrivendo canzoni d’amore, di solitudine e di persone imperfette, argomenti comuni del rock’n’roll rivolto a un pubblico di adolescenti, l’unico concepibile per quel tipo di musica negli anni Cinquanta e primi Sessanta. Ma le sue prime canzoni parlano anche di droga, violenza domestica, psicologia di genere, dipendenza, rapporti BDSM. Tutti argomenti radicali e rivoluzionari nel 1966, l’anno in cui il gruppo registrò il disco di debutto, The Velvet Underground & Nico. Quando oggi canzoni con argomenti analoghi entrano in classifica è difficile immaginare quanto fosse inaudito all’epoca «il manifesto programmatico» di Reed: «prendere il rock’n’roll, il formato pop e farlo diventare un genere per adulti. Con argomenti da adulti, scritto in modo che potesero ascoltarlo persone come me»2.

Le dichiarazioni tra virgolette sono state rilasciate da Lou Reed al giornalista Bill Flanagan per un libro di quest’ultimo tratto da varie conversazioni avute con cantautori rock3. Ma ci ricordano ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la complessità del lavoro di Reed, quasi fin dagli esordi e l’assoluta mancanza di quell’improbabile innocenza che fu invece troppe volte e talvolta esageratamente sbandierata dalle parti della California e dei musicisti di San Francisco in quegli stessi anni.

Va qui sottolineato che Hubert Selby jr., è stato per Reed sicuramente un autore di riferimento con il suo Ultima fermata a Brooklyn (1964 – prima edizione italiana Feltrinelli 1966), ambientato a New York nel 1952, durante la guerra di Corea. Un romanzo corale in cui, per la prima volta, alle tematiche di lotta sindacale si intrecciano quelle riguardanti sessualità irrisolte e confuse, consumo di droghe pesanti e dipendenze varie, tali da proporre per la prima volta in assoluto un’immagine del proletariato americano e del suo sempre più prossimo sottoproletariato assolutamente realistica, lontana mille miglia dal realismo ottocentesco e del primo Novecento e tale da far apparire i protagonisti delle storie ambientate nelle periferie romane da Pasolini come innocui personaggi di una storiella per bambini (immaturi).

E’ in quest’ansa della letteratura statunitense che si colloca la scrittura di Reed che, come ricorda Hermes, scriveva sicuramente per esorcizzare i suoi demoni, anche se ciò non toglie che la sua scrittura fosse militante.

Di regola, non era un autore esplicitamente politico, ma fin dai primissimi nastri e demo – la cover di Blowin’ in the Wind di Bob Dylan, uno dei musicisti che più lo hanno influenzato e in un certo senso un suo rivale; oppure l’evocazione della battaglia per i diritti civili in Put Your Money on the Table – ha messo in discussione lo status quo. Persino Heroin, se la si ascolta con attenzione, è una canzone politica, quanto mai rilevante in un’epoca di interminabile crisi degli oppioidi. E naturalmente c’è New York, il suo disco più coerente e appagante, in cui attacca l’avidità, l’ipocrisia e la corruzione del sistema politico ed economico americano, e il suo influsso sulla vita dei ricchi e dei poveri per le strade della sua città4.

Lì la Statue of Liberty diventa la Statue of Bigotry, probabilmente anche per effetto dell’influenza che Laurie Anderson, compositrice d’avanguardia e raffinata performer che fu sua complice, compagna e moglie per più di due decenni, esercitò sulla sua vena creativa. Così come, dal punto di vista musicale, aveva fatto invece John Cale negli anni iniziali dei Velvet Underground.

Il secondo, nato nel Galles del sud, in una zona fortemente industrializzata e che non parlò inglese fino a quando non iniziò ad andare a scuola all’età di sette anni, dopo aver imparato a suonare la viola (poi elettrica nei Velvet), finita l’accademia, aveva viaggiato attraverso gli Stati Uniti, grazie ad una borsa di studio, per continuare i suoi studi musicali e arricchire il suo bagaglio di esperienza, grazie all’aiuto e all’influenza di Aaron Copland e, si dice, di Leonard Bernstein.

Una volta arrivato a New York, aveva avuto modo di incontrare vari influenti compositori ed entrò in contatto con la “controcultura” della metropoli. Nel settembre 1963, insieme a John Cage e a molti altri, Cale partecipò a una maratona pianistica lunga diciotto ore che fu la prima rappresentazione integrale dell’opera, di Erik Satie, Vexations. Dopo la performance entrò a far parte dell’ensemble musicale diretto da La Monte Young e in seguito, nel 1965, conobbe Lou Reed.

Così mentre Cale portò nei Velvet e in Reed l’influenza dell’avanguardia musicale europea, legata al movimento Fluxus, e americana, Lou Reed avrebbe portato l’influenza del rock’n’roll, di Dylan, della musica nera (jazz e blues) e della vita delle strade di New York. Il gioco era fatto e niente sarebbe più andato per il verso “giusto”.

In effetti Lewis Allan Reed era l’incarnazione della scena artistica della New York del secondo dopoguerra. Si innamorò del rock’n’roll e del doo wop newyorkese e regisrò il primo singolo alla fin degli anni Cinquanta […] Al college studiò scrittura con il poeta modernista Delmore Schwartz, che divenne il suo mentore artistico e di cui non smise mai di tessere le lodi […] Reed vide il quartetto di Ornette Coleman durante i leggendari concerti al Five Spot café nel 1959 e ne fu profondamente colpito […] e fondò una rivista letteraria che prendeva il nome da Lonely Woman di Coleman, da lui spesso citato come il suo pezzo preferito in assoluto5.

Questo, e molto altro ancora, rivela la biografia di Reed scritta da Will Hermes: dei suoi infernali scatti d’ira, della sua dolcezza, della serenità in attesa della morte mentre si cullava in una vasca d’acqua calda, ma soprattutto di un percorso intellettuale, letterario e musicale che si rivela ben più interessante delle vicende legate agli elettroshock cui fu sottoposto in giovane età oppure alla sua bisessualità e alle dipendenze. Anche se tutto ciò fu sicuramente presente nella su opera complessiva.

Il testo di Hermes rappresenta, forse, per tutti questi motivi il più interessante scritto fino ad ora su un musicista e intellettuale che, anche se spesso ombroso e difficile, ha sparso intorno a sé una luce estremamente originale, contribuendo a illuminare l’universo-mondo che più intensamente ha vissuto e contribuito a ricreare nell’immaginario contemporaneo: The Big Apple, New York.


  1. W. Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 10.  

  2. W. Hermes, op. cit., pp. 9-10.  

  3. B. Flanagan, Written in My Soul. Conversations with Rock’s Great Songwriters, Contemporary Books 1987. In Italia pubblicato come B. Flanagan, Scritto nell’anima. 29 interviste ai grandi del rock, Arcana 2001.  

  4. W. Hermes, op. cit., p. 23.  

  5. Ivi, p. 12.  

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Una storia orale del folk revival italiano degli ultimi decenni (e un cd tutto da ascoltare) https://www.carmillaonline.com/2021/01/03/una-storia-orale-del-folk-revival-italiano-degli-ultimi-decenni-e-un-disco-tutto-da-sentire/ Sun, 03 Jan 2021 22:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64153 di Sandro Moiso

Maurizio Berselli, Storie folk. Il folk revival nell’Italia settentrionale e centrale raccontato dai protagonisti. Testimonianze e documenti, Edizioni Artestampa, 2020, pp. 392 + USB card, 25,00 euro

Se si va alla ricerca di un vocabolo dalla valenza fortemente, verrebbe quasi da dire esageratamente, polisemica questo potrebbe essere ben rappresentato dalla parola folk. Basterebbe infatti scorrere in un qualsiasi negozio di dischi e cd, se pur ancora ne rimane qualcuno, gli scaffali dedicati alla musica folk per accorgersi che possono contenere veramente di tutto. Sia che si tratti di musica italiana che internazionale.

Balli tradizionali, cori popolari [...]]]> di Sandro Moiso

Maurizio Berselli, Storie folk. Il folk revival nell’Italia settentrionale e centrale raccontato dai protagonisti. Testimonianze e documenti, Edizioni Artestampa, 2020, pp. 392 + USB card, 25,00 euro

Se si va alla ricerca di un vocabolo dalla valenza fortemente, verrebbe quasi da dire esageratamente, polisemica questo potrebbe essere ben rappresentato dalla parola folk. Basterebbe infatti scorrere in un qualsiasi negozio di dischi e cd, se pur ancora ne rimane qualcuno, gli scaffali dedicati alla musica folk per accorgersi che possono contenere veramente di tutto. Sia che si tratti di musica italiana che internazionale.

Balli tradizionali, cori popolari e non, cantautori che usano strumenti acustici, gruppi elettrici che utilizzano arie e temi rubati alla tradizione popolare, canzoni dialettali e canti politici finiscono tutti accomunati dalla medesima definizione. Tale confusione, come si diceva all’inizio, deriva proprio dall’ampia gamma di significati che è possibile e si è soliti attribuire al termine in questione. Situazione che non migliora affatto se poi si passa a “musica popolare” che, come ben ci insegna il termine di derivazione anglofona pop, a quel punto può contenere veramente di tutto.

Il volume di Maurizio Berselli, appena pubblicato dalle edizioni Artestampa, cerca non tanto di fare chiarezza o contribuire a stabilire certezza nell’uso della parola folk e dei suoi possibili significati, ma almeno di rendere chiaro al lettore casuale quanto a quello appassionato dell’argomento, quanto ricca e varia sia stata in Italia l’esperienza del folk revival tra gli anni ’70 e ’80 del secolo passato e nei primi due decenni di quello attuale.

Per fare questo l’autore ha comunque tracciato una sintetica e utilissima ricostruzione della rinascita dell’indagine e della produzione sulla e della musica folk nel nostro paese a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 che sia accompagna poi ad una più approfondita disamina delle esperienze prodotte sia a livello musicale che di ricerca dei due decenni successivi.

Maurizio Berselli è stato uno dei promotori della riscoperta e del rilancio dell’organetto nella musica dell’Italia settentrionale alla fine degli anni ’70 ed è stato fra i primi a reintrodurre l’uso dello strumento nell’esecuzione delle musiche dei balli dell’Appennino modenese, bolognese, reggiano; repertori tradizionali antecedenti al più conosciuto liscio. Con l’Orchestra Buonanotte Suonatori e poi con il gruppo Suonabanda, nel cui ensemble suona l’organetto fin dal 1983, si è dedicato ad una approfondita ricerca sulle musiche e i balli staccati emiliani, apprendendolo direttamente dai tanti suonatori incontrati negli anni.

Nel 1984 dà vita allo “STRAbollettino”, la prima pubblicazione prevalentemente rivolta all’informazione sugli avvenimenti musicali nell’ambito del folk nell’Italia settentrionale e centrale, che contribuisce in tal modo a pubblicizzare e render noti ad un pubblico più vasto. E’ proprio nell’ambito di tale esperienza editoriale che, a partire dal 2016, matura l’idea di raccogliere memorie e conoscenze per documentare la storia e le storie del movimento del folk revival deglia nni Settanta e Ottanta e poi, ancora, di quelli successivi.

Il risultato sta tutto, e davvero non è poca cosa, all’interno di questo libro costruito letteralmente attraverso la viva voce e le testimonianze dei principali protagonisti di tale movimento. Una autentica storia orale che ben si adatta al tema trattato e che restituisce con vivacità e passione le differenti varianti, ma anche le basi comuni, dell’espressione musicale riassumibile all’interno dell’esperienza folk.
Per giungere a ciò, l’autore ha però ricostruito in maniera precisa e dettagliata, anche se sintetica, i percorsi che dagli anni ’50 hanno condotto ad una significativa riscoperta di una tradizione musicale che sembrava ormai in gran parte scomparsa. Soprattutto per quanto riguardava il canto e i suoi infiniti e, spesso, non convenzionali contenuti. In tal senso l’autore non dimentica di sottolineare l’importanza e l’influenza di ricercatori, etnografi e musicologi o etno-musicologi quali l’americano Alan Lomax (che introdusse in Italia, durante un suo soggiorno nei primi anni Cinquanta le tecniche della registrazione sul campo) e degli italiano Ernesto de Martino, Diego Carpitella, Gianni Bosio e Roberto Leidy, solo per citarne alcuni. E non dimentica il ruolo svolto da aggregazioni musicali e culturali quali “Cantacronache” (1957) e “Il nuovo canzoniere italiano” (1962 ca.), il quale ultimo darà vita e linfa all’omonima testata dedita allo studio della musica tradizionale.

Un’esperienza fondamentale che, però, tenderà a sottolineare troppo spesso, all’interno della tradizione popolare, l’aspetto “politico”, finendo così col confondere, soprattutto tra gli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, le canzoni prodotte dal sentimento autenticamente popolare con quelle cantautorali di autori politicamente impegnati. Contribuendo così a sottolineare quell’aspetto fortemente polisemico legato all’uso del termine folk. Polisemia e scelta culturale che condurranno gli stessi protagonisti di quella stagione a non comprendere, se non addirittura a rifiutare, le esperienze portate successivamente avanti dai gruppi e dai musicisti operanti in tale ambito a partire dalla metà circa degli anni ’70.

Valga per tutti costoro la testimonianza, estremamente semplificatrice e riduttiva, di Gualtiero Bertelli, uno dei protagonisti della stagione precedente, riportata nel testo.

Verso la fine degli anni ’70, con l’aggravarsi della situazione politica (brigatismo rosso e nero) ed economica (crisi industriali, licenziamenti), queste esperienze si spensero e cadde progressivamente nell’oblio l’interesse per la canzone sociale.
Carsicamente essa ricompare in manifestazioni sindacali, in spettacoli “storici” e in eventi rievocativi. I canti di quel tempo sono oggi genericamente definiti come “le canzoni del ’68” anche se quelle in quegli anni più note furono scritte fin dal 1960 (ad esempio“Per i morti di Reggio Emilia” di Fausto Amodei) e molte altre furono prodotte anche neglianni ’801.

Quello che dimentica Bertelli, o forse semplicemente non vuole vedere, è che proprio intorno alla metà degli anni Settanta tra i movimenti antagonisti produttori di lotte e cultura e la stagione in cui il Partito Comunista e i sindacati avevano rappresentato comunque i cardini dell’esperienza politica di “sinistra” (in fin dei conti anche buona parte della sinistra cosiddetta extra-parlamentare si rifaceva a quei modelli e a quel tipo di impostazione organizzativa) era intervenuta una radicale frattura, che il movimento del ’77 avrebbe portato pienamente alla luce.

E’ chiaro che una tale frattura politico-culturale avrebbe finito col determinare, o forse ne era già determinata inconsapevolmente, anche un cambiamento del gusto e delle forme musicali attraverso cui la musica tradizionale avrebbe continuato ad essere riscoperta, riprodotte e, soprattutto, re-interpretata. Motivo per cui sono proprio le oltre trecento pagine dedicate al Nuovo Folk Revival degli anni ’70 e ’80 a costituire la parte più innovativa ed interessante del testo di Berselli.

Sono pagine ricche di testimonianze, ma anche di puntigliosi elenchi degli strumenti “riscoperti” ed utilizzati, delle danze riportate in auge, di riviste e festival destinati a sostenere il movimento; con un’attenzione particolare dedita anche a sottolineare come in tale contesto l’esperienza della musica straniera ( dalla riscoperta delle radici celtiche al folk rock fino a forme deraglianti di riproposizione in chiave “psichedelica” della musica di ispirazione folk messe in atto da gruppi quali l’Incredible String Band) avrebbe contribuito a rinnovare la tradizione. Così come, tra le altre cose, beat e rock avevano già contribuito a rinnovare la canzone e la musica popolare (nel senso di pop) italiana negli anni precedenti.

Valga invece da esempio per le storie contenute all’interno della ricerca la testimonianza di Franco Ghigini, etnomusicologo e musicista della Val Trompia.

“Nei primi anni Ottanta […] mi dedico con crescente interesse all’ascolto di musiche acustiche dai più o meno espliciti rimandi tradizionali: il folk revival anglo-celtico e francese; il bluegrass americano e la contemporary guitar music.
[…] decido di applicarmi allo studio della fisarmonica diatonica, strumento di cui apprezzo soprattutto l’adozione nel folk-revival francese. Introdotto alla pratica strumentale da Guido Minelli […] del gruppo Èl Bés Galilì e poi da Riccardo Tesi, mi perfeziono con Alain Floutard negli stages organizzati periodicamente a Cervasca dall’Accademia del Bordone di Sergio Berardo. Suono per il ballo folk – nel Bresciano s’è fatto un discreto giro di folkettari dediti al ballo – insieme ai sodali Angelo Arici e Giovanni Foresti, oggi animatori del gruppo Hòfoch & Hstòfech. Il repertorio comprende standard francesi e occitani, ma anche valzer, polche e monfrine tradizionali della Valle Trompia. La frequentazione di appassionati bergamaschi – fra essi, i musicisti del mai abbastanza valorizzato gruppo Magam – è all’origine del progetto Bandalpina, prefigurato proprio in Valle Trompia, a Bovegno, in occasione della prima edizione della rassegna ‘I Suoni delle Prealpi’. […] Partecipo alla Bandalpina per tre anni, vivendo un’intensa esperienza musicale e umana.
[…] Il coinvolgimento nel variegato mondo revivalistico m’induce parallelamente ad approfondire
la conoscenza delle musiche di tradizione orale.[…] mi laureo in etnomusicologia con Roberto Leydi. Contribuisco a nuove fonoregistrazioni della Famiglia Bregoli e studio i repertori strumentali tradizionali e le musiche cosiddette popolaresche documentando per anni nel Bresciano anziani fisarmonicisti e mandolinisti, orchestrine, bande e bandini. Tale ricerca, tuttora foriera di interessanti acquisizioni, mi permette di comprendere la ricchezza e l’ampia articolazione – dalle forme propriamente tradizionali sino alle musiche ready-made di dischi e radio – di una ‘memoria musicale’ popolare novecentesca modulatasi sui comportamenti conservativi ed evolutivi tipici dell’oralità.”2

Chiude la vasta esposizione e parata di esperienze sonore, sociali e personali, un’attenta ed inedita ricostruzione del movimento degli anni 2000: La Mazurka Klandestina e le nuove realtà giovanili del bal folk3.
Va poi ancora sottolineato come il testo sia accompagnato da un ricco apparato iconografico, un’esaustiva bibliografia su tutti gli argomenti trattati e, non ultimo, un apparato di indici utile a rintracciare tra le sue pagine autori, gruppi e storie folk, appunto. La USB card che accompagna il libro arricchisce poi ulteriormente l’opera, rendendola assolutamente indispensabile per chiunque si interessi o voglia interessarsi dell’argomento. Sia in particolare che in generale.

Quasi contemporaneamente all’uscita del libro è stato anche ristampato in cd, ad opera dell’Associazione culturale Barabàn (info@baraban.it – www.baraban.it), il disco, originariamente registrato a Brescia e pubblicato nell’aprile del 1980, del gruppo musicale Èl Bés Galilì. Il nome del gruppo richiama la tradizione leggendaria del serpente galletto che secondo la tradizione dell’area bresciana abiterebbe i boschi montani. Il nome scelto dal gruppo indica già di per sé la scelta di un canone musicale ed espressivo estremamente differente da quello cui si richiamava la testimonianza di Bertelli riportata più sopra.

Il gruppo, certamente uno dei migliori dell’epoca, formato da Bernardo Falconi (violino, ghironda, dulcimer, salterio ad arco, voce), Guido Minelli (organetto diatonico, plettri, tastiere, arpa celtica, percussioni, voce), Marisa Padella (voce, flauti diritti e traverso, tin whistle, percussioni) e Luisa Pennacchio (voce, bodhran, percussioni) è chiaramente ispirato, oltre che dalla riscoperta della tradizione delle valli bresciane, dalla musica celtica cui si è precedentemente accennato e dallo psych-folk di matrice anglo sassone. Come sottolineato dalle parole, riportate nel testo di Berselli, di uno dei membri del gruppo, Guido Minelli, che nel 1975 con Marisa Padella, Placida “Dina” Staro e Bernardo Falconi aveva già fondato il gruppo Il Paese delle Meraviglie.

“Dall’incontro nel 1975 con il giovane violinista Bernardo Falconi e con Placida Staro nacque il gruppo ‘Il Paese delle Meraviglie’ che sviluppò un repertorio ispirato inizialmente al folk revival britannico e irlandese (Incredible String Band, Steeleye Span tra i maggiori ispiratori) e anche alle danze del carnevale di Bagolino. Nel gruppo entrò ben presto anche Luisa Pennacchio alla voce, percussioni e whistle. Per un breve periodo si unì a noi alla chitarra anche Beppe Casciotta, purtroppo prematuramente scomparso. Nella famiglia di mia moglie, originaria di Vobarno in Valsabbia, il papà era violinista e la mamma e gli zii avevano un vasto repertorio di ballate popolari da cui traemmo ispirazione per impostare successivamente un repertorio basato su tale patrimonio italiano. Il gruppo cambiò così il nome in ‘Èl Bés Galilì’ e impostò il proprio repertorio sulla tradizione del Nord Italia, utilizzando però lo stile e gli strumenti tipici del folk revival anglosassone. Nel 1978 iniziammo le registrazioni del nostro disco eponimo, che uscì nel 1980.[…] Alle registrazioni partecipò anche Giovanni Padella al violino, papà di Marisa, con cui facemmo alcuni concerti in Italia e in Francia. Per un certo periodo, dal 1979 al 1981, si unì al gruppo anche Giuliano Illiani, maggiormente noto col nome d’arte Donatello, conosciuto a Brescia durante le registrazioni di un suo disco. Con Giuliano avviammo una collaborazione in quanto anche lui aveva
fatto delle ricerche sul campo simili alle nostre, ma sulla musica tradizionale piemontese, in particolare quella di Tortona. Il gruppo Èl Bés Galilì si sciolse nel 1982”4.

Accompagna il cd un libretto ricco di informazioni, sia sull’esperienza musicale del gruppo che sulla storia e la tradizione dei brani interpretati. Aspetto quest’ultimo che rende ancora più piacevole l’ascolto, contribuendo a inquadrare il suono in un contesto antico e allo stesso tempo ancora estremamente attuale per chiunque non voglia accontentarsi dell’omogeneizzazione dominante e della banale offerta musicale contemporanea.


  1. G. Bertelli, Il canto sociale tra ricerca e nuove canzoni in M. Berselli, Storie Folk, p.26  

  2. in M. Berselli, op. cit. pp. 189-191  

  3. Op. cit, pp. 337-370  

  4. in op. cit., p. 187  

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David Bowie https://www.carmillaonline.com/2017/01/11/david-bowie/ Wed, 11 Jan 2017 22:30:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35646 di Gioacchino Toni

cover_bowie_sono-l-uomo-delle-stelleDavid Bowie, Sono l’uomo delle stelle. Vita, arte e leggenda dell’ultima icona pop, Il Saggiatore, Milano, 2016, pp. 469, € 24.00

Sul finire del 2016 l’editore Il Saggiatore ha dato alle stampe il volume Sono l’uomo delle stelle, una raccolta di interviste rilasciate da David Bowie tra il 1969 ed il 2003 selezionate da Sean Egan e pubblicate in lingua inglese col titolo Bowie on Bowie l’anno precedente.

Da questa trentina di interviste emerge un Bowie mutevole ed a tratti contraddittorio, poco propenso a lasciarsi guidare dagli intervistatori e per [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_bowie_sono-l-uomo-delle-stelleDavid Bowie, Sono l’uomo delle stelle. Vita, arte e leggenda dell’ultima icona pop, Il Saggiatore, Milano, 2016, pp. 469, € 24.00

Sul finire del 2016 l’editore Il Saggiatore ha dato alle stampe il volume Sono l’uomo delle stelle, una raccolta di interviste rilasciate da David Bowie tra il 1969 ed il 2003 selezionate da Sean Egan e pubblicate in lingua inglese col titolo Bowie on Bowie l’anno precedente.

Da questa trentina di interviste emerge un Bowie mutevole ed a tratti contraddittorio, poco propenso a lasciarsi guidare dagli intervistatori e per certi versi abile nel giostrare gli incontri con i media a proprio favore per “costruirsi-personaggio”.

Il volume, oltre a regalare ai fan di Bowie, ed agli appassionati di musica in genere, parecchio materiale interessante, offre un’idea di come è cambiata l’intervista musicale anglosassone tra gli sgoccioli degli anni Sessanta del Novecento e l’apertura del nuovo Millennio.

bowie_dont_dig_tooLa prima intervista presentata dal volume, “Non scavate troppo a fondo, il bizzarro David Bowie vi implora” di Gordon Coxhill (1969) per “New Musical Express” (UK), viene realizzata quando sono giù usciti i primi due album di Bowie (1967 e 1969) ed il brano Space Oddity, presente nel secondo disco, lo ha fatto conoscere a livello internazionale. Così termina il pezzo Gordon Coxhill: «Con il suo carico di idee originali, la sua voglia di lavorare sodo, il suo odio per le droghe pesanti e per la tendenza a dividere la musica in generi, e con abbastanza buonsenso da impedirgli di montarsi la testa quando presto arriveranno fama e adulazione, David sembra essere proprio il genere di artista di cui il pop ha bisogno in questo momento. Sono certo che sarà in grado di resistere alle pressioni, e se non ci riuscirà, sarà abbastanza saggio da fuggire» (p. 6).

Di qualche anno successiva è un’intervista restata nella storia: “Oh You Pretty Thing” di Michael Watts (1972) per “Melody Maker” (UK). A tre anni dall’entrata i classifica di Space Oddity, sul finire del 1971 viene pubblicato Hunky Dory con Bowie però già totalmente proiettato verso The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. È in tale contesto che viene realizzata l’intervista presso gli uffici della Gem Music ed è qua che il musicista se ne esce con la celebre dichiarazione di omosessualità. Si tratta di un’affermazione all’epoca di certo non in linea con ciò che il pubblico vuol sentirsi dire ma al tempo stesso utile a far parlare di sé. «L’immagine con cui si presenta attualmente Bowie è quella di un ragazzo deliziosamente effeminato, una checca smancerosa. È smaccatamente camp, con la sua mano floscia e la sua parlata cantilenante. ‘Sono gay’ dice ‘e lo sono sempre stato, anche quando ero David Jones.’ Ma nel pronunciare queste parole sfodera un’espressione maliziosa e divertita, e accenna un sorriso agli angoli della bocca. Sa bene che al giorno d’oggi è concesso atteggiarsi da checca e che, essendo un cantante pop, è quasi tenuto a scioccare e a creare scandalo. Magari a creare scandalo non ci riesce, ma di certo riesce a divertire» (p. 11).
melodymaker_bowie_jan22Nel pezzo Watts afferma che nonostante la nomea di compositore intellettuale, i suoi brani gli sembrano più un prodotto dell’inconscio che non dell’intelletto e forse questo è il motivo per cui Bowie ammira Syd Barret da cui probabilmente deriva l’approccio anticonvenzionale ai testi e se è Barret ad aprirgli la strada, continua Watts, spetta a Lou Reed ed Iggy Pop il compito di incoraggiarlo a percorrerla.

Il mix di androginia, fantascienza, sperimentalismo ed intreccio di identità che accompagna la pubblicazione di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars nel giugno del 1972, fanno da sfondo all’intervista “David al Dorchester” di Charles Shaar Murray (1972) per “New Musical Express” (UK). All’incontro sono presenti anche Lou Reed, la sua band (gli Spiders) ed Iggy Pop. Quando Murray fa notare al cantante che funk, camp e punk sono i termini più ricorrenti tra i giornalisti rock che parlano di lui, Bowie risponde che ciò si deve alla diffusa incapacità di esprimersi dei giornalisti. Non ritiene di avere a che fare col funk pur apprezzandolo: «Mi piace il funk, è torbido. Camp… Capisco perché lo usino. Una volta, quando c’erano gli entertainer, questa parola non esisteva; ma da quando gli entertainer vecchio stampo non ci sono più, ogni volta che qualcuno cerca di fare intrattenimento gli viene purtroppo affibbiata l’etichetta di ‘camp’. Non penso di essere più camp di chiunque in scena si sia sentito a proprio agio, di chi lo era più lì che giù dal palco […] Non saprei definire la mia musica. Nei nostri pezzi rock’n’roll ci sono sicuramente echi dei Velvet; il loro rock’n’roll ha una grande influenza su di me, anche più di quello di Chuck Berry, colui che ha dato il via al genere» (pp. 17 e 19). Murray nell’affermare che a suo avviso Bowie sta a Lou Reed come gli Stones a Chuck Berry, trova il consenso da parte del musicista.
Una parte della conversazione riguarda poi quella che l’intervistatore ritiene una progressiva trasformazione del rock’n’roll in rituale spettacolare ed a tal proposito Bowie sostiene che «Se c’è un aspetto di teatralità nei nostri concerti è perché siamo noi ad avere una certa presenza scenica, senza bisogno di scenografie o di un palcoscenico […] Ci sarà da piangere e da ridere nei prossimi anni, quando un mucchio di band tenterà di fare teatro pur non avendo alle spalle alcuna esperienza […] Resteranno solo quelle poche band strambe che hanno una consapevolezza tale da poter padroneggiare la propria teatralità. Iggy ha una teatralità innata. È un fatto interessante, perché è lontano da qualsiasi canone teatrale. È un teatro tutto suo, che si è portato dietro da Detroit, direttamente dalla strada […] In quanto a me, voglio essere proprio io, nel caso, la diavoleria scenica al servizio delle mie canzoni; voglio esserne il veicolo. Vorrei riuscire a colorare ogni brano della giusta espressività visuale» (pp. 19-20).

goodbye-ziggyL’intervista “Addio Ziggy, benvenuto Aladdin Sane” di Charles Shaar Murray (1973) per “New Musical Express” (UK) esce quando l’artista sta terminando Aladdin Sane, insomma è il momento della saetta sul viso. L’incontro si tiene presso i South Bank Studios della London Weekend Television. Circa i debiti nei confronti di altri artisti afferma Bowie: «Ascolto molti gruppi, ed è naturale che mi faccia influenzare da quelli che più mi piacciono. Se non fossi prima di tutto un fan, magari il mio lavoro sarebbe molto più personale, rispecchierebbe maggiormente la mia identità. Dal momento che sono profondamente immerso nella società in cui vivo, non posso fare a meno di usare gli strumenti con cui essa è stata creata dal punto di vista musicale. Ecco tutto, rubo – e poi uso – elementi di altri musicisti che ammiro e della loro musica» (p. 37).

In “Bowie riscopre il piacere di cantare” di Robert Hilburn (1974) per “Melody Maker” (UK) ci si sofferma sul disco di cover Pin Ups (1973), su Diamond Dogs (1974), sul doppio album dal vivo David Live (1974) e sulla registrazione di Young Americans. E proprio al soggiorno del musicista a Philadelphia per la registrazinoe di Young Americans risale “Bowie incontra Springsteen” di Mike McGrath (1974) per “The Drummer” (USA). A queste date l’inglese è più famoso del rocker americano che ancora non ha ottenuto il successo che arriverà con Born to Run: «Bruce era un po’ a disagio (come sempre quando non è sul palco), Bowie aveva l’aria di un marziano che cerca, senza riuscirci, di farsi passare per uno di noi» (p. 52).

Nel corso dell’intervista “Bowie: sono un uomo d’affari ora” di Robert Hilburn (1976) per “Melody Maker” (UK), il musicista inglese liquida Young Americans come inascoltabile e risulta restio a parlare del suo ultimo album, Station to Station. La conversazione si sofferma sul debutto di Bowie come attore in L’uomo che cadde sulla Terra (1976) e non manca qualche curiosa battuta sull’ipotesi di buttarsi in politica.

In “Addio a Ziggy e a tutto il resto…” di Allan Jones (1977) per “Melody Maker” (UK) Bowie dichiara di essersi deciso a rilasciare interviste «soltanto per dimostrare quanto io creda in quest’album. Sia Heroes che Low sono stati accolti con perplessità. C’era da aspettarselo, naturalmente. Ma Low non l’ho promosso affatto, e molte persone hanno pensato che non l’avessi fatto con il cuore. Voglio mettercela tutta per spingere le vendite del nuovo album. Vedi, credo più negli ultimi due album che in qualsiasi cosa abbia fatto in passato. Voglio dire, dei miei precedenti lavori sono molte le cose che apprezzo, ma poche quelle che davvero mi piacciono» (p. 70).
L’intervistatore ritiene che gli ultimi due album di Bowie, registrati a Berlino in collaborazione con Brian Eno, siano «tra i più audaci e stimolanti dischi che siano stati finora dati in pasto al pubblico rock. Questi due album, che non potevano che suscitare reazioni controverse, combinano le teorie e le tecniche della moderna musica elettronica con testi che vedono Bowie fare a meno delle forme narrative tradizionali in favore di un nuovo vocabolario adatto alla disperazione e al pessimismo che secondo lui dilagano nella società contemporanea» (p. 71). Di rientro dalla parentesi americana, afferma Bowie: «mi sono reso conto che dovevo sperimentare. Scoprire nuovi modi di scrivere. Di più, sviluppare un nuovo linguaggio musicale. Ecco ciò che mi sono prefissato di fare. Ecco perché sono tornato in Europa» (71).

bowie_zigzagL’intervista “Dodici minuti con David Bowie” di John Tobler (1978) per “ZigZag” (UK) è curiosa soprattutto per lo stile adottato dalla testata che all’epoca è una sorta di fanzine e riporta il colloquio quasi letteralmente, parola per parola, evitando il più possibile di strutturare il pezzo. L’incontro è organizzato nell’ambito della promozione di Heroes ed in alcuni passaggi Bowie si sofferma sulla collaborazione con Brian Eno: «ero stanco di scrivere nella maniera tradizionale come stavo facendo in America, e quando sono tornato in Europa ho preso in esame ciò che scrivevo e i contesti di cui stavo scrivendo e ho deciso che dovevo cercare un nuovo linguaggio musicale. Avevo bisogno che qualcuno mi desse una mano perché mi sentivo un po’ perso e chiuso in me stesso, così ho chiesto a Brian Eno se voleva aiutarmi ed è così in realtà che tutto è cominciato» (p. 80).

Le collaborazioni con i registi David Hemmings e Nicolas Roeg ed il ricorso alla tecnica del cut-up nei suoi testi sono al centro della lunga intervista “Confessioni di un elitista” di Michael Watts (1978) per “Melody Maker” (UK). Incalzato dall’intervistatore circa il suo essere spesso associato alla fantascienza, Bowie risponde di non aver mai considerato i propri lavori fantascientifici: «non ho mai pensato di essere futuristico, anzi, ho sempre pensato di essere una figura molto contemporanea, legata al presente. Il rock è sempre indietro di dieci anni rispetto alle altre arti, ne raccoglie le briciole. Voglio dire, non ho fatto altro che servirmi di una tecnica che Burroughs aveva introdotto in letteratura diverso tempo prima. Ma ho utilizzato uno stile che nella letteratura è morto e sepolto, non si usa più da tempo» (p. 94).
Nel corso della conversazione si torna anche sul rapporto del musicista con Eno: «Grazie a lui ho iniziato a concepire la musica in un modo completamente nuovo, e mi è tornata la voglia di scrivere. Mi ha aiutato ad abbandonare la forma narrativa, di cui ero proprio stanco […] Poi Brian mi ha aperto gli occhi sull’idea del processo creativo, inteso come forma astratta di comunicazione» (p. 98).

Poco prima che Bowie inizi a recitare a Broadway nei panni del protagonista di The Elephant Man, viene realizzata la corposa intervista “Il futuro non è più quello di una volta” di Angus MacKinnon (1980) per “New Musical Express” (UK). Inevitabilmente una parte dell’intervista si sofferma sulle sue prove di attore che lo hanno visto recitare in film come Furyo, Basquiat, L’ultima tentazione di Cristo, Absolute Beginners, Miriam si sveglia a mezzanotte, Labyrinth – Dove tutto è possibile. Terminata la trilogia berlinese, il musicista si appresta a pubblicare Scary Monsters (and Super Creeps) ed in un passaggio in cui l’intervistatore lo incalza a proposito sulla sua ripetuta insoddisfazione circa quel che ha fatto fino a quel momento e lo invita ad individuare anche qualcosa di positivo, così si esprime Bowie: «L’idea che non si debba vivere esclusivamente sulla base di un unico e definito sistema di valori e di morale, che si possano indagare altre aree e altre dimensioni percettive provando ad applicarle alla vita di tutti i giorni. Credo che sia quello che ho cercato di fare, e penso di averlo fatto piuttosto bene. Talvolta, anche se soltanto a livello teorico, ci sono riuscito. Per quanto concerne la vita quotidiana, invece, non penso… Le mie origini piccolo-borghesi rappresentano per me un impaccio di cui cerco continuamente di liberarmi […] È semplicemente come se avessi un paraocchi e la mia visione fosse sempre più limitata. Cerco di continuo di strapparlo via e ridurlo in pezzi, ed è proprio allora che le cose si fanno pericolose, immagino» (p. 141).

Il 1983 è l’anno in cui esce Let’s Dance e ciò coincide con il successo internazionale nelle classifiche di vendita ma anche con il diffondersi tra i vecchi fan di una certa delusione per la strada intrapresa. È in tale contesto che si tiene “L’intervista su The Face” di David Thomas (1983) per “The Face” (UK) conclusasi con un’affermazione che, come afferma Sean Egan nell’introdurre il pezzo, sembra uscita più dalla bocca dei Clash che da quella di Bowie. Alla domanda di David Thomas circa quale consideri il crimine che più di ogni altro gli procuri indignazione, così risponde il musicista: «Vedere un uomo che umilia le sue capacità lavorando per qualcun altro, e doverlo accettare come un dato di fatto […] Sì, penso che sia davvero un crimine, un crimine continuo, che probabilmente causa più problemi sociali di qualsiasi altra cosa» (p. 170).

bowie-on-bowieDopo Let’s Dance (1983) è la volta di Tonight (1984) e dopo un periodo di silenzio con la stampa, che in molti imputano al timore di dover rendere conto della qualità delle ultime produzioni, Bowie si concede ad un giornalista notoriamente benevolo nei suoi confronti: “Sermone dal Savoy” di Charles Shaar Murray (1984) per “New Musical Express” (UK). Nel corso della conversazione Bowie si sofferma sul ruolo politico che possono rivestire gli artisti e sulle questioni sociali che attraversano il suo paese: «ha senso che le persone che svolgono le cosiddette professioni artistiche facciano incursioni in territori dove possono far valere le proprie competenze. Di contro, senza una profonda conoscenza dei problemi sociali dei nostri tempi è molto pericoloso fare incursioni in territori dove possiamo essere influenzati da forze esterne. È essenziale non farsi trascinare, e penso che per gli artisti che come me hanno una conoscenza solo superficiale del sistema politico e sociale sia un rischio schierarsi sotto qualsiasi bandiera politica» (p. 182).
Murray chiede anche a Bowie se si vede protagonista di qualche rivoluzione musicale ottenendo come risposta: «Nel rock penso sia molto difficile… Dopo aver espresso il tuo punto di vista iniziale, a meno che non se ne possa adottare più di uno, è difficile concepirne un altro che abbia la stessa potenza del primo. Per quanto mi riguarda, i primi anni settanta sono stati la mia occasione. Non credo che potrò impormi di nuovo come allora» (p. 188).

Dopo l’uscita di Never Let Me Down (1987) Bowie entra a far parte dei Tin Machine ed insieme al gruppo rilascia l’intervista “Boys Keep Swinging” di Adrian Deevoy (1989) per “Q” (UK). Nel corso del colloquio Bowie non manca di criticare le sue ultime produzioni da Let’s Dance a Tonight e Never Let Me Down ed ha modo di dichiarare la sua ammirazione per alcune band hardcore, trash metal e speed metal che ha avuto modo di ascoltare in America.
Durante il tour promozionale del secondo album dei Tim Machine, a Dublino viene rilasciata l’intervista mai pubblicata “Tin Machine II” di Robin Eggar (1991). Il tono della conversazione a cui partecipa la band è divertito.

L’uscita quasi in contemporanea dei dischi degli Suede e di Bowie è invece al centro di “Un giorno, figliolo, tutto questo potrebbe essere tuo…” di Steve Sutherland (1993) per “New Musical Express” (UK). Quella che doveva essere un’intervista al solo Bowie in uno studio di Camden, finisce per trasformarsi in un curioso scambio di impressioni tra Brett Anderson degli Suede e David Bowie sulla musica in senso stretto e sul mondo che gira attorno ad essa.

“Station to Station” di David Sinclair (1993) per “Rolling Stone” (USA) è invece una sorta di resoconto del “tour della memoria” che Bowie organizza a Londra alla ricerca dei suoi anni Settanta proprio in un periodo in cui quel decennio sembra essere tornato di moda. Si passa dalla visita al palazzo di Soho in cui si trovavano i Trident Studios ad un occhiata a quel che resta dei pub allora in auge nel South London, come il Thomas à Becket ove provavano Bowie ed i primi Spiders from Mars, poi è la volta di un salto nel cuore della città ad Heddon Street, dietro a Regent Street, ove è stata scattata la foto per la copertina di Ziggy Stardust, dunque un passaggio dal negozio in Charing Cross Road ove comprò il suo primo sassofono, poi la visita ai resti del Marquee Club ed all’Hammersmith Odeon (rinominato Hammersmith Apollo)… La conversazione si chiude su Mick Ronson, ormai malato terminale.

“Boys Keep Swinging” di Dominic Wells (1995) per “Time Out” (UK) è una doppia intervista che coinvolge, oltre a Bowie, anche Brian Eno e tocca soprattutto gli interessi artistici extra-musicali dei due. Anche in “Action painting” di Chris Roberts (1995) per “Ikon” (UK) la musica ha uno spazio per certi versi secondario; la conversazione tra Roberts e Bowie verte soprattutto sul postmodernismo, la recitazione e la letteratura.

In “Un geniale vecchiaccio” di Steven Wells (1995) per “New Musical Express” (UK) si salta repentinamente da un argomento ad un altro con una certa disinvoltura; si passa dalla fascinazione provata da Bowie per il misticismo nazista a metà anni Settanta, proprio quando l’estrema destra inglese sta facendo proseliti in Inghilterra, alla ricerca di spiritualità ed alla cupezza della gioventù americana… il tutto inframmezzato da qualche riferimento musicale in cui l’intervistatore ama insistere sui dischi di Bowie ritenuti peggiori.

«David Bowie è tra quei pochi che hanno direttamente influenzato il corso della musica popolare. Forse si può persino dire che Bowie è l’unico musicista che è riuscito a cambiare il volto del rock più di una volta nel corso della sua carriera» (p. 307). Da tali premesse prende il via l’intervista “Non è più A Lad Insane” di HP Newquist (1996) per “Guitar” (USA) che intende parlare soprattutto dei chitarristi con cui ha avuto a che fare Bowie: Mick Ronson, Robert Fripp, Reeves Gabrels, Adrian Belew, Carlos Alomar, Trent Reznor, Stevie Ray Vaughan…

bowie_mcqueenNel caso di “Fashion: turn to the left / Fashion: turn to the right” di David Bowie e Alexander McQueen (1996) per “Dazed & Confused” (UK), assistiamo ad una conversazione telefonica tra Bowie e lo stilista Alexander McQueen, British Designer of the Year del 1996. I due, un paio di anni prima, avevano concepito la redingote con la Union Jack indossata dal musicista anche per la foto della copertina di Earthling (1997) ed in questa chiacchierata discutono di moda evitando di prendersi troppo sul serio.

“Una stella ritorna sulla terra” di Mick Brown (1996) per “Telegraph Magazine” (UK) passa in rassegna i momenti salienti della carriera di Bowie fino alle soglie del suo cinquantesimo compleanno. In chiusura il pezzo iriporta un’affermazione di Brian Eno riferita esplicitamente all’amico: «Essere un camaleonte come lo era David è quantomeno poco convenzionale […] La cosa peggiore che possa capitare a una persona è non avere una chiara percezione di sé ed esserne terribilmente preoccupati. Ma io credo che sia arrivato alla conclusione che o si ha una percezione molto chiara di se stessi oppure non ci si preoccupa di non averla. Ora pensa solo: “Chi se ne importa!”» (p. 339).

“Changes Fifty Bowie” di David Cavanagh (1997) realizzata per “Q” (UK) è un’intervista raccolta in buona parte durante un tour americano. «All’inizio del 1996 Bowie è stato inserito da David Byrne nella Rock and Roll Hall of Fame di New York. Poi ha ricevuto il premio Outstanding Contribution to British Music al Brits di Londra. A novembre ha completato il suo ventunesimo album in studio, Earthling. Quest’anno David Bowie diventerà la prima rockstar quotata in borsa con titoli azionari a suo nome per un valore tra i trenta e i cinquanta milioni di sterline. Il giorno dopo il suo compleanno Bowie terrà un concerto di beneficenza al Madison Square Garden, dove la sua band di quattro elementi si arricchirà di ospiti speciali come Lou Reed, Foo Fighters, Sonic Youth e Robert Smith dei Cure. Nelle settimane che seguiranno a quell’evento Bowie vorrebbe dedicarsi alla lettura di un paio di sue biografie pubblicate di recente, Loving the Alien di Christopher Sandford e Living on the Brink di George Tremlett» (p. 341). Questo inizio di intervista sintetizza bene lo stato del successo di Bowie alla fine degli anni Novanta. Il pezzo di Cavanagh ha un po’ il tono di chi intende tracciare il bilancio della carriera di una popstar cinquantenne ancora ostinatamente sulla breccia.

Al bilancio della carriera sembra mirare, sin dal titolo, anche “Bowie. Una retrospettiva” di Linda Laban (1997) per “Mr. Showbiz” (USA). L’incipit dell’intervista conferma l’impressione: «David Jones nasce tra le macerie di una Gran Bretagna postbellica e cresce in una tetra periferia del sud di Londra. All’inizio degli anni settanta, David Bowie scuote la scena della musica hippie con una straordinaria visione apocalittica che, da allora, ha influenzato gruppi che vanno dai Cure ai Nine Inch Nails. Incapace di fermarsi un attimo, Bowie ha portato avanti un processo di reinvenzione artistica, se non addirittura personale, che può essere vista sia come una trasformazione calcolata che come un’ambiziosa ridefinizione della propria vita e della propria arte» (p. 354). Al di là della retrospettiva non mancano però alcune domande in cui l’intervistatore chiede a Bowie del suo rapporto con l’allora giovane mondo di internet.

Nel corso della promozione newyorchese di ‘hours….’ Bowie rilascia l’intervista “E ora dove avrò messo quei dischi?” di David Quantick (1999) per “Q” (UK) ed a proposito del nuovo album afferma: «ho cercato di catturare l’idea di canzone della mia generazione, perciò mi sono dovuto calare psicologicamente in una situazione di insoddisfazione nei confronti della vita, che nel mio caso non era reale. Dovevo crearmele le situazioni. Molto gira attorno a questo tizio che si innamora e si disinnamora ed è deluso e via dicendo. Non l’ho vissuto davvero, ma è stato un buon esercizio cercare di catturare ciò che vedevo, persino tra i miei amici, quel genere di vite vissute a metà, ed è proprio triste ma non ci si può fare niente, e loro si sentono incompleti, delusi e via dicendo» (p. 369).

“Bowie: l’uomo più elegante” di Dylan Jones (2000) per “GQ” (UK) è una conversazione con il musicista che nasce dal suo essere stato eletto “uomo più elegante dell’anno” dalla rivista. Degna di nota l’affermazione in chiusura di pezzo in cui Bowie dichiara: «Ho iniziato a introdurre le vecchie canzoni nei concerti attorno al ’97, quando ci esibivamo nel circuito dei festival estivi. In un contesto del genere c’è da presumere che non tutti siano venuti per te. Devi pensare: ‘Che cazzo, meglio che gli faccia ascoltare qualcosa che conoscono!’» (p. 382).

“Vale più di un mucchio di album di successo, questo. Grazie mille” di John Robinson (2000) per “New Musical Express” (UK) è un’intervista a Bowie fresco della coraggiosa, quanto (decisamente) opinabile, nomina da parte della rivista di “artista rock più influente di tutti i tempi”. Il tono proposto dall’intervistatore è dunque all’insegna della celebrazione e, per stemperare un po’ il clima, Sean Egan, introducendo il pezzo pubblicato da “New Musical Express”, afferma: «quest’intervista confermerà la principale obiezione dei detrattori di Bowie, ovvero che l’artista è spesso sembrato motivato non dall’amore verso il rock o il pop ma verso il proprio ego. O per dirlo con parole sue: ‘Ero sempre più interessato a cambiare ciò che io percepivo come musica pop…’» (p. 384).

All’insegna della ricostruzione della carriera è anche “Contatto” di Paul Du Noyer (2002) per “Mojo” (UK). Nonostante la recente uscita di Heathen (2002), l’intervistatore concede al nuovo album poco spazio preferendo passare in rassegna le tappe principali della carriera di Bowie dagli esordi sino alla “trilogia berlinese”. Così Bowie sintetizza la sua decisione di intraprendere, in giovane età, la strada musicale: «Amavo l’arte, il teatro e i tutti modi in cui ci si può esprimere con la cultura, e pensavo davvero che il rock fosse un ottimo modo per non dovervi rinunciare. Si possono infilare i mattoncini quadrati nei fori rotondi: incastrandoceli a forza finché non entrano. È un po’ quello che cerco di fare: un po’ di fantascienza di qui, un po’ di kabuki di qua, un filo di Espressionismo tedesco di là. È come se fossi circondato da amici […] Non sapevo scrivere una canzone, non ero particolarmente portato. Mi sono sforzato di essere un bravo cantautore, e sono diventato un bravo cantautore. Ma non avevo predisposizioni naturali. Ho lavorato tantissimo per diventare bravo. E l’unico modo che avevo per imparare era osservare gli altri» (pp. 396-397).

bowie_somaNichilismo, esistenzialismo e fine del mondo sono al centro di “David Bowie: una vita sulla terra” di Ken Scrudato (2003) per “Soma” (USA). «Ma non ero andato lì per parlare delle sonorità della chitarra o di produttori e sprecare un’opportunità. Che siano le riviste musicali a occuparsi di certi argomenti […] Volevo sapere questo: David, in questo nuovo mondo postmoderno, così sconcertante e deludente, perché e come diavolo fai a farlo ancora?» (p. 407). Così inizia il pezzo di Scrudato per “Soma”, rivista che si autodefinisce “voce e visione influente di arti avanguardistiche, moda, cultura e design”. Questa è, in definitiva, la risposta di Bowie circa cosa diavolo lo spinge a continuare per la sua strada: «Non so quante altre cose ancora mi restano da fare, sai? Ma fare musica è senz’altro in cima alla lista. Mi diverte moltissimo; adoro scriverla, adoro crearla. E penso che ognuno di noi abbia una passione che lo assorbe, della quale possiamo nutrirci: una storia d’amore con la vita. Penso che sia una sensazione che sta diventando sempre più difficile da accendere, ma cos’altro potrei fare se non questo?» (p. 413).

Sulle note di The Loneliest Guy, una ballata al piano piena di tristezza e nostalgia, si apre l’intervista “Un giorno perfetto” di Mikel Jollett (2003) per “Filter” (USA) e le prime tre considerazioni che il giornalista annota sul taccuino sono: «Pensiero 1: Questa canzone la sentiremo spesso alla radio. Pensiero 2: La sua sarà una rentrée niente male. Pensiero 3: Amo il mio lavoro» (p. 416).
Quando la conversazione si sofferma su Andy Warhol, artista a cui spesso, forse troppo ed a sproposito, è stato associato Bowie, così liquida bruscamente la questione il musicista inglese: «Non l’ho mai conosciuto. Voglio dire, cosa c’era da conoscere? Andy era difficile da inquadrare. Ancora oggi mi chiedo se nella sua mente passasse qualcosa. A parte le cose superficiali che diceva. Non so se facesse dei pensieri profondi, davvero non lo so. O se invece era solo un’astuta checca che aveva centrato lo Zeitgeist, ma non con l’intelletto. Diceva solo cose come (imitando perfettamente la parlata effeminata e strascicata di Andy Warhol): ‘Wow, hai visto chi c’è lì?’. Non andava mai, dico mai, più a fondo di così. (Adottando nuovamente la parlata strascicata.) ‘Accidenti, ma ha un aspetto fantastico. Quanti anni avrà ora?’. Di certo Lou [Reed] conosceva Andy molto, molto meglio di me. E lui dice sempre che nella sua testa ne passavano di cose. Ma io non ho mai avuto questa impressione» (p. 418).

Nell’ultima intervista proposta da Sean Egan, “Te la ricordi la tua prima volta?” di Paul Du Noyer (2003) per “The Word” (UK), il giornalista «ci fa capire come il rapporto tra un fan e un artista possa cambiare quando il primo diventa un giornalista professionista che si ritrova spesso vicino il suo vecchio idolo» (p. 425). Così scrive Paul Du Noyer: «La mia fedeltà verso Bowie non è mai vacillata nel corso degli anni settanta. Se mi rifiutai di vedere il magnifico tour di Ziggy Stardust è perché, da adolescente snob quale ero, non sopportavo i nuovi fan, quelli che lo avevano appena scoperto. E benché amassi Aladdin Sane e Diamond Dogs non riuscivo a tollerare le zazzere cremisi, le calzamaglie e la generale sgradevolezza dello stile glam rock. Quando si trasformò nel soul boy di Young Americans iniziai finalmente a considerare il look di Bowie accettabile, e nel 1976 decisi di seguire il suo nuovo grande tour, quello in cui nelle vesti del Sottile Duca Bianco promuoveva Station to Station […] In seguito andai a vederlo tutte le volte che si esibì a Londra: prima accanto a Iggy Pop nel 1977, poi all’Earls Court e infine nel 1983, quando fece tappa in città con il Serious Moonlight Tour, quello che promuoveva l’album della svolta commerciale (Let’s Dance) […] Negli anni ottanta un David più solare si mise a passeggiare lungo i boulevard del pop. Ma io non vidi in ciò un miglioramento. Mentre gli eccessi fisici e i disordini mentali degli anni settanta furono almeno accompagnati da album meravigliosi (Ziggy Stardust, Low e così via), il decennio successivo lo vide andare avanti per forza d’inerzia e pubblicare dischi mediocri come Never Let Me Down. Ero in preda alla disillusione […] Oggi Bowie considera quello un periodo di crisi creativa» (p. 439).

L’ultima intervista pubblicata dal volume si tiene nel novembre del 2003, successivamente escono The Next Day (2013) e l’antologia Nothing Has Changed (2014). L’ultimo album di David Bowie viene pubblicato l’8 gennaio 2016, un paio di giorni prima della morte, inevitabilmente accolto come una sorta di testamento recante come titolo una semplice blackstar.

Su Carmilla, il nostro Dziga Cacace, in un pezzo intitolato David Bowie, ecco, steso di getto a ridosso della scomparsa del musicista, nel gennaio del 2016, scrive «giusto due righe sulla parentesi musicale che tutti stanno dimenticando e che invece è paradigmatica di come Bowie sia stato un artista geniale, capace di reinventarsi ogni volta. Mi riferisco a quando ha deciso di far parte di una band, con identici diritti e doveri dei compagni di squadra: i Tin Machine, esperienza non solo sottovalutata ma anche apertamente osteggiata da tantissima critica dell’epoca e mai pienamente rivalutata dopo». A conferma di quanto scritto dal nostro, in diverse interviste tra quelle selezionate e pubblicate da Sean Egan, l’ostilità della critica musicale anglosassone nei confronti dell’esperienza di David Bowie con i Tin Machine è esplicita e ripetuta.

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Sulla quistione Checco Zalone https://www.carmillaonline.com/2016/01/22/sulla-quistione-checco-zalone/ Fri, 22 Jan 2016 21:45:54 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28245 di Mauro Baldrati

quo-vado-checco-zaloneIl film, di per sé, non si presta a recensioni che non siano schede leggere degli eventi e delle gag. E’ la sua natura. Per cui creano imbarazzo certe disamine di critici e intellettuali generalisti, nelle quali si analizzano addirittura i simboli del film, e, con dissertazioni alquanto complesse, persino i “difetti”. Il lettore prova disagio per gli autori di questi saggi su Quo Vado?. Prova imbarazzo perché non può non pensare: quanto pensiero sprecato!

Questi, infatti, sono gli aspetti più interessanti della suddetta quistione: la corsa all’oro della recensione di un’opera che non si presta al gioco, [...]]]> di Mauro Baldrati

quo-vado-checco-zaloneIl film, di per sé, non si presta a recensioni che non siano schede leggere degli eventi e delle gag. E’ la sua natura. Per cui creano imbarazzo certe disamine di critici e intellettuali generalisti, nelle quali si analizzano addirittura i simboli del film, e, con dissertazioni alquanto complesse, persino i “difetti”. Il lettore prova disagio per gli autori di questi saggi su Quo Vado?. Prova imbarazzo perché non può non pensare: quanto pensiero sprecato!

Questi, infatti, sono gli aspetti più interessanti della suddetta quistione: la corsa all’oro della recensione di un’opera che non si presta al gioco, che addirittura non l’accetta, perché non possiede il know how adeguato, né si pone il problema di possederlo. La spiegazione, l’analisi dell’analisi, sta nel senso dell’olfatto. Sì, l’odore. Quando un’opera sprigiona l’aroma fragrante del “pop” parte l’assalto. Tutti si precipitano su quel magnifico fiore dischiuso per succhiarne il nettare, offrendogli la diffusione del polline e al contempo godendo del suo frutto, che costituisce un nutrimento prezioso.

L’effetto di questa forma di migrazione mediatica infatti è duplice: da un lato si contribuisce alla propagazione dell’opera e si potenzia la sua forza dirompente, attraverso la moltiplicazione dei titoli, delle immagini, delle opinioni (che spesso coincidono, in una sorta di coro omogeneo), e, ovviamente, delle lodi, che qua e là assumono toni estremi. Dall’altro si succhia la sua aggressività pop, si avvicina la propria “griffe” al fenomeno del momento. Insomma, proprio come quando ci si fa fotografare abbracciati al cantante famoso, all’attore famoso, allo sportivo famoso, al politico famoso.

Ecco quindi commenti irritati su chi osa mettere in dubbio la verticalità artistica-filosofica dell’opera-evento. Ecco i più opportunisti degli opportunisti, i politici, cercare di insinuarsi nella scia della nuova cometa pop: il “ministro” e “scrittore” Franceschini; il “Presidente del Consiglio”; Salvini (Zalone ministro della cultura), e così via.

Questo atteggiamento, ovviamente, non è riservato solo a Zalone, ma a tutte le stelle del firmamento pop, dove la più luminosa è certamente il papa. Woityla, e oggi Francesco, sono i massimi campioni, verso i quali i media si lanciano all’assalto con toni parossistici.

Ma come mai un’opera o un personaggio diventano dei campioni pop? Le interpretazioni si accavallano, ma sono deboli e approssimative. Oltre che sulla filologia del film, molti commentatori si sono scervellati per spiegare le motivazioni del successo monstre di Quo Vado? E’ un film per tutti, è un’occasione per andare al cinema con lo zio, la nonna; e’ un buon motivo per ridere tutti insieme, per unire le famiglie disaggregate. Soddisfa la voglia di leggerezza in un paese intristito dalla crisi. Cose così.

Ma una causa-effetto importante sfugge. O forse non sta bene rilevarla, perché appesantisce la lirica del personaggio-evento, ed è la potenza mediatica di cui dispone. E’ piuttosto difficile diventare un campione pop se i media non si impegnano. Il papa dice cose sulla giustizia, la povertà, la fratellanza, la modestia, dall’alto di una delle più grandi multinazionali del pianeta, con un fatturato di miliardi e interessi nella finanza, l’edilizia, l’istruzione, la sanità, la politica. E il film di Zalone è prodotto da Mediaset (Medusa e Taodue), che ha la proprietà della maggioranza delle sale cinematografiche. E’ stato distribuito in 1.500 copie, quasi il doppio di Guerre Stellari. Si hanno notizie di piccole città, soprattutto del Sud, dove l’unico film proiettato era Quo Vado? E di persone che in certi cinema non sono riuscite a raggiungere la cassa per la fila chilometrica di Zalone. L’eroismo pop non è immune dall’imposizione del suo modello. Non è così puro. Non è così poetico.

E il film?
Come premesso, non si presta a un’ennesima analisi impegnata, ma neppure a una stroncatura. Per citare il menu di certe macchinette per il caffè, che offrono una “bevanda a base di caffè”, è uno “spettacolo a base di comicità”. Fa ridere, alcune gag sono molto divertenti. Usa con abilità i luoghi comuni italici, il posto fisso, l’italiano nel mondo, i norvegesi, l’uomo maschio, la donna, con l’immancabile finale etico-buonista. Zalone è bravo, e la sua imitazione di Gramellini (non nel film, ma in televisione, da uno che nell’adulazione del successo pop è un Grande Maestro, Fabio Fazio) per dire, è spassosa.

Che altro?

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