pogrom – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 26 Aug 2025 21:53:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E allora Hamas? La violenza degli oppressi e i dilemmi della sinistra occidentale https://www.carmillaonline.com/2024/08/02/e-allora-hamas-la-violenza-degli-oppressi-e-i-dilemmi-della-sinistra-occidentale/ Fri, 02 Aug 2024 04:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83501 di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza [...]]]> di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria. Credo che questo sia un buon punto di partenza per chi vuole esprimere la doverosa e piena solidarietà con la lotta del popolo palestinese mantenendo allo stesso tempo uno sguardo lucido sulle posizioni in campo.
Queste considerazioni sulla violenza si possono trovare nel pamphlet Gaza davanti alla storia di Enzo Traverso, sebbene non appartengano direttamente all’autore che le riprende da Jean Améry, un sopravvissuto ai campi di sterminio della Seconda guerra mondiale. Si tratta di riflessioni che partono proprio dalla condizione dei prigionieri nei lager nazisti. Se qualcuno si scandalizzasse per il paragone tra i palestinesi perseguitati dal colonialismo sionista e gli ebrei vittime del genocidio hitleriano si deve notare che è lo stesso Améry che, riflettendo sugli scritti di Fanon, accosta “l’oppresso, il colonizzato, il detenuto del campo di concentramento, forse anche lo schiavo salariato sudamericano” nelle sue considerazioni sulla violenza.1

Il rovesciamento tra la vittima di ieri e il carnefice di oggi non è l’unica inversione di cui prende atto Traverso riflettendo sulla tragedia di Gaza. Definire i palestinesi come “animali umani” (come ha fatto ultimamente il ministro della difesa israeliano Gallant) o “scarafaggi drogati dentro una bottiglia” (come fece nel 1983 dal capo di stato maggiore dell’esercito Eitan) rimanda immediatamente a stereotipi antisemiti importati in Medio Oriente. Questi “animali umani” che sgusciano fuori dai tunnel per colpire un esercito di occupazione, inoltre, non possono che evocare la tragica lotta degli ebrei nel ghetto di Varsavia nel 1943. La parte più estremista dell’attuale governo di Netanyahu, in aggiunta, apprezza esplicitamente la formula di “spazio vitale” israeliano applicata all’intera Palestina storica. Un apprezzamento che dimentica come questo concetto nasce per opera dei pangermanisti che consideravano le frontiere stabilite dal diritto internazionale come pure astrazioni, rivelatrici di un pensiero disincarnato di marca ebraica. Infine, sono proprio gli antisemiti dichiarati di ieri ad essere i più pronti a denunciare il presunto razzismo antiebraico di chi si oppone al sionismo (salvo continuare a coltivare in segreto i loro vecchi e osceni sentimenti, come ha mostrato l’inchiesta di Fanpage).
Va bene, si dirà, queste sono sottigliezze intellettuali, mentre l’azione di Hamas è stata cosa ben più concreta. Si sarebbe trattato di un’azione terroristica, di più, di un pogrom, figlio di una concezione fondamentalista e, al fondo, antisemita dell’organizzazione palestinese. Di fronte a queste accuse, bisogna osservare che l’attacco di Hamas non può essere definito un pogrom, se le parole devono avere un significato determinato. Perché Hamas non è al potere in uno stato in cui gli ebrei sono una minoranza oppressa, come nella Russia zarista. È evidente che l’utilizzo del termine pogrom serve solo a marchiare l’organizzazione islamica con lo stigma dell’antisemitismo.
Ma si può parlare di terrorismo? Traverso sostiene di sì perché l’attacco di Hamas aveva l’esplicito intento di rovesciare sulla popolazione israeliana il terrore vissuto per decenni dai palestinesi. Per questo motivo non esita a condannare questa azione. Lo ripete più volte. L’oppressione subita non giustifica l’eccidio di civili innocenti così come “la profonda paura esistenziale” degli ebrei, che nasce dalla lunga storia dell’antisemitismo culminata nella Shoah, non rende Israele ontologicamente innocente. 

Eppure, non si può assolutamente parlare di ragioni opposte ed equivalenti. È vero che quelle dei palestinesi e degli israeliani, come sostiene Edward Said citato da Traverso, sono memorie incrociate che si ignorano e si negano a vicenda: la prima è incentrata su una vicenda storica fatta di espropriazione, sradicamento, espulsione dalla propria terra, occupazione e privazione dei propri diritti; la seconda sulla conquista dell’indipendenza, sulla riappropriazione di una terra cui si avrebbe diritto per decreto biblico e sul riscatto da parte di un popolo di vittime. Ma da queste memorie opposte nascono azioni che, ripetiamolo insieme allo storico italiano, non possono essere considerate equivalenti: l’esistenza di un esercito di occupazione è in sé condannabile, mentre le azioni della resistenza sono di per sé legittime, anche quando sono violente, salvo poter essere criticate per gli specifici mezzi che di volta in volta sono utilizzati.
Il fatto è che la questione della violenza degli oppressi e degli sfruttati è oramai diventata un tabù e fa bene Traverso a richiamarla in tutta la sua crudezza.

Decenni di politiche memoriali focalizzate quasi esclusivamente sulla sofferenza delle vittime, tese a presentare la causa degli oppressi come trionfo dell’innocenza, hanno eclissato una realtà che appariva ovvia in altri tempi. Gli oppressi si ribellano ricorrendo alla violenza e la loro violenza non è bella né idilliaca, talvolta è anzi raccapricciante.2

È falso pensare che i movimenti di liberazione e il terrorismo siano due fenomeni privi di relazioni. Per quanto deplorevole, sostiene Traverso, l’uccisione di civili è sempre stata l’arma dei deboli nelle guerre asimmetriche: questo è stato vero per il Fronte di liberazione nazionale in Algeria, per i vietcong in Vietnam, per l’African National Congress di Mandela in Sud Africa, per l’OLP di Arafat prima degli accordi di Oslo e anche per l’organizzazione ebraica Irgun prima della nascita di Israele.
Marco Revelli, recensendo il testo di Traverso, ha negato l’analogia tra questi esempi storici e l’attacco di Hamas perché in quest’ultimo ci sarebbe qualcosa che va oltre il massacro di civili innocenti: c’è la ricerca consapevole della rappresaglia indiscriminata di Israele contro la stessa gente di Gaza, la deliberata provocazione del martirio di massa come strumento di propaganda e di proselitismo.3 La questione è certamente importante, ma nel testo di Traverso si risponde in anticipo a questa obiezione. L’autore di Gaza davanti alla storia cita infatti Giorgio Bocca il quale, affrontando il tema del terrorismo della lotta partigiana in Italia contro i nazi-fascisti, parla di “un atto di moralità rivoluzionaria” finalizzato a provocare e inasprire il terrorismo dell’occupante. Si tratta, sostiene ancora Bocca, di “autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E una pedagogia impietosa una lezione feroce”.4 

Insomma, è necessario abbandonare le ingenue illusioni in cui la sinistra occidentale si culla troppo facilmente:

La linea di demarcazione tra il terrorista e il combattente non è sempre chiara; le due figure si sovrappongono. L’immagine sublime del combattente come eroe immacolato è un mito; quella stereotipata del terrorista come bruto, fanatico, esaltato e crudele, inebriato dalla hybris della morte e del sangue, è altrettanto falsa.5

L’immagine di Hamas come un esercito di belve assetate di sangue contrapposto alla visione dello stato di Israele come un’isola democratica in mezzo all’oceano oscurantista del mondo arabo fa parte di un arsenale ideologico che attinge a piene mani all’orientalismo di cui ci parla Edward Said, sempre citato da Traverso. I suoi assiomi, storicamente essenziali per l’autodefinizione dell’Occidente in contrapposizione all’Oriente, sono rimasti i medesimi: civiltà contro barbarie, progresso contro arretratezza, illuminismo contro oscurantismo. La cosa singolare è che gli ebrei per secoli hanno rappresentato l’Oriente interno nel mondo Europeo. Con la fondazione dello stato di Israele hanno invece attraversato la “linea del colore”: sono diventati bianchi (compresi gli israeliani di provenienza non occidentale, di cui è stato di fatto cancellata la storia) in contrapposizione al mondo musulmano che, a seguito delle dinamiche migratorie, è diventato il nemico interno (oltre che esterno) per eccellenza, oggetto di razzismo sistemico. L’immaginaria dicotomia ontologica istituita dall’orientalismo, aggiunge però Traverso, oggi muta di segno: se nel XIX secolo l’Occidente pretendeva di diffondere la civiltà attraverso le sue conquiste, oggi si sente una fortezza assediata. E per questo diventa più feroce, fino al punto di non farsi scrupolo di perpetrare un genocidio trasmesso in diretta attraverso la TV e i social. 

L’utilizzo del concetto di genocidio è fonte di infinite polemiche, anche nella sinistra radicale. Traverso, sulla base della definizione della Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948 e della sentenze della Corte internazionale di giustizia dello scorso gennaio, sostiene che è pienamente legittimo. Personalmente ritengo questo dibattito un po’ stucchevole, a maggior ragione dopo le ultime catastrofiche previsioni della rivista The Lancet (che ovviamente non possono essere prese in considerazione da Traverso): tenendo conto dei morti accertati fino all’inizio di luglio 2024 e delle immani e deliberate distruzioni di tutte le infrastrutture civili di Gaza, si può stimare, prudenzialmente, che ci saranno fino a 186.000 decessi dovuti direttamente e indirettamente alla guerra, pari al 7,9% della popolazione della Striscia.
Per evitare inutili polemiche si può aggiungere che 
lo sterminio dei palestinesi non è un obiettivo in sé per Israele perché il fine ultimo dello Stato ebraico è la pulizia etnica della Palestina storica. C’è dunque una differenza significativo rispetto a quanto avvenne agli ebrei sotto la Germania nazista. Ma, è questo il punto messo in evidenza da Traverso, occorre superare un immaginario popolare per il quale un genocidio “deve assomigliare all’Olocausto per meritare questo titolo”. Diversi possono essere i mezzi (proiettili, camere a gas, machete, carestie provocate o non contrastate, bombardamenti sistematici pianificati dall’intelligenza artificiale) e gli obiettivi (sterminio con motivazioni razziali, conquista e sottomissione, sostituzione di una popolazione autoctona). Nel caso specifico, non essendoci le condizioni concrete per un esodo di massa forzato della popolazione, sia per la resistenza palestinese sia per l’ovvia indisponibilità degli stati limitrofi, la pulizia etnica, se perseguita fino in fondo, tende inesorabilmente a trasformarsi in un genocidio.

Seppur ammettiamo la possibilità di un esito estremo delle azioni belliche di Israele, non dobbiamo comunque riconoscere che il massacro di Gaza è una guerra riparatrice di fronte all’improvvisa apparizione del male, alla fulminea esplosione di odio rappresentata dall’attacco del 7 ottobre? Insomma, per quanto terribile sia la risposta dello stato ebraico non siamo di fronte a una colpa che si configura al massimo come eccesso di difesa? La cattiva coscienza dell’Occidente qui si esprime qui alla massima potenza. Il 7 ottobre, qualsiasi cosa si pensi della legittimità dei mezzi utilizzati da Hamas,  è “una tragedia metodicamente preparata da chi vorrebbe oggi indossare i panni della vittima”6 ci dice Traverso snocciolando i dati di una triste contabilità che non può lasciare adito a dubbi: tra il 2008 e il 6 ottobre 2023 l’esercito israeliano ha ucciso più di 6.300 palestinesi, di cui oltre 5.000 a Gaza, ferendone 158.440, mentre le vittime israeliane delle azioni di Hamas e altri gruppi palestinesi sono state 310 e i feriti 6.460; nel solo 2023, fino al 6 ottobre, Tsahal aveva ucciso aveva ucciso 248 palestinesi nei territori occupati e ne aveva arrestati 5.200.
E non è tutto. Ci sono altri numeri che smascherano l’ipocrisia di chi oggi, dopo anni di oblio, torna a parlare della soluzione a due stati per il cosiddetto conflitto israelo-palestinese: “Dopo l’annessione di Gerusalemme, in cui sono stati trasferiti almeno 200.000 coloni, l’insediamento di altri 500.000 in Cisgiordania e la distruzione di Gaza, l’ipotesi di due stati è diventata oggettivamente impossibile”.7 Questi dati testimoniano in modo incontrovertibile che Israele ha sistematicamente boicottato gli accordi di Oslo che avrebbero dovuto portare alla creazione dello stato palestinese con l’obiettivo di affossare per sempre le rivendicazioni dei palestinesi. 

Ma quali sono queste rivendicazioni? From the river to the sea Palestine will be free recita uno dei più famosi slogan che i media mainstream si ostinano a considerare antisemita perché alluderebbe a una cacciata degli ebrei dal loro stato. E se il suo significato fosse completamente diverso? Se esso ci prospettasse l’idea di un unico stato laico e binazionale, in grado di garantire a tutti i cittadini ebrei e palestinesi uguali diritti, come sosteneva vent’anni fa Edward Said? Un’idea che certamente non era il solo a sostenere. 

Il progetto di uno stato federale binazionale è stato a lungo quello dell’OLP e di una corrente della sinistra israeliana antisionista, il Matspen. Prima della nascita di Israele, esso era al centro di un movimento allora conosciuto come ‘sionismo culturale’.8

Oggi questa prospettiva appare quanto mai lontana. Eppure, sostiene Traverso, rimane più credibile della ipotesi, strumentalmente resuscitata dai paesi occidentali, dei due stati che, a parte il suo esplicito rifiuto da parte di una recente risoluzione del parlamento israeliano, richiederebbe una pulizia etnica incrociata dei rispettivi territori. “La storia è fatta di pregiudizi che vengono abbandonati e che a posteriori appaiono come stupidi anacronismi. A volte le tragedie servono ad aprire nuovi orizzonti”9, commenta Traverso facendo appello a una buona dose di ottimismo della volontà. 

Avviandoci alle conclusioni, bisogna ammettere senza ipocrisie che in mancanza dell’attacco del 7 ottobre il progetto di cancellare la questione palestinese dall’agenda internazionale attraverso la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi sarebbe andato avanti senza particolari ostacoli. Una circostanza che impedisce di sottovalutare il ruolo di Hamas, nonostante tutte le riserve che si possono avere nei confronti dell’organizzazione islamica.

Il massacro del 7 ottobre va condannato e l’ideologia fondamentalista dei suoi esecutori può certamente essere criticata, ma negare l’appartenenza di Hamas alla resistenza palestinese invocando la sua natura terroristica non è serio ne utile.10

In sede di commento, bisogna notare che Hamas non è solo parte della resistenza. Come afferma perentoriamente Jodi Dean in un articolo che le è costato il sollevamento dai suoi compiti di insegnamento nei democratici Stati Uniti:La lotta per la liberazione palestinese oggi è guidata dal Movimento di Resistenza Islamico — Hamas. Hamas è sostenuto dall’intera sinistra palestinese organizzata”.11 In realtà, per quanto se ne possa capire dall’esterno, la situazione della sinistra sembra più articolata. Quel che si può dire con ragionevole certezza e che, nell’ambito delle formazioni progressiste palestinesi, esiste una parte che “si schiera con le forze islamiche sul piano della resistenza condivisa all’anticolonialismo, ma prende le distanze sul piano dell’agenda sociale, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP)”.12 Si tratta di una posizione che appare basata sulla convinzione che per competere con gli islamisti occorre farlo nella resistenza. Non chiamandosene fuori. E dunque insieme ad Hamas che oggi è l’organizzazione militarmente e politicamente più forte. Un ragionamento che potrebbe far pensare ai comunisti iraniani che nel 1979 parteciparono attivamente alla rivoluzione in Persia per poi essere massacrati dalle forze di Khomeini. Un precedente storico che non è destinato per necessità a ripetersi, ma che rappresenta un monito da tenere in dovuta considerazione.

Queste riflessioni sono veramente troppo parziali per ambire a chiudere il discorso. Vogliono piuttosto mettere in luce quali sono i problemi che abbiamo di fronte. E forse, da un punto di vista concettuale, il problema più grosso oggi è rappresentato dal fatto che la crisi dell’egemonia occidentale ci costringe a rivedere molte delle nostre posizioni. Il socialismo, la laicità, l’universalismo umanista ecc. entravano nelle lotte dei popoli colonizzati al seguito delle merci e ai capitali che invadevano le loro terre. Sembra che oramai l’Occidente abbia molto di meno da offrire sia sul piano delle idee che su quello materiale. Franz Fanon, in una fase storica molto diversa da quella attuale, ammoniva i popoli in lotta contro il colonialismo che il nazionalismo “se non si trasforma molto rapidamente in coscienza politica e sociale, in umanesimo, porta a un vicolo cieco”.13 Possiamo ancora considerare attuale questo avvertimento? Di certo, se esso deve valere ancora oggi, abbiamo bisogno di un umanesimo e di una coscienza politico-sociale ben più articolate di quanto abbiamo pensato in passato, capaci di accogliere la complessità di un mondo che oramai presenta differenti e divergenti configurazioni spazio-temporali dello sviluppo capitalistico.  Anche se questa complessità più che una forma di multipolarismo oggi produce una sorta di caos sistemico foriero di foschi scenari bellici.
E tutto quanto detto vale a maggior ragione in Palestina se vogliamo arrivare a una qualche soluzione che eviti esiti terrificanti come pulizia etnica e genocidio. La resistenza armata dei palestinesi è un passaggio ineludibile in questo processo. Ma non bisogna mai dimenticare che uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria.  


  1. Cfr. Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 64-65. 

  2. Ivi, p. 65. 

  3. Marco Revelli, Traverso, Gaza davanti alla storia,
    https://www.doppiozero.com/traverso-gaza-davanti-alla-storia. 

  4. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, 1966, p. 135. 

  5. E. Traverso, Gaza davanti alla storia, cit. p. 70. 

  6. Ivi, p. 13. 

  7. Ivi. p. 82-83. 

  8. Ivi, p. 88-89. 

  9. Ivi, p. 88. 

  10. Ivi, p. 72. 

  11. Jodi Dean, Palestine speaks for everyone,
    https://www.versobooks.com/blogs/news/palestine-speaks-for-everyone.  

  12. Abdaljawad Omar, La questione di Hamas e la sinistra
    https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/28323-algamica-la-questione-palestinese-oggi-e-la-crisi-della-sinistra-occidentale.html

  13. Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007. p.137. 

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Storie da una terra imbevuta di sangue e tradimenti https://www.carmillaonline.com/2023/04/20/storie-da-una-terra-imbevuta-di-sangue-e-tradimenti/ Thu, 20 Apr 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76882 di Sandro Moiso

Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro

E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi [...]]]> di Sandro Moiso

Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro

E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi luoghi.

Jósef Marian Franciszek Hutten-Czapski (1896- 1993), polacco e fervente cattolico, è stato un artista, scrittore e critico. Ma è stato anche ufficiale dell’esercito polacco proprio nel momento dell’invasione della Polonia nel 1939, sia da parte dell’esercito tedesco (1° settembre) che dell’esercito sovietico (17 settembre dello stesso anno), poco meno di un mese dopo la firma del trattato di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania, meglio noto come Patto Molotov-Ribbentrop, avvenuta il 23 agosto di quell’anno, che in un «protocollo segreto» aveva stabilito la spartizione della Polonia .

I fatti narrati nel libro iniziano al momento della liberazione di Czapski, all’inizio del settembre 1941, dal campo di prigionia di Grjazovec, dove era stato internato come prigioniero di guerra dei russi dopo esser passato per quello di Starobel’sk nell’autunno del 1939. La novità era costituita dal fatto che, dopo l’aggressione tedesca all’Unione Sovietica del 22 giugno 1941, il 14 agosto era stato firmato un accordo tra Stalin e Sikorski1 per la costituzione, sul territorio dell’URSS, di un’armata polacca composta da soldati in precedenza fatti prigionieri dai sovietici e deportati.

E’ proprio nel corso del servizio prestato in tal senso che l’autore delle memorie pubblicate da Adelphi giunge a conoscenza del massacro, perpetrato ai danni degli ufficiali dell’esercito polacco, a Katyn sullo stesso suolo della Polonia ad opera della Ceka e dei reparti dell’Armata rossa. Sono gli ufficiali che nel conteggio, in previsione della ricostituita armata polacco, mancano. Esclusi “ragionevolmente” (ma può essere ragionevole un conteggio del genere?) coloro che potevano essere morti di stenti durante la prigionia o per le ferite riportate in battaglia e malamente curate nei campi di detenzione sovietici, gli assenti risultavano infatti essere ancora troppi.

Come scriverà lo stesso Czapski in un articolo comparso in Francia nel 1948:

Ecco i fatti e le date che hanno fatto da sfondo al crimine: dal momento in cui invasero il territorio polacco nel diciottesimo giorno della nostra lotta contro l’aggressore nazista2, le truppe sovietiche fecero prigionieri circa duecentomila soldati, successivamente smistati in centinaia di campi sparsi su tutto il territorio sovietico.
Quasi tutti gli ufficiali e qualche migliaio di soldati catturati armi in pugno nel settembre del 1939 passarono, fra l’ottobre del 1939 e il maggio del 1940, da tre campi ricavati da monasteri abbandonati, a Starobel’sk, Kozel’sk e Ostaškov.
Il 5 aprile del 1940, nelle tre località suddette si trovavano 15.000, fra cui 8700 ufficiali. Di questi, solo 448 fra ufficiali e soldati sono sopravvissuti. Dopo l’evacuazione dei campi erano stati trasferiti a Grjazovec e nelle prigioni di Mosca, da dove furono successivamente rilasciati dopo l’inizio della guerra tedesco-sovietica e la stipula dell’accordo tra Stalin e Sikorski.
Il resto, un numero compreso fra i 14.500 e i 15.000 uomini, è scomparso.
[…] Le notizie già rare che costoro riuscivano a inviare in patria alle famiglie avevano smesso del tutto di arrivare verso la fine di marzo del 1940. Da allora nessuno dei prigionieri dispersi aveva più dato segni di vita.
Dopo che, nel 1941, furono ripristinati i rapporti diplomatici russo-polacchi, le nostre autorità intrapresero numerosi tentativi volti almeno a rintracciare i dispersi. In quanto ex prigioniero di Starobel’sk dall’ottobre del 1939, liberato poi dal campo d’internamento di Grjazovec nell’estate del 1941, nell’ottobre di quell’anno fui posto a capo dell’Ufficio ricerche scomparsi3.

A complicare le cose, dopo che Czapski aveva dovuto abbandonare le ricerche perché trasferito ad altro incarico e sede nel 1942, fu il fatto che a rivelare la scoperta delle fosse di Katyn’, in cui i cadaveri degli scomparsi erano stati sepolti e nascosti, fossero proprio gli “avversari” tedeschi che nell’aprile del 1943, via radio, annunciarono al mondo la macabra scoperta. Come sottolinea, ancora nello stesso articolo, l’autore:

Così la propaganda tedesca fu la prima a dare informazioni sull’eccidio di Katyn’. La notizia trasmessa da Goebbels4 mi raggiunse direttamente via radio in Iraq, dove mi trovavo insieme all’armata polacca che si preparava all’offensiva sul territorio italiano. La notizia non era che la conferma di ciò che a me era chiaro già da un anno, in seguito ai miei sforzi di ritrovare i compagni scomparsi5.

La diatriba sull’effettiva responsabilità del massacro andò avanti fino alla fine della guerra e ancora oltre, con tedeschi e sovietici che sembravano rimpallarsi la colpa del massacro, ma quello che più colpisce, ancora a distanza di decenni, è il fatto che le stesse nazioni che utilizzavano la ricostituita armata polacca fuori dai confini orientali d’Europa, dove avrebbe potuto costituire motivo di intralcio alle mire espansionistiche di Stalin, poi definite nelle conferenze di Teheran (28 novembre – 1° dicembre 1943) e di Jalta (4-11 febbraio 1945), invitassero i polacchi ad astenersi dal commentare il fatto, anche se il governo inglese «sapeva da tempo chi era responsabile dell’eccidio, perché sin da subito gli erano stati trasmessi tutti i documenti riguardanti la vicenda»6. Motivo per cui Czapski si vedeva costretto a ricordare come:

Seguendo le raccomandazioni della propaganda di guerra, tutta la stampa inglese, salvo rare eccezioni, troppo a lungo ha taciuto sulle fosse di Katyn’. Non si poteva certo imputare un simile crimine ai russi, allora considerati l’incarnazione della democrazia e della giustizia.[…] «Non risusciterete le vittime parlandone» avrebbe detto a uno dei nostri rappresentanti un eminente politico inglese. Pareva si dovesse stendere un velo sull’intera faccenda. La stampa inglese dava perfino motivo ai suoi lettori di trarre false conclusioni, presentando i polacchi come gente che metteva in giro notizie assurde7.

Come ha scritto recentemente, in un suo libro sulla guerra, Edgar Morin:

Se il nazismo fu giustamente giudicato e condannato nel processo di Norimberga, questo occultava ipso facto i crimini dello stalinismo, e ciò tanto più perché uno dei procuratoti di quel tribunale fu Andrej Vyšinskij, già procuratore dei processi di Mosca del 1935-1937, che condannò non solo a morte, ma anche all’abiezione le vittime innocenti delle sue false accuse di tradimento e di spionaggio. […] E così come occultammo la barbarie dei bombardamenti americani, occultammo quella dello stalinismo: l’orrore dei campi hitleriani che scoprimmo sul posto ci impedì di vedere o ci fece ignorare l’orrore del Gulag sovietico8.

E di Katyn’, si potrebbe certamente aggiungere.
Senza contare che, al momento della chiusura della prima edizione del libro di Czapski, le vittime certe di Katyn’ parevano essere non meno di 4143. Di queste era stato possibile identificarne 2919, ovvero «l’ottanta per cento dei nomi che figuravano nella prima lista di 3845 ufficiali scomparsi che era stata presentata da Sikorski a Stalin e in quelle supplementari redatte in seguito»9. Di modo che l’autore, dopo aver rilevato che le salme erano soltanto quelle degli ufficiali scomparsi dal campo di Kozel’sk, era costretto ancora a domandarsi:

Se le vittime di Katyn’ sono i prigionieri di guerra di Kozel’sk, è inevitabile chiedersi che fine abbiano fatto i prigionieri dei campi di Starobel’sk e di Ostaškov. Nessuno di loro è stato ritrovato a Katyn’, ma nessuno di loro ha neppure mai dato alcun segno di vita. […] La sorte dei prigionieri di Starobel’sk e di Ostaškov è ancora ignota, e le fosse di Katyn’ non chiariscono il mistero della loro sparizione. Le autorità sovietiche non ce li hanno mai riconsegnati e non ci hanno mai fornito alcuna informazione sulla loro sorte10.

Forse non avrebbe mai potuto immaginare che le vittime totali di quel massacro, come appurato dalle indagini degli anni seguenti, ma già basate sulle analisi della commissione internazionale che aveva operato a Katyn’ in precedenza, ammontassero a 22mila. Solo alcuni decenni più tardi, infatti, furono scoperti a Kharkov e a Mednoe i luoghi dove erano stati uccisi e sepolti i prigionieri di Starobel’sk e Ostaškov, a cui dovevano essere aggiunti altri 7300 polacchi uccisi nelle prigioni ucraine e bielorusse11.

Dopo la decapitazione dell’esercito polacco e la distribuzione dei reparti della rinnovata armata su più fronti ad opera degli “alleati”, il successivo il fallimento dell’insurrezione del ghetto ebraico di Varsavia (19 aprile – 16 maggio 1943), cui le forze nazionaliste polacche non diedero il minimo sostegno militare12, e dell’insurrezione di Varsavia (1° agosto – 2 ottobre 1944), cui invece la presenza di un’armata polacca su quel fronte avrebbe potuto dare un consistente aiuto, ma che fu violentemente repressa dalle forze della Wermacht, senza che l’armata rossa, già schierata alle porte della città, intervenisse prima che la rivolta fosse definitivamente schiacciata13, la Polonia fu integrata, con confini diversi da quelli precedenti il conflitto, nell’Europa Orientale ristrutturata geopoliticamente secondo gli interessi di Mosca (e Washington).

Oltre a ciò, va qui segnalata una straordinaria similitudine tra il silenzio occidentale su Katyn e quello sulle notizie provenienti dai lager nazisti a proposito del trattamento riservato agli ebrei prigionieri14. La stessa ipocrisia regolò i rapporti tra le potenze, alleate e non, sia in un caso che nell’altro. Ipocrisia che su tutti i fronti anima e giustifica ancora l’attuale conflitto in Ucraina, da parte di tutti i contendenti attivi o mascherati che siano.

Un conflitto che, come il precedente, affonda le radici in territori in cui la Storia sanguinosa e sanguinaria degli ultimi quattro secoli ha visto piantare i semi di un odio profondo alimentato da conquiste territoriali, dispersione di imperi, compreso quello polacco precedente all’espansione dell’impero russo e di quello asburgico prima e prussiano poi, pogrom spietati e manovrati dal potere15 e dall’odio cattolico antisemita nella stessa Polonia e ancora in Ucraina16. Una terra impregnata di sangue e dolore, cui all’inizio del ‘900 contribuirono ancora gli alti e bassi della Rivoluzione bolscevica, la successiva guerra civile e la grande crisi agricola e alimentare degli anni ’30, al di qua e al di là degli attuali confini della Federazione Russa, della Polonia e dell’Ucraina. Una storia tragica, mai giunta a conclusione, che ben poco lascia sperare in una risoluzione “diplomatica” di un conflitto destinato ad estendersi ancora nel tempo e nello spazio.

Józef Czapski è stato uno dei testimoni più significativi di un momento drammatico di questa lunga storia, attraverso un’odissea che lo ha portato ad attraversare l’intera Unione Sovietica e gli eventi più estremi del secolo scorso. Un’odissea raccontata in presa diretta e in ogni – spesso sconvolgente – dettaglio: dall’esodo in condizioni disumane di militari e civili alle atroci testimonianze dei reduci dai campi, dall’incontro con il capo della Direzione centrale dei lager («pa­drone della vita e della morte di qualcosa come venti milioni di persone») ai contatti con le popolazioni. Esperienze che, per Czapski, diventano anche «una lenta, quotidiana iniziazione all’immensità della mi­seria umana».

Come afferma lo stesso autore nella prefazione: «Questo libro è stato scritto in condizioni molto diverse, con lunghe interruzioni, fra il 1942 e il 1947. […] Più andavo avanti nel racconto e più sentivo di non essere libero, di scrivere non ciò che volevo, ma ciò che dovevo.» Affermazione che lo avvicina in qualche modo a Primo Levi e alla sua necessità di ricordare non per se stessi, ma soprattutto per quelli che non ci sono più. Cosa che spinse il superstite dei lager italiano a scriver Se questo è un uomo, composto tra il 1945 e il 1947 e comparso per la prima volta, ancora rifiutato dai grandi editori, nel 1947, al termine di un conflitto che aveva fatto decine o forse centinaia di milioni di morti.

Su tutti i fronti, tra i civili e i militari di ogni nazione, sesso, gruppo sociale, politico, religioso o etnico. E di cui i governanti attuali sembrano essersi dimenticati quasi del tutto. Oppure ricordarlo per tornare a soffiare su braci che non si sono ancora mai spente del tutto, come nel caso del viaggio di Biden in Polonia diversi mesi or sono, oppure dei richiami di Putin alla “Grande guerra patriottica”. Mentre, come ci ricordano indirettamente le memorie di Czapski, la guerra non può essere altro che motivo di orrore, ancora orrore e nient’altro che orrore.


  1. Władysław Sikorski, generale (1881-1943), primo ministro del governo polacco in esilio a Londra, in seguito all’attacco tedesco all’URSS firmò un accordo con l’ambasciatore sovietico nel Regno Unito per il ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due paesi (30 luglio), seguito dalla concessione dell’amnistia ai prigionieri di guerra polacchi (12 agosto). Morì in un misterioso incidente aereo al largo di Gibilterra.  

  2. In realtà l’autore sbaglia di un giorno, poiché le truppe sovietiche entrarono in Polonia il 17 settembre 1939, sedici giorni dopo l’invasione nazista della stessa da Occidente (1° settembre dello stesso anno) – NdR  

  3. J. Czapski, Enfin, la vérité sur Katyn, «Gavroche. L’hebdomadaire de l’homme libre» n. 189 del 12 maggio 1948, ora in appendice, come La verità su Katyn, a J. Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 399-400  

  4. «Katyn’ è la mia vittoria» scrive Goebbels nel suo diario in data 12 aprile 1943 – NdR  

  5. J. Czapski, op. cit., p. 400  

  6. Ivi, p. 398  

  7. Ivi, p. 398  

  8. E. Morin, Di guerra in guerra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 22-23  

  9. J. Czapski, op. cit., p. 408  

  10. Ivi, pp. 408-409  

  11. La ricerca più completa, rinvenibile oggi in Italia, sulla decapitazione dell’esercito polacco all’inizio del secondo conflitto mondiale, basata principalmente su fonti sovietiche rese accessibili agli inizi degli anni Novanta, è quella di George Sanford, docente di Scienze Politiche presso l’Università di Bristol, Katyn e l’eccidio sovietico del 1940. Verità, giustizia e memoria (UTET, Torino 2007 – ed.originale Katyn and the Soviet Massacre of 1940, 2005). Testo in cui l’autore inglese da un lato ricostruisce, attraverso il massacro, sia la profonda rivalità polacco-bolscevica degli anni precedenti, sia la logica dello Stato stalinista, senza dimenticare come le potenze occidentali non abbiano messo prima in discussione la copertura data dai sovietici alle vicende, finendo col costituire un’imbarazzante parte della loro più ampia politica di accettazione dell’inglobamento della Polonia nel sistema sovietico alla fine del secondo conflitto mondiale.  

  12. Si veda in proposito: Marek Edelman, Il ghetto di Varsavia lotta, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2012. Marek Edelman (Varsavia 1919 – Varsavia 2009), membro del Bund (Unione Generale dei Lavoratori Ebrei) fu il comandante militare dell’insurrezione e dell’organizzazione paramilitare che i giovani ebrei del ghetto si erano dati per programmarla e metterla in atto. Affermando: «Abbiamo combattuto per la nostra vita. Ci muoveva una determinazione disperata, ma le nostre armi mai sono state dirette contro civili inermi. Abbiamo lottato per la sopravvivenza della comunità ebraica, non per un territorio né per un’identità nazionale. Per me, non esistono un Popolo Eletto né una Terra Promessa.» Motivo per cui non volle mai trasferirsi in Israele.  

  13. Si vedano in proposito: Geoge Bruce, L’insurrezione di Varsavia 1 agosto – 2 ottobre 1944, U.Mursia editore, Milano 1978; Norman Davies, La rivolta. Varsavia 1944:la tragedia di una città fra Hitler e Stalin, Rizzoli – RCS, Milano 2004 e Miron Białoszewski, Memorie dell’insurrezione di Varsavia, Adelphi, Milano 2021  

  14. Si vedano ancora: Alex Weissberg, La storia di Joel Brand, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1958 e T. S. Hamerow, Perché l’Olocausto non fu fermato. Europa e America di fronte all’orrore nazista, Feltrinelli, Milano 2010  

  15. Si veda in proposito lo splendido romanzo, ambientato nel XVII secolo in Polonia e Ucraina, di Isaac Bashevis Singer, Satana a Goraj, Adelphi, Milano 2018  

  16. Si vedano: Adam Michnik, Il pogrom, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2007 e Jeffrey Veidlinger, L’Olocausto prima di Hitler. 1918 – 1921 I pogrom in Ucraina e Polonia alle origini del genocidio degli ebrei, Rizzoli-Mondadori, 2023  

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Socialisti, ebrei, rivoluzionari: la storia del Bund https://www.carmillaonline.com/2017/08/30/40094/ Tue, 29 Aug 2017 22:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40094 di Armando Lancellotti

Massimo Pieri, Doikeyt. Noi siamo qui ora! Gli ebrei del Bund nella rivoluzione russa, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 186, € 16.00

Questo interessantissimo volume scritto da Massimo Pieri* e recentemente pubblicato dall’editore Mimesis tratta di un argomento sicuramente poco noto ai lettori italiani, ma non per questo meno importante per la storia del socialismo rivoluzionario: il Bund, ovverosia l’Unione dei Lavoratori Ebrei di Russia, Polonia e Lituania e cioè il movimento socialista rivoluzionario ebraico, fondato a Vilna (Vilnius) nell’ottobre del 1897, molto attivo nelle province nord occidentali dell’impero zarista ad [...]]]> di Armando Lancellotti

Massimo Pieri, Doikeyt. Noi siamo qui ora! Gli ebrei del Bund nella rivoluzione russa, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 186, € 16.00

Questo interessantissimo volume scritto da Massimo Pieri* e recentemente pubblicato dall’editore Mimesis tratta di un argomento sicuramente poco noto ai lettori italiani, ma non per questo meno importante per la storia del socialismo rivoluzionario: il Bund, ovverosia l’Unione dei Lavoratori Ebrei di Russia, Polonia e Lituania e cioè il movimento socialista rivoluzionario ebraico, fondato a Vilna (Vilnius) nell’ottobre del 1897, molto attivo nelle province nord occidentali dell’impero zarista ad altissima presenza ebraica askenazita e decisivo anche per la nascita di poco successiva, nel marzo del 1898, del Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR).

Come spiega Valentina Sereni nella Prefazione, Doikeyt è un’espressione yiddish che corrisponde al tedesco Da-keit e significa all’incirca “stare qui”, essere coscientemente “qui”, in un ben preciso luogo ed “ora”, in un determinato e particolare momento. Pertanto, lo slogan usato dai bundisti “Doikeyt. Noi siamo qui ora!” è un’espressione carica di consapevolezza pratico-politica e di progettualità conflittuale; indica la coscienza di essere un qualcosa – classe, movimento, gruppo nazionale – in un luogo e in un tempo precisi al fine di sostenere una legittima e necessaria lotta per la conquista dei diritti, per il cambiamento delle strutture economico-sociali e dei rapporti di produzione, per l’abolizione della società classista e del capitalismo. Ma a questi obiettivi si aggiungono poi quelli propriamente ebraici – definibili come “nazionali”, seppur con un’accezione parecchio diversa da quella solitamente in uso – che richiedono il riconoscimento delle tradizioni e delle abitudini di vita di un popolo, della lingua yiddish, dell’identità e della cultura ebraiche e che sfociano nella difesa armata contro l’antisemitismo e i pogrom, ancora molto frequenti in Russia a cavallo tra XIX e XX secolo.

Tutto questo grazie alla formazione di un movimento politico e di un programma rivoluzionari, alla intrapresa di iniziative di lotta non solo radicali ed incisive nel contesto dell’impero russo, ma anche decisamente originali e spesso non comprese appieno né condivise all’interno dell’internazionalismo socialista tra fine 800 e inizio 900. Molto attivo nelle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917, il Bund incontrò la diffidenza del partito bolscevico per profonde divergenze ideologiche riguardo al modo di intendere forma e compiti del partito e riguardo alla “questione nazionale”, che l’Unione dei lavoratori ebrei intendeva nei termini della rivendicazione di una identità nazionale e culturale all’interno di un quadro e secondo logiche autenticamente federaliste ed “internazionaliste”, antistataliste, anticentraliste ed antiautoritarie. Un’idea di nazione senza nazionalismo e senza stato, di nazione senza territorio che risultò eccentrica rispetto alle categorie teoriche del marxismo leninista che tacciò di separatismo, particolarismo e ambiguità reazionaria le idee espresse dal Bund, che negli anni Venti e Trenta continuò la propria attività politica soprattutto in Polonia, dove al momento dello scoppio della guerra nel ’39 contava centomila iscritti e otteneva buoni risultati elettorali.

Le analisi e le considerazioni di Pieri iniziano con un dettagliato excursus storico sui rapporti tra ebraismo e società e cristianesimo russi, a partire dal XV secolo e dall’assunto di fondo per cui da sempre il cristianesimo ortodosso fu inteso come base dello Stato russo e in tal modo fu stretto un insolubile legame tra le istituzioni politiche e quelle religiose, tra lo zar e il patriarca, tra l’autorità, anche divina, del monarca e l’autorità, anche politica, della Chiesa: una sorta di simbiosi tra cesaropapismo zarista e ierocrazia ortodossa che produsse l’effetto della totale identità e della sovrapposizione tra cristianità, stato russo e suolo russo. In un contesto di questo tipo, le possibilità di inserimento ed integrazione sociali e culturali degli ebrei furono minime se non inesistenti, a meno che non intervenissero la conversione al cristianesimo ed il battesimo. Insomma – potremmo aggiungere – è la situazione che Raul Hilberg, nel suo libro fondamentale sulla shoah, La distruzione degli ebrei d’Europa, descrive con le espressioni: “se rimanete ebrei, non potete vivere tra noi” (per indicare le politiche di conversione forzata praticate nell’Europa cristiana dal medioevo in poi); oppure con l’espressione “non potete vivere tra noi” (per indicare le politiche di espulsione o di respingimento delle moderne monarchie assolute cristiane).

Le accuse e i pregiudizi antiebraici – ricorda l’autore sulla scorta soprattutto delle ricerche e degli studi di Leon Poliakov – erano anche in Russia i medesimi diffusi in tutta l’Europa cristiana e quasi tutti declinazioni e varianti del paradigma deicida. Violentissimo fu l’atteggiamento delle autorità politiche e militari che in più occasioni ordinarono e perpetrarono stragi, come nel caso dell’annessione dell’Ucraina orientale nel 1645, quando circa trecentomila ebrei ucraini furono massacrati dai cosacchi, oppure nel corso della guerra polacco-svedese del 1655-56, quando i russi occuparono Bielorussia e Lituania e si accanirono contro gli ebrei del luogo. Di seguito fu imposto l’interdetto agli ebrei affinché non entrassero nel territorio della “vecchia Russia” e in particolare a Mosca e lo stesso interdetto fu fatto valere per la nuova capitale dell’impero, San Pietroburgo, ai tempi di Pietro il Grande (1682-1725).

Un aumento considerevole della presenza ebraica in Russia si registrò a seguito delle tre cosiddette “spartizioni polacche” (1772, 1793, 1795), dopo l’età napoleonica, con il Congresso di Vienna e quindi con l’annessione della Bessarabia e delle regioni baltiche e di una parte dell’antico Regno di Polonia ben più estesa di quella già precedentemente sotto il potere dei Romanov. In tal modo proprio la Russia che aveva sempre manifestato ostilità assoluta contro gli ebrei divenne il paese con la quota maggiore di popolazione ebraica in tutta Europa. Con Caterina II si stabilirono le regioni e le città in cui gli ebrei potessero vivere, lavorare, commerciare e questo di fatto portò ad una politica di reclusione degli ebrei nelle regioni di Ucraina, Bielorussia, Lituania e Polonia, che andarono a formare la cosiddetta Zona.

L’imperatrice dichiarò anche di voler espellere tutti gli ebrei che non si convertissero al cristianesimo greco-ortodosso, ma il progetto non si realizzò; iniziò invece la politica di ghettizzazione, che doveva confinare la presenza degli ebrei di Russia in territori e sottoporli ad una legislazione speciale rispetto ai sudditi cristiani (p. 21).

Al confino fisico si aggiunsero ben presto altre forme di isolamento e discriminazione, di tipo giuridico, sociale, culturale, spirituale.

Tutto ciò era conforme alla tradizione cristiana degli zar che non avevano ammesso la presenza degli ebrei sul suolo della Santa Russia e, se ora vi erano ammessi, era necessario, da un lato codificare l’inferiorità della diversità ebraica relegandoli nello status di sudditi di seconda categoria, dall’altro proteggere l’impero dalla pericolosità della loro bassezza morale e perversione religiosa (p. 23).

Neppure con i successori di Caterina la Grande – Paolo I, Alessandro I, Nicola I, Alessandro II, Alessandro III, Nicola II – le cose cambiarono o migliorarono, ma all’aperta e violenta ostilità andò aggiungendosi un altro criterio ispiratore delle politiche antiebraiche zariste, quello della “utilità”, che gli ebrei dovevano rappresentare per la Russia se non volevano essere perseguitati. In questo modo per esempio si comportò lo zar Alessandro I nel periodo delle guerre napoleoniche e a seconda dell’andamento delle sorti del conflitto: in caso di rovesci militari l’atteggiamento si faceva più tollerante, intendendo lo zar ottenere l’aiuto degli ebrei o quanto meno evitare la loro ostilità o scongiurare l’eventualità che sostenessero la causa francese; in caso di vittoria contro il nemico o di stipula di trattati di pace (per esempio dopo la pace di Tilsit del 1807) l’atteggiamento riprendeva ad essere persecutorio, essendo comunque ben radicata a corte e nelle convinzioni dello zar l’idea che l’”anticristo” Bonaparte non potesse non servirsi degli aiuti dei nemici per eccellenza della cristianità.

Dopo il Congresso di Vienna, Alessandro I riprese con convinzione la politica di conversione degli ebrei, addirittura con la creazione di una Società dei cristiani ebrei, una sorta di organizzazione missionaria che aveva il preciso compito di procedere alla cristianizzazione degli ebrei che in tal caso avrebbero acquisito maggiori diritti, come quello al possesso della terra, dal momento che tra i provvedimenti discriminatori più pesanti vi erano quelli che impedivano o limitavano il diritto alla proprietà o all’affitto della terra a cui poi spesso si aggiungevano le espulsioni dai villaggi rurali, dove gli ebrei erano accusati di corrompere moralmente i cristiani con la vendita dell’alcool in taverne e locande, e il trasferimento verso i centri urbani.
La politica di conversione religiosa comportava necessariamente e consapevolmente anche il progetto di annientamento dell’identità culturale, linguistica e tradizionale degli ebrei, da questo punto di vista trattati in modo non dissimile da altre minoranze o gruppi etnico-nazionali che furono sottoposti a pesanti processi di russificazione. Si trattò – scrive Pieri – di una politica di «decostruzione legale dell’identità ebraica, cioè di eliminazione dell’intero universo normativo e spirituale degli ebrei» (p. 27), che purtroppo non costituisce – possiamo aggiungere – un caso isolato nella storia, essendo al contrario lo strumento di cui si sono servite e si servono più frequentemente le politiche coloniali ed imperialistiche (anche quelle di imperialismo “interno”, come in questo caso).

Sottese dalla stessa logica politica e dalle medesime finalità furono pure le leggi di Nicola I sugli obblighi militari dei sudditi ebrei che servirono sia per sfruttarli e vessarli, sia per sradicarli dalle regioni di insediamento, con il fine ultimo della conversione e dell’assimilazione. Obiettivi questi ultimi perseguiti anche attraverso le politiche scolastiche per la russificazione degli ebrei, che spesso incontrarono i favori dell’Haskalah, cioè dell’Illuminismo ebraico, sorto nel XVIII secolo, diffuso anche in Germania e propenso a promuovere l’emancipazione ebraica attraverso l’assimilazione e l’abbandono di tradizioni ritenute ormai oscurantiste. A questo proposito, osserva criticamente Pieri:

L’accettazione degli ebrei nella società russa era quindi vincolata sia alla loro utilità per i russi cristiani che alla perdita dell’identità ebraica. Era la strada dell’emancipazione individuale, quella che disgregava l’unità del popolo, che concedeva a coloro che in qualche modo si distinguevano dal resto del popolo ebraico, di perdere lo status di reietti e miserabili della società russa. Nella realtà l’emancipazione individuale dipendeva dal distacco dal popolo ebraico e dal suo destino collettivo. […] l’individuo ebreo, isolato e allettato dalla possibilità di elevare la propria condizione sociale veniva fagocitato dalla società circostante (p. 39).

Come a dire che – questo il senso del ragionamento di Pieri – la via “illuministica” verso l’emancipazione proposta dall’Haskalah era individualistica, atomistica, cioè borghese, mentre quanto avrebbe proposto il Bund, per i lavoratori ebrei innanzi tutto e più complessivamente per tutti gli ebrei di Russia, sarebbe stata una soluzione comunitaria e collettiva, socialista.

Nel periodo di Alessandro II vennero in parte allentate le restrizioni che ghettizzavano gli ebrei dentro alla Zona e, seppur solo ad alcune categorie e sulla base di limiti molto vincolanti, fu concessa loro la libertà di stabilirsi fuori dalla Zona, in altre regioni dell’Impero. Il parziale riformismo di Alessandro II si interruppe con la sua morte e sotto il regno di Alessandro III si assistette ad un’inversione di tendenza e alla ripresa sistematica della pratica dei pogrom, nonostante le indicazioni e le raccomandazioni contrarie anche di alcuni collaboratori e ministri dello zar, che consigliarono di interrompere o almeno di attenuare le politiche antisemite. La situazione peggiorò ulteriormente con Nicola II, quando l’equazione rivoluzionario-socialista-ebreo venne usata dalle autorità e dalla polizia per incanalare e giustificare tanto l’antisemitismo popolare quanto la politica repressiva di ogni forma di opposizione o sovversione e si fece spesso ricorso ai Centoneri per «compiere assassini e guidare i pogrom. I Centoneri erano bande composte principalmente di piccoli bottegai, vagabondi, criminali professionisti e informatori della polizia. Per la propaganda utilizzavano proclami che apparivano nei villaggi e nelle città e recitavano: “[…] Guardatevi dagli ebrei! Tutti i mali, tutte le sventure del nostro paese vengono dagli ebrei. Abbasso i traditori, abbasso la costituzione!» (p. 49). Questo accadde, in particolare, a seguito della rivoluzione del 1905 e quando prese il via la controrivoluzione zarista.

È in questo contesto che a fine Ottocento nasce il Bund tra un proletariato, quello ebraico delle regioni nord-occidentali dell’impero russo, che era composto soprattutto da artigiani e da operai impiegati in fabbriche di piccole dimensioni, spesso fatti oggetto di ostilità da parte del proletariato russo cristiano. «Gli operai cristiani, inoltre, consideravano il lavoro nelle fabbriche meccanizzate come proprio monopolio e si opponevano alla possibilità che venisse violato questo loro diritto» (p. 55). Belastok (Białystok), insieme a Łódź uno dei più importanti centri industriali della Russia occidentale, fu il fulcro delle proteste operaie e delle agitazioni che portarono alla formazione dei primi nuclei politici organizzati, quando intorno agli anni Settanta le idee socialiste cominciarono a diffondersi tra il proletariato ebraico; ma gli inizi furono molto difficili, mancando ancora una intelligencija ebraica che, come invece già accadeva per quella russa, facesse da ponte tra i primi esponenti socialisti ebrei e il proletariato.

Inizialmente però i giovani ebrei socialisti e rivoluzionari, gli studenti e gli intellettuali radicali ebrei furono propensi a prendere le distanze dalla loro origine ebraica, dalla loro identità e dalle condizioni peculiari degli operai ebrei russi e cercarono invece di convergere sulle posizioni del radicalismo, del socialismo e soprattutto del populismo russo e del suo movimento, il Narodnaija Volija (Volontà popolare). Questa scelta politica portava a pensare che non vi fosse una “questione ebraica” specifica, ovvero che essa potesse essere superata attraverso la sua eliminazione, detto altrimenti attraverso l’assimilazione alla cultura e alla identità russe, cioè attraverso la negazione della specificità nazionale ebraica. Ed anche successivamente il «progressivo spostamento dei socialisti russi, dal populismo al marxismo, non mutò, in un primo tempo, il modo con cui questi diffondevano le proprie idee» (p. 60).

Il luogo principale in cui si diffusero e misero radici le idee del socialismo ebraico fu la città di Vilna (Vilnius), dove si formò il Gruppo socialdemocratico ebraico (tra il 1889 e il 1890), diretto precursore del Bund, Gruppo che già nel nome si richiamava all’identità ebraica, ponendo quindi la questione nazionale accanto a quelle politica e di classe. I “pionieri” del Bund si erano formati sulla base del populismo russo e dello Haskalah ed erano pertanto considerevolmente assimilati e in pochi usavano la lingua yiddish; il passaggio al marxismo – spiega Pieri – avvenne soprattutto grazie al fatto che quest’ultimo si proponeva come un’analisi scientifica delle dinamiche economiche e sociali ed inoltre permetteva ai primi socialisti ebrei di smarcarsi da quel populismo che era caratterizzato da una forte connotazione russa (quindi cristiano-ortodossa), spesso ostile verso il mondo ebraico. Il cosmopolitismo e l’internazionalismo del marxismo potevano apparire come strumenti ideologici atti a dare una risposta alla questione ebraica, che si sarebbe annullata nella comune ed internazionale lotta di una classe, quella operaia, che avrebbe superato la logica dell’identità nazionale, contraddizione secondaria rispetto a quella economico-sociale, cioè di classe.

Pertanto, fino alla fine degli anni Ottanta gli intellettuali ebrei per lo più trascurarono l’ambiente ed il contesto a loro più prossimi, quelli ebraici e guardarono alla società russa da cui erano fortemente influenzati; ma di fatto – anche se non ancora esplicitamente e consapevolmente – la questione ebraica andava configurandosi ed imponendosi come problema per il giovane movimento socialista ebraico, che anche se intendeva lottare per l’emancipazione di tutti i lavoratori non poteva fare a meno di affrontare il problema della conflittualità tra il proletariato ebraico e quello russo cristiano e la questione della specificità delle condizioni di vita e di lavoro degli operai ebrei, discriminati anche in ambito socialista.

Il marxismo come lo intendevano i socialisti, anche ebrei, negli anni Ottanta sembrava difficilmente applicabile al caso dei lavoratori ebrei a causa di una doppia contraddizione: la condizione del proletariato ebraico non era quella del proletariato delle grandi industrie meccanizzate moderne, a cui si riteneva fosse rivolto il progetto rivoluzionario, ma quella delle piccole fabbriche artigiane; la questione nazionale sembrava non poter rientrare in alcun modo nel quadro ideologico e programmatico di un’organizzazione socialista e pareva destinata quindi a dover essere oltrepassata, ma di fatto annullata, all’interno dell’internazionalismo di classe.
Sul piano operativo poi, i “pionieri” ancora erano legati al modello dei circoli socialisti indirizzati alla propaganda e alla costruzione della coscienza di classe di una élite, di una intelligencija capace di proporsi come guida delle masse. Ma «al contrario di quanto essi pensavano gli operai ebrei mostravano, con i loro scioperi spontanei, con la loro embrionale attività sindacale, grandi potenzialità rivoluzionarie, mentre l’esperienza del circolo si rivelava inadeguata. […] Se effettivamente i circoli di Vilna, di Minsk e delle altre maggiori città di Bielorussia e Lituania avevano creato un’élite operaia, la massa dei lavoratori ebrei, le migliaia di artigiani e lavoratori delle fabbriche continuavano a trovarsi nelle invivibili condizioni di lavoro e di vita in cui si trovavano prima». Finalmente si decise di adottare «un nuovo programma di azione, con cui alla politica della propaganda tra un’élite di operai, si sostituì, come obiettivo principale, quello di acquisire un seguito proletario di massa attraverso l’agitazione» (p. 65).

A questo punto, al cambiamento delle metodologie di lotta politica poteva aggiungersi anche la revisione, la parziale correzione dei contenuti e degli obiettivi programmatici e la questione della “nazione” ebraica poteva essere presa in considerazione. Il capovolgimento del rapporto tra gruppo politico intellettuale e masse, con le seconde che divenivano attive e propositive, faceva sì che l’organizzazione che sarebbe nata fosse «finalmente un’espressione del proletariato e non un circolo per il suo reclutamento» (p. 66).

Prese forma l’idea che fosse necessario pensare ed operare una lotta specifica dei lavoratori ebrei, alla luce delle loro peculiari – e di molto peggiori rispetto agli altri lavoratori – condizioni di lavoro e di vita. Cominciava insomma a farsi strada l’idea che fosse opportuno fare della identità ebraica non una zavorra da cui liberarsi al più presto, mirando all’assimilazione, ma un elemento distintivo da porre alla base del programma politico rivoluzionario. Per questo si arrivò alla decisione di adottare l’yiddish come lingua ufficiale del nascente movimento.

Il Congresso che diede vita al Bund si tenne segretamente a Vilna tra l’8 e il 10 ottobre del 1897 e cioè un anno prima della nascita del partito socialdemocratico russo. Secondo Pieri e secondo tutta la letteratura sul Bund questa successione dei fatti non fu casuale, infatti i dirigenti socialisti ebrei pensavano che la nascita di un partito socialista unitario russo potesse fagocitare il movimento operaio ebraico se questo non si fosse dato anticipatamente un’organizzazione solida. D’altra parte il «processo di maturazione dei rapporti tra i socialdemocratici ebrei e i lavoratori del proprio popolo era arrivato al punto di porre consapevolmente la necessità di costituire un’organizzazione politica forte e distinta, capace di guidare la ribellione delle masse ebraiche contro le condizioni economiche e l’oppressione politica e culturale in cui vivevano» (p. 74).

Al momento della fondazione del partito – sottolinea l’autore, facendo notare che si trattò di una questione su cui il Bund rimase da quel momento in poi irremovibile – si disse che il movimento ebraico sarebbe entrato nel partito socialdemocratico russo generale, ma come sezione autonoma e quindi con la possibilità di elaborare ed intraprendere decisioni politiche indipendenti sulle problematiche specificamente riguardanti le questioni ebraiche. Fin da subito, quindi, prese forma l’idea federalista ed anticentralista che sarebbe stata uno dei motivi principali dello scontro politico tra il Bund e il resto del partito socialdemocratico, soprattutto il gruppo bolscevico, anche se il Bund fu parte attiva nella costruzione del Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR) nel 1898 e ne costituì una delle componenti meglio organizzate e più combattive.

Per il Bund – osserva Pieri – il “particolare” dell’organizzazione ebraica e il “generale” del partito russo nel suo complesso non confliggevano e non si contraddicevano, anzi avrebbero dovuto compendiarsi per sostenere una lotta comune dei proletariati di tutte le nazionalità comprese nel composito e complesso impero russo. In occasione del III congresso del 1899 a Kovno (Kaunas), la questione nazionale venne impostata in modo chiaro e questo portò i bundisti a criticare il concetto di diritti dell’uomo e del cittadino, concepito secondo i termini universali ed astratti propri della tradizione illuministico-borghese. Questo infatti, in un contesto fortemente ostile verso un gruppo minoritario, di cui la maggioranza intenda cancellare l’identità e le differenze – ed era questo il caso degli ebrei in Russia – rischierebbe di rivelarsi del tutto inefficace, in quanto realizzerebbe un’uguaglianza solo formale ed apparente. All’eguaglianza dei diritti individuali deve sostituirsi quella collettiva dei diritti nazionali. In sostanza si trattava di superare l’idea universalistica ed illuministica di un diritto “individuale” solo “astratto”, che doveva essere reso “concreto” e “collettivo” dalla sua determinazione e dalla sua declinazione particolari in termini culturali e nazionali.

L’astrattezza dei diritti dell’uomo e del cittadino avrebbe significato nella pratica, in uno stato come la Russia, l’assimilazione alla cultura tradizionale russa, cui gli ebrei si opponevano da secoli nonostante fossero sottoposti a continua violenza e discriminazione (p. 79).

Queste riflessioni portarono il Bund ad un ripensamento anche del concetto marxista di internazionalismo, che venne da allora inteso come sintesi degli antitetici principi del cosmopolitismo e del nazionalismo, capace di produrre «cooperazione e alleanza tra i diversi proletariati nazionali e non l’annullamento delle loro differenze» (p. 81). Ancora una volta, in un contesto come quello del multietnico e plurinazionale impero zarista, l’astratto ed universalistico cosmopolitismo borghese sembrava ai bundisti non sufficiente e ad esso andava sostituito l’internazionalismo proletario, inteso però non nei termini della cancellazione delle diverse identità nazionali all’interno della comune, ma in tal caso omologante, identità di classe, ma come valorizzazione di differenze identitarie federate ed accomunate dalla medesima prospettiva rivoluzionaria. Come a dire che alla coscienza di classe si doveva aggiungere e oltre essa si doveva costruire anche una coscienza nazionale, che però era tutt’altra cosa dal nazionalismo, che il Bund rigettava e condannava con estrema e ferma decisione. Non vi è traccia di sionismo nel bundismo e l’idea di nazione ebraica che il Bund propose era di natura culturale ed era finalizzata innanzi tutto alla difesa di un popolo dalle violenze dei pogrom e dalle discriminazioni compiute anche dai compagni della medesima classe sociale, dai proletari russi-cristiani e in secondo luogo alla conservazione di un’identità che voleva sottrarsi ai ripetuti e storici tentativi di assimilazione.

Essere proletari, socialisti e rivoluzionari non significava non poter più essere ebrei, anzi per i bundisti le tendenze assimilazioniste, in Russia e altrove in Europa, erano state portate avanti dalla borghesia ebraica, non dalla classe operaia, che quindi alla lotta di classe doveva aggiungere anche quella per la difesa della propria identità. Ma la nazione di cui parla il Bund non è la nazione del nazionalismo (e nel caso dell’ebraismo, del sionismo), essa è intesa come una nazione senza terra, senza il legame ad un territorio. Il legame suolo-nazione-stato non fa parte del cosmo ideale del Bund e proprio questo è uno dei motivi che rende questo movimento così interessante a più di un secolo di distanza. Osserviamo che si potrebbe tentare di giustificare questa originale interpretazione del concetto di nazione alla luce della particolarità storica dell’ebraismo della diaspora, indotto nei secoli a trovare le basi della propria identità non nello spazio, ovvero attraverso la presa di possesso di un territorio, il radicamento in un suolo, bensì nel tempo, per mezzo cioè della conservazione di una tradizione, indipendentemente dal luogo, dal paese di insediamento, in tal modo concependo un’idea di nazione errante e migrante che sembra essere proprio quella del Bund, ma non certo quella del coevo sionismo o del successivo Stato d’Israele.

Nella parte centrale – tra le più interessanti – del libro, Pieri spiega come le posizioni politiche del Bund, sia riguardo alla questione nazionale sia riguardo al modo in cui intendere l’organizzazione generale del partito socialdemocratico russo e l’autonomia da riconoscere alle sue diverse componenti, incontrassero la decisa e ferma opposizione di Lenin e di altri importanti esponenti del POSDR e del bolscevismo in particolare. D’altra parte la concezione centralista e dirigista del partito che avanzava Lenin difficilmente poteva incontrare le posizioni del Bund, che nel corso degli anni evolvettero in direzione di un sempre più marcato federalismo come modello di organizzazione del partito. A questo si aggiunga il fatto che Lenin non condivideva le posizioni bundiste riguardo all’idea di nazione ebraica, che considerava un retaggio del passato, una visione delle cose destinata ad essere dialetticamente superata dal progresso storico del capitalismo e di seguito dal socialismo. Il paradigma esclusivamente economicista e materialista lo portava a concludere che la nazione avrebbe lasciato il posto alla classe e il nazionalismo all’internazionalismo proletario, inteso però non alla maniera in cui era interpretato dal Bund, cioè come difesa e promozione delle differenze dei proletariati nazionali federati, ma come scomparsa delle peculiarità nazionali all’interno della classe e del partito.

Nel Congresso istitutivo del POSDR del 1898, al Bund era stata riconosciuta l’autonomia con la seguente formula: «l’Unione Operaia Ebraica di Russia e Polonia entra nel partito come organizzazione autonoma, indipendente soltanto relativamente alle questioni che attengono specificamente al proletariato ebraico» (p. 77). Ma evidentemente non era ciò a cui aspiravano i socialisti ebrei, se già nel Congresso del Bund del 1901 si proponeva la forma federale come modello di organizzazione del partito: «Il congresso che considera il POSDR un’unione federale dei partiti socialdemocratici dello Stato russo, raccomanda che il Bund, in qualità di rappresentante del proletariato ebraico entri a farvi parte come sezione federata» (p. 86).

Su tali questioni l’accordo con Lenin e la maggioranza del POSDR era praticamente impossibile; in particolare Lenin considerava indispensabile per la salvaguardia del partito e delle sue possibilità rivoluzionarie procedere verso la costruzione di un’organizzazione assolutamente centralizzata e riteneva che alle diverse componenti etnico-nazionali – che tendenzialmente non riconosceva come soggetti politici – non si dovesse assegnare maggiore autonomia di quella che gli statuti del 1898 avevano già previsto e di fatto considerava i differenti proletariati nazionali alla stregua di comitati locali del partito, direttamente dipendenti dal centro del partito stesso.

Per i Bund invece solo il riconoscimento di una forte autonomia per tutti i proletariati nazionali presenti nell’impero russo avrebbe garantito la loro effettiva ed efficace partecipazione alla lotta politica del partito, il quale avrebbe agito da forza aggregatrice e così l’unità del partito sarebbe scaturita dalla centralità e dalla pari importanza delle sue singole parti componenti. «La federazione era rivendicata appunto come la forma di organizzazione adatta a garantire la partecipazione diretta agli affari del partito delle organizzazioni nazionali del proletariato in quanto sue entità costitutive, contraenti un patto e aventi dei diritti» (p. 90).

Per Lenin, che a Congresso lasciò agli ebrei Martov e Trotzkij il compito di confutare le idee del Bund, il partito andava organizzato esattamente in modo contrario, cioè attraverso una struttura centrale ed unitaria da cui far discendere le ramificazioni locali e particolari a cui attribuire spazi autonomi limitati. Il Congresso del 1901 sposò la linea di Lenin, che «presentò il suo piano di una struttura fortemente centralizzata» (p. 91) e bocciò a larga maggioranza quella del Bund, che si vide relegato sul piano di un comitato locale di partito. A quel punto la rottura divenne inevitabile e il Bund uscì dal POSDR.
«Il Bund era diventato l’organizzazione di classe di un intero popolo, essere ridotto a comitato regionale avrebbe significato essere annullato e far scomparire la voce del proletariato ebraico nel movimento rivoluzionario generale» (p. 91).

Va sottolineato, osserva Pieri, che Lenin, Martov, Trotzkij e altri che consideravano il Bund poco più di un comitato “regionale”, cioè più precisamente l’organizzazione rappresentativa degli ebrei della Zona, non coglievano, sostanzialmente non capivano l’originalità del modo in cui il Bund aveva ridefinito il concetto di nazione, un modo che lo slegava completamente dall’identificazione con un territorio, dal radicamento in un luogo preciso e delimitato da confini fisici; il concetto di nazione (ebraica) del Bund andava al di là della Zona (Ucraina, Bielorussia, Lituania, Polonia), che secoli di persecuzioni zariste avevano ritagliato per gli ebrei dell’Europa orientale, in quanto faceva a meno dell’idea di territorio e del legame tra nazione-popolo-terra. Proprio la rivendicazione dell’identità ebraica secondo le modalità promosse dal Bund contribuiva – considera giustamente Pieri – ad affrancare gli ebrei da un atteggiamento nei confronti delle società a loro ostili che aveva contraddistinto l’ebraismo della diaspora nei secoli: il “marranesimo”, cioè la disponibilità a fingersi pubblicamente altro da ciò che si è per conservare la propria identità solo in privato.

Secondo Pieri, «Lenin […] non accettava che si potesse partecipare al movimento rivoluzionario in quanto ebrei o in quanto armeni, non accettava, cioè, che le diverse entità etniche volessero contare in quanto tali, come soggetto politico. Ciò che contava […] era, secondo Lenin, il fatto di essere proletari, lavoratori e nient’altro. Le loro differenti identità culturali costituivano una sorta di incidente, di intralcio allo sviluppo di un’organizzazione centralizzata in cui le diverse parti si dovevano fondere» (p. 94). Spettava pertanto al partito e ai suoi organi dirigenti centrali compiere la sintesi delle diverse istanze avanzate dalle numerose nazionalità che componevano l’impero russo e sempre al partito spettava il compito di diramare le direttive generali che localmente dovevano essere eseguite. L’impostazione del Bund era rovesciata rispetto a quella leninista, poiché se era senza dubbio vero che «ciò che vi era di oggettivamente comune tra un proletario e l’altro era l’appartenenza di classe», era altrettanto certo che questa non cancellava l’essere anche ebreo, armeno, baschiro ecc. di quel proletario e pertanto «nessuna ricetta elaborata dalle menti più elevate del partito sarebbe stata in grado di risolvere la loro diversità in sintesi. Una soluzione politica soddisfacente sia per l’operaio baschiro che per quello ebreo si sarebbe forse potuta trovare con la forma di organizzazione del partito proposta dal Bund, secondo la quale sarebbero stati essi a decidere quale fosse il programma politico più adatto a rappresentarli rispettivamente entrambi» (p. 95).

A una divergenza così frontale i principali esponenti del POSDR e del Bund erano arrivati perché avevano sviluppato secondo linee discordanti le idee marxiste riguardo alla questione nazionale e riguardo all’ebraismo in particolare. Secondo Lenin, le parole di Marx per cui “gli operai non hanno patria” andavano lette come conseguenza di una argomentazione teorica che intendeva la nazione come storicamente intrecciata allo sviluppo del capitalismo: se in un primo momento le lotte per l’emancipazione delle nazioni, per la creazione di stati e di mercati nazionali avevano supportato l’affermazione del capitalismo, in una successiva fase, l’internazionalizzazione del capitale, l’espansione dei mercati, della produzione industriale e dei consumi stavano portando al superamento della nazione e del nazionalismo. Insomma, era la stessa dinamica dialettica dello sviluppo storico del capitalismo che rendeva obsoleta la categoria della nazione e quindi anacronistiche e prive di fondamento scientifico le rivendicazioni identitarie e le resistenze antiassimilazioniste del Bund.

Ma in questo modo – secondo Pieri – Lenin finiva per fare propria implicitamente la plurisecolare argomentazione antisemita secondo la quale la “questione ebraica” si sarebbe risolta solo quando gli ebrei avessero cessato di essere tali, assimilandosi cioè ad una società che da sempre era a loro ostile. Di fatto, secondo l’autore, Lenin faticava anche a comprendere il fenomeno dell’antisemitismo, in quanto l’applicazione – come nel caso della lettura del concetto di nazione – di categorie e di schemi di pensiero esclusivamente economici gli impediva di interpretare correttamente un fenomeno che non era, come sosteneva il leader socialdemocratico e bolscevico, esclusivamente borghese. In realtà, proprio in quegli anni di fine Ottocento ed inizio Novecento, i pogrom furono frequenti e violentissimi – Pieri ricorda tra gli altri quelli di Czestochowa del 1902 e quello di Kisinev del 1903 – e la partecipazione di operai, di proletari cristiani ed antisemiti fu massiccia. La condanna che Lenin e altri leader socialdemocratici pronunciarono di simili violenze era però accompagnata da un riduzionismo di fondo, tanto quantitativo – cioè riguardo alla partecipazione numerica di proletari ai pogrom – quanto qualitativo, circa l’ignoranza, l’immaturità politica e l’inconsapevolezza di classe dei proletari cristiani che si lasciavano andare a violente scorrerie antisemite. Insomma, la crescita e la maturazione della coscienza di classe avrebbero progressivamente portato alla scomparsa del fenomeno.

Ma – spiega puntualmente Pieri – «per il Bund […] il punto importante non era l’analisi sociologica o la quantità numerica del fenomeno della partecipazione dei lavoratori cristiani ai pogrom. Il punto era l’esistenza stessa del fenomeno che metteva in pericolo la vita degli ebrei e denunciava, almeno a quello stadio di sviluppo del movimento operaio, la fragilità dell’alleanza di classe» (p. 99). Pertanto la battaglia per la difesa e la rivendicazione di una diversità, seppur all’interno della comune appartenenza di classe, cioè della medesima collocazione nei rapporti di produzione, era per il Bund indispensabile e di importanza vitale e quanto auspicato da Lenin, cioè «l’assimilazione non era un’istanza socialista, ma reazionaria e […] il libero sviluppo della cultura nazionale rappresentava una corretta rivendicazione socialdemocratica. […] Così i socialdemocratici dovevano essere non contro il carattere nazionale della cultura, ma solo contro una politica nazionalistica» (pp. 103-104).

Sul piano programmatico e pratico questo faceva sì che per i rivoluzionari del Bund alla lotta contro lo zarismo e per l’emancipazione del lavoro si aggiungesse anche quella contro l’antisemitismo e per la difesa della propria identità. «Il Bund» – scrive Pieri, citando Martov – «affermava che ”gli operai ebrei dovevano imparare a combattere poiché, come operai essi soffrivano sotto il giogo del capitale e, come ebrei, soffrivano sotto il giogo della discriminazione”» (p. 106). Per questa ragione vennero organizzate e armate le boevie otriady (BO), cioè “squadre di combattimento” clandestine che si opposero alle aggressioni e ai pogrom in tutti i principali centri ebraici.

La vera rivoluzione per gli ebrei era porre fine alla loro umiliazione e al loro annientamento culturale e fisico; se dei lavoratori impedivano agli operai ebrei di entrare nelle fabbriche o partecipavano ai pogrom, essi erano per il Bund dei nemici e dei criminali da combattere, non più dei compagni di lotta. Il fattore economico, cioè la medesima collocazione nei rapporti di produzione, perdeva significato rispetto al fattore culturale; la solidarietà economica era sconfitta dall’ostilità dell’appartenenza cristiana (p.125).

Le divergenze teoriche tra i bundisti e gli altri socialdemocratici russi e Lenin in particolare non impedirono però al Bund e al POSDR di collaborare in occasione delle rivoluzioni che la Russia conobbe a inizio Novecento. Soprattutto in occasione della rivoluzione del 1905, l’apporto del Bund fu davvero significativo:

Tra febbraio e ottobre vi fu una successiva ondata di scioperi di massa e l’organizzazione del proletariato ebraico vi partecipò attivamente compiendo ogni sforzo per mantenere acceso il furore della rivolta. In questi mesi il Bund raggiunse la vetta più alta della sua influenza tra i lavoratori, impressionati dalla sua capacità di organizzare riunioni, procurare letteratura illegale, dalla disciplina dei suoi quadri e dalla sua difesa paramilitare (p. 116).

Quando poi il governo zarista, non venendo a capo della rivoluzione, decise di concedere la convocazione tramite elezioni di una Duma, il Bund si schierò sulle stesse posizioni politiche, radicalmente rivoluzionarie e contrarie a compromessi col governo, dei bolscevichi: «le elezioni per la Duma dovevano essere fermate; soltanto continuando l’attività rivoluzionaria sarebbero state soddisfatte le rivendicazioni dei lavoratori» (p. 116). Nel 1917, tanto a febbraio quanto a ottobre, il Bund recitò un ruolo importante nelle vicende rivoluzionarie e fu presente nei soviet e in occasione del primo Congresso Panrusso dei Soviet di giugno i bundisti «riuscirono a far approvare una risoluzione che adottava il punto di vista del Bund sul problema delle nazionalità; fu anche approvata all’unanimità una risoluzione sull’antisemitismo. I bolscevichi, tuttavia, non mutarono la loro posizione sulla questione nazionale» (p. 127).

Gli sviluppi rivoluzionari successivi all’Ottobre non furono favorevoli alle sorti del Bund, che – osserva Pieri – avrebbe potuto veder realizzate le proprie idee sulla questione nazionale a seguito delle elezioni per la Costituente del novembre ’17, dal momento che i socialisti rivoluzionari che vinsero nettamente le elezioni avevano sulle questioni nazionali posizioni vicine a quelle del partito ebraico, ma lo scioglimento con la forza dell’Assemblea voluto da Lenin a gennaio ’18 modificò improvvisamente il quadro politico russo.

Il Bund, per anni costretto alla clandestinità, rimase attivo in Russia e significativamente rappresentato nel POSDR fino ai primi anni Venti. Nonostante tutte le divergenze politiche, ideologiche e culturali il Bund continuava a considerarsi parte integrante del movimento internazionale socialista. Con lo scoppio della guerra civile i bolscevichi apparvero come i difensori della rivoluzione e l’Armata Rossa l’unica forza che si opponesse ai pogrom scatenati sulle masse ebraiche (p. 128).

Negli anni Trenta il Bund conobbe una stagione di fortuna politica all’interno dell’ebraismo polacco e anche dopo il 1939 e l’invasione tedesca i bundisti continuarono a opporre resistenza e a fare lotta politica clandestina anche dentro ai ghetti e in particolare a Varsavia, dove, nel 1943, contribuirono in modo decisivo ad organizzare l’eroica rivolta del ghetto della capitale polacca, prima di finire travolti ed inghiottiti dall’orrore dei lager nazisti.

Concludendo, osserviamo come questo di Massimo Pieri sia un libro che dà un apporto prezioso allo studio di una pagina cruciale del socialismo internazionale e un contributo importante alla conoscenza e alla comprensione di un movimento proletario rivoluzionario le cui idee meritano di essere riconsiderate e riproposte in un quadro – quello odierno – di capitalismo mondializzato e di proletariati sradicati e migranti.

 


* Massimo Pieri, fisico, matematico bioeconomista è presidente di COBASE. Associazione Tecnico Scientifica di Base è un’organizzazione internazionale, costituita da un team di ricercatori e professionisti specializzati. COBASE gode dello status di consulente speciale con il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) ed è un major group per i programmi delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, la Risoluzione dei Conflitti e per lo Sviluppo Sostenibile.

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Em/pietà https://www.carmillaonline.com/2014/04/15/empieta/ Mon, 14 Apr 2014 22:15:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14090 di Sandro Moiso IBuoni1-660x969

Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere 2014, pp. 204, € 14,00

Sì, ma com’è che la vuoi chiamare, ‘sta campagna?” “Il bene a regola d’arte.

Là dove ogni ottica classista è stata rimossa, là dove il concetto di lotta di classe è stato abolito, là dove ormai regnano soltanto carità cristiana, legalitarismo e denuncia dell’ingiustizia senza ricorso all’unità e alla rivolta degli oppressi… là può serenamente regnare l’empietà. Nella sua forma peggiore e nell’ipocrisia più assoluta. In questa piaga purulenta Luca Rastello ficca il dito. E lo gira. E fa male.

Lo scandalo per lui è reale e [...]]]> di Sandro Moiso IBuoni1-660x969

Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere 2014, pp. 204, € 14,00

Sì, ma com’è che la vuoi chiamare, ‘sta campagna?
Il bene a regola d’arte.

Là dove ogni ottica classista è stata rimossa, là dove il concetto di lotta di classe è stato abolito, là dove ormai regnano soltanto carità cristiana, legalitarismo e denuncia dell’ingiustizia senza ricorso all’unità e alla rivolta degli oppressi… là può serenamente regnare l’empietà. Nella sua forma peggiore e nell’ipocrisia più assoluta.
In questa piaga purulenta Luca Rastello ficca il dito. E lo gira. E fa male.

Lo scandalo per lui è reale e doloroso.
Il peccato e il male esistono.
Il Male assoluto travestito da Bene assoluto.
Lo Spirito che si fa carne. Corrotta.
E come un antico cataro urla la sua denuncia.

E’ un urlo assordante e allo stesso tempo pacato quello di Luca.
La rivolta che sgorga dal cuore di chi non vuole levarsi al di sopra, ma che, umanamente si accolla la sua parte di responsabilità.
Ma rigira il dito nella piaga, Luca.
E fa urlare. I potenti.

Giornalisti dal nome altisonante.
Inquisitori incanutiti e irranciditi nella caccia di colpe là dove, spesso, non ci sono.
Critici che non vogliono la critica dell’esistente.
Uomini che vogliono soltanto i “nomi”.
Che nei fatti narrati sanno riconoscere i nomi, ma non la sostanza.

Perché la sostanza fa paura, soprattutto quando attraverso la letteratura si avvicina alla verità.
Anche quando la verità dovrebbe rimanere inconfessabile.
Oppure rimanere custodita dallo sguardo dei servitori del dis/ordine.
Sempre, “c’è un poliziotto che guarda”.
E’ il refrain del libro.

Luca, però, si tiene, almeno nella parte iniziale e in quella finale del suo romanzo, più vicino a “I misteri di Parigi” di Eugène Sue o a “I miserabili” di Victor Hugo, piuttosto che al “1984” di Orwell. Attualizzandoli e immergendoli nelle fogne vere e nel dolore degli ultimi delle metropoli dell’Est.
D’altra parte non può esistere nemmeno l’anti-utopia, là dove non è più possibile alcun tipo di utopia.
Soprattutto quando questa è sostituita dalla “corresponsabilizzazione”, dall’associazionismo, dalla retorica del “bene” e dalla solidarietà pelosa di chi vuol fare di ogni aiuto soltanto un “progetto”.

Soprattutto in quelle città del “fu” triangolo industriale dell’Italia settentrionale che, insieme agli stabilimenti e all’occupazione, sembrano aver perso qualsiasi speranza e qualsiasi tipo di solidarietà di classe.
Là dove l’elemosina di facciata si accompagna al peggiore localismo e al calcolo più cinico spacciato, però, per rinnovamento politico ed economico. E dove la “lotta alla Mafia” è diventata la parola d’ordine destinata a sostituire quelle ben più pericolose dell’antagonismo di classe.

I raffinati custodi della cultura odierna non vogliono sentire parlare di contratti di lavoro. Non vogliono sentire parlare di lavoro precario.
Il volontariato deve bastare e il terzo settore deve trionfare come modello.
Dalle Coop rosse e cattocomuniste alle associazioni, fino a diventare modello unico per il lavoro a venire attraverso il job act.
Dove anche il lavoro offerto nelle condizioni più miserevoli diventa atto di “carità”.

Il “raffinato” intellettuale e il moralista legnoso si danno la mano nel fare la carità.
Sì, ma poi basta…eh!?
Cosa vogliono di più questi disgraziati raccolti in mezzo alla strada?
Non gli basta vivere all’ombra dei loro datori di lavoro?
Non gli basta respirare la stessa aria che respirano loro?
Non gli basta respirare le parole dei Santi?

Il vero “raffinato”, un raffinato ufficiale, avrebbe detto Céline, nel suo libro più proibito, deve: “ frenetizzare l’insignificante, cicalecciare, darsi delle arie, gracidare nei microfoni delle radio… rivelare i miei «dischi preferiti»… i miei progetti di conferenze…
Deve evitare la critica dei potenti. Evitare la critica dell’esistente, per poterne cantare le lodi.
Raffinato sì, come lo zucchero.

Privato di ogni asprezza, di ogni sostanza nutritiva.
Destinato soltanto alla bulimia oratoria televisiva .
Produttore di diabete da troppa dolcezza, elargita con troppa facilità.
E guai se trova in qualcuno lo spirito di Alfieri che si rifiutava di respirare anche solo l’aria respirata dai tiranni.

Luca non ha più voluto respirare la stessa aria dei tiranni, anche se profumava di incenso. Anche se per lui deve essere stato doloroso, oltre che necessario, narrare le vicende di Aza, Adrian, Alberto, Mauro, don Silvano, Delfino, Isabella, Delia e del giudice grasso. E di molti altri ancora.
Perché l’elemento autobiografico preme con urgenza nella scrittura di Rastello.
Torna alla mente Dante:” Ma se le mie parole esser dien seme / che frutti infamia al traditor ch’i’rodo, / parlar e lagrimar vedrai insieme1 .

Anche se il traditore non è soltanto uno e non è il nome famoso che tutti vogliono individuare.
No, il tradimento è di tutta una società, di tutto un ambiente fasullo e perbenista.
Fatto di riviste patinate e di giornali ben informati.
Costruito sul nulla delle buone intenzioni.
Che come sempre lastricano la strada per l’inferno.

Abbiamo bisogno di rimandare la lotta, Adrian, ma abbiamo bisogno anche di fingere di combattere, e di amare la lotta. Abbiamo bisogno di concedere a noi stessi ancora un brandello di questa vita che in fondo non ci impegna, di tenere un francobollo di orizzonte al fondo delle nostre giornate senza cuore. Ed è don Silvano che ce lo permette: lui garantisce che farà il lavoro al posto nostro. Tutti lo amano, i potenti, i belli, i celebri, e la suora che trema sotto il suo sguardo. Tutti sono orgogliosi di essere suoi amici. Perché lui cavalca con le insegne del bene. […] E’ l’eroe di questo tempo, è la consolazione. Combatte lui la battaglia che noi non abbiamo tempo di combattere: non vincerai mai con lui, e neppure gli toglierai la maschera. Ci sarà una suora a impedirtelo, un politico, un cantante famoso e un ragazzo pieno di ideali. Lui è il polmone artificiale che li fa respirare anche quando l’aria è carica di acido e gas velenoso. […] Noi siamo l’acqua in cui cresce la pianta, amico mio: lo difenderemo fino alla morte, pieni di gratitudine per il velo che mette tra noi e il mondo. Lascialo stare, don Silvano. Lui si nutre del disperato bisogno di conciliazione che nasce dalle nostre vite in cattività. Lui è la forma del mondo com’è.

Tu, perché lo servi?” “Perché io sono come loro. Mi credi migliore?” (pag. 191)

Perché gli oppressi sono utili e devono essere visibili soltanto quando sono vittime. Non importa se del lavoro, dell’AIDS o della “Mafia”.
L’importante è che rimangano tali e che si possano compiangere.
Guai a loro però se parlano di diritti sindacali o di rivolta.
Perché, allora, devono essere “accompagnati”, essere messi alla porta.
O in prigione.

La parte più crudele della non fiction novel di Rastello, infatti, non sta né all’inizio, nella miseria e nella vita grama delle fogne, né, tanto meno, alla fine, nelle pagine della vendetta.
Ma sta proprio al centro, in quei rapporti ipocriti di potere e sottomissione, in quell’odore di soldi e di partite di giro truccate, in quella misoginia e in quel sessismo diffusi e troppo spesso accettati come norma dalle donne “in carriera” insieme al fascino esercitato da chi detiene anche solo un frammento di potere, di cui tutto il dolore del mondo non costituisce altro che l’ovvia periferia.

La parte centrale del libro, che ne costituisce anche la parte più lunga, metaforicamente rappresenta la centralità della corruzione morale ed economica nella società del dominio capitalistico dell’esistente e dell’ipocrisia che la nasconde e giustifica.
Il denaro, lo sterco del demonio dei patarini e degli eretici medioevali, ha trionfato . Non solo nella pretesa casa di Dio, questo si sapeva, ma anche in quegli ambienti che avrebbero dovuto rappresentarne il rinnovamento.

Invece del Re ad essere nudo, nel romanzo, è il “bene”.
Il buonismo trionfante e ipocrita.
Soprattutto nella sua variante associazionistica, là dove si dovrebbe lavorare solo per il bene di tutti e disinteressatamente. E dove, a farlo disinteressatamente, dovrebbero essere possibilmente gli ultimi.
Grati, come servi o come schiavi.

Già…chissà quanto si saranno commossi coloro che hanno furiosamente criticato Luca e il suo libro guardando il patinatissimo “12 anni schiavo” !
Tutti uniti nel sentirsi buoni…tutti uniti nel criminalizzare gli altri.
Tutti uniti dal “noi” di chi pensa le cose giuste. Legali. Caritatevoli.
Pietismo contro barbarie estremista…che come si sa deve essere estirpata
Gli basterà poi chiedere scusa se vi prenderanno a calci in mezzo alla strada, come a Roma il 12 aprile, oppure dopo avervi sterminati, come in Argentina o durante un pogrom.

Non preoccupatevi.
Leggete questo libro tutto d’un fiato, com’è capitato al sottoscritto, e poi, se li incontrerete per strada o li sentirete predicare in pubblico o sul piccolo schermo, ridetegli pure in faccia.
Il loro Dies Irae sarà sicuramente peggiore del nostro.


  1. Dante Alighieri, Commedia, Inferno, Canto XXXIII, vv. 7 – 9  

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