pina piccolo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 May 2024 00:30:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 “I canti dell’interregno”, un ritornello! https://www.carmillaonline.com/2018/06/16/i-canti-dellinterregno-un-ritornello/ Fri, 15 Jun 2018 22:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46094 di Antonino Contiliano

Pina Piccolo, I canti dell’interregno, Lebeg Edizioni, Roma, 2018, 10 €, pp. 116

C’è un ritornello di cui, senza molte incertezze, vorrei dire a proposito del libro di poesia di Pina Piccolo (“I canti dell’interregno”), così come conforta legare la parola “canti” del titolo (dell’interregno) a una radice verbale. Il libro è prefato da Rossana Morace. In primis però preme precisare che le poesie del libro, vista la differenza di stile tra quelle della prima parte e l’ultima, sembrano raccontare del diverso rapporto che Pina Piccolo ha [...]]]> di Antonino Contiliano

Pina Piccolo, I canti dell’interregno, Lebeg Edizioni, Roma, 2018, 10 €, pp. 116

C’è un ritornello di cui, senza molte incertezze, vorrei dire a proposito del libro di poesia di Pina Piccolo (“I canti dell’interregno”), così come conforta legare la parola “canti” del titolo (dell’interregno) a una radice verbale. Il libro è prefato da Rossana Morace. In primis però preme precisare che le poesie del libro, vista la differenza di stile tra quelle della prima parte e l’ultima, sembrano raccontare del diverso rapporto che Pina Piccolo ha avuto con la scrittura poetica e i suoi enunciati. In questo senso ci conforta la conferma avuta dalla stessa autrice. Si tratta infatti di una silloge che attinge ad una attività di “43 anni” di ricerca.

Ora torno alla radice. E la radice cui si pensa è quella agganciata alla parola ‘kantos’ – cantuccio, canto, cantina, ripostiglio, interstizio, angolo dell’occhio, l’angolo  dove i muri di un edificio (del regno) si incontrano e chiudono facendo catenaccio  – e non a ‘canere’, cantare.

In questa maniera, scansando l’impossibile comparazione con i “canti” delle magnifiche sorti e progressive di memoria leopardiana (anche se nel corso dei suoi testi l’autrice ne parodizza l’assunto), è probabile che nel tessuto di queste poesie i “canti” vogliano suggerire delle metonimie in funzione del reale concreto; figura e concetto, la metonimia, sottende infatti il vincolo con il reale delle cose messe in campo da questa poesia di denuncia e speranza di un mondo altro.

Un’incertezza, almeno fra le pieghe di chi scrive, rimane però nel decifrare invece la parola ‘regno’ (dell’interregno). Forse un simbolo metaforico o una chiave sineddochica? 

Funziona da metafora? Il regno, per esempio, è allora come la casa dell’Europa (di cui si parla nelle poesie del libro?); una dimora che nasce e si sviluppa cambiando forme e istituzioni? Un regno-casa e dimora immemore, o una fortezza dalle mura come quelle di Gerico o di Troia?

Oppure, il regno, è sineddoche? Il contenitore cioè che sta per ogni singolo contenuto (errori, orrori, contraddizioni, idealità, voci, truffe, guerre tra poveri, bussole…) custodito negli interstizi della fortezza-Europa con le sue terre e gli Stati a guardia del regno che difendono dagli assalti degli stranieri; il contenitore che negli angoli di casa (i canti) conserva le sonorità stridenti e le patologie «[…] / tra le sindromi morbose / sindoni irradiate / antropogenici cambiamenti / antropologici mutamenti / e ammutinamenti / costituzionali scrostamenti / e crollo di nazioni. » (Interregno, pp. 8-9); oppure il tutto che «nelle candide viscere / inghiottito / onde evitare rallentamenti / aggirare gli blocchi / truffando gli allocchi / grande tunnel di luce / che via dalla vita conduce” (Versetti dell’alta velocità, p. 34) e in serbo serva altre segreti d’ordine capitalistico.

Ma ritorniamo volentieri al ritornello!

Un ritornello che potrebbe funzionare anche come uno scambiatore temporale bidirezionale e reversibile, perché, nonostante i relativi presenti propri, c’è una costante linea di crisi nei rapporti di forza tra le cose e i soggetti di riferimento, sì che dal 2017 si può ritornare indietro al 2011 o al tempo degli argonauti o di Agamennone e al sacrificio di Ifigenia.

Intanto diciamo che questo segno semiotizzante, linguisticamente, è il ritornello che fa capo al segno verbo-grammaticale ‘inter’, ‘tra’; il segno che insieme è anche congiunzione, disgiunzione, luoghi, storia culturale, contesti (eventi mitici, diveniri storici lontani e vicini, andirivieni dilatati, contratti, non lineari…), geografia, ambienti, destini, speranze e lotta tra poteri costituiti e volontà conflittuali (forze di rotture e ri-cominciamenti) fin dalla notte dei tempi.  Una ripetizione, questo ritornello, quale vero complesso ubi consistam po(i)etico di tutti i testi poetici radunati in questo libro.

Il ritornello che, ri-strutturandoli nei versi di una libera metro-ritmica poiesis, introduce e accompagna perciò il lettore-interprete per tutti gli spostamenti semantici (fatti storico-materiali) che affondano la poesia stessa come un sapere che si nutre di conoscenza generale e fatti specifici. Come dire che l’attività compositiva propria alla poeta è un mondo da con-dividere nella divisione della crisi che oscilla (usando l’esergo gramsciano in prestito al libro) tra il vecchio che muore e il nuovo che stenta a nascere.

È il ritornello che nella scrittura poetica si presenta quale ritorno di un “segno” che ripete e differenzia la ripetizione del rapporto in mezzo a un campo di forze che si attualizza come ritmo (intervallo di istanti, ore, stagioni, tempi…); un ritmo però che è altra cosa dalla cosa ritmata (le mura di “Gerico”, di un manicomio, del Mediterraneo odierno  e lo scenario galleggiante della vita dei migranti afro-asiatici che – aggrediti dalle guerre, dalla fame e dalle violenze di sistema internazionali complici – l’attraversano…).

Diversi i portavoce di questo ritornello. Il portavoce può essere – come si legge nella prima poesia (Interregno, p. 7 e sgg.) – un “corno d’ariete” per le mura di Gerico, o la canzone di una gazza “nel giardino del manicomio” (dove si abbatte la speculazione edilizia), o, come in “Messaggio degli alberi recisi nell’ex manicomio dell’osservanza” (pp. 14 e sgg.), sono le “…anime degli alberi / recise, segate dalle magnifiche sorti rossastre / e progressive, qui in questo scorcio di millennio”.  (Per inciso, e non per ultimo – continuamente pungente e presentemente vigile – è in azione la sferza fortemente s-valutativa affidata alla parodia dello stesso noto giudizio leopardiano sul “progresso” umano e civile; basta puntare l’occhio e la mente sulla composizione fonemo-sintagmatica del segno “rossastre”, un enunciato di per sé già ferocemente umoristico).

In altri luoghi delle poesie (Interregno, p. 8.) può essere, per esempio, la ripetizione di un apparente tautologia lessematica: “[…] // Saldi, saldi, saldi! / teniamoci saldi / nell’interregno”, ma che tautologia non è. La parola, infatti, grazie alla posizione proposta, oltre a dirci di una dissociazione semantica tra il primo e il secondo verso citato, richiede una certa articolazione; così leggendo (primo verso) la funzione della virgola nel contesto della strofa precedente (quasi una cantilena che annuncia la vendita delle ultime rose da parte di piccole o grandi mani nere dedite al commercio ambulante, e sfruttate) della poesia, crediamo, volesse dire in successione: vi offriamo le “ultime” cose- saldi; “ancora”- saldi; “sempre”- saldi (e, poi, con “teniamoci saldi”, dire: rimaniamo uniti, aggrappati e fermi a questo slogan di regime…).

E solo per un altro esempio, nella poesia “Ventisei rose di mare” (pp. 39-41) si manifesta con un segno-vehiculm particolare, l’elenco cioè verticalizzato di tanti nomi tombali. Particolare, il segno, perché mixa il significante e il significato sovrappondo simultaneamente l’aspetto fisico-semiotico (la figura di una verticale come una raffica di nomi e corpi naufraghi sparati e inabissati) e quello linguistico-semiotico (i nomi enunciati in assoluto elenco numerico verticale). Una sintesi figurativo-concettuale significante che, offrendo un’eccedenza di senso poetico, rimanda a un altro “re-ligio”e rimando simbolico-culturale:

L’ultima volta che ognuna / levò in alto gli occhi / forse le arrise Oshun, / negra dea dell’acqua dolce / giunta a raccogliere / neri petali di rosa /per farne ghirlanda” (Ivi, p. 41).

Ma, per finire, c’è un altro ri-torno che il ritornello ‘tra’ o ‘inter’, qui, non dimentica; ed è, secondo chi scrive, la presenza di un “virtuale” che è reale sebbene non ancora attuale: è la voce anaforica che ripete: “Non avrete l’ultima parola”.

È la poesia in cui ritornello ripete la differenza degli enunciati (raccolti in  sei strofe) in un crescendo di speranza anti-poteri per chiudersi (p. 86) nella decisone di rottura che, senza esitazione, si scrive così:

Semmai, l’ultima parola / spetta a chi cercate / di imbavagliare nel silenzio.

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Trickster rant, ovvero il ritorno della Figliastra…. https://www.carmillaonline.com/2018/02/11/trickster-rant-ovvero-ritorno-della-figliastra/ Sat, 10 Feb 2018 23:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43434 di Pina Piccolo*

Di noi sono state dette molte cose… ogni cosa e il suo contrario;

troppe cose:

che siamo sradicati e senza radici, che obiettiamo a radicarci nel vostro territorio o non lo facciamo in maniera adeguata; oppure che cerchiamo in troppi di radicarci qui e stiamo sradicando voi…

se siamo sradicati, che per questa nostra ostinazione, per definizione facciamo parte del mondo del disagio (che come si sa fa girare l’economia e dà posti lavoro)

ormai, per gli operatori del disagio, con i nostri numeri abbiamo sostituito i pazzi, e così avendo chiuso i manicomi, avete approntato i CPT, [...]]]> di Pina Piccolo*

Di noi sono state dette molte cose… ogni cosa e il suo contrario;

troppe cose:

che siamo sradicati e senza radici, che obiettiamo a radicarci nel vostro territorio o non lo facciamo in maniera adeguata; oppure che cerchiamo in troppi di radicarci qui e stiamo sradicando voi…

se siamo sradicati, che per questa nostra ostinazione, per definizione facciamo parte del mondo del disagio (che come si sa fa girare l’economia e dà posti lavoro)

ormai, per gli operatori del disagio, con i nostri numeri abbiamo sostituito i pazzi, e così avendo chiuso i manicomi, avete approntato i CPT, i Cie, gli hub, riversandoci dentro noi questa nuova popolazione, vittima di disagio. 

A volte persino lo stesso personale addestrato al disagio precedente si è visto, con la perdita del primo grazie al contenimento chimico, aprirsi la prospettiva di occuparsi del disagio di questo altro Altro.  I vostri pargoli, a cui in passato per tenerli occupati, nella cronica situazione di disoccupazione giovanile italica, facevate fare  per qualche anno collaborazione allo sviluppo nei paesi che chiamate del “Terzo Mondo” (ignorando che prima, durante la Guerra Fredda, veniva utilizzata questa etichetta per i paesi non allineati e poi in seguito venne adoperata per i cosiddetti “paesi in via di sviluppo”).  Adesso non più nel “Terzo mondo” (e chiamiamolo così anche se è pieno di pozzi di petrolio, anche se ha storia più antica di quella di Roma),  gli fate fare una specie di servizio civile internazionale (oltre a quello ufficiale delle “missioni di pace”), adesso i vostri figli ve li tenete occupati vicini vicini, nelle vostre cooperative in cui, per 400 euro al mese, a tempo pieno, ci dovrebbero insegnare l’italiano per permetterci così di integrarci e alleviare il nostro disagio, E gira così, con fare postmoderno, la ruota della storia –AGIO e DISAGIO-  AGIO –DISAGIO celando e rivelando i logori rapporti umani di sempre.

Spostandoci poi dal disagio in cui versiamo noi a quelli che creiamo per voi, oltre a rubarvi il vostro potenziale lavoro, in genere siamo d’intralcio al vostro gusto estetico, cioè per voi non siamo proprio belli a vedersi, non rientriamo nei vostri canoni di bellezza:

portiamo in testa fazzoletti e foulard avvoltolati nelle fogge più bizzarre, strani copricapi, colori chiassosi che cozzano con i vostri colori del mese decisi dal Made in Italy, con il vostro capello spettinato ad arte e la gambetta mandata all’angolazione giusta dal tacco,

i nostri mocassini marocchini cozzano col vostro tacco 12 che indossate per “sentirvi a posto”, mentre noi i nostri veli li portiamo perché costrette,

ebbene sì, siamo ingombranti,

anche se talvolta, mossi da pietà volete fare sfilare il nostro slanciato, muscoloso corpo watussi a Pitti Uomo, così prendete due piccioni con una fava, oltre a far godere il vostro occhio ci fate del bene, cercando di integrarci nel sistema Moda italiano.

Dite che vi deturpiamo la purezza della razza.

Fate capire che è ora di far nascere degli angioletti biondi italiani.

Le ministre vi consigliano di evitare certe compagnie.

Dite che ci intrufoliamo perché facciamo parte di un piano internazionale per sostituirvi,

e dal sud degli Stati Uniti alla Polonia si leva il grido è “You will not replace us” cioè,  “Voi non ci rimpiazzerete”

Noi minaccia o amorfa epifania (pare che già 40 anni fa Pasolini, col suo terzo occhio un po’ orientalista, ci abbia visti arrivare, in tanti comandati da “Alì dagli occhi azzurri” e sbarcare sulle spiagge di Palmi), c’è chi ci chiama gli invisibili e col suo buon cuore si dà da fare per metterci in mostra in esotiche gigantografie—sì, le ho viste appese ai muri dei vostri castelli, non me lo sto inventando.

C’è chi si è vinta bandi di fondi europei facendo il casting di questi e queste invisibili nell’androne del palazzo del re Enzo, anche lui una specie di re da un ramo spurio dell’Impero (osservate come tornano i conti) mal accetto a cui il popolo bolognese costruì un palazzo per rinchiuderlo fino alla morte, negandogli riscatto ma in compenso lasciandogli scrivere libri.  Nell’androne del palazzo del re Enzo, alcuni di noi erano ben contenti a farsi ritrarre ed apparire…  E alcuni di noi pensavano che se avessimo fatto video con i nostri pargoletti inneggianti alla pizza e agli spaghetti, rassicurando l’autoctono che mai avrebbero essi pronunciato la parola cous cous, non potevate che accoglierci a braccia aperte alle vostra urne… come infatti non è stato….

E se non siamo invisibili allora pecchiamo di un eccesso di apparenza, cioè dopo aver adoperato le braccia di giorno facciamo fatica a sparire dalle vostre strade e piazze la sera. Ci sentite per i vostri medievali borghi (Italia ottava meraviglia dell’Universo, figuriamoci ora con quel ganzo di Alberto Angela e i suoi 25 milioni di telespettatori, nazione con il maggior numero di siti Patrimonio Unesco di qualsiasi altro paese al mondo), con i nostri linguaggi strani che non sussurriamo sottovoce ma che gracchiamo ad un certo volume. “Ormai sono tutti di loro. Amarcord quando la sera si facevano le vasche in tutta tranquillità, adocchiando le nostre belle ragazze, dotate di cuore grande. E adesso ci tocca sentire questi che urlano nel loro iPhone ultimo modello. Tra l’altro che buzzurri a manifestare in maniera così cutting edge il loro essere arrivati – si limitassero a un Nokia di 10 anni fa, che va benissimo per quello che gli serve”. “Se proprio dovete stare per strada o ve ne state nelle strade che vi diciamo noi, dove la sera c’è il via vai di chi trova esotica la vostra pelle nera. Che ormai siete diventate il rito di passaggio per i bravi ragazzotti di qua che prendono la patente. Pensate un po’, il quiz a crocette del guidatore- l’ultima domanda premio e chi la indovina viene accompagnato direttamente dall’ingegnere che gli ha somministrato l’esame. Altro ché una volta, quando c’era Lui, che tuo padre, con un certo piglio, quella solennità di uomo d’altri tempi, ti portava alla casa chiusa per il viril passaggio, ad aspettare il turno tra bellezze italiche en deshabillé.  Ora invece appena superato l’esame di patente, evvai, lì sulla collinetta appenninica a cercarle. Pare che ci vadano anche i giovani immigrati. Anche loro cercano d’integrarsi ai nostri costumi. Hanno anche i materassi dispersi per le campagne. Occhi dolci di gazzella. Nel vostro luogo deputato. Visto un altro primato nostro linguistico…. Da che cosa viene l’espressione “luogo deputato? “nel dramma liturgico medievale, costruzione in legno, tela e simili che veniva innalzata sul palco per rappresentare gli edifici e i luoghi della passione di Cristo o di altre vicende sacre.” Oggi anche voi, faccette nere, belle abissine, godete di un luogo deputato tutto vostro per rappresentare la vostra di Passione.

———————–Stacco——————————

Noi quelli e quelle dell’esilio, della malinconia,

privi di lingue madri, o con sovrabbondanza di lingue matrigne che secondo gli autoctoni parliamo con strani accenti, oppure noi parlatori di lingue imbastardite, che i vostri dotti ricercatori denominano contaminazioni, innesti, ibridi, meticci, insomma non superbi cavalli arabi ma Ronzinanti della lingua.

Noi orfani di identità, che siamo una vergogna per il nostro paese d’origine, oltre che segno di disagio per quello di arrivo (pur essendoci arrivate da varie generazioni).

Sì, ‘sti buzzurri, che osano rappresentare la madrepatria- urna di beltà passate- con la propria miseria, omini e femmine “sanza lettere”, con qualche sporadico letterato in fuga pronto ad abbracciare altre lingue. Che poi i letterati del luogo stentano a riconoscer loro la maestria.  Diventano, se gli va bene, sottoprodotto di nicchia, se no direttamente prodotto di scarto, semplice biografia, testimonianza, mai all’altezza della Letteratura Vera.

Noi, che quando torniamo non ce la facciamo a moderare la nostra dismisura, negli anni 60 ce ne tornavamo con Cadillac e tailleur rosa, vistoso pugno nell’occhio al bon ton italiano allora dedito allo scialbo beigiolino del tailleur imposto dalla classicità. Ora invece il nostro Progetto Migratorio Inverso prevede l’apertura di officine specializzate in Maserati, Lamborghini e Ferrari…. Macchine che sfoggiavamo dopo decenni di arduo lavoro nel paese d’arrivo per far vedere che eri arrivato… e che ora qui nel paese natio o in quello dei tuoi avi ti guardano con l’occhio storto, come volessi prenderli in giro. Ti guardano come se tu fossi il Convitato di pietra che ha bussato e vuole sedersi alla loro tavola. Ti guardano con quell’occhio protervo con cui il Figlio guardava la nuova famiglia della Madre, nei “Sei personaggi in cerca d’autore”.

Oppure, a te malvoluto ritornato, ti salta in mente di aprire un bar letterario, dove sarai pur padrone di mettere in scena le tue scritture e quelle dei tuoi.  Mica sempre a mendicare uno spazio a questo o a quello? Scomodare assessori e Regione? Ma chi te l’ha fatta fare a tornare? Stavi tanto bene (forse poi non tanto) lì dov’eri…

E infatti, non l’hai voluta ascoltare la parabola del buon Steven King “A volte tornano”, ed eccoci zombie, peggio di Ulisse, riconosciuto solo dal fedele cane Argo, colpito subito da coccolone e muore lì sul posto.  Qui non ti riconosce proprio nessuno… potresti essere un turista qualunque….  Un migrante qualunque…  Un barista qualunque… Se non fosse che sai troppe cose e spesso gliele spiattelli così e li zittisci, e poi ti considerano anche superbo.  Non sai stare al gioco.  Non sai quando dopo un conflitto, la cosa deve rientrare, come sono stati addestrati loro da decenni, avvezzi ormai al ritiro in buon ordine, formati dalla quotidiana frequentazione della politica locale.  Dopotutto già dalla letteratura delle origini si evinceva il diktat: “Vuolsi così colà dove si puote/ e più non dimandare”. Forse vieni da un posto in cui il livello di conflitto è più alto e non ti sai adeguare.

No, tu nel tuo bar vuoi mettere in scena chi vuoi tu e chi chiami come prima attrice, se non La Figliastra….

———————————–STACCO——————————————————–

Questa appare come un lampo a ciel sereno, non come una fioca Madama Pace evocata nel retrobottega, irrompe con grande fragore sul palcoscenico del nuovo Bar Il Trickster, LA FIGLIASTRA, personaggia non tanto in cerca di autore, ma determinata a sfogare il suo rancore, da cui il titolo Trickster rant…  è abbigliata non più nell’abito nero del lutto ma in uno spettacolare abito della LF Design, della camerunese-Italiana Leatitia Feugaing, linea indubbiamente più fortunata di quella della ObOb Exotic Fashions di Castel Volturno estintasi con i 7 immigrati africani uccisi nel suo outlet nel 2008 dalla Camorra. Oggi, la Figliastra porta abiti che combinano tessuti africani e linee europee. La sua risata è sì stridula, e ce l’ha ancora con il Padre, la Madre, il Figlio mentre la Bambina continua ad annegare, stavolta non nella vasca ma è nel Mediterraneo, che annega la bambina in tutte le colorazioni possibili e immaginabili. E il Giovinetto è là con la sua pistola che inetto non sa fare altro che far partire il colpo verso se stesso. E lei la Figliastra è lì, che li vuole inchiodare tutti alle loro responsabilità

“Sé, sono tornata, mancano tre anni al centenario della nostra prima scandalosa rappresentazione, al grido di “Manicomio! Manicomio! “Cento anni, già che ero stanca di andare al braccio di questo e quello nella casa di appuntamenti di Madama Pace, mentre mia madre cuciva e cuciva nel suo retrobottega, come si fa oggi a Prato.  Solo che dopo aver cucito non scuciva come Penelope e il Salvatore non arrivava mai…  allora forse tocca anche a me Salvare- Non ne posso più. “Questo ponte che è la mia schiena” diceva Gloria Anzaldua, chicana, cioè figlia di messicani emigrati, per così dire, nelle terre che adesso risultavano appartenere agli USA, ma che fino a 150 anni fa risultavano essere Messico, e prima ancora erano il favoloso regno di Tenochtitlan. Dopo alcuni anni che cercavo di fare da ponte, derisa e rifiutata da entrambe le sponde, ho deciso invece che mi sarei documentata e gliele avrei cantate, le mie scomode verità …  Ma dove è finita la Figliastra, vi domandavate? Sono quasi cento anni che me ne sto a perdere la vista negli archivi di mezzo mondo, scartabellando nel passato e leggendo negli interstizi del presente, leggendo i segni del futuro disegnati dai writers sui muri delle vostre città … Me l’ha insegnato una zingara addestrata nel suo antro dalla Sibilla Cumana, là nella Terra dei Fuochi, dove oggi si accumulano i rifiuti tossici. Le esalazioni a volte uccidono, a volte rivelano verità occulte.

Allora, riassumendo: vi ricordate quella storia in apparenza scunchiuduta , ovvero sconclusionata, senza né capo né coda, che i Personaggi insistevano il capocomico dovesse rappresentare invece di quell’insulsa commedia “Il Gioco delle parti”? Rammentate, si interrompevano a vicenda, cercavano di fare accettare le proprie ragioni, smentendo gli altri.

Un Padre, dopo aver sposato e avuto un figlio con la Madre la manda a vivere con il suo segretario, tenendosi e allevando il Figlio. La Madre ha dal segretario (la figura del segretario è la meno delineata di tutte) altri tre figli, la Figliastra, Il Giovinetto e la Bambina.  Lo so che mi chiamerete complottista, ma l’avete capita l’antifona? Cioè, il Padre (lo Stato nazionale, in questo caso l’Italia) dopo aver fatto figliare la Madre (popolo) la manda a vivere altrove, cioè la costringe alla migrazione (parliamo dei 14 milioni di italiani migrati fuori dall’Italia dal 1876 al 1915 (all’epoca su 33 milioni di abitanti) e gli altri 10-12 milioni, che sono sgocciolati e continuano a sgocciolare via dai patri lidi dal 1916 in poi). Si tiene un Figlio, il legittimo erede, quello che continuerà a guardare gli altri con sguardo protervo. Tornando alla commedia, questo nuovo e spurio nucleo famigliare conduce una vita modesta (come la maggior parte degli emigrati) in questa nuova casa, ma alla morte del Segretario si ritrova priva di mezzi per sopravvivere. Si devono arrangiare. La madre va a cucire (pallida memoria Penelopea) nell’atelier di Madama Pace per pochi centesimi (mi pare che la storia degli sweatshop sia stata magistralmente messa in scena già nel 1921) ma stentano a campare. L’avvenente Figliastra viene irretita da Madama Pace, che in verità sopra il retrobottega cucereccio gestisce una casa di appuntamenti (come si diceva all’epoca).  La Figliastra però non pare essere molto contenta di fare la sex worker, sarà che ha una mentalità ancora un po’ puritana e lungi dal diventare un’attivista per la legalizzazione della prostituzione accumula rancore fino a quando, nella scena madre (perché mai si dirà così) quella del denouement o dell’agnizione (anche se molesta, da non confondersi con la puntura) viene avvistata dalla Madre al braccio del cliente Padre. E allora, apriti cielo! Non pago di questo dramma già bello tosto di suo, su questo scombinato nucleo famigliare continuano ad abbattersi le sfighe: in un attimo di distrazione da parte dei grandi, la bambina inseguendo paperelle cade nella vasca e affoga, il fratello Giovinetto, sentendosi in colpa, esplode un colpo e si uccide. – badate bene chi è vittimizzato in questa parabola se non i più giovani? Vi ricorda forse qualcosa? Il Figlio, il coccolato legittimo, ce lo ricordiamo sempre con quello sguardo protervo di disprezzo verso il ramo indesiderato della famiglia- non vorrei mettervi parole in bocca, ma non vi ricorda forse qualcuno?

Comunque, riprendendo le fila, il Capocomico, poco convinto del potenziale di marketing della storia, li caccia tutti indiscriminatamente in malo modo, e il tutto si chiude con la risata sguaiata della Figliastra.

Ora, da figlia cacciata della Nazione, tornata per lanciare il mio Je accuse, dopo la farsa messa in scena sullo Ius Soli, sarei nuovamente tentata di lanciare un’altra stridula risata.  Ma la mia frequentazione di archivi vari in questi novantasette anni dalla prima rappresentazione mi fornisce strumenti metodologici ben più sofisticati quindi capovolgendo la situazione rivolgo a voi pubblico le seguenti domande e giuro che come una Erinni non vi darò pace fino a quando non avrete risposto o almeno cercato delle risposte:

  • Se una nazione nel corso di 150 anni perde 26 milioni di persone costrette a migrare, tra queste la maggioranza gente ambiziosa e coraggiosa, che non accetta di fare la fame, sottostare a governi iniqui, o vedersi tarpate le ali, c’è forse qualche impatto sul patrimonio genetico di chi rimane? Se il mero discorso biologico vi sconvolge, buttiamoci sul politico.  Allora, che cosa significa per lo Stato avere una valvola di sfogo da aprire  prima che si prospetti la minaccia che i nodi vengano al pettine dello Stato?
  • Che cosa accade se uno Stato disdegna i propri figli ed è disposto non solo a lasciarseli scappare, ma addirittura li caccia  e rifiuta di riconoscere quelli che arrivano da altri lidi, o che sono figli di quelli arrivati da altri lidi (anche lì in gran parte gente ambiziosa, che non vuole fare la fame, morire di guerra, sottostare a governi iniqui o vedersi tarpate le ali?)
  • Che impatto ha tutto questo sul versante artistico? Che cosa succede quando serri le palpebre per non vedere i film che questi nipotini tornati ti fanno, ambientati in Italia, sulla migrazione, sui Rom, sulla ndrangheta (Jonas Carpignano, il film “Mediterranea”, il film “A Ciambra”, la loro mancata distribuzione nelle sale italiane vi dice qualcosa?) E per quanto riguarda la prole di chi viene da altri lidi? Non è che come la Mussolini dobbiate sempre continuare a non capire chi vi fa il verso, chi vi spiattella in faccia il vostro immaginario bacato, come ha fatto in diretta Bello Figo?
  • Quando parliamo di traduzione dobbiamo per forza limitarci sempre a quel trito e ritrito  traduttore –traditore che le mummie accademiche sfoggiano con ricchezza di aneddoti sulle loro capacità di monolingue che  si lancia verso l’ignoto? O possiamo parlare dell’abominabile bilingue-trilingue, nata dall’incrocio dei mondi, che fin dalla nascita ha in testa e sulla lingua multipli idiomi, a otto anni accompagna i genitori ‘stranieri’ per uffici facendo da interprete. E’ forse una bambina disagiata che bisogna segnalare ai servizi sociali, o invece una precoce trickster che si barcamena nella Babele a volte producendo corto circuiti selvaggi a volte  creazioni epifaniche? L’arricchimento dei registri, la capacità di vivere con molteplici identità e lingue, di creare opere d’arte adatte al 2018 da queste Torri di Babele ricostituite, di non fossilizzarsi in univoche culture vi dice qualcosa?  Dobbiamo per forza rimanere attaccati a un canone unico nella complessità e le sfaccettature che caratterizzano il periodo storico in cui viviamo? A voi l’ardua sentenza

 

*Macchinista de La Macchina Sognante e The Dreaming Machine

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La moto di Pio e Koudous, note per una lettura del mondo di A Ciambra https://www.carmillaonline.com/2017/11/17/la-moto-pio-koudous-note-lettura-del-mondo-ciambra/ Thu, 16 Nov 2017 23:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41547 di Pina Piccolo

Sono appena tornata  a casa dalla visione di A Ciambra: visione nel senso “visionario” della parola, con ancora nelle orecchie il chiacchiericcio sulla sua umanità proveniente da alcuni spettatori attempati seduti dietro di me e quello  dei ragazzi  seduti nella mia fila che durante l’intervallo si interrogavano su dove fosse posizionata la cinepresa e se alcune scene fossero state riprese da due. Mentre i primi sottolineavano il messaggio che pensavano di dover trarre dal film, i secondi si interrogavano sulla questione tecnica di come il regista  fosse arrivato a confezionare la [...]]]> di Pina Piccolo

Sono appena tornata  a casa dalla visione di A Ciambra: visione nel senso “visionario” della parola, con ancora nelle orecchie il chiacchiericcio sulla sua umanità proveniente da alcuni spettatori attempati seduti dietro di me e quello  dei ragazzi  seduti nella mia fila che durante l’intervallo si interrogavano su dove fosse posizionata la cinepresa e se alcune scene fossero state riprese da due. Mentre i primi sottolineavano il messaggio che pensavano di dover trarre dal film, i secondi si interrogavano sulla questione tecnica di come il regista  fosse arrivato a confezionare la visione che intendeva far fruire al pubblico.

Scrivo queste note come spettatrice e non in qualità di critica cinematografica , competenza che chiaramente non posso arrogarmi.  Come ti folgora un quadro di Caravaggio seminando una specie di confusione dei sensi in una giornata di musei in cui hai visto innumerevoli tele di pittori rinascimentali, così posso dire è stata per me  la visione di A Ciambra.  Confesso che parte di questa sospensione sensoriale sia dovuta alla trasposizione e attualizzazione  dei luoghi, che in una loro versione antecedente hanno fatto parte della mia infanzia/adolescenza – Gioia Tauro (forse la città che maggiormente trasgredisce le regole dell’estetica urbana italiana), San Ferdinando (frazione di  Rosarno) ed evocati Reggio Calabria e la Tonnara e il supercarcere (di Palmi). Le zingare che conoscevo io erano quelle che, in assenza di tua madre, bussavano alla porta dicendoti che la tua genitrice l’aveva mandata perché le consegnassi una bottiglia di olio. Ordine prontamente eseguito dalla brava bambina obbediente a qualsiasi adulto.

Luoghi, quelli della Piana di Gioia Tauro, che adesso assurgono  a uno status di primo piano in una sorta di mitologia di luoghi negativi della migrazione: in maniera conclamata la tendopoli di San Ferdinando di Rosarno, meno eclatante il porto di container di Gioia Tauro, uno dei più importanti del Mediterraneo, protagonista anche del narcotraffico nella sua tranche  europea. Del quartiere “A  Ciambra” non sapevo niente ma ora, grazie a Pio, il giovanissimo protagonista rom che interpreta se stesso scopro la rappresentazione di un universo avulso da pietismi  e da ideologismi; rappresentazione diretta da Jonas Carpignano,  un italo-americano. Forse serve proprio uno sguardo semi-esterno per poter registrare questo universo in cui avvengono le interazioni del mondo dei rom  con il mondo della migrazione (“i marocchini” )e in maniera più indiretta, implicita, con la ndrangheta.

Pio Amato (attore non professionista e persona) non corrisponde certo ai canoni dell’eroe positivo auspicati da certa estetica di stampo zdanovista; credo che se abbia degli antenati cinematografici/letterari questi si debbano cercare in alcuni personaggi di Truffaut e nei protagonisti di film “on the road”.  E  chi più “on the road” che i rom?  Ma qui sta  l’ironia della sorte: un popolo che prima si spostava  seguendo i lavori stagionali ora è  ridotto nelle fatiscenti case popolari del quartiere “A Ciambra” alla periferia di Gioia Tauro, già paese periferico per conto suo.  E il romanzo di formazione di Pio Amato è collocato all’interno di questo mondo rom che si vorrebbe addomesticare con la stanzialità in un contesto sociologico molto complesso, a diretto contatto con il mondo della migrazione e della ndrangheta.  A livello tecnico la claustrofobia  della vita al chiuso della comunità rom è accentuata dal posizionamento della cinepresa ad altezza  di persona come avviene per esempio in film che seguono i dettami del gruppo danese Dogma (viene in mente il film The Celebration). Lo spettatore viene piazzato al centro della vita collettiva della famiglia Amato (notare i titoli di coda) sia nella propria intimità (la  cena del pranzo con ubriacatura generale)   che nelle sue interazioni con altri “attori” – nel senso sociologico – del luogo (il minaccioso/bonario compare rappresentante della ndrangheta “derubato” dal per una volta sprovveduto Pio) e saltuariamente con “i marocchini” compreso Koudous, l’amico del cuore (e protagonista del precedente lungometraggio di Jonas Carpignano Mediterranea) . Ma è nei luoghi all’aperto  o semi-aperti che Pio e lo spettatore/spettatrice finalmente respirano. Basti pensare alle scene del ragazzo esiliato dalla propria comunità che la osserva con un certo distacco dalla collinetta  che sovrasta  le fatiscenti  case popolari o la scena al semi-aperto della tendopoli di San Ferdinando, dove il ragazzo viene quasi portato in trionfo  e il  suo nome scandito ritmicamente, declamato come eroico autore del  furto/trasporto che permette alla comunità africana di assistere alla partita alla televisione.

L’estraneità dei rom ai vari meccanismi che governano il 21 secolo è palese  sia per quanto riguarda il mondo della scrittura che quello dei soldi, nonostante che  la propria sopravvivenza dipenda dai furti  e dal ricavato. Pio utilizza lo smartphone con disinvoltura ma non è in grado di leggere o mandare  messaggini. La matriarca rom parla di una bolletta della luce di nove mila euro che non possono o intendono pagare e quella cifra non suona particolarmente incommensurata (potrebbe essere la bolletta di 800 euro di una massaia gagé); come non suonerà inaspettata la cifra di 6 o 7 mila euro a risarcimento del danno subito dallo ndranghetista in seguito al furto di un tablet a casa sua operato da Pio. A questa liberalità con gli zero dei soldi corrisponde una particolare maestria nell’escogitare il ricatto che si manifesta sia nel compare gagè che nel fratello di Pio.

La scena di apertura e quella di chiusura del film forse ci offrono una chiave per capire sia la vita di Pio e della sua comunità,  il suo particolare romanzo di formazione, che nella migliore  letteratura non è mai priva di ombre.

Scena di apertura: “campo lungo” un cavallo libero nell’Aspromonte, un uomo (si capirà più tardi che si tratta del nonno di Pio da giovane) gli si avvicina e lo accarezza , lo accarezza anche su quella che potrebbe essere la criniera o la cavezza sbrindellata (simbolo di una libertà che forse nel caso di entrambi, il cavallo e le comunità rom,  è sul punto  estinguersi) . Il nonno è una figura fondamentale nel film, diventa una specie di sibilla di difficile comprensione, non si capisce se perché sia stato colpito da un ictus o se a causa di una sua lingua arcaica – la famiglia comunque si assume il compito di decodificarne i messaggi che sembrano risalire a un’epoca lontana. In un’occasione (sogno? realtà?) invece l’eloquio del nonno è ben chiaro, nonno e nipote sono nella stalla e il nonno indica un carro quasi rottamato, dice al nipote di essere nato su quel carro e che un tempo i rom erano i liberi, ma che comunque tutto il mondo è contro di loro e che essi non hanno che la propria comunità per sopravvivere. Più tardi  questo episodio e questi messaggi vengono ripresi in chiave onirica, simbolica e poi sociologica, per quanto riguarda il tradimento.

Per  attraversare gli spazi occorre un mezzo di locomozione e per Pio il mezzo di locomozione per eccellenza non è più il cavallo (che un tempo offriva anche la possibilità di contatto fisico tra uomo e animale) ma piuttosto  la moto, che gli offre sia la possibilità di evadere  dalla claustrofobia della sua comunità che quella di instaurare un  potenziale contatto fisico che fortemente desidera,  e che lo induce a disdegnare sia la macchina che il treno, visti entrambi come luogo e oggetto di attività  lavorativa. È nella vicinanza fisica e l’allegria e la vitalità del suo amico gagé appartenente alla comunità dei migranti africani della tendopoli di San Ferdinando  che Pio abbozza la sua ricerca di una figura di uomo adulto altra da quello dei maschi della sua comunità (i quali tendono ad essere piuttosto lugubri).  La fisicità del suo rapporto con le donne di famiglia e la nonna appartiene al suo universo di bambino e Pio è combattuto tra il conforto che esse offrono e il desiderio di affrancarsi ed allontanarsene, nel momento del passaggio da bambino ad adulto che egli fortemente cerca ma che gli altri e le altre inizialmente oppongono. Tale transizione ha luogo attraverso l’abbandono di quel desiderio/sogno di una vita altra tramite un “tradimento” e l’accettazione della fedeltà alla propria comunità. Rinuncia ed accettazione entrambe molto sofferte  e che si intuisce frutto di un ricatto. Qui l’espressività del volto di Pio è fondamentale e il regista la sfrutta con grande sapienza in tutta la sua gamma, compreso una sorta di innocente stupore che smentisce la sua abituale malizia. Ad esempio, una scena che induce una certa sospensione è la visita/premio al bordello, organizzata dal fratello maggiore, che dovrebbe sancire la sua entrata ufficiale nel mondo degli adulti. L’accettazione di un nuovo rapporto con l’elemento femminile, in un ambiente di persone con la quale aveva una certa dimestichezza, ma che richiede da lui una diversa prestazione è molto ricca a livello comunicativo nell’esprimere il disagio, contestualizzandolo al 2017 e allontanandosi dalle modalità grottesche a cui ci hanno abituato altri film (basti ricordare Armarcord).

A fasi intermittenti riappare il cavallo, ma nell’ultima scena Pio si trova a un bivio, da un lato viene chiamato dal mondo dei bambini  e dall’altro (finalmente e quando conviene a loro) dal mondo dei maschi adulti della sua comunità. Lo vediamo esitare per un momento ma poi incamminarsi sicuro e con una certa spavalderia verso di loro. Visti i suoi trascorsi, però, al pubblico rimane la sensazione che il suo destino non sia completamente segnato, potrebbe ancora muoversi in direzioni diverse, e la sua stessa accettazione di partecipare al film  testimonia la possibilità di un suo sbrigliamento,  un suo avviarsi per altre strade. Potrebbe ricomparire con la moto ancora una volta aggrappato a Koudous, immagine iconica, a rappresentare i primi decenni del duemila come Nanni Moretti  a cavallo della sua moto per le strade di Roma in Caro diario lo è stato per la società e  il cinema italiano degli anni 90 del novecento.

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La scompigliatura del reale. Vento, fiato e poesia https://www.carmillaonline.com/2016/02/17/la-scompigliatura-del-reale-vento-fiato-e-poesia/ Tue, 16 Feb 2016 23:00:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28699 FRONTE-A-perdicuore_Bellanova-Bartolomeo-01-FILEminimizerdi Pina Piccolo

[Recensione e testi estratti del libro di Bartolomeo Bellanova, A perdicuore. Versi scomposti e liberati, Ed. David and Matthaus, 2015, € 12,90, pp. 86]

Da buon poeta consapevole della centralità del fare in poesia (parola che deriva appunto dal greco poiesis=  fare), nella sua ultima silloge Bartolomeo Bellanova parte esibendo al lettore i materiali di cui dispone per costruire. Nella poesia intitolata “Ho visto troppo” che apre la silloge “A perdicuore- versi scomposti e liberati” (ArteMuse, 2015) egli  ci lascia intravedere il materiale che sarà [...]]]> FRONTE-A-perdicuore_Bellanova-Bartolomeo-01-FILEminimizerdi Pina Piccolo

[Recensione e testi estratti del libro di Bartolomeo Bellanova, A perdicuore. Versi scomposti e liberati, Ed. David and Matthaus, 2015, € 12,90, pp. 86]

Da buon poeta consapevole della centralità del fare in poesia (parola che deriva appunto dal greco poiesis=  fare), nella sua ultima silloge Bartolomeo Bellanova parte esibendo al lettore i materiali di cui dispone per costruire. Nella poesia intitolata “Ho visto troppo” che apre la silloge “A perdicuore- versi scomposti e liberati” (ArteMuse, 2015) egli  ci lascia intravedere il materiale che sarà impiegato per impastare la sua arte: morte, denaro e amore, e rivela anche quale sarà il suo fare o non fare rispetto ad essi, cioè mette in campo da subito la propria soggettività ed azione. Non a caso, nella terzina d’apertura appare un Thanatos attualizzato nella sua  anonima molteplicità: Ho visto troppi morti con le facce tutte uguali/ raggrinzite e gialle / per preoccuparmi della morte/ ; en pendant nella quartina di chiusura, quasi per ad equilibrare il topos binario, compare e non compare  Eros, Ho visto troppo poco amore / seppellito da valanghe di melma inutile e invidiosa, / per non amare sempre con ogni cellula viva / e con ogni respiro strozzato/ strofa che con la sua reiterazione di un troppo mancante crea un gioco linguistico che indirizza chi legge  verso la determinazione/promessa dell’autore di non rinunciare alla ricerca, in prima persona, dell’amore (visto che manca), nonostante tutto. Infatti, è quasi con accanimento egli  promette di dedicare a tale missione  fin la parte più piccola di sé, la cellula.

Sebbene rieditati per suggerire l’attualità, Eros e Thanatos rimangono pur sempre tropi della tradizione, ma l’elemento innovativo di cui li infarcisce il poeta sta proprio nei versi di mezzo, in cui fa capolino per la prima volta l’elemento scatenante del caos, cioè il denaro: /Ho visto troppi padri e figli e amici e puttane/ giocarsi la vita per una pioggia acida di banconote/ usate / per occuparmi di soldi/. Forse seguendo la scia di questo importante ingrediente dell’impasto, il denaro, si può arrivare alle molteplici forme di squilibrio che il poeta presenta nei suoi versi, a diversi livelli e in diversi registri.

Se il plasmare suggerisce ordine, dobbiamo anche ricordarci che il titolo della silloge addita ben altro: cioè la scompostezza, la liberazione e un certo parossismo insito nel neologismo “perdicuore”  coniato sul termine perdifiato che suggerisce intensità, cioè quell’accanimento, di cui sopra,  una modalità da cui i poeti odierni in Italia sono solitamente avulsi.

Partendo da questa osservazione credo che valga la pena soffermarsi su un altro elemento che appare spesso nella raccolta in funzione metaforica e che credo sia strettamente legato al concetto di caos: il vento. Per integrare le attente analisi di Michela Zanarella [1] e William Piana [2] che in interviste e nella prefazione al libro si sono soffermati sul carattere di istantanea della sua poesia, la sua ipotetica appartenenza al filone di “poesia civile”,  la funzione della luna, spesso evocata nella raccolta, in questo breve saggio proporrei un approfondimento della funzione del vento nell’economia dell’opera.

Nella cosmogonia sumera, il vento “Enlil” è l’elemento che separa il cielo dalla terra e il Prologo di Gilgamesh e gli inferi [3] tratta di questo primo atto violento, di separazione,  che, dallo stato iniziale di immutabilità,  implica anche la creazione di qualcosa di nuovo, il moto e il mutamento.  Da questa prima accezione del vento come elemento di dinamismo, seguendo i sentieri del mito e della religione, si può arrivare per analogia al soffio vitale, al fiato, e da lì  alla parola creatrice il passo è breve e si ricongiunge al concetto di Verbo della tradizione ebraica.

Nella raccolta, la scompostezza, il dubbio, quel lieve movimento che suggerisce che l’essenza della cosa potrebbe non corrispondere esattamente alla sua immagine sono spesso metaforicamente introdotti da una folata di vento. In alcuni casi il vento non è menzionato direttamente; ad esempio ne “I pipistrelli e la luna” (p.12)  /Le foglie secche rotolano mulinelli sul cemento/e graffiano il cuore,/sbriciolano le certezze del nulla/ l’elemento primordiale di caos è presente in maniera sottaciuta, attraverso l’immagine del mulinello di foglie  sul cemento, che ricorda certe atmosfere montaliane. Mentre nella poesia “Il vento” (p. 14) l’elemento aereo dà addirittura il titolo alla composizione /Nello sciabordio del vento tra il fogliame scarmigliato/voci di passato pungono le guance come foglie secche/ e offre l’occasione per una meditazione sul passato, presente e il futuro.  Nella poesia “Fai piano luce” (p.17) il poeta esorta la luce a /…percuoterci piano con il vento di ghiaccio,/ spazza via il velo dai nostri occhi/ . Questa funzione chiarificatrice, quasi di purificazione, la si può ricollegare  a quello che lo stesso Bellanova in un’intervista alla rivista Margutte [4], definisce come essenza della poesia, “Percepisco la parola poetica come evoluzione lievitata attraverso le precedenti esperienze, come strumento di lettura di noi stessi e della realtà umana liberata dai pregiudizi e dai preconcetti dai quali è più difficile staccarsi narrando storie.”

Nelle poesie “I fiori di oleandro (p. 22) prevale la funzione scompositiva del vento, mentre in “Coccarde” (p.27)il poeta evoca il vento nella sua capacità dinamica e creatrice: il mulinello non è più quello un po’ minaccioso di foglie secche  che graffiano il cuore ma elemento necessario per costruire /…coccarde di colori e di fiato /da donare alle tue pupille di luce/.

Dopo aver riconosciuto la dimensione dissacrante del vento nella poesia “Cenere (p.36) /Vento irriverente che spettini la primula/ e insidi le sottane nere /(come non pensare al vento che soffiava  e scompigliava i cardinali seduti a piazza san Pietro  nel giorno in cui venne proclamato papa Benedetto XVI?), il poeta lo convoca come alleato, esortandolo a portarlo via “cellula dopo cellula” nelle esperienze avventurose  della vita, come pure nell’apprezzamento delle meraviglie meno eclatanti della natura (il verme che rompe il fango), di quelle più belle (lo sbocciare misericordioso della rosa). Chiede poi al vento di condividere la sua forza /Di ringhiare all’intolleranza saccente/ e di spalancare la porta cigolante della vita/ per finire con il vento compagno “crepitio e cenere”.

Sempre in vena dissacratoria, Bellanova rivolge le sue attenzioni a una delle vacche sacre della poesia italiana “L’infinito” di Leopardi, soffermandosi sul luogo fisico “compreso nel complesso immobiliare di proprietà della famiglia Leopardi a Recanati” (p.37). Si sostituisce, quindi, al Leopardi, identificandosi prima come capello solitario separatosi accidentalmente dai compagni poi come /… uomo solo, esile, /opaco grumo di bassezze e fegato/ slanci e salti/ ghiacciai eterni e cristalli/,  grugniti e porcili/ poi come /… rondine mai sola/ baffo portentoso di Monet /  Nella poesia di Leopardi il vento compare evocato esplicitamente a metà della composizione  /e come il vento/ odo stormir tra queste piante/ inducendo il poeta a una comparazione tra il suono provocato

 dall’azione del vento e l’assenza di suono del silenzio.  Anche nel componimento di Bellanova il vento appare a metà poesia, ma in maniera sinestetica, diventa lo spiffero di cielo sul collo che si trasforma in io narrante e, a differenza del dolce naufragare di Leopardi  nelle immensità spazio-temporali , lo trasporta verso le  considerazioni più amare della conclusione infarcite di termini presi in prestito da diverse liriche leopardiane e “scompigliate” a seconda necessità /all’uomo assorbito dal mio vagito/ rallento il cammino /nel labirinto sconosciuto della morte/.

La presenza del vento affiora con costanza nei componimenti, fino al termine della raccolta, talvolta perfino con nome specifico come il maestrale, ad esempio in “Olio blu” (39), e altre in accezioni più indistinte , ma sempre in funzione di scomposizione, come in “Sbuffi di galassia” (p.40) /Gli aghi di pini rattoppano i brandelli di azzurro/ scuciti dal vento/. Nella stessa poesia , il vento terrestre e il vento del fiato del corridore a un tratto, in un momento di grazia,  quasi come in varco montaliano incontrano il fiato della galassia, /L’orizzonte avaro apre i cancelli agli sbuffi di fiato/ della galassia, che avanzano sospirando verso di me./   / Spalanco le braccia / S’apre la vita./.  Nell’ultimo componimento della silloge, il vento si è trasformato ne “L’alito dell’Ade” (p. 64) e l’universo prova pietà  per /… i nostri cuori screpolati,/ marciti, vuoti, smarriti, intirizziti, sfregiati/,  interrati ancora pulsanti/ sotto le maschere del vivere nostro/, il sole accorre per alleviare la sofferenza con un suo raggio, ma incontra la resistenza  del fiotto della città morta e finisce per arrendersi, sdegnato.  Sebbene la raccolta poetica si chiuda su questa immagine disperata, nel discorso complessivo del poeta mi pare che esistano ancora dei margini di speranza, da ricercare, naturalmente nell’amore E’ sempre il vento, l’elemento dinamico che preannuncia il mutamento. Ciò accade ad esempio, con il ritorno del mattino dopo una notte insonne, nella poesia “Stelle”  (p. 60), in cui il poeta si attacca “ alle mascelle ossute del vento” e dopo una vana lotta  cercando di cadere nelle braccia di Morfeo, si ritrova nelle braccia del mattino /Amore i tuoi brillanti annunciano alfine il mattino/ mi accendono con la luce di quelle stelle cadute!/. Un promettente uscire a rivedere le stelle, al termine del purgatorio, guidato da Amore che move il sole e l’altre stelle.

Ho visto troppo

Ho visto troppi morti con le facce tutte uguali

raggrinzite e gialle

per preoccuparmi della morte.

 

Ho visto troppi padri e figli e amici e puttane

giocarsi la vita per una pioggia acida di banconote usate

per occuparmi di soldi.

 

Ho visto troppo poco amore,

seppellito da valanghe di melma inutile e invidiosa,

per non amare sempre con ogni cellula viva

e con ogni respiro strozzato.

 

I pipistrelli e la luna

Oh luna alta a tappo del nero inchiostro,

un boscaiolo gigante ti ha tranciato uno spicchio

e ora sanguini polvere di nebulose.

 

In faccia a te pipistrelli danzano,

hanno lasciato le caverne umide

dove guardano il mondo a testa in giù.

 

E’ più chiaro a loro il nostro destino

che a noi a testa alta e vana,

ricolmi di sguardi inutili e vuoti.

 

Le foglie secche rotolano mulinelli sul cemento

e graffiano il cuore,

sbriciolano le certezze del nulla.

 

Scrostano via l’estate

divorata quanto attesa;

bramata stagione di lieta inquietudine.

 

Fai piano

Fai piano luce,

fai piano a percuoterci col vento di ghiaccio,

spazza via il velo dai nostri occhi.

 

Ci ritroviamo nudi,

davanti alle lampade di una vetrina.

 

Manichini pietrificati dalla loro vanità senza fondo

ci mettono in guardia: non li possiamo sentire.

 

Le parole rimbalzano sorde sul vetro.

 

Il cuore è un campanaccio scosso dal freddo.

 

La vita e la morte s’accapigliano tra le pieghe del cappotto.

 

Cenere

Vento irriverente che spettini la primula

e insidi le sottane nere,

verginali turbamenti di monache,

portami via cellula dopo cellula.

 

Che possa abbracciare i poli e l’equatore,

che possa sorridere al verme che rompe il fango,

all’elefante che perdona ma non dimentica,

alla gazzella, cuore che salta nella polvere.

E sopra ad ogni cosa allo sbocciare misericordioso della rosa.

 

Dammi la forza di ringhiare all’intolleranza saccente

e di spalancare la porta cigolante della vita:

spazio finito, tempo di uno starnuto dell’universo.

 

Mentre dormo vegetando i giorni si allunga la mia collana

dei sogni inanellati l’uno nell’altro e poi nel prossimo,

senza risveglio apparente.

 

L’ultimo si spegnerà nella cenere, crepitio e cenere.

Solo la mia e la tua cenere confuse

terranno viva la fiamma ancora.

 

La siepe dell’Infinito [5]

Sono un capello solo, un capello antico,

esile,  luce nel tuorlo d’uovo del sole.

Eterno ondeggiare, ho smarrito il padrone

e i fratelli miei in corsa,

tra gli schiamazzi usati.

Dormo sul gelsomino in amore,

mi solletico sulla siepe dell’Infinito,

verde decomposizione.

 

Sono un uomo solo, esile,

opaco grumo di bassezze e fegato,

slanci e salti,

ghiacciai eterni e cristalli,

grugniti e porcili.

Eterno sopravvivere a un padrone invisibile,

dai mille nomi e dai mille travestimenti.

Mi lascio cullare dal nulla che va

e dal nulla che viene

attraverso la siepe dell’Infinito.

 

Sono una rondine mai sola,

baffo portentoso di Monet [6],

spiffero di cielo nel collo.

Pennello col cuore pazzo

le promesse d’amore eterno,

indifferente all’ingratitudine umana.

Vivo senza attendere la vita,

sospesa in alto sul muro

di pietre e lucertole dell’Infinito.

Non mi giovo del mio volare,

ma all’uomo assorbito dal mio vagito

rallento il cammino

nel labirinto sconosciuto della morte.

 

Sbuffi di galassia 

Se ne va la terra a galleggiare nell’infinito.

Se ne va l’uomo a fischiettare fuori di sé l’anima lieve.

 

La strada per il sole è lastricata

da cento orgasmi taciuti e intimi.

 

Gli aghi dei pini rattoppano i brandelli di azzurro

scuciti dal vento.

Ne fanno pigiami per le nubi sognatrici.

 

Incessanti, forsennati cadono gli aghi sfiniti

ai miei piedi veloci.

 

Le chiome delle felci aspergono l’ossigeno nel sangue

e spumeggia il passo lento.

 

L’orizzonte avaro apre i cancelli agli sbuffi di fiato

della galassia, che avanzano sospirando verso di me.

 

Spalanco le braccia

S’apre la vita.

 

L’alito dell’Ade

Si chiudono le porte della città dei morti.

 

Milioni di aliti insonni vagano per i campi,

inciampano nei fili d’erba,

si appigliano ai rami nudi

di un inverno latitante.

 

Fluiscono i sospiri dal regno dell’Ade tutt’attorno,

senza sosta e cancellano il tempo;

quanti abitanti mormorano laggiù.

 

Ammantano ipnotici le forme delle colline,

ne tagliano ogni curva

e riempiono le fosse

solo strati piani di verde

uniforme e infreddolito.

 

Le parole e le lacrime liberate da sotto terra

si condensano in gocce di latte.

Sono i dolori per i nostri cuori screpolati,

marciti, vuoti, smarriti, intirizziti, sfregiati,

interrati ancora pulsanti

sotto le maschere del vivere nostro.

 

Due raggi di sole inteneriti

provano a sciabolare luce,

luce sciancata, accieca per un istante

l’occhio ingrigito.

 

Presto si riaddensa imperturbabile

il fiotto dalla città morta.

Il sole indietreggia

si alza sdegnato per l’esilio forzato

e rinuncia alla lotta.

 

 

Stelle

Mi attacco alle mascelle ossute del vento.

 

La notte è un guscio di buio e ululati lontani,

polvere di foglie,  chele di ragno

e cristalli d’ali di mosca.

 

Letto sospeso tra le ondate degli spifferi

tremano i piedi di legno marciti.

 

Forte è il soffio che schioda dalla volta celeste

le stelle una a una

e precipita giù il diadema

Apocalisse,  Vergine, Regina.

 

Baritono, fiamma,

colonna d’aria ritorta,

mantice dalle viscere,

soffi e ti cali,

riprendi e ti gonfi.

 

Arresa è l’insonnia che trema.

 

Amore i tuoi  brillanti annunciano alfine il mattino;

mi accendono con la luce di quelle stelle cadute.

 

NOTE

[1] Zanarella, Michela,  Prefazione, A perdicuore –Versi scomposti e liberati, ArteMusa 2015, pp. 7-9; “Intervista di Michela Zanarella a Bartolomeo Bellanova”, oubliettemagazine, 24 novembre 2015 http://oubliettemagazine.com/2015/11/24/intervista-di-michela-zanarella-a-bartolomeo-bellanova-autore-di-a-perdicuore-versi-scomposti-e-liberati/.

[2] Piana, William, “Immersi nel mondo “A perdicuore”, Radio Città Fujiko, 8 ottobre 2015 http://www.radiocittafujiko.it/eventi/immersi-nel-mondo-a-perdicuore.

[3] Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Mitologia_sumera

[4] Margutte, “Il mondo del possibile, 30 dicembre 2014, http://www.margutte.com/?p=8763

[5] La siepe e il muro fanno riferimento al luogo fisico compreso nel complesso immobiliare di proprietà della famiglia Leopardi a Recanati.

[6] Claude Monet noto pittore francese (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 6 dicembre 1926), padre dell’impressionismo.

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