Pietro Badoglio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Sep 2025 22:01:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fascist Legacy, cioè sangue chiama sangue https://www.carmillaonline.com/2025/03/19/fascist-legacy-cioe-sangue-chiama-sangue/ Tue, 18 Mar 2025 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87356 di Luca Baiada

Michael Palumbo, Le atrocità di Mussolini. I crimini di guerra rimossi dell’Italia fascista, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 416, euro 20.

 

La foto in copertina: già vista, come fucilazione di italiani. È l’eccidio di Dane, in Slovenia, e invece gli italiani sono i fucilatori. Il modo di scrivere: partecipe, senza grigiori, e Michael Palumbo lo rivendica: «Gli storici accademici hanno criticato spesso il mio lavoro per la componente umana che sfugge al loro stile di scrittura arido come il deserto». Le fonti: minuziose, e l’autore precisa che i documenti della United Nations War Crimes Commission vanno presi [...]]]> di Luca Baiada

Michael Palumbo, Le atrocità di Mussolini. I crimini di guerra rimossi dell’Italia fascista, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 416, euro 20.

 

La foto in copertina: già vista, come fucilazione di italiani. È l’eccidio di Dane, in Slovenia, e invece gli italiani sono i fucilatori. Il modo di scrivere: partecipe, senza grigiori, e Michael Palumbo lo rivendica: «Gli storici accademici hanno criticato spesso il mio lavoro per la componente umana che sfugge al loro stile di scrittura arido come il deserto». Le fonti: minuziose, e l’autore precisa che i documenti della United Nations War Crimes Commission vanno presi con cautela, perché quasi nessun italiano che vi è nominato è stato effettivamente processato[1].

Palumbo inizia le ricerche alla fine degli anni Settanta; archivi italiani, britannici, statunitensi, tedeschi e dell’Onu, testi in otto lingue e interviste in sei paesi. Negli anni Ottanta comincia a fare pubblicazioni, così nel 1989 la BBC produce Fascist Legacy, che la Rai compra ma non trasmette. Con quel materiale Rizzoli nel 1992 stampa L’olocausto rimosso, ma lo ritira prima che arrivi nelle librerie[2]. Adesso lo pubblica Alegre con prefazione di Eric Gobetti. Si deve all’impegno di Ivan Serra: sono sue anche la postfazione e una raccolta di materiali sul sito «www.diecifebbraio.info».

Cominciamo con la Libia, dove le violenze fasciste si saldano a quelle dell’Italia giolittiana, quando importanti intellettuali sostengono l’aggressione. Si invoca la storia romana. E la realtà?

Bambini dai 3 ai 14 anni venivano strappati alle loro famiglie per essere mandati in Italia ed educati alla fede cattolica, fedeli allo Stato fascista, nemici della loro stessa gente. I bambini si aggrappavano alle madri, tra le urla di protesta dei genitori. Le giovani deportate erano costrette a subire gli abusi sessuali delle guardie fasciste; molte furono violentate o prese con la forza dai soldati italiani come concubine.

Ferocia spettacolare, come l’assassinio dello sceicco Said El Rafidi e di altri, gettati da un aereo, coi compagni obbligati ad assistere e coi soldati italiani che applaudono, o come il saccheggio di Cufra, nel 1930, con gli oltraggi al Corano. Lo spettacolo comprende un Mussolini gran turismo, nel 1936:

Secondo la mentalità fascista era Scipione l’Africano che stava navigando da Cartagine per visitare la terra che aveva conquistato e trasformato in colonia romana. Durante il suo soggiorno in Libia, Mussolini si atteggiò a «difensore dell’Islam» e si proclamò guardiano dei musulmani non solo nel territorio italiano, ma nel mondo intero.

Da tenere presente, oggi che una stravolta romanità torna a far chiasso.

La Jugoslavia è spartita fra Italia, Germania e satelliti. Nella provincia di Lubiana gli italiani internano una quota impressionante di popolazione. Si contano circa duecento campi:

Se qualcuno protestava, si avvicinava alla barriera o semplicemente cantava poteva essere torturato a morte. Le donne e le ragazze venivano d’abitudine violentate, e in alcuni casi molte prigioniere venivano cedute ai bordelli delle truppe dell’Asse nella zona del campo.

Fra i posti peggiori, Rab; Martina Košak racconta la sporcizia, la denutrizione dei bambini: «Ci morivano davanti agli occhi e io non potevo far altro che torcermi le mani». La vita insopportabile, la morte incalcolabile: nel cimitero i fascisti interrano più bare una sopra l’altra, anche con più salme in ogni bara.

L’aggressione all’Etiopia è preparata militarizzando gli italiani:

[Mussolini] emanò un decreto secondo il quale ogni italiano era un «cittadino soldato» e doveva essere educato militarmente a partire dagli otto anni: «Una nazione, per rimanere prospera, dovrebbe fare una guerra ogni 25 anni».

Oggi si organizzano visite di militari nelle scuole e di bambini nelle caserme, e c’è chi approva. Palumbo scrive:

Il regime fascista non nacque dal nulla; il dilagante militarismo e la glorificazione di Roma imperiale che Mussolini andava predicando riflettevano i sentimenti di molti politici e intellettuali dell’Italia del diciannovesimo e dell’inizio del ventesimo secolo.

L’uso del gas in Etiopia è certo. Sono coinvolti a vari livelli – pianificazione, esecuzione, nascondimento, disinformazione – Mussolini, Graziani, Badoglio, Roatta, Grandi. Al Lago Ascianghi si lanciano manifestini sulle truppe sconfitte e sulle donne: invitano a marciare in pace di giorno, invece che di notte, chiedono di non nascondersi e promettono di non attaccare; gli etiopi si fidano e sono sterminati col gas. È la lealtà dei fascisti.

Achille Starace dirige la conquista di Gondar. Facile: il comandante etiope locale viene corrotto. Il conquistatore pubblica un libro, La marcia su Gondar, D’Annunzio fa l’introduzione. L’eroismo dei fascisti è come la loro pubblicità.

In Etiopia, dove contro l’aeronautica non c’è difesa, Vittorio Mussolini è aviatore; poi scrive Voli sulle Ambe:

Allora sotto! Chi in sella, chi con le gambe, in breve la pianura si spopolava. Ho ancora in mente l’effetto di un gruppetto di Galla, caracollanti dietro ad uno vestito di nero. […] Era molto divertente e si colpivano bene anche stando relativamente alti[3].

Di solito chi ha voglia di un padrone apprezza anche i suoi familiari. Dal 2022, per la prima volta nell’Italia repubblicana, ci sono due cognati nel governo.

Gli attacchi aerei alla Croce rossa servono a eliminare testimoni, ma anche persone spinte da ideali di solidarietà incompatibili col regime. I volontari – oggi si chiamerebbero attivisti, cooperanti – sono traditori della razza bianca, sostenitori di valori liberali e democratici, vivi moniti contro il nuovo corso italiano. E allora arrivano ostacoli all’attività umanitaria e ai suoi addetti, accuse, vittimismo, aggressioni alla legalità internazionale. Ricorda niente, adesso? I fascisti volevano essere great again.

Dopo l’attentato a Graziani si scatena la rappresaglia degli italiani, anche civili. Un diplomatico americano:

Gli italiani hanno perduto completamente la testa. Dal momento dell’incidente bande indisciplinate di camice nere e braccianti, armati di fucili, scuri e mazze, vagano per le strade uccidendo gli indigeni, persino le donne, con scene rivoltanti di barbarie. Molti indigeni, le cui capanne erano state date alle fiamme, sono stati colpiti mentre tentavano di scappare, oppure sono stati costretti a morire tra le fiamme.

Si bruciano case, ma non quelle di lusso, buone dopo aver ucciso i proprietari. Certo, l’appropriazione di case in terre occupate non smette con la fine del fascismo. La novità di oggi è la polverizzazione di abitati e poi la proposta di farci riviere turistiche.

In Etiopia sono assassinati almeno mezzo milione di civili: «Si può bene immaginare quanti sarebbero stati gli uccisi se gli italiani fossero riusciti a completare i loro sforzi di “pacificazione”».

Il comportamento in Grecia è punteggiato di ferocia e dominio sessuale:

Di numerose atrocità furono responsabili i carabinieri che terrorizzavano gli abitanti dei paesi occupati. Famigerato era anche il controspionaggio che si serviva dei metodi più spietati per ottenere informazioni sulla resistenza. Il capo del controspionaggio in Grecia, dall’aprile 1941 al gennaio 1943, fu il colonnello Mariano Scolaro, il quale di frequente ordinò l’utilizzo della «tartaruga» – uno strumento di ferro che veniva fissato intorno al capo e stretto finché la testa del torturato incominciava a sanguinare; continuando a premere, si fratturava il cranio[4].

Le torture sono sfrenate, fantasiose:

Alcuni prigionieri vennero bruciati vivi, altri appesi per le braccia finché queste si disarticolavano, ad alcune vittime furono cavati gli occhi, altre ancora furono costrette a bere la propria urina. Probabilmente il sistema di tortura più diabolico era l’uso di una pompa d’aria che veniva infilata nell’ano per far gonfiare e infine scoppiare l’intestino.

C’è chi dirige lo stupro di massa nella città di Argos Orestiko, l’assassinio di cento persone inermi, l’incendio di villaggi; a un ufficiale piaceva stuprare ragazze adolescenti con la cocaina, un altro preferiva stuprare bambini.

C’è una vicenda che viene attribuita al tenente Giovanni Ravalli e ad altri; un greco prima di essere ucciso è trattato così:

Dopo avergli strappato i denti con le pinze, Ravalli l’aveva fatto legare alla coda di un cavallo pungolato da una baionetta, per cui l’uomo fu trascinato al galoppo sfrenato sul terreno pietroso per tre ore. Fu poi appeso per le mani con i polsi legati dietro la schiena, pestato e lasciato in questa posizione per alcuni giorni. Di tanto in tanto gli veniva strofinato del sale sulle ferite[5].

Su Ravalli torneremo.

Quanto all’internamento, nel campo di Larissa ci sono poca acqua, scarsa igiene, regole draconiane: chi uccide un greco che tenta di scappare ha una licenza, quindi non è il caso di risparmiare le munizioni. I prigionieri non vivono più di sei mesi.

L’occupazione causa la carestia, i fascisti potrebbero rimediare ma invece la aggravano e si muore. Il comportamento degli italiani verso i greci affamati è diversificato:

Alcuni soldati semplici davano dei pezzi di pane ai bambini e si mostravano riluttanti quando veniva loro chiesto di cooperare alle confische di viveri organizzate dai carabinieri. Altri, invece, riservavano il cibo per le donne greche loro amanti o prostitute. Altri ancora traevano profitti commerciando nel mercato nero[6].

La Croce rossa ha un piano per i rifornimenti ai greci, la Germania è favorevole; l’Italia si oppone e quando il piano è approvato lo ostacola. Oggi, se a qualcuno il paragone fra Israele e Germania non piace, è possibile evitarlo: si può farlo con l’Italia.

Nei paesi occupati sono attivi i tribunali militari italiani. Così in Jugoslavia: «Quello che aveva luogo difficilmente si poteva definire un processo, poiché la difesa era soltanto formale e le uniche prove ammesse erano quelle presentate dal pubblico ministero, né era possibile l’appello»[7]. Contro gli jugoslavi ogni ombra pesa. Più imputate compaiono in udienza con scarpe simili? È prova di una trama organizzata. Qualcuno vorrebbe solo vivere in pace? È prova di resistenza. Non ci sono prove? L’imputato è colpevole, nel processo non ha fatto il saluto fascista.

Sulla base di quanto riportato da un giornalista, si dà conto dei tribunali italiani in Etiopia:

I presidenti […] non parlavano la lingua del posto e in genere erano disattenti durante i processi. C’erano degli interpreti neri ma la loro conoscenza dell’italiano era molto limitata e spesso gli accusati non avevano la minima idea di cosa stesse succedendo o del perché fossero processati; le condanne erano emesse in modo arbitrario ma pur sempre severo[8].

Quanto ai processi in Grecia, quelli al tribunale militare di Atene sono «una crudele parodia». Per esempio. Viene ucciso un possidente che ha collaborato con gli italiani; decine di persone sono arrestate e torturate. Quindi:

Alla fine i fascisti ottennero quattordici confessioni, ciascuna delle quali dava un resoconto totalmente diverso dell’omicidio. Fu impossibile coordinare le varie confessioni o determinare se una fosse veritiera; di conseguenza il processo si trascinò fino alla fine dell’occupazione italiana[9].

Non sono riportati episodi specifici di comportamento soccorrevole da parte di italiani; nulla di paragonabile al tedesco buono, mito ricorrente nelle stragi naziste. Forse è un bene. Ma il libro ci ricorda, senza insistere sulla bontà, il generale Nicola Bellomo.

Non ben allineato al regime, in guerra Bellomo ha incarichi limitati e dopo è malvisto. I britannici vogliono una sentenza esemplare contro i militari italiani, ma senza colpire quelli utili alla loro politica di destra; perciò prendono a bersaglio lui e lo condannano alla pena capitale, per la morte controversa di un prigioniero di guerra[10]. È l’unica sentenza britannica eseguita, in Italia, perché neanche Kesselring viene giustiziato. Il generale non chiede la grazia e scrive:

La morte non mi spaventa. Mi spaventa il pensiero di dover passare, una volta graziato, la vita in carcere. Preferisco perciò che la sentenza abbia esecuzione. La mia memoria rimarrà almeno legata, senza incrinature, alla forza d’animo che ha rappresentato la spina dorsale di tutta la mia vita. Infine, non intendo modificare per mia volontà la responsabilità morale che è connessa con la sentenza pronunziata contro di me[11].

Davanti al plotone grida «viva l’Italia!» e dice, in inglese e in italiano: «Dio abbia pietà di me e di loro». Insomma: un mare di sangue, l’unico fucilato non è un fascista, gli altri se la cavano e magari fanno carriera.

Su tutto questo, Palumbo non fa sconti né ai britannici né agli statunitensi, quando ricorda che Carlo Sforza, antifascista ed esule, è per una vera epurazione dei fascisti, e che a novembre 1944 gli inglesi, contrari all’epurazione per non favorire i comunisti, mettono il veto alla sua nomina a presidente del consiglio e impongono Ivanoe Bonomi[12].

Ancora. L’insistenza della Jugoslavia per la punizione dei fascisti incontra proprio l’opposizione britannica e statunitense. C’è di più. Ad agosto 1945 l’Alta corte di giustizia italiana rende noti i nomi dei fascisti da allontanare dal Senato; gli alleati vogliono difendere Badoglio e il 29 settembre 1945 il ministero degli esteri inglese ordina all’ambasciatore a Roma:

Cogliere l’occasione adatta di attirare privatamente e non ufficialmente l’attenzione del signor Parri (presidente del consiglio) sul valido aiuto reso da Badoglio alla causa alleata ed esprimere la speranza che questi servizi possano essere resi noti alla corte prima che la causa venga discussa[13].

Badoglio rimane senatore, ma qui teniamo da parte come accada. Invece attenzione alle date: risale all’agosto 1945 la decisione di accentrare a Roma i fascicoli sulle stragi tedesche, cioè il primo passo nella formazione dell’archivio noto come Armadio della vergogna.

Torniamo a un nome già incontrato. Nel 1992 questo libro si ferma dopo la «protesta del politicamente influente criminale di guerra italiano Giovanni Ravalli, condannato a tre ergastoli in Grecia»[14]. Rory Carroll nel 2001: «Nel 1992 uno storico americano, Michael Palumbo, rivelò le sue atrocità in un libro ma Ravalli, sostenuto da amici potenti, minacciò di far causa e il libro non fu mai pubblicato»[15].

Chi è Ravalli? Militare in Grecia, dopo l’8 settembre si unisce ai partigiani; la sua identità viene scoperta ed è imprigionato; nel 1946 lo processano ma, grazie a una dichiarazione in suo favore del colonnello Woodhouse, rappresentante militare inglese, evita la sentenza di morte[16]. La relazione di minoranza della Commissione bicamerale sull’Armadio della vergogna ricorda quel processo del 1946 e il seguito:

Il tenente Giovanni Ravalli […] fu condannato all’ergastolo perché ritenuto corresponsabile delle feroci rappresaglie italiane contro la popolazione greca nella zona di Kastorià durante l’occupazione fascista. […] Fu liberato grazie ad un forte interessamento di De Gasperi. In seguito, Ravalli fece una carriera nell’amministrazione fino a rivestire la carica di prefetto. Nel 1953, sembrava essere stato incaricato di seguire, nella Presidenza del Consiglio dei ministri, la documentazione sui crimini di guerra commessi dai tedeschi[17].

Già, abbiamo letto bene. Proprio lui, condannato per crimini fascisti, è coinvolto nella giustizia su quelli nazisti. È un caso? Dalla stessa relazione, quanto all’intesa su Ravalli e altri due italiani, emerge un parallelo:

L’esito dell’accordo era stato analogo a quello raggiunto fra Italia e Germania: nel settembre 1950 tre criminali di guerra italiani erano stati scarcerati e rimpatriati in Italia, fra cui l’ex-tenente Giovanni Ravalli, già condannato all’ergastolo ad Atene nel 1946 come criminale di guerra perché ritenuto responsabile di sanguinose rappresaglie contro i partigiani e la popolazione civile greca[18].

Il ruolo di Ravalli qui non può essere chiarito. Dai giornali dell’epoca in cui è prefetto di Palermo, e poi di Roma, emerge come un fiduciario della parte peggiore del potere; fra chi lo attacca, un nome dice tutto: Pio La Torre, assassinato dalla mafia nel 1982[19].

È possibile che un editore come Rizzoli abbia ritirato il libro solo per paura di Ravalli? Forse l’ha considerato il capofila di persone e gruppi suscettibili. La posizione di Ravalli potrebbe anche essere una cerniera fra i crimini italiani all’estero e le stragi nazifasciste in Italia; nel 1992, quando il libro di Palumbo sparisce, l’Armadio della vergogna non è stato ancora rifrequentato: lo scandalo diventerà pubblico solo nel 1996. Ravalli, invece, potrebbe sapere da tempo molte cose.

Di certo, neanche con la rifrequentazione dell’Armadio i militari italiani sono stati giudicati, e la ripresa delle indagini ha portato a una ventina di ergastoli soltanto nei confronti di tedeschi (solo tre eseguiti). I crimini di guerra italiani, rimossi, anche dopo il 1996 hanno avuto poca attenzione e nessun dibattimento. È un sangue senza giustizia che pesa ancora. Eric Gobetti ricorda che, dopo buoni studi alla fine del secolo scorso, adesso c’è un circuito pericoloso fra politica e lavoro culturale:

Il governo Meloni è stato reso possibile anche dalla percezione diffusa di «innocenza» delle idee politiche del fascismo storico a cui l’attuale leadership del nostro paese si ispira. […] Gli archivi militari sono diventati sempre più inaccessibili agli storici indipendenti e le ricerche accademiche su questi temi sono oggi quasi del tutto inesistenti[20].

Va detto che nel libro qualcosa non va. Le fonti, copiose, sono disomogenee fra le aree di occupazione. Mancano notizie sull’Urss e su altri territori. Colonialismo e imperialismo sono ricondotti al Risorgimento, e specialmente a Mazzini, e non convince. Fu l’antifascismo, a buon diritto, a richiamarsi al Risorgimento sin dagli anni Venti, poi nella cospirazione, nella Resistenza e nella battaglia repubblicana e costituzionale, denunciando che i fascisti sono traditori e usurpatori dei progetti preunitari. C’è continuità tra il famoso discorso di Matteotti, alla Camera, e la lezione partigiana impartita nella Roma occupata, a via Tomacelli, vent’anni dopo, per l’anniversario della morte di Mazzini. Il 30 maggio 1924 Matteotti: «Molto danno avevano fatto le dominazioni straniere. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi [fascisti] volete ricacciarci indietro»[21]; morirà pochi giorni dopo. Il 10 marzo 1944 a via Tomacelli: mentre i repubblichini sfilano, le armi partigiane ribadiscono chi sono i patrioti veri (e qualche camicia nera ne fa le spese)[22].

Anche la Resistenza e la svolta repubblicana non sono valorizzate. Ma Palumbo cerca di vedere le cose nel lungo periodo, quando collegando il controllo anglo-americano all’impunità dei fascisti commenta: «Questo aiuta a spiegare il riemergere del fascismo in Italia nel nostro tempo».

Di certo, se il lavoro storico non è stato fatto meglio, va messo in conto a chi l’ha sabotato, non a Palumbo che l’ha svolto e ha condiviso i mezzi per proseguirlo. Sia chiaro: stiamo pagando il ritardo di trent’anni nella pubblicazione di questo studio. È bene munirsi di uno strumento così robusto e raccogliere il testimone.

Avere ben presente la violenza fatta, e non solo quella subita (bombardamenti alleati, occupazione tedesca, stragi nazifasciste), serve a toccare la realtà per non sbatterci di nuovo il muso: se si sparge il sangue degli altri, prima o poi, si sparge anche il nostro.

 

 

[1] Michael Palumbo, Le atrocità di Mussolini. I crimini di guerra rimossi dell’Italia fascista, Edizioni Alegre, Roma 2024, p. 383.

[2] Ivi, postfazione di Ivan Serra, Breve storia di un libro censurato e ritrovato, pp. 385-397.

[3] Palumbo, Le atrocità di Mussolini, cit., pp. 127-128. La citazione è da Vittorio Mussolini, Voli sulle Ambe, G. C. Sansoni Editore, Firenze 1937, pp. 47-48.

[4] Ivi, p. 190.

[5] Ivi, p. 212.

[6] Ivi, p. 185.

[7] Ivi, pp. 228-229.

[8] Ivi, p. 156, che cita Ciro Poggiali, Diario A.O.I. 15 giugno 1936 – 4 ottobre 1937. Gli appunti segreti dell’inviato del Corriere della sera, Longanesi, Milano 1971.

[9] Palumbo, Le atrocità di Mussolini, cit., pp. 192-193.

[10] Ivi, pp. 341-346.

[11] Ivi, pp. 346-347.

[12] Ivi, pp. 310-312.

[13] Ivi, p. 313.

[14] Ivi, p. 24.

[15] Rory Carroll, Italy’s bloody secret, «theguardian.com», 25 giugno 2001.

[16] Palumbo, Le atrocità di Mussolini, cit., pp. 330-331.

[17] Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, legge n. 107 del 2003, Relazione di minoranza, pp. 96-97; la relazione cita documenti d’archivio.

[18] Ivi, p. 173.

[19] Fra gli articoli critici: g.f.p., Tracotanti affermazioni del prefetto di Palermo, «l’Unità», Mezzogiorno e Isole, 25 luglio 1967, p. 6; Pio La Torre, Prefetto da pensionare, «l’Unità», 20 settembre 1967, p. 1; Il prefetto di Palermo si schiera con chi ha fatto fuggire Liggio, «l’Unità», 17 febbraio 1970, p. 7. Invece, Paolo Menghini, È abituato a essere impopolare il «contestato» prefetto Ravalli, «Corriere della sera», 1° settembre 1972, p. 7: «Sul piano umano, è un gentleman: cortesissimo, cordiale, generoso».

[20] Palumbo, Le atrocità di Mussolini, cit., prefazione di Gobetti, cit., p. 10.

[21] Giacomo Matteotti, Contro il fascismo, Garzanti, Milano 2019, p. 50.

[22] Cesare De Simone, Roma città prigioniera. I 271 giorni dell’occupazione nazista (8 settembre ’43 – 4 giugno ’44), Mursia, Milano 1994, p. 108. Anche «l’Unità», 15 marzo 1944.

 

]]>
Una selvaggia e incontenibile voglia di libertà https://www.carmillaonline.com/2017/04/27/selvaggia-incontenibile-voglia-liberta/ Wed, 26 Apr 2017 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37879 di Sandro Moiso

unafame Silvio Borione – Giaka, Una fame instancabile. Partigiani a Torino, Red Star Press 2017, pp. 204, € 14,00

Nonostante la straordinaria lezione di Gianni Bosio e Danilo Montaldi e l’opera di Cesare Bermani, si può dire che la storia orale non ha mai avuto molto successo nella storiografia italiana. Né in quella passata né in quella presente, compresa quella che dovrebbe bazzicare gli ambienti antagonisti. Sarà forse per questo motivo che diversi ricercatori attenti all’evolversi dei movimenti sociali, nel corso degli ultimi anni, hanno preferito rivolgersi agli strumenti dell’antropologia.

Negare la storia orale significa, sostanzialmente, togliere [...]]]> di Sandro Moiso

unafame Silvio Borione – Giaka, Una fame instancabile. Partigiani a Torino, Red Star Press 2017, pp. 204, € 14,00

Nonostante la straordinaria lezione di Gianni Bosio e Danilo Montaldi e l’opera di Cesare Bermani, si può dire che la storia orale non ha mai avuto molto successo nella storiografia italiana. Né in quella passata né in quella presente, compresa quella che dovrebbe bazzicare gli ambienti antagonisti. Sarà forse per questo motivo che diversi ricercatori attenti all’evolversi dei movimenti sociali, nel corso degli ultimi anni, hanno preferito rivolgersi agli strumenti dell’antropologia.

Negare la storia orale significa, sostanzialmente, togliere la parola agli ultimi e negare, troppo spesso e nei fatti, il diritto alle classi oppresse di ricostruire la loro storia oppure la Storia tout court.
Negare la lingua con cui gli oppressi si esprimono, negare la visione dal basso della storia grande e piccola per consegnare la ricostruzione del passato agli specialisti e agli accademici significa, ancora, lasciare che siano i vincitori, oppure i promotori di accordi fortemente marcati dalla rinuncia alla difesa degli interessi della maggioranza della società a definire ex-post quale sia e quale debba essere l’unica verità storica accettabile.

Che questo conduca poi all’apprezzamento di specialisti farlocchi, come sta avvenendo in questo quarantesimo anniversario del Movimento del ’77, oppure alla ritrattazione e revisione continua della memoria storica, come avviene in occasione di ogni 25 aprile, non costituisce altro che un corollario del precedente assunto. Poiché, semplificando al massimo, è soltanto la memoria dal basso che può vegliare sulla Memoria. Naturalmente, facendo sì che anche gli ultimi e più autentici testimoni degli eventi, delle rivolte e delle lotte giungano al termine del loro percorso biologico senza avere potuto lasciare una propria testimonianza diretta, anche quella apparentemente più condivisa potrà in seguito essere manipolata dagli storici e dagli ideologi irreggimentati nei diversi tipi di Presente.

Se vogliamo, lo stesso destino è stato riservato alle memorie dirette di coloro che hanno cercato, e magari cercano tutt’ora di testimoniare, lo svolgersi degli eventi e le cause delle scelte degli attori coinvolti. Tipico ne sia, per tutti, il ritardo con cui un testo di rilevanza assoluta, rispetto al dramma dei campi di lavoro, prigionia e sterminio tedeschi, come “Se questo è un uomo” di Primo Levi sia stato accolto con un ritardo incredibile nella cultura, nella vita politica e dalla “grande” editoria italiana. Ma di Levi si tornerà a parlare in chiusura di questa recensione.

E’ rimasta così la via della memoria romanzata oppure della storia romanzata che, anche là dove si è espressa come nuova epica italiana, ha continuato e continua a promuovere una sottomissione della memoria di classe alle esigenze della Storiografia ovvero della Politica. Ci si arrende infatti, anche involontariamente, al fatto che, non potendo ormai contrastare il peso dei documenti ufficiali scritti (anche le interpretazioni dei partiti e dei loro leader e rappresentanti fanno parte di questi, soprattutto qui in Italia e negli ambienti delle sinistre, tradizionali e non), occorra adottare espedienti destinati a ricostruire il passato attraverso varie e differenti forme di complotto oppure per mezzo di colpi di scena attraverso i quali, troppo spesso, la testimonianza autentica rischia di affogare tra le esigenze dell’intreccio.1

Il testo di Silvio Borione, classe 1930 e testimone giovanissimo della lotta antifascista torinese, e di Giaka, militante del CSOA Gabrio di Torino e autore del romanzo Le orme del lupo (pubblicato da Agenzia X nel 2014),2 sfugge a queste trappole e ci dona una lettura appassionante e, per gran parte, autentica di eventi che, nonostante gli sforzi messi continuamente in campo per rimuoverli o ridimensionarli, occorre ancora conoscere e approfondire di più.

Sicuramente la narrazione e le memorie del vecchio Biund hanno costituito per Giaka, così come per i giovani compagni che continuano a frequentarlo su quelle colline su cui si è ritirato da tempo, un autentico motore di ricerca e sviluppo, sia per la ricostruzione della Resistenza operaia torinese, con tutti i suoi eroismi e i suoi errori, sia per la comprensione di una realtà storico-politica molto più complessa e violenta di quella trasmessa dalla vulgata dominante.

Non nascondo di aver letto il libro in un sol giorno, 170 pagine dall’alba al tramonto, e di aver tratto dalle sue pagine momenti di commozione, di rabbia e di riflessione.
Proprio per questo vorrei qui sottolineare i principali punti di forza del testo e lasciare alla fine i suoi pochi punti discutibili e sicuramente non dovuti ai due co-autori .

Il primo elemento di forza è quello di spogliare la lotta antifascista condotta dal basso dal prevalere di quegli elementi morali ed ideologici che, pur avendo probabilmente contraddistinto le scelte degli intellettuali e dei militanti dei vari partiti antifascisti, predominano nella ricostruzione della lotta partigiana. Che invece fu condotta a partire spesso dalle esigenze quotidiane (la fame così spesso ricordata e centrale nello sviluppo delle vicende narrate e sottolineata benissimo dal titolo stesso), di classe (la lotta per il mantenimento dei miglioramenti salariali, promessi e mai realizzati dal regime e dagli imprenditori, che costituì il motore decisivo per gli scioperi della primavera del 1943) e da quello spirito delinquenziale e di ribellione giovanile che manifestava quella selvaggia ed incontenibile voglia di libertà citata nel testo3 e nel titolo di questa recensione.

Il secondo è costituito dal rivelare fino in fondo la brutalità dell’azione repressiva dello Stato. Sia nella sua versione repubblichina, fascista e nazista, sia in quella dell’interregno trascorso tra la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) e l’Armistizio firmato dal Re e dal maresciallo Badoglio (8 settembre 1943). “Intorno al fuoco la sera si parlava solo più della caduta del fascismo e degli scioperi, le voci si rincorrevano ed era difficile fare un bilancio.La Spezia, Sesto Fiorentino, Firenze: morti e feriti. Milano, Torino: ancora morti e feriti. Bari: 23 morti e 60 feriti. Al carcere San Vittore di Milano sulla folla che chiedeva la liberazione dei prigionieri politici l’esercito di Badoglio sparava con i carri armati, uccideva, feriva e fucilava quattro manifestanti sul posto; al carcere Regina Coeli di Roma sedava una rivolta con un massacro e lo stesso faceva a Reggio Emilia, in un elenco che non sembrava finire mai. L’intero paese si stava sollevando e il governo Badoglio aveva deciso di affogare le proteste nel sangue, con il tempo e grazie alla stampa clandestina le notizie si facevano chiare e ai primi di settembre la realtà era sulla bocca di tutti: il nuovo governo, nel giro di cinque giorni, aveva ucciso 93 operai, ne aveva feriti 536 e arrestati 22764

Il terzo è dato dal descrivere una realtà organizzativa che, nei quartieri operai di una Torino impoverita, bombardata e passata dai seicentomila abitanti di prima della guerra ai duecentomila dell’ultimo anno, nasce. ancora prima che dalle direttive organizzative di partito, da un senso di solidarietà e di appartenenza in cui la comunità operaia accoglie anche chi operaio e lavoratore non è e, magari, non è neanche piemontese, ma è solamente, come tutti, vittima di un regime politico ed economico capace soltanto di sfruttare e reprimere un’umanità intesa quasi solo come forza lavoro. Fatto sottolineato particolarmente nelle pagine dedicate ai maltrattamenti e alle condizioni di lavoro all’interno del carcere giovanile Ferrante Aporti, in cui le condizioni non erano poi così distanti da quelle dei lager.

Un’umanità in cui le discriminazioni di genere non esistono e in cui le donne sono sempre in prima fila nelle lotte e nel soccorso ai combattenti o alle vittime della repressione. Spesso contro le stesse direttive del PCI.5

silvio-borione-con il padre Il quarto è quello di essere capace di descrivere e ricordare un’epoca di lotte e scelte in cui l’interazione tra le differenti generazioni, di cui il rapporto tra Silvio e il padre Eugenio6 è altamente sintomatico e rappresentativo, non solo era motivo di presa di coscienza e di crescita politica, ma anche di reciproco rispetto. All’interno della quale le piole, le caratteristiche vinerie torinesi (prima dell’avvento dei wine bar e dei locali da aperitivi, rimasero un elemento centrale di scambio e di incontro fino agli anni settanta.

Poi c’è la descrizione di Torino, città operaia per eccellenza, con i suoi borghi e le sua barriere (San Paolo, Nizza, Milano, Barca e tutti gli altri) così inseparabili dalla storia delle sue lotte e della sua netta formazione antagonista nei confronti delle classi al potere. Una città che con la sua fabbrica diffusa e la presenza enorme di lavoratori dell’industria ha creato condizioni di resistenza, riflessione e crescita politica assolutamente impensabili in altre città italiane nel corso dei primi settant’anni del Novecento.

Lotte che partono dalle fabbriche e dai quartieri operai che i partiti e i movimenti organizzati dovevano sapere interpretare prima ancora che dirigere e che avrebbero formato una classe di intellettuali, poco appariscenti ma decisi, che vanno da Antonio Gramsci, con le sue prime riflessioni sulla città-fabbrica, a Bianca Guidetti Serra e Franco Antonicelli. Tutti diversi tra loro, ma egualmente e strenuamente impegnati in prima linea nella lotta contro il fascismo.

La forza delle memorie di Silvio sta, infine, anche nella sua capacità di ricordare la partecipazione alla Resistenza anche delle formazioni spesso eluse dalla storiografia piccista; ad esempio quella filo-bordighista, o presunta tale, di Stella Rossa, che aveva spinto con le sue audaci azioni per un’insurrezione prettamente proletaria della città già nel febbraio del ’45, oppure quelle anarchiche. O nel sottolineare l’amarezza con cui gli operai e i militanti che avevano difeso a rischio delle loro vite e con scarsi mezzi e ancor meno armi gli stabilimenti FIAT di Mirafiori dai tentativi di saccheggio tedeschi, videro sfilare migliaia di sappisti ben armati in piazza Vittorio nelle giornate successive alla Liberazione (avvenuta a Torino con un giorno di ritardo rispetto ad altre città italiane).

Oppure nel ricordare ancora che la vendetta non è un gioco e che la violenza non si può mai usare a cuor leggero e senza provare un senso di nausea per il sangue versato, anche dal nemico più odiato. Così come capita a Silvio nell’assistere all’eliminazione dei collaboratori e degli ultimi, invasati sostenitori del regime che giravano per la città cercando di colpire alle spalle chiunque capitasse loro a tiro. Un triste, orrendo rituale di sangue in cui la sete di vendetta non poteva bastare a sopportarne le conseguenze fisiche e psicologiche.

Le uniche note non del tutto positive, riguardano il fatto che, forse, avrebbe dovuto essere maggiormente rispettata e riprodotta la lingua del narratore. Anche se qui e là il dialetto piemontese e la parlata torinese sono presenti con alcune frasi idiomatiche e modi di dire molto diffusi, la lingua del testimone, lasciato libero di esprimersi, avrebbe arricchito ancora di più il lavoro di ricostruzione della memoria di classe portato avanti dai due autori. Così come ha saputo fare benissimo Luca Baiada nel ricostruire le memorie della strage del padule del Fucecchio del 1944.7

Ma, in questo caso, credo che la scelta sia stata prettamente editoriale, così come quella di voler inserire nel testo discorsi e comunicati, oltre che informazioni, che se da un lato servono a storicizzarlo ed inquadrarlo nel periodo storico-politico in cui si svolgono i fatti, dall’altro rischiano di renderlo talvolta retorico ed eccessivamente dipendente dalla vulgata del Partito Comunista. Ma, queste ultime, sono osservazioni realmente marginali e vengono qui inserite proprio nella speranza che un editore attento come Red Star Press in futuro abbia più coraggio nel liberare la memoria di classe dai vincoli della riconoscibilità accademica o partitica.

Per Primo Levi e i partigiani ebrei caduti nella lotta di Liberazione
Nelle ultime pagine del testo, nella Postfazione, alcuni compagni e compagne del CSOA Gabrio ricordano le parole di Primo Levi quando sottolineava come la partecipazione alla lotta di Liberazione derivasse anche da “Un muto bisogno di decenza”. Ecco, a questo bisogno di decenza vorrei richiamare tutti coloro che, da Paolo Mieli al PD passando per quasi tutti i media nazionali e l’Associazione Amici di Isrele, in occasione del 25 aprile hanno sentito il bisogno di sbandierare per l’ennesima volta l’apporto della Brigata Ebraica alla lotta di liberazione italiana.
Dimenticano, i signori, alcune fondamentali verità che cercherò qui di riassumere brevemente.

Nell’anteporre, infatti, la “memoria” della Brigata Ebraica alle altre vicende della Resistenza italiana non solo si compie un’opera mistificatoria, superata per volontà di rimozione storica e superficialità soltanto dai militanti del PD sfilati con le bandiere e le magliette azzurre dell’Unione Europea in occasione del 25 aprile, ma si offende anche la memoria dei numerosissimi (circa 2000) ebrei “che parteciparono attivamente alla Resistenza (1000 inquadrati come partigiani e 1000 in veste di “patrioti”), con la massima concentrazione (circa 700) in Piemonte. La percentuale, pari al 4 per cento della popolazione ebraica italiana, è di gran lunga superiore a quella degli italiani nel loro complesso. Circa 100 ebrei caddero in combattimento o, arrestati, furono uccisi nella penisola o in deportazione; otto furono insigniti di medaglia d’oro alla memoria (Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Eugenio Calò, Mario Jacchia, Rita Rosani, Sergio Forti, Ildebrando Vivanti, Sergio Kasman). Tra gli esponenti ebrei di maggior rilievo della Resistenza si annoverano: Enzo Sereni, Emilio Sereni, Vittorio Foa, Carlo Levi, Primo Levi, Umberto Terracini, Leo Valiani, Pino Levi Cavaglione, Liana Millu e Elio Toaff. Fra i caduti, vanno ricordati il bolognese Franco Cesana, il più giovane partigiano d’Italia, i torinesi Emanuele Artom e Ferruccio Valobra, i triestini Eugenio Curiel e Rita Rosani, il milanese Eugenio Colorni, il toscano Eugenio Calò, gli emiliani Mario Finzi e Mario Jacchia, e l’intellettuale Leone Ginzburg.8

Tutti parteciparono alla Resistenza oppure caddero combattendo nelle diverse formazioni partigiane, dalle Brigate Garibaldi a Giustizia e Libertà, escluse forse le formazioni cattoliche.
Anteporre ancora a questo semplice fatto l’”importanza” della Brigata Ebraica (costituita in Palestina il 20 settembre 1944 sotto il comando britannico e inviata a combattere sul fronte italiano e austriaco dopo lo sbarco degli Alleati) dimentica che questa operò sotto il comando di uno degli schieramenti imperialisti in campo e senza alcuna autonomia operativa o di scelta politica (a meno che non si parli di scelta politica a proposito dell’idea sionista, già esposta dal fondatore del movimento Theodor Herzl, di voler rappresentare la diga a difesa dei “valori” occidentali in Medio Oriente)

La Brigata venne inviata nel novembre 1944 sul fronte italiano. Sbarcata a Taranto, entrò in linea dal 3 marzo 1945 […] La Brigata combatté con le proprie insegne a fianco di unità italiane e polacche. Prese parte ai combattimenti di Alfonsine (19 e 20 marzo 1945), poi venne trasferita più a sud di fronte a Cuffiano (sulle prime pendici dell’Appennino). Il 27 marzo combatté al fianco del Gruppo di Combattimento “Friuli” contro la IV Divisione Paracadutisti del Reich. Il 9 e 10 aprile 1945 partecipò alla Battaglia dei tre fiumi assieme alle forze alleate, con le quali fu protagonista dello sfondamento della Linea Gotica. Nel corso del ciclo operativo in Italia tra il 3 marzo ed il 25 aprile 1945 la Brigata Ebraica ebbe 30 morti e 70 feriti 9

Il peso del suo contributo fu pari, ma inferiore per numero di caduti e feriti, a quello di tutti gli altri contingenti militari presenti sul suolo italiano in chiave anti-tedesca durante la cosiddetta campagna d’Italia ovvero senegalesi, marocchini, francesi, polacchi, inglesi, americani e via dicendo e non è possibile oggi elevarla al di sopra né degli altri militari caduti né ancor meno al di sopra degli ebrei e dei partigiani caduti nel corso della Resistenza armata al fascismo e all’imperialismo tedesco. Tutti anti-fascisti, comunisti, socialisti e azionisti ancor prima che ebrei.

Guidetti Serra Levi Cortina40 Lo spirito che animò quei combattenti lo riassunse bene Primo Levi10 nella sua Prefazione del 1972 a “Se questo è un uomo”, dedicata ai giovani: “E’ passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro. No, non esistono oggi in nessun luogo camere a gas né forni crematori, ma ci sono campi di concentramento in Grecia, in Unione Sovietica, in Vietnam, in Brasile. Esistono quasi in ogni paese, carceri. Istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in alcuni altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo”.

Spirito che appartiene a Silvio Borione sicuramente, ma non a coloro che della Brigata Ebraica, del sionismo imperialista e della vergognosa occupazione dei territori palestinesi hanno fatto la loro bandiera.


  1. E’ infatti difficile, se non impossibile, trovare nelle recente letteratura italiana la rigorosità e la fedeltà nella ricostruzione sia degli eventi storico-politici e delle lotte che della mentalità di classe che li ha accompagnati espresse da Valerio Evangelisti nella sua trilogia Il sole dell’avvenire oppure da Wu Ming 1 nel suo Un viaggio che non promettiamo breve  

  2. Dal quale mi aspetto ancora, come ebbe a promettermi durante la manifestazione Una montagna di libri contro il TAV tenutasi a Bussoleno nel 2014, una narrazione adeguata delle vicende torinesi di quell’anno e del rapporto istituitosi a Torino tra i giovani delle periferie, che avevano animato sia le proteste locali dei forconi che l’assedio dei mercati generali in occasione dello sciopero dei facchini, e i centri sociali  

  3. pag. 20  

  4. pp. 73-74  

  5. Come ben ricordato in Anna Maria Bruzzone – Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, prefazione di Anna Bravo, Bollati Boringhieri 2016  

  6. Ripresi insieme nel 1939 nella fotografia qui pubblicata 

  7. Luca Baiada, RACCONTAMI LA STORIA DEL PADULE. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre corte, Verona 2016  

  8. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Resistenza_ebraica  

  9. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Brigata_Ebraica  

  10. Nella fotografia qui accanto sono visibili Bianca Guidetti Serra, a sinistra, e Primo Levi, al centro, nel 1940  

]]>
La smania fascista per l’impero: a ottant’anni dalla guerra d’Etiopia https://www.carmillaonline.com/2016/03/11/la-smania-fascista-per-limpero-a-ottantanni-dalla-guerra-detiopia/ Fri, 11 Mar 2016 22:30:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29017 di Armando Lancellotti

1936_Carlino_EtiopiaNicola Labanca, La guerra d’Etiopia 1935-1941, il Mulino, Bologna, 2015, 271 pagine, € 20,00

L’ultimo libro di Nicola Labanca si apre con una domanda che spesso chi si occupa di memoria storica italiana è costretto a porsi: «perché questa dimenticanza, o questo silenzio?» (p. 7) Come ci è capitato di considerare in altri pezzi pubblicati su Carmilla, quella italiana è una coscienza storica collettiva smemorata e distratta, facilmente portata a collocare in un’area periferica e secondaria della propria memoria, se non addirittura ad abbandonare e nascondere in un [...]]]> di Armando Lancellotti

1936_Carlino_EtiopiaNicola Labanca, La guerra d’Etiopia 1935-1941, il Mulino, Bologna, 2015, 271 pagine, € 20,00

L’ultimo libro di Nicola Labanca si apre con una domanda che spesso chi si occupa di memoria storica italiana è costretto a porsi: «perché questa dimenticanza, o questo silenzio?» (p. 7)
Come ci è capitato di considerare in altri pezzi pubblicati su Carmilla, quella italiana è una coscienza storica collettiva smemorata e distratta, facilmente portata a collocare in un’area periferica e secondaria della propria memoria, se non addirittura ad abbandonare e nascondere in un angolo remoto e buio, momenti al contrario fondamentali, essenziali del proprio vissuto, cioè della storia di questo Paese.

La dimenticanza qui presa in considerazione dallo storico riguarda la guerra d’Etiopia, scoppiata e combattuta esattamente ottant’anni fa (1935/’36), ma a differenza di altre ricorrenze dell’anno 2015, come l’inizio della Grande guerra italiana e il settantesimo della Liberazione, sostanzialmente trascurata, se non addirittura ignorata, dall’opinione pubblica, cosa che più in generale accade per l’intera storia del colonialismo italiano otto-novecentesco, affrontata, ricostruita ed interpretata dagli studiosi e da analisi sempre più attente e specifiche, ma sostanzialmente ignorata dall’opinione pubblica, soprattutto nelle sue manifestazioni più brutali ed imbarazzanti; ma non per questo meno pronta a riemergere da dietro le quinte della nostra coscienza storica collettiva, dove abita latente, per modellare luoghi comuni, pregiudizi e giudizi del modo italiano di pensare l’altro, lo straniero, l’africano in particolare.

Il “vuoto di memoria” collettivo risulta in questo caso particolarmente problematico perché riguarda una guerra che, per numerosi – e da Labanca con precisione considerati – motivi, ebbe un’importanza fondamentale per l’Italia fascista, produsse effetti incisivi sugli equilibri internazionali della seconda metà degli anni Trenta, fu organizzata e combattuta in modo per molti aspetti diverso dalle altre guerre coloniali europee e portò alla formazione di un impero coloniale africano fascista e razzista.
Innanzi tutto, come il titolo del libro lascia subito intendere, essa non fu la “guerra dei sette mesi” celebrata dal regime, ma durò molto di più, ben oltre il maggio del 1936 e l’entrata di Badaglio ad Addis Abeba, in quanto proseguì fino all’autunno del 1941, quando le truppe del Commonwealth britannico conquistarono l’AOI (l’Africa orientale italiana), evidenziando quanto velleitari fossero stati i sogni di grandezza imperiale di Mussolini. Una guerra quindi che inizia quattro anni prima del secondo conflitto mondiale, ma la cui conclusione costituisce un episodio di quest’ultimo.
Come scrive Labanca, «essa era iniziata almeno tre volte, e per tre volte dichiarata finita. […] Partita come guerra d’aggressione dello Stato fascista a uno Stato africano indipendente, era iniziata di nuovo ora da parte delle istituzioni ormai dell’Africa orientale italiana contro le popolazioni che non volevano accettare il nuovo dominio coloniale», fatto questo che diede luogo a ininterrotti cicli di operazioni di “polizia coloniale” contro oppositori e resistenti etiopi, «infine era ripresa di nuovo, come capitolo e campagna di una più ampia guerra mondiale». (p. 219)

Ma la guerra italiana in Abissinia fu anche un “evento globale”, sia per gli intrecci gravidi di nefaste conseguenze che stabilì con i contemporanei avvenimenti di un quadro politico internazionale che andava rapidamente predisponendosi per l’esplosione del 1939 – per questo, scrive Labanca, da storici africani ed africanisti è stato sostenuto che la guerra italiana del 1935/’36 sia da considerare come il primo passo della seconda guerra mondiale – sia perché fu osservata con attenzione preoccupata ed ostilità in tutto il mondo e non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti, nell’Urss di Stalin, fino alla Cina e al Giappone. Ma nonostante la preoccupazione internazionale dinanzi alla smania mussoliniana per l’impero, le due grandi potenze coloniali europee (Inghilterra e Francia) – e si tratta di un ulteriore motivo di importanza di questa guerra – applicarono quella politica dell’appeasement, che avrebbero poi replicato nei confronti della Germania hitleriana fino alla Conferenza di Monaco compresa.

Labanca copertina EtiopiaMa allora perché a fronte di una così evidente rilevanza, tanto per la storia d’Italia quanto per quella mondiale, la guerra d’Etiopia occupa uno spazio così ridotto della nostra memoria nazionale collettiva? Ci sembra in realtà che la situazione di marcata divergenza tra analisi e ricerche sempre più numerose e sempre più puntuali di studiosi e storici prodotte negli ultimi decenni, da un lato e consapevolezza collettiva vaga ed approssimativa che facilmente muta in sostanziale ignoranza, dall’altro riguardi non solo o in particolar modo la guerra fascista all’Abissinia, ma anche altre pagine rilevanti del nostro passato, come la conquista “liberale” prima e la riconquista fascista poi della Libia, o le campagne di Grecia, Jugoslavia e Russia, la cui memoria storica è altrettanto vaga o quasi esclusivamente concentrata su alcuni aspetti, di solito quelli meno negativi o imbarazzanti per il popolo italiano.

Sul piano dello stato di avanzamento degli studi, Labanca – coerentemente con l’indirizzo dei suoi più recenti interessi che guardano in direzione di un approccio storiografico transnazionale [su Carmilla] – denuncia l’assenza, per il momento, di «una storia della guerra d’Etiopia radicalmente transnazionale, basata sulla conoscenza dell’intreccio della parte italiana e della parte etiopica (e, pro quota, eritrea, somala, araba, ecc)» (p. 21), ma è sulla ricostruzione dei meccanismi e delle ragioni delle dimenticanze e delle lacune della memoria collettiva che il libro si sofferma e si concentra.

Nell’interessante nono ed ultimo capitolo – Ricordare la guerra d’Etiopia – Labanca sostiene che affinché il ricordo di un evento storico si fissi nella memoria collettiva di un popolo occorre un contesto complessivo e generale che lo contenga, un «macro-ricordo (una categoria, una cornice) entro cui poter inserire quello specifico oggetto». (p. 220) Nel caso italiano della guerra in Abissinia, una prima “cornice” di riferimento fu il fascismo stesso, dal 1936 fino alla sua caduta, che la guerra l’aveva voluta e combattuta, ma dopo il 1945 essa risultò del tutto inutilizzabile, eccezion fatta – ovviamente – per i nostalgici più o meno dichiarati. A ciò si aggiunga che la guerra africana rimase schiacciata, finendone ridimensionata, dalla memoria di altri avvenimenti decisamente più importanti per il Paese, come la seconda guerra mondiale, la Resistenza e la Liberazione, il passaggio alla Repubblica. Ricordi questi che molto meglio si acconciavano al nuovo presente post fascista, repubblicano e democratico rispetto ad una guerra fascista, imperialista e razzista, seguita da una perdita dell’impero che Labanca definisce efficacemente come una «decolonizzazione senza decolonizzazione» (p. 221), essendo avvenuta per mano dei nemici della seconda guerra mondiale (gli inglesi) e non come conseguenza delle mobilitazioni ed insurrezioni popolari degli altri casi di decolonizzazione post ’45.

Anche la mancanza di una “Norimberga italiana”, cioè di un processo internazionale per crimini di guerra, che riguardò non solo la guerra d’Etiopia, ma l’intera seconda guerra mondiale italiana nonostante le richieste dei paesi aggrediti, contribuì ad ottundere la nostra memoria o quanto meno non risvegliò ricordi di un recente passato che conveniva lasciar trascorrere in silenzio. Come conveniva, considera l’autore, anche ai nuovi alleati dell’Italia democratica e in particolare al Regno Unito e alla Francia, ancora a capo di imperi coloniali, per quanto in via di disfacimento. Cosa sarebbe accaduto se le richieste abissine di consegnare i responsabili italiani di crimini di guerra, come Badoglio e Graziani, fossero state accolte? Questo «avrebbe rischiato di aprire un diluvio di analoghe richieste da parte di movimenti anticoloniali o stati decolonizzati. Per salvare se stessa Londra (e di fatto Parigi) salvò anche Roma, dannando Addis Abeba». (p. 222)

Della memoria pubblica della guerra d’Etiopia Labanca propone poi un’analisi e “sistematica” e “diacronica”, individuandone rispettivamente «tre tratti peculiari» e «tre diverse fasi», prima di una quarta, quella di oggi. Il primo tratto specifico consiste nel «silenziamento», cioè – spiega Labanca – nell’aver messo a tacere il più possibile il ricordo della guerra africana, come di altri aspetti e momenti del fascismo; il «secondo tratto è consistito nel guardare al conflitto in Etiopia in un’ottica quanto più possibile di “italiani brava gente”, secondo l’immagine che il Paese si è più volte autoattribuito» (p. 232) e che ha prodotto la distorsione o la dimenticanza anche delle responsabilità italiane nello scatenamento del secondo conflitto mondiale, delle leggi razziali e della collaborazione nello sterminio ebraico, del ricorso all’uso dei gas nell’Etiopia stessa, della costruzione di campi di concentramento in Cirenaica, ma anche altrove, ecc. Il terzo tratto, infine, è il «ridimensionamento», cioè un atteggiamento riduzionistico che tende a minimizzare le responsabilità e la portata storiche, politiche, etiche dei fatti accaduti, «in un quadro di ricordi nostalgici, di tipo nazionalista o parafascista, con venature persino “vittimistiche”». (p. 232)

Passando di seguito alla articolazione in fasi della memoria collettiva della guerra d’Etiopia – fasi la cui variazione è strettamente legata a quella dei contesti politici internazionali e nazionali – Labanca individua la prima nel ventennio che va dall’immediato dopoguerra fino alla grande decolonizzazione internazionale degli anni Sessanta e la ritiene caratterizzata da un sostanziale silenzio che calò sul recente passato coloniale, argomento monopolizzato, di conseguenza, dalla memoria di reduci e nostalgici. Concause di questo atteggiamento omertoso furono, tra le altre, l’incapacità e l’indisponibilità a fare i conti col passato fascista, la mancata epurazione e defascistizzazione del Paese e dell’apparato burocratico, militare e ministeriale, il tentativo di riottenere le vecchie colonie e l’assunzione dell’amministrazione fiduciaria della Somalia fino al 1960, le direttive strategiche di politica economica energetica che vedevano l’Italia impegnata a stabilire buoni rapporti col Medio Oriente.

L’inizio della seconda fase viene fatto coincidere con la pubblicazione nel 1965 del libro di Angelo Del Boca, La guerra d’Abissinia, «nel clima generale dell’entusiasmo per la decolonizzazione» (p. 235). Ebbero così inizio studi critici e scientifici sul colonialismo italiano e sul fascismo più in generale e alle ricerche di Del Boca si aggiunsero quelle di altri storici, tra i quali è doveroso ricordare Giorgio Rochat, che se da un lato impostarono un primo dibattito, anche pubblico, su questi temi, dall’altro però non furono in grado di scalfire il coriaceo mito riduzionistico ed autoassolutorio degli “italiani brava gente”, che connotò la lettura più diffusa del passato coloniale italiano nel ventennio tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta. Si tratta di una «visione del fascismo e del colonialismo “da brava gente”» che, seppur in misura minore rispetto al passato e nonostante gli esiti della ricerca storica, «continua ad essere accreditata in più sedi». (p. 233)

Ancora un altro gruppo di scritti di Del Boca ha dato inizio – sostiene Labanca – alla terza fase della memoria collettiva nazionale della guerra in Abissinia, fase contraddistinta da un atteggiamento più critico e dialettico. Il Negus. Vita e morte dell’ultimo re dei re (1995), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia (1997), Italiani, brava gente? Un mito duro a morire (2004) sono gli scritti di Del Boca che innescarono, accompagnarono e seguirono la dura polemica pubblica tra Del Boca stesso ed Indro Montanelli, polemica che a sua volta diede un contributo determinante alla decisione del Ministro della Difesa Domenico Corcione di ammettere per la prima volta l’uso da parte italiana di gas e altri aggressivi chimici durante la guerra d’Etiopia. Poteva così prendere il via un «percorso di riconquista della memoria e di maturazione del paese rispetto al passato coloniale nazionale. Il senso di tale percorso sta nella progressiva accettazione da parte degli italiani di un passato complesso, non solo da brava gente, in Etiopia e in genere nel colonialismo». (p. 238)

E con i primi anni del XXI secolo si apre la quarta fase, quella attuale, che Labanca definisce “postcoloniale”, sia perché le generazioni di coloro che la guerra d’Etiopia l’hanno combattuta o che hanno vissuto in un’Italia “imperiale e coloniale” sono per lo più scomparse, sia perché l’assetto politico mondiale ha quasi superato il ciclo storico plurisecolare del dominio coloniale europeo del resto del pianeta, sia perché – scrive Labanca – «da un paio di decenni si è ormai affermata una visione della storia che si è appunto definita e proclamata postcoloniale» (p. 241), la quale muove dall’esigenza di operare una profonda decostruzione critica della cultura e del pensiero coloniali. Un approccio che, tra l’altro, intende muovere alla ricerca dei lasciti, dei residui, delle eredità palesi o implicite che il passato coloniale ha tramandato all’immaginario e alla mentalità odierni. Residui del passato che, sottolinea l’autore, è possibile trovare un po’ ovunque: «nella politica, per come essa tratta oggi i migranti; nei media, per come essi trasmettono e moltiplicano lo scontro di civiltà; nelle menti degli italiani, per come essi siano ancora impregnate di stereotipi e di pregiudizi razziali, chiaro retaggio dell’epoca coloniale». (p.242)

All’interno di questa cornice complessiva, il cui perimetro è dato dal riconoscimento dell’importanza storica fondamentale della guerra d’Etiopia e dall’esame delle modalità e delle ragioni della costruzione della sua memoria storica collettiva, Labanca colloca il suo articolato studio sulla guerra italiana in Abissinia, la cui tesi di fondo ci sembra possa essere colta nella affermazione del carattere essenzialmente fascista di questa guerra, delle sue motivazioni, delle sue finalità, delle modalità con cui fu combattuta, degli effetti che produsse.
È una smania per l’impero quella che spinge Mussolini e il regime verso la guerra d’aggressione all’antico impero africano e per ragioni di prestigio sia internazionale sia interno: negli anni Trenta del Novecento, l’Italia fascista, che «era tanto un latecomer quanto un junior partner dell’imperialismo coloniale europeo» (p. 36), voleva la “grande impresa”, per trionfare laddove l’Italia liberale aveva fallito, che riportasse – per dirla con Mussolini stesso – “l’impero sui colli fatali di Roma”, che consentisse di gettare un ponte lungo un paio di millenni tra la Roma dei Cesari e la Roma fascista. Per tutti questi motivi la guerra all’impero del Negus non poteva essere una “normale” spedizione coloniale, ma doveva assumere un chiaro ed inequivocabile carattere fascista.

La scelta almeno iniziale dell’anziano quadrumviro della marcia su Roma, De Bono, poi sostituito dal più esperto Badoglio, come comandante dell’intero corpo di spedizione e del fronte nord in particolare a cui si aggiungeva sul fronte sud, quello somalo, il generale Graziani, modello del soldato e dell’ufficiale che il regime avrebbe voluto replicare e diffondere, dichiaratamente fascista, a tal punto distintosi per ferocia nella “riconquista” della Cirenaica da meritarsi l’epiteto di “macellaio degli arabi”, dimostra come quella in Etiopia non avrebbe dovuto essere una piccola guerra coloniale, ma una grossa guerra fascista e poi nazionale e moderna.
Da grande guerra moderna fu il dispiegamento imponente di forze che tra soldati dell’esercito, reparti della MVSN – la cui presenza accentuava il tratto politico-ideologico dell’impresa – e ascari arrivò a circa 5/600.000 uomini: «[…] grosso modo 300 mila soldati regolari, 100 mila camicie nere, 100 mila lavoratori italiani militarizzati, 100 mila e più ascari (truppe indigene regolari)». (p. 87) «Non vi era stata nessuna precedente guerra coloniale che fosse costata un simile impegno alla potenza europea che l’aveva lanciata. L’unico possibile paragone può andare alla guerra sudafricana (1899-1902), o guerra angloboera […]. Ma in quel caso era in gioco una posta straordinaria per Londra: il più grande impero coloniale europeo, all’apice del suo potere […]». (p. 75)

Tutt’altra era la situazione italiana, che intraprendeva nel 1935 una guerra “anacronistica”, proprio nel momento in cui l’espansionismo coloniale europeo si era fermato, stava avvenendo il passaggio dalla conquista alla valorizzazione economica e dalla gestione militare a quella civile dei territori coloniali e i governi europei dimostravano qualche disponibilità alla concessione di limitate autonomie per fronteggiare la crescita dei movimenti nazionalisti ed indipendentisti delle colonie. Questa guerra “anacronistica” doveva essere anche “nazionale”, nel senso che doveva coinvolgere l’intera nazione e per questo fine si prodigò l’apparato propagandistico del regime totalitario fascista, che diede un fondamentale contributo alla attribuzione di caratteri e contenuti precipuamente fascisti al conflitto: «un’impostazione dichiaratamente razzista, un’accentuazione nazionalistica e classicistica (con le pretese di riallacciarsi all’antica Roma), un’intonazione populistica (le colonie come luogo dell’espansione del lavoro italiano)». (p. 61)

Una “guerra fascista”, quindi, di cui Labanca individua almeno sei tratti distintivi ed innanzi tutto il ruolo determinante ricoperto da Mussolini sia per quanto riguarda la progettazione e la decisione del conflitto sia per quel che concerne la sua conduzione, come le direttive inviate dal duce stesso a Lessona, Badoglio o Graziani e contenenti l’assenso all’uso massiccio di gas ed aggressivi chimici dimostrano. Il secondo tratto essenziale è individuato nel carattere “totalitario” di una guerra per combattere la quale il regime si era scontrato con la Società delle Nazioni, per quanto blande e sostanzialmente ininfluenti fossero state le sanzioni da questa imposte all’Italia, e con la quale «metteva in chiaro il proprio programma di politica estera: bellicista, revisionista, antipacifista, “antisocietario”, in guerra con il “wilsonismo democratico” e con il nazionalismo che stava emergendo dai paesi colonizzati. Più che di un conflitto coloniale si trattava, insomma, di una guerra altamente ideologica». (p. 85)

Il terzo punto rilevante è colto da Labanca nel razzismo che fa da denominatore comune a tutta la guerra, all’imponente campagna propagandistica che l’accompagnò e ai cinque anni di governo italiano del territorio. Un quarto elemento distintivo, conseguenza dei due precedenti – il “totalitarismo” della guerra e il disprezzo del nemico – consiste nella volontà di annientare l’impero del Negus, non solo abbattendo quest’ultimo, ma anche smantellando le strutture del paese: la classe dirigente, la chiesa, l’intellettualità, ecc. Il quinto tratto peculiare Labanca lo individua – come già spiegato prima – nell’impiego di un esercito e di mezzi da grande guerra moderna e non da limitata impresa coloniale; infine, il sesto elemento propriamente fascista della guerra d’Abissinia fu il tratto “popolare” che il regime voleva attribuire all’impresa, sia dal punto di vista del consenso che intendeva raccogliere attraverso propaganda e repressione, sia dal punto di vista della effettiva partecipazione “nazionale”, di “massa” alla spedizione: un paese, l’Italia, che contava circa 42 milioni di abitanti, ne inviava pressappoco 500 mila in Africa.

Dei vari argomenti Labanca tratta poi nei diversi capitoli del libro, come per esempio nel § 2, La propaganda e la questione del consenso, del cap. IV, oppure nel cap. VI, L’impero e le leggi razziste, 1936-1937 e nel cap. VII, I cicli operativi di grande polizia coloniale, 1936-1940.
Il discorso sull’allestimento della campagna propagandistica a sostegno della guerra non può prescindere dall’analisi della conosciutissima “giornata della fede” (18 dicembre 1935) e conseguente “dono dell’oro alla patria”. Anche in questo caso, come in quello del dispiegamento della forza militare, per estensione ed intensità lo sforzo propagandistico del regime fascista è da paragonarsi a quello sostenuto dalle maggiori potenze nei due conflitti mondiali più che alle politiche più modeste di mobilitazione dell’opinione pubblica a sostegno delle imprese coloniali di paesi quali la Francia o l’Inghilterra. Insomma il fascismo fece di tutto per forgiare una nuova mentalità che fosse capace di concepire il ruolo dell’Italia dal punto di visto del suo presunto nonché preteso “destino imperiale”.

Ma la parte più interessante del discorso di Labanca riguarda il sintetico richiamo al dibattito storiografico sul problema del “consenso” alla guerra d’Etiopia, in particolare e al regime, più in generale, con il quale l’autore ridiscute la tanto dibattuta tesi defeliciana del 1975 (Intervista sul fascismo) della guerra in Abissinia come “capolavoro del consenso”, giudicato dallo storico reatino come crescente nell’arco temporale che andò dai Patti lateranensi alla guerra africana. In realtà, senza negare che vi sia stata nel 1935-’36 una «emozione grande e collettiva» (p. 115), cioè un coinvolgimento diffuso del popolo italiano nelle vicende belliche, le ricerche degli ultimi decenni dimostrano – sostiene Labanca – come la categoria del “consenso” debba essere applicata al caso abissino in particolare e più in generale al fascismo, come ad ogni altro totalitarismo, con estrema cautela ed in modo altrettanto articolato e critico. Occorre pertanto tener conto di alcuni fattori: la predisposizione degli italiani ad assorbire una propaganda filocoloniale (e razzista), resa possibile dalle precedenti campagne d’opinione già dell’Italia liberale a supporto delle imprese africane (da questo punto di vista il caso della guerra italo-turca per la Libia è il più emblematico); la diversificazione nel tempo e nello spazio e per classe sociale del consenso alla guerra abissina, che variò a seconda dei momenti tra l’ottobre del 1935 e il maggio del 1936, che fu differente da regione a regione e presso i diversi ceti o classi sociali; infine la consapevolezza che la misurazione della “spontaneità” del consenso in un regime totalitario, portato per sua natura a produrlo forzatamente, ad estorcerlo ed imporlo, è quanto mai complessa.

Di certo, però, anche la macchina della propaganda e del consenso predisposta dal fascismo per accompagnare la conquista dell’impero del Negus contribuì a costruire quella mentalità da “razza superiore”, quell’atteggiamento di disprezzo nei confronti della popolazione indigena che a sua volta fece da supporto alle efferatezze e ai crimini compiuti, sia a guerra in corso (ancora ricordiamo l’uso dei gas), sia dopo la guerra, con le “operazioni di polizia coloniale”, ossia la violentissima repressione della resistenza locale e con la legislazione razziale.

Finita la guerra di conquista con l’entrata ad Addis Abeba, ne cominciava (o continuava) un’altra contro l’insorgere di un movimento di resistenza abissino e, almeno inizialmente, il principale protagonista fu il generale Graziani, a cui Badoglio, rientrando in Italia, lasciava le cariche di viceré d’Etiopia e governatore generale dell’AOI. E «Graziani dette la caccia alle formazioni resistenti. Comandate da alcuni noti ras, queste disturbavano le comunicazioni, tenevano rapporti con le popolazioni, rendevano ancora presente a livello locale quel “vecchio ordine negussita” che il fascismo affermava di aver sradicato. Per ottenere i loro scopi le colonne italiane ebbero carta bianca: villaggi incendiati, raccolti distrutti, contro le formazioni di resistenti e contro le popolazioni fu condotto ogni genere di guerra regolare e irregolare. […] Quando non furono i fucili o le mitragliatrici delle esecuzioni sommarie, furono le carceri e i campi di internamento a lavorare. Fra questi, tristemente noto divenne quello di Danane, in Somalia, in cui si dice che abbiano perso la vita migliaia di internati». (p. 156)

L’episodio tanto più noto quanto più efferato fu certamente la mattanza scatenata dopo l’attentato a Graziani del 19 febbraio 1937 e conclusasi solo tre mesi dopo, a fine maggio, con un numero ancora incerto, ma di diverse migliaia, di vittime e che culminò nella strage di Debrà Libanos. [Oltre alle pagine del libro di Labanca, per la ricostruzione delle vicende legate a Debrà Libanos ci permettiamo di rimandare al nostro Chi ricorda Debrà Libanòs? Come un falso mito cancella la memoria storica] All’inizio del 1938, Mussolini, irritato per l’inefficacia della campagna di sradicamento della resistenza etiopica condotta da Graziani, decise di richiamarlo e di sostituirlo con un rappresentate della famiglia reale: il duca Amedeo di Savoia-Aosta. Con l’arrivo di quest’ultimo alcune cose cambiarono e migliorarono e alle «fucilazioni sommarie si sostituirono i processi, Danane fu lentamente svuotata, gran parte dei notabili deportati in Italia furono fatti tornare: si sperava che il tempo lavorasse per la solidità dell’impero». (p. 184) Non si può però tacere il fatto – osserva opportunamente Labanca – che fu proprio durante il periodo di governo del duca d’Aosta che la legislazione razziale fu messa in atto nell’AOI e che le operazioni di polizia coloniale continuarono, con le conseguenti violenze, in alcuni casi trasformatesi in strage, come in occasione della «feroce repressione condotta fra il 1° marzo e il 15 aprile 1939 di fronte a una grotta a Zeret, […], circa 200 chilometri a nord di Addis Abeba». (p. 193)

La legislazione razziale, appunto, introdotta con r.d.l del 19 aprile 1937, di seguito tradotto in legge il 30 dicembre 1937, e recante il titolo: Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi. Labanca, facendo riferimento a suoi precedenti studi in materia come a quelli di Enzo Collotti e Michele Sarfatti, osserva come la legislazione razzista in AOI, non solo abbia introdotto un odioso regime di apartheid, del tutto simile a quello sudafricano, non solo abbia perseguito l’intento di impedire il meticciato, la mescolanza per via sessuale e coniugale tra italiani ed africani, non solo abbia applicato i principi del peggior razzismo biologico, ma abbia anche fatto da presupposto teorico e pratico al successivo r.d.l del 17 novembre 1938, cioè ai Provvedimenti per la difesa della razza italiana e al conseguente antisemitismo. Aspetto, quest’ultimo, di fondamentale rilevanza in sede di analisi della genesi e dello sviluppo del razzismo e dell’antisemitismo fascisti, in quanto consente di ostacolare le tesi “riduzionistiche” che vorrebbero leggere l’antisemitismo italiano come conseguenza di una imposizione o dettatura da parte dell’alleato tedesco.

Per concludere, come dimostra il libro qui proposto di Labanca, un’opera che in relativamente pochi capitoli e pagine riesce a trattare con grande ampiezza di prospettiva, ricchezza di temi ed aspetti trattati, profondità di analisi una questione storica così complessa come la guerra italiana contro l’Etiopia, lo stato di avanzamento degli studi su questo argomento è ormai molto avanzato e sicuramente si arricchirà ulteriormente nei prossimi anni; ma, allora, ancor più grave e problematica risulta la sostanziale ignoranza collettiva e pubblica di queste pagine di storia italiana. Infatti, scrive l’autore, «mentre l’opinione pubblica e gli italiani appaiono sempre più distanti e meno informati, gli studiosi hanno invece riscoperto la dimensione coloniale della storia d’Italia». (p. 242)
A questa divergenza sempre più profonda e non certo positiva tra ricerca storica e coscienza storica collettiva si aggiunge poi un fenomeno recente che Labanca registra in conclusione del suo lavoro e che è da ritenersi preoccupante, anche alla luce della situazione politica internazionale attuale e cioè il fatto che «in questi ultimi anni si è diffuso nelle opinioni pubbliche europee degli stati già potenze coloniali un sentimento vagamente ma corposamente nostalgico nei confronti dell’ormai lontano passato imperiale. Attraverso la “nostalgia coloniale, la “colonial-algia”, l’Europa ricorda così quando in effetti era potente e dominava il mondo, cosa che non avviene più oggi». (p.243)

]]>
Chi ricorda Debrà Libanòs? Come un falso mito cancella la memoria storica https://www.carmillaonline.com/2015/09/23/chi-ricorda-debra-libanos-come-un-falso-mito-cancella-la-memoria-storica/ Wed, 23 Sep 2015 21:30:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25059 di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità [...]]]> di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità dell’accaduto, prendevano una decisione di fatto non più differibile, visti i cospicui risultati raccolti nel frattempo dalla ricerca storica nonostante i numerosi ostacoli incontrati e, spesso, da quelle stesse istituzioni frapposti, e abbandonavano, quindi, quell’imbarazzante atteggiamento omertoso che aveva contribuito in modo decisivo a censurare e ad allontanare dall’orizzonte della memoria collettiva italiana i crimini coloniali ed in particolare quelli commessi in A.O.I. (Africa Orientale Italiana). Ben tre interpellanze parlamentari e il lungo ed aspro, nonché noto, confronto polemico, consumatosi a mezzo stampa, tra Angelo Del Boca e Indro Montanelli avevano finalmente acceso e puntato i riflettori di una parte almeno dell’opinione pubblica sul passato coloniale italiano, su pagine di “storia patria” in buona sostanza sconosciute o quasi a molti italiani. Il successore alla Difesa di Domenico Corcione, cioè Beniamino Andreatta, ministro del primo governo Prodi, si trovò ad affrontare nel 1997 lo scandalo dei crimini commessi dai soldati italiani in Somalia durante la missione ONU nota come Restore Hope, a cui l’Italia partecipò con un impiego di uomini, denominato Missione Ibis, inferiore solo a quello statunitense e con cui non si lasciò sfuggire l’occasione né di rimettere piede in una sua ex colonia del Corno d’Africa, né di macchiarsi di violenze e crimini contro civili, come già accaduto in epoca fascista.

2Si potrebbe pertanto supporre che a partire da queste vicende della metà dagli anni ’90, ricostruite ed analizzate nel dettaglio anche da Simone Belladonna nel suo libro, sia andato via via aumentando l’interesse per l’imperialismo italiano e soprattutto per gli aspetti peggiori e criminali di esso (o “più criminali”, si potrebbe dire, essendo un’aggressione coloniale già in quanto tale definibile, oggi, come un crimine contro l’umanità, se si applica l’art.7 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998) e che all’infaticabile e meritorio lavoro di ricerca storica di Angelo Del Boca innanzi tutto, che già a metà degli anni ’60 faceva uscire il suo primo libro sulla guerra d’Abissinia, e di Giorgio Rochat in secondo luogo, si siano aggiunti gli sforzi di altri storici e ricercatori. Ed in parte è quanto è accaduto, poiché al maggior africanista italiano e all’esperto studioso di storia militare sopra citati si sono affiancati, sia prima sia dopo le ammissioni governative del 1996, altri storici che con i loro lavori hanno di molto ampliato ed arricchito, per quantità e qualità, la conoscenza sia della guerra d’Etiopia e dell’uso di gas e armi chimiche in particolare, sia, più in generale, di altre pagine cupe della nostra storia recente: l’imperialismo italiano nel suo complesso e i crimini dalle nostre truppe commessi non solo in Abissinia, ma anche in Libia, oppure nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale; i campi di internamento per civili su suolo italiano o nelle zone di occupazione militare, ecc. Per citarne alcuni, con la consapevolezza di, involontariamente, dimenticarne altri, si possono ricordare i lavori di: A. Aruffo, L. Borgomaneri, D. Bidussa, A. Burgio, I. Campbell, S. Capogreco, M. Dominioni, F. Focardi, N. Labanca, G. Oliva, D. Rodogno, E. Salerno ed anche S. Belladonna, il cui libro da poco dato alle stampe costituisce l’occasione per la stesura di queste riflessioni.

3Ma se dall’ambito ristretto degli addetti ai lavori, degli storici e dei lettori interessati al passato coloniale italiano otto-novecentesco ci spostiamo in direzione dell’opinione pubblica, da intendersi in questo caso come consapevolezza e conoscenza diffuse dell’imperialismo italiano, delle sue guerre e delle sue politiche di repressione e occupazione, allora lo scenario cambia bruscamente e si delinea un quadro di sostanziale ignoranza, formatasi nel corso degli ultimi settant’anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla perdita dell’impero; insipienza che va addirittura oltre l’amnesia o il ricordo sfocato e impreciso di un passato che inevitabilmente si allontana sempre più, perché consiste in una sostanziale non conoscenza di quel passato, cioè di un pezzo della nostra storia lungo una sessantina d’anni, quelli che separano l’Italia di Depretis da quella di Mussolini e del secondo conflitto mondiale, in quanto fu a partire dagli anni ’80 del XIX secolo fino alla guerra d’Etiopia e conseguente proclamazione dell’impero del 1935/’36 che l’Italia interpretò a più riprese una politica imperialistica di conquista coloniale dell’agognato “posto al sole” in terra d’Africa.
E non si trattò, come la vulgata più diffusa vorrebbe, di un colonialismo minore, più proclamato che praticato, ovvero, addirittura, bonario e benevolo, nonché – come ogni colonialismo occidentale ha sempre preteso di essere – civilizzatore. Per ambizioni e finalità, non ebbe molto da invidiare a quello di altre potenze europee del tempo e il suo carattere “tardivo” fu motivato dall’altrettanto tarda unificazione nazionale, un po’ come accadde all’imperialismo tedesco, bismarckiano prima e guglielmino poi. Prese le mosse, la conquista italiana di un “posto al sole”, negli anni ’80 dell’Ottocento e conobbe un momento apicale con la guerra italo-turca per la Libia del 1911/’12 e, quindi, nella sua fase “liberale” e non ancora fascista, si sviluppò negli stessi decenni in cui, per fare qualche esempio, la Francia si impossessò di Tunisia, Indocina, Marocco e l’Inghilterra prese il controllo di Suez e dell’Egitto, tasselli essenziali e strategici dei rispettivi imperi. Certamente i risultati italiani furono di ben minore portata, ma questo lo si dovette soprattutto a rapporti di forza nello scacchiere internazionale ed africano nei quali l’Italia era la parte debole, non certo alle intenzioni dei governi italiani, della classe dirigente liberale e dei settori del mondo economico coinvolti, soprattutto dai tempi di Crispi in poi. Per farsi largo tra le potenze del tempo, l’Italia intraprese due grandi guerre coloniali, che aggiunsero ulteriori elementi di criticità ai già incrinati e logori rapporti dei rispettivi scenari internazionali, che, pochi anni dopo l’una e l’altra guerra italiana, avrebbero condotto ai due conflitti mondiali: si tratta della già citata guerra di Libia e, ovviamente, di quella d’Etiopia. Ma il numero delle guerre potrebbe raddoppiare se si considera che tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, l’Italia – già fascista – fu impegnata nella riconquista di Tripolitania e Cirenaica e che quella del 1935/’36 fu, in realtà, la seconda guerra per l’Abissinia, preceduta da quella crispina, conclusasi con la disfatta di Adua del 1896, che costò più vittime di tutte le guerre risorgimentali messe assieme. La mussoliniana aggressione dell’impero etiope, poi, fu realizzata con un dispiegamento di uomini, mezzi, forze mai visto prima in una guerra africana o coloniale, tanto che, come ricorda Belladonna (S. Belladonna, cit, p.19) sulla scorta delle analisi di G. Rochat, si deve parlare di una guerra “nazionale”, non solo coloniale. «Guerra coloniale voleva dire un corpo di spedizione piccolo con molte truppe africane, obiettivi limitati e tempi lunghi, poca pubblicità e scarso coinvolgimento dell’opinione pubblica (come la riconquista della Libia). Mandare centinaia di migliaia di soldati invece voleva dire toccare direttamente tutti gli ambienti: ogni rione, ogni parrocchia, ogni villaggio avrebbe avuto i suoi “ragazzi di leva”. Voleva dire mobilitare la grande macchina propagandistica del regime, tutti i giornali, le scuole, i parroci, le industrie. Appunto una guerra “nazionale” […]» (G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005, pp.25-26).

E pertanto non solo per aspirazioni ed obiettivi politici o per mezzi ed uomini impiegati quello italiano non fu un colonialismo “minore”, ma anche per coinvolgimento, via propagandistica, dell’opinione pubblica e dell’intero paese. Se il caso etiope, sopra ricordato da Rochat, è il più evidente, poiché architettato e messo in opera dalla macchina della propaganda di un regime totalitario, per sua natura avvezzo al modellamento coercitivo del pensare collettivo e pubblico, non meno importante fu il caso della sbornia nazional-colonialistica degli anni attorno alla guerra di Libia, che forgiò i capisaldi dell’ideologia nazionalistica che poi traslò nell’interventismo del 1914/’15, e di seguito nel fascismo e che ripropose, sostanzialmente immutate, le sue parole d’ordine anche nel 1935/’36.

Sulla scorta di queste, seppur sbrigative, considerazioni, verrebbe da chiedersi perché allora quello italiano sia dagli italiani stessi considerato un colonialismo di rango inferiore e magari un po’ “straccione” o perché, peggio ancora, esso sia così poco ricordato e conosciuto.
Se poi si apre il capitolo dei crimini coloniali italiani le cose peggiorano ulteriormente e una spessa coltre di nubi sopraggiunge ed avvolgendoli nasconde i fatti più incresciosi e i comportamenti più violenti e criminali di cui si sono rese responsabili le forze armate italiane nelle colonie. E’ come se un fitto ed impenetrabile muro di nebbia impedisse alla coscienza collettiva degli italiani di vedere il proprio passato e le permettesse di vivere pacificata nella serena ignoranza della propria storia rimossa. A tal proposito basta gettare uno sguardo all’editoria scolastica, per rendersi conto come dei crimini di guerra italiani, dei gas in Etiopia, e prima ancora dei campi di concentramento libici in cui fu deportato il 50% della popolazione della Cirenaica, della brutale repressione contro la resistenza prima libica poi abissina, dei campi di internamento nei Balcani aggrediti e occupati insieme all’alleato nazista, ecc quasi non ci sia traccia. Pochi i manuali di storia che dedicano più di qualche riga o paragrafo a questi argomenti e quasi mai entrando nelle questioni con sufficiente profondità di prospettiva e accuratezza di analisi.

4E le cose non migliorano se passiamo dalla manualistica scolastica ad altri mezzi e prodotti culturali e di informazione: giornali, televisione, produzione documentaristica e cinematografica.
E allora gli studenti e gli italiani in generale conoscono qualcosa – sempre troppo poco, certo, ma comunque qualcosa – di Marzabotto e delle Fosse Ardeatine, ma ignorano per lo più la strage di Debrà Libanòs, in cui la furia di fascisti e soldati italiani si scatenò in una rappresaglia che fu una vera e propria mattanza, per punire l’attentato del 19 febbraio 1937 contro il generale Graziani, viceré di Etiopia dopo il rientro di Badoglio a Roma a guerra conclusa: prima venne la popolazione civile di Addis Abeba, che subì un pogrom squadrista che durò tre giorni; poi i notabili dell’etnia amhara, fucilati o deportati nei campi di concentramento, in particolare a Nocra in Eritrea e a Danane in Somalia; poi i cantastorie e gli indovini, accusati di propagare notizie anti italiane di villaggio in villaggio, che vennero arrestati e uccisi ed infine i monaci, i docenti di teologia, gli studenti del convento copto di Debrà Libanòs, considerato il centro nevralgico della resistenza abissina ed anche il luogo in cui gli attentatori fuggiaschi avrebbero trovato rifugio ed aiuto. [Per i fatti di Debrà Libanòs si veda, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005]

Se ci limitiamo anche solo all’episodio culminante del monastero, il numero delle vittime va da un minimo di 1400 circa a un massimo di 2000 circa, eliminate secondo modalità e logiche che non presentano sostanziali differenze da quelle delle cosiddette “eliminazioni caotiche” degli Einsatzkommandos nazisti sul fronte orientale e contro gli ebrei sovietici, o da quelle delle rappresaglie stragiste dagli stessi tedeschi utilizzate per reprimere la resistenza partigiana nell’Europa occupata ed anche in Italia. Questa la sequenza delle fasi principali dello sterminio: controllo militare del luogo, rastrellamento e concentramento delle vittime, trasporto con camion delle stesse in un luogo prescelto per l’esecuzione di massa, la piana di Laga Wolde non lontana dal monastero, uccisione tramite fucilazione e ammassamento dei cadaveri in fosse comuni. E non solo il modus operandi, ma anche la logica e le finalità che mossero i fascisti e i soldati italiani in Etiopia non differivano da quelle che avrebbero mosso i nazisti qualche anno dopo: repressione vendicativa della popolazione civile rea di collaborazione con i resistenti, rottura dei collegamenti tra partigiani e civili, governo e controllo del territorio tramite il terrore, dimostrazione di forza brutale.
E ancora, risulta difficile rilevare essenziali differenze tra gli ordini impartiti, tra gli altri, dal colonnello Herbert Kappler alle Fosse Ardeatine e le decisioni prese dal governatore del Regno del Montenegro, generale Alessandro Pirzio Biroli, che nel giugno del 1943, come rappresaglia per l’uccisione presso Podgorica da parte dei partigiani di 9 italiani del 383° reggimento di fanteria, fece fucilare 180 ostaggi, secondo una proporzione di 1 a 20, il doppio di quella applicata a Roma dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo1944. Ma di queste “Fosse Ardeatine jugoslave”, che ci vedono coinvolti in qualità di carnefici e non di vittime, non c’è memoria. [Per la repressione italiana della resistenza partigiana in Jugoslavia si vedano, tra gli altri: A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit; G. Oliva, “Si ammazza troppo poco”. I crimini di guerra italiani 1940-43, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006; D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino, 2003]

E, per aggiungere un altro ed ultimo esempio tra i tanti possibili di questa sperequazione della memoria storica, è grosso modo noto a tutti gli italiani, anche grazie alla ricca ed ottima produzione cinematografica americana, l’uso massiccio da parte statunitense di defoglianti durante la guerra del Vietnam, ma pochi in Italia sanno che una trentina di anni prima il Regio Esercito italiano avvelenò la popolazione, gli animali e la vegetazione dell’Etiopia con tonnellate di ordigni caricati con iprite o arsina.

5Ma quali sono allora le cause e i motivi di questa sperequazione della memoria, come poco sopra è stata definita, che porta la coscienza collettiva di un popolo, quello italiano, a conoscere e commemorare, come è doveroso e fondamentale, i crimini di guerra subiti, ma ad allontanare dal piano del proprio orizzonte visivo quelli compiuti?
Che cosa, dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi, ha impedito e continua ad impedirci di impostare un rapporto con il nostro passato recente che sulla base di una verità storica seriamente ricostruita permetta di fare di quel passato stesso, per quanto scomodo o spiacevole possa essere, un tassello, un mattone per costruire un’identità storica collettiva consapevole e critica?
La ricerca storica procede nel suo lavoro di scavo e di ricostruzione, di indagine, di spiegazione e comprensione, ma non riesce a fare breccia nella coscienza collettiva, non è capace di sedimentarsi in essa perché si scontra con l’ostruzionismo pervicace di un mito collettivo, di una leggenda a cui, consciamente o inconsciamente, teniamo più che ad ogni altra immagine di noi stessi: la leggenda del “buon italiano”, degli “italiani, brava gente”. [Si vedano a tal riguardo, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit.; S. Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino, 2004]

Si tratta di una rappresentazione collettiva ampiamente auto assolutoria e rassicurante secondo la quale l’italiano – per indole, carattere o storia – non sarebbe capace di atti efferati, di crudeltà e crimini e, pertanto, anche in tempo di guerra, sarebbe mite, bonario e tollerante, sempre ben disposto anche nei confronti del nemico, se non addirittura sentimentale e comunque sempre umano. Uno stereotipo in piena regola, costruito su misura come un abito sartoriale, tagliato e cucito da mani esperte per le migliori occasioni e per le foto in posa.
Un’autorappresentazione fantasiosa, tanto deformata quanto a sua volta deformante – di cui in seguito verranno indicate per sommi capi genesi e ragioni – che dal dopoguerra è andata progressivamente radicandosi, innervandosi per divenire infine contenuto e forma essenziali dell’immagine che il popolo italiano tende a proporre di se stesso.
Da simili premesse, quali conseguenze? Numerose e tutte venefiche, in quanto travisano la realtà e producono, nell’ordine, falsità, oblio ed ignoranza. E pertanto il colonialismo italiano sarebbe stato un “colonialismo umanitario”, che costruiva ponti, pozzi e strade, quasi più missionario che conquistatore, che esportava – non violava – civiltà. Proprio come vuole il più inattaccabile degli stereotipi a supporto dell’ideologia imperialistica, quello della missione civilizzatrice, del “fardello dell’uomo bianco”, che nelle sue varianti ha resistito, e resiste, ben oltre l’età storica del colonialismo. Sullo sfondo di una visione così edulcorata della presenza italiana in Africa non c’è posto per crimini, violenze o stragi, che risultano conseguentemente minimizzati, quando non totalmente rimossi. E il paradigma di pensiero si sposta facilmente dall’Africa all’Europa, ai Balcani o al fronte russo, dove, ancora una volta i crimini compiuti vengono dimenticati o addirittura – è il caso dell’ARMIR – responsabilità e ruoli vengono capovolti e i soldati italiani da “invasori” diventano “vittime”. [Si veda a tal proposito Th. Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Roma-Bari, 2009]

Storture e travisamenti diventano riduzionismo e sfiorano il negazionismo quando si tocca la delicata questione del razzismo, che non riguarderebbe, se non limitatamente e in forme sempre blande, l’indole italiana, senza che di questa edulcorata lettura del fenomeno si possano trovare riscontri, dati e fatti comprovanti e a fronte, invece, delle Leggi razziali e antisemite del ’38 e dei provvedimenti legislativi segregazionisti e razzisti introdotti in A.O.I nel 1936 e 1937, che non solo mostrano come l’atteggiamento degli italiani in Etiopia fosse tutt’altro che fraterno e benevolo nei confronti della popolazione africana, ma anche dimostrano, scavalcando e confutando facilmente le interpretazioni minimaliste del razzismo italiano che immancabilmente lo vorrebbero spiegare come diretta emanazione e imposizione di Berlino su Roma, che esso conobbe invece una genesi e sviluppi propri e complessivamente autonomi dall’antisemitismo tedesco e collocabili per l’appunto in terra africana. [Si consulti E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2003]

E allora anche il ricorso ai campi di concentramento non rientrerebbe nelle modalità propriamente italiane di esercitare il potere, reprimere e combattere i nemici, nonostante la costruzione di campi, per condizioni di internamento terribili, in Libia prima ancora che sul territorio nazionale o nelle zone di occupazione in Jugoslavia. Il lager diventa quindi una esclusiva dei nazisti, che, per bilanciamento complementare del mito del “buon italiano”, assurgono a mito negativo, quello del “tedesco malvagio”, per indole o per tratto etnico-nazionale. [Si consultino, tra gli altri, E. Collotti, L. Klinkhammer, Il fascismo e l’Italia in guerra, Ediesse, Roma, 1996; F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Laterza, Roma-Bari, 2013]

6-1Di fronte ad un così ben articolato armamentario di distorsioni e banalizzazioni storiche, i tentativi non tanto di fare luce sui crimini coloniali italiani, da questo punto di vista un cospicuo lavoro è già stato e continua ad essere svolto, ma piuttosto quelli di divulgare i risultati della ricerca, affinché possano divenire parte essenziale di una autocoscienza storica nazionale consapevole e critica, sembrano quasi sempre destinati alla sconfitta. Tale è la resistenza opposta dal meccanismo di rimozione censoria del “buon italiano”. Ovviamente quello italiano non è l’unico caso di memoria storica collettiva di problematica incubazione e di distorta e gravemente parziale formazione: ne sono un esempio le memorie conflittuali che in Spagna si confrontano davanti al passato franchista e ai crimini dai nazionalisti compiuti, e poi negati, durante la guerra civile ed immediatamente dopo, in un paese in cui la fine del regime si è associata alla continuità istituzionale per mezzo della monarchia. Ma il confronto più significativo va fatto con la Germania, che, pur avendo dovuto fare i conti subito dopo la fine della guerra con il macigno dell’allora recente passato nazista e dei suoi crimini contro l’umanità, aveva mantenuto e coltivato per decenni un proprio mito, anch’esso auto assolutorio e rassicurante, quello del “blasone immacolato” della Wehrmacht. A partire dall’immediato dopoguerra era stata ripetutamente proposta la teoria secondo cui l’esercito si sarebbe comportato onorevolmente e sarebbe uscito “pulito” dal secondo conflitto mondiale e, soprattutto, dal nazismo. Esso non avrebbe fatto altro che adempiere al proprio dovere e non si sarebbe sostanzialmente macchiato di crimini o di atrocità, che, pertanto, sarebbero stati compiuti solo da SS e Waffen-SS, dalla Gestapo e dal partito. In questo modo un’istituzione forte dello stato – l’esercito – e il grosso della popolazione tedesca coscritta e inviata sui fronti a combattere erano privi di colpe particolari e venivano sottratti al sospetto di aver commesso atti efferati, mentre l’esclusiva dell’orrore veniva attribuita al regime, al partito e ai corpi di polizia da esso dipendenti. [Tra gli altri, si consultino F. Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Editori Riuniti, Roma, 1997; L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli editore, Roma, 1997]

Fu una mostra sui crimini della Wehrmacht organizzata dal Hamburger Institut für Sozialforschung tra il 1995 e il 1999 (Vernichtungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1941 bis 1944 – Guerra di sterminio. Crimini della Wehrmacht dal 1941 al 1944) e poi dal 2001 al 2004 (Verbrechen der Wehrmacht. Dimensionen des Vernichtungskrieges 1941–1944 – I crimini della Wehrmacht. Le dimensioni della guerra di sterminio 1941-1944) a creare scompiglio e a mettere in discussione l’assunto di fondo della leggenda del “buon soldato tedesco”. La prima mostra attraversò 33 città in Germania ed Austria per un totale di 800.000 visitatori e la seconda fu portata in 11 città tedesche, a Vienna e in Lussemburgo e raccolse 420.000 visitatori. [Sito ufficiale della mostra]
Le dimensioni e il successo di pubblico della Wehrmachtsausstellung e il dibattito e le polemiche che ne scaturirono evidenziano come fosse difficile per molti tedeschi misurarsi con un’immagine di sé diversa da quella fino a quel momento coltivata, come fosse impegnativo dover rinunciare all’idea di un esercito complessivamente estraneo alle inumane pratiche del regime e del partito e dover ampliare considerevolmente l’area del coinvolgimento attivo nei crimini del nazionalsocialismo fino a farvi rientrare, appunto, l’esercito nel suo complesso. Coinvolgimento generalizzato del popolo, dello stato, dell’intera società, degli apparati economici nella costruzione e realizzazione del regime e nelle sue imprese, dalla guerra alla Shoah, che la ricerca storica aveva già ampiamente appurato e dimostrato, sempre più abbandonando letture “hitleriste” e, dagli anni Settanta in poi, virando verso approcci di tipo strutturalista, ma nell’opinione pubblica il mito della “Wehrmacht pulita” aveva resistito ben più a lungo.

Anche in Italia, il mito degli “italiani, brava gente” trovò terreno fertile in cui attecchire nell’immediato dopoguerra, perché lo vollero un po’ tutti. Agli ex fascisti, che intendevano a tutti i costi evitare di dover rendere conto dei crimini compiuti, risultava utile far passare l’immagine buonista del soldato italiano, che, associata alle censure capillari operate dal regime negli anni precedenti su argomenti quali, per esempio, i gas in Etiopia di cui ovviamente non c’era traccia nella cospicua memorialistica coloniale, gettava fumo negli occhi e contribuiva ad avvalorare il teorema innocentista ed auto assolutorio. Tutto questo però, si badi bene, al costo di un tanto paradossale quanto totale capovolgimento dell’immagine dell’Uomo Nuovo fascista che il regime aveva teorizzato, propagandato e costruito per vent’anni. Di quell’idealtipo fascista l’esempio più fulgido era stato proprio Rodolfo Graziani, il “macellaio degli arabi” – secondo la definizione che ne avevano dato i libici – non certo l’immagine auto denigratoria e derisoria confezionata ad hoc di un soldato italiano forse un po’ bislacco e pasticcione, magari non efficiente come altri nel combattere, ma che compensa tali deficienze marziali con cameratismo, umanità e compassione anche verso il nemico.
Ma interessava anche al maggior partito di governo, la Democrazia cristiana, che si proponeva di conseguire il fine della riconciliazione popolare, della armonizzazione nazionale, attraverso un rapporto col recente passato che privilegiasse più la continuità che la rottura ed evitando l’epurazione della classe dirigente e militare precedente. A tal fine era quanto mai utile costruire una rappresentazione “vittimistica”, quindi assolutoria, di un popolo italiano interamente e sostanzialmente buono, che aveva subito e non voluto o condiviso il fascismo, corpo estraneo o parentesi malata, per dirla con Croce, nella storia del paese.
Ma anche ai partiti della sinistra e in particolare al Partito comunista la favola del buon italiano tornava comoda. Attraverso di essa era possibile sottolineare ed amplificare i meriti dell’Italia partigiana e di quella forza politica che più delle altre antifasciste l’aveva combattuta, il Pci appunto, contrapponendo un popolo buono ad un regime feroce. Si poteva impostare l’equazione, politicamente legittimante lo stesso partito, tra Resistenza e popolo italiano, il cui risultato sarebbe stato quello di un partito comunista parte integrante della nazione e forza politica nazionale, anche a costo di rinunciare alla necessaria epurazione e alla doverosa punizione dei maggiorenti e dei criminali del precedente regime. Il tutto culminò, come è noto, nell’amnistia da Togliatti stesso voluta per il conseguimento – per dirla con le parole del segretario del Pci – “della riconciliazione e della pacificazione di tutti i buoni italiani”.
E diedero il loro contributo a questa mitopoiesi postbellica anche gli Alleati, per i quali l’Italia, paese strategico e confinante con la “cortina di ferro” e da governarsi più in continuità con il passato che attraverso traumatiche rotture, era così importante da meritare un trattamento diverso da quello dei suoi alleati del Patto Tripartito, con i quali aveva scatenato e combattuto la seconda guerra mondiale e così non vennero mai istruite una “Norimberga italiana” o una “Tokio italiana”. I criminali di guerra richiesti dalla Jugoslavia, dalla Grecia o dalle ex colonie africane non furono mai consegnati e le pene inflitte da tribunali italiani furono poche, lievi e incommensurabilmente inadeguate ai crimini perpetrati.

Ma se tutto questo spiega il passato, perché ancora oggi, quando ci separano dalla guerra di Etiopia ottant’anni esatti, quando le ragioni del dopoguerra sono ormai soltanto analisi storica, parlare dei gas in Abissinia e di altre atrocità continua a suscitare come automatica reazione la riproposizione della formula magica del “buon italiano”?
Possibile che quelle motivazioni, così strettamente legate al periodo fascista e coloniale, alla sua fine e alla problematica costruzione di una nuova identità nazionale, in un paese prima aggressore e poi aggredito, prima nemico degli Alleati poi in parte cobelligerante, spaccato in due territorialmente e politicamente, attraversato dalla lotta partigiana e dalla guerra civile, tessera fondamentale nel nuovo mosaico europeo della guerra fredda, ecc, possibile – ci si chiedeva – che ancora oggi mantengano un senso?
O dobbiamo forse, più semplicemente, rassegnarci ad ammettere che, al di là di tutte le considerazioni di ordine storico e politico sopra abbozzate ed indipendentemente da esse, a noi italiani piacciono questi panni? Ci sentiamo bene in essi? Ci rassicura l’immagine un po’ da commedia e un po’ da tragedia di un italiano sempre succube degli eventi della Grande Storia che lo sovrastano, ma capace anche di ricostruirsi un proprio piccolo mondo privato, nella famiglia, nel borgo o quartiere, con gli amici o i commilitoni, dove è in grado di conservare e coltivare quel lato umano che lo caratterizzerebbe comunque e sempre e che gli consente, quando poi dalla Grande Storia è chiamato alla guerra, di combattere con onore, ma mai con brutalità e talvolta di fraternizzare pure col nemico e di fare all’amore con le donne dei paesi invasi, mai, ovviamente, di violentarle?
Qualunque sia la spiegazione, è certo che tale falsa e sciocca, menzognera e meschina autorappresentazione collettiva è così radicata in noi che riemerge ad ogni occasione buona e contribuisce, oggi come in passato, a mantenere umido e pronto il terreno per la semina dei più nefasti revisionismi e giustificazionismi, atti a riabilitare un passato vergognoso attraverso il potente fertilizzante dell’ignoranza della storia.
_________________________________________________

Immagini, in ordine dall’alto al basso:
– manifesto della R.S.I, Vogliamo essere comandati dai negri? Giammai! Italia, 1944
– copertina di A. Del Boca, La guerra d’Abissinia 1935-41, Feltrinelli, Milano, I edizione, 1965.
– copertina di S. Belladonna, Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015
Gruppo di militari italiani intorno a una bomba C.500.T caricata a iprite
– cartolina coloniale, Armamenti, 1935-‘36
La raccolta dei cadaveri della rappresaglia fascista, Addis Abeba, febbraio 1937

]]>