Pier Vittorio Tondelli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Quando la fantascienza proviene dall’ucronia https://www.carmillaonline.com/2025/11/25/quando-la-fantascienza-proviene-dallucronia/ Tue, 25 Nov 2025 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91661 di Paolo Lago

Daniele Comberiati, Eugenio Barzaghi, L’uomo dall’altro mondo. Fantascienza di un’Italia [im]possibile, Machina Libro / DeriveApprodi, Bologna, 2025, pp. 96, euro 12,00.

Immaginiamo un’Italia appartenente ad una dimensione alternativa, in cui negli anni Sessanta avviene un colpo di Stato militare; d’altra parte, se guardiamo alla storia di quegli anni (con il Piano Solo del 1964 e il tentativo del golpe Borghese del 1970), era ciò che sarebbe anche potuto succedere. Siamo quindi proiettati in una vera e propria ucronia, una immaginifica e possibile direzione degli eventi storici diversa rispetto a quella reale. L’aspetto più interessante del recente, godibilissimo libretto [...]]]> di Paolo Lago

Daniele Comberiati, Eugenio Barzaghi, L’uomo dall’altro mondo. Fantascienza di un’Italia [im]possibile, Machina Libro / DeriveApprodi, Bologna, 2025, pp. 96, euro 12,00.

Immaginiamo un’Italia appartenente ad una dimensione alternativa, in cui negli anni Sessanta avviene un colpo di Stato militare; d’altra parte, se guardiamo alla storia di quegli anni (con il Piano Solo del 1964 e il tentativo del golpe Borghese del 1970), era ciò che sarebbe anche potuto succedere. Siamo quindi proiettati in una vera e propria ucronia, una immaginifica e possibile direzione degli eventi storici diversa rispetto a quella reale. L’aspetto più interessante del recente, godibilissimo libretto di Daniele Comberiati ed Eugenio Barzaghi, uscito per Machina Libro / DeriveApprodi, è quello di presentarci quasi un’ucronia dentro un’altra ucronia: gli autori allestiscono infatti un vero e proprio saggio documentaristico sul cinema di fantascienza italiano prodotto sotto il regime militare fra anni Sessanta e Settanta. Si tratta di un cinema possibile, come d’altronde la stessa Italia raccontata, in cui il prefisso “in” è posto fra parentesi quadre.

Cerchiamo quindi di capire cosa è avvenuto, secondo i due autori, in quest’Italia «[im]possibile»: il 6 gennaio 1965 ha buon esito un colpo di stato militare guidato da Giovanni Paoloni, consulente del Ministero dell’Interno, coadiuvato dai servizi segreti. La sera stessa gli Stati Uniti appoggiano e riconoscono il governo formato da Paoloni, il quale diventa presidente della Repubblica acquisendo un potere esecutivo inedito. Non si tratta di un nuovo ventennio mussoliniano – come avvertono anche gli autori – ma di un potere autoritario gestito in modo più sottile, come è avvenuto nelle dittature dell’Europa meridionale di quegli anni (Spagna, Portogallo, Grecia). Il libro, nelle pagine iniziali, offre una cronologia degli accadimenti di natura politica e sociale avvenuti sotto la giunta Paoloni in cui si mescolano eventi reali e inventati: ad esempio, il disastro di Seveso nel 1976 al quale si aggiungono però altre tre fabbriche che rilasciano diossina, un nuovo Piano Marshall approntato dagli Stati Uniti per sostenere l’Italia, l’esondazione dell’Arno nel 1966, il ritiro di Moro dalla scena politica e il Partito comunista dichiarato come illegale (i cui membri sono costretti a andare in esilio in Francia), un terrorismo anti-regime che proviene soprattutto dal Meridione, la completa assenza nel Paese di qualsiasi manifestazione legata al ’68, un Grande Piano Energetico Nazionale che promuove e incentiva l’energia nucleare. Vengono anche nominati dei personaggi reali legati alla cultura e allo spettacolo come, ad esempio, Luigi Tenco (nell’Italia ucronica il suo suicidio diventa un omicidio imputato a dei terroristi anarco-comunisti), Umberto Eco, Emilio de Rossignoli, Pier Vittorio Tondelli, Lucio Villari mentre manca del tutto la presenza di un intellettuale significativo di quel periodo come Pasolini: forse, chissà, eliminato e fatto sparire dalla stessa giunta Paoloni prima che nel mondo reale del 1975 venisse massacrato e ucciso e ai giorni nostri trasformato in un’icona-giocattolo utilizzabile anche dai post-fascisti.

Quest’Italia «[im]possibile» è però anche “possibile” e vengono in mente diverse sottili connessioni con la realtà di oggi e con ciò che è stato il Paese a partire dal Dopoguerra. Come affermano i due autori in una interessante intervista dal titolo Come si immagina «L’uomo dall’altro mondo»? uscita lo scorso 16 ottobre su «Machina» (qui), il nome inventato «Paoloni», con la terminazione in “-oni”, possiede una singolare assonanza con un rilevante personaggio politico della contemporaneità. Gli autori ricordano poi come l’idea del libro sia nata da una visita, una domenica pomeriggio del dicembre 2019, all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate, nel quartiere di Tor Marancia a Roma, un edificio enorme costruito negli anni Sessanta intriso di un’atmosfera un po’ inquietante, coi muri umidi e con l’acqua che cadeva da un punto del soffitto. Come afferma Comberiati, «il giorno dopo ci sarebbero state centinaia di impiegati a lavorare, eppure sembrava un luogo post-apocalittico, che della burocrazia moderna – una modernità già vecchia, rimasta davvero agli anni Sessanta – portava solo i segni della scomparsa». Questo luogo (definito da Barzaghi come uno dei «luoghi in bilico che raccontano il passato ma respirano il presente e lasciano vedere il futuro») visitato dagli autori assume un valore emblematico divenendo quasi il simbolo di un oscuro e sottile potere che ha continuato a sussistere attraverso il tempo, forse dalle derive più autoritarie e violente del fascismo. Quella «modernità già vecchia» ci può far pensare a certi uffici del potere del futuro messi in scena da David Cronenberg in Crimes of the Future (2022): si tratta degli spazi di un futuro decadente e già vecchio, intriso di un’opprimente burocrazia, che sembra appartenere a un orrendo e greve passato. In Italia, più che in altre nazioni – a Roma soprattutto ma non solo – è possibile incontrare queste squallide vestigia appartenenti al passato: non soltanto architetture dell’era fascista ma anche edifici risalenti alle ricostruzioni degli anni Cinquanta e Sessanta realizzate da un potere democratico che – pure se non avviatosi verso una deriva dittatoriale come immaginato nel libro – nelle sue buie viscere è rimasto legato a doppio filo a un fascismo sovversivo; quel potere legato alle “stragi di Stato”, a relazioni occulte e segrete, agli insabbiamenti, a omicidi e sparizioni ancora irrisolti. Questi edifici mostruosi e grevi, che paiono abbandonati e in rovina ma che pure vengono utilizzati ancora oggi dagli apparati di potere, sono un po’ l’immagine dello stesso potere oscuro e patriarcale, familistico e paternalistico, destrorso e razzista, che vige più o meno occultamente nell’Italia di oggi. Non si parla naturalmente di un potere centrale che proviene dall’alto, ma di una «microfisica del potere» in senso foucaultiano, presente in modo sottile nelle più svariate dinamiche sociali.

Un’altra somiglianza fra l’Italia ucronica inscenata da Barzaghi e Comberiati e quella reale riguarda la caratterizzazione sociale degli anni Ottanta. Come nota Comberiati nella citata intervista, «nel nostro caso, vediamo come l’Italia di oggi sia molto più una conseguenza degli anni Ottanta che degli anni Settanta, al punto che, se quel decennio fosse stato diverso, forse il nostro presente non sarebbe così dissimile da quello che è. Si tratta ovviamente di una provocazione, ma con un fondo di verità, se ci pensiamo bene». Infatti, poco prima lo stesso Comberiati ricorda come «nei tempi distopici che stiamo vivendo la fantascienza sia una sorta di nuovo realismo. Il genere popolare che, proprio come il neorealismo degli anni Cinquanta, sottolinea le contraddizioni della realtà. Ecco, se la fantascienza è il nuovo realismo, l’ucronia è un liquido di contrasto che ci fa vedere non un altro passato, ma un altro presente. O almeno il presente da una prospettiva diversa». Gli anni Ottanta sorti dopo la caduta della giunta Paoloni, nel 1979, rappresentano per l’Italia, come afferma un Umberto Eco ‘ucronico’ in un articolo uscito nel 1989, una vera e propria «ubriacatura democratica». Nella realtà sappiamo bene cosa sono stati quegli anni, dominati dal disimpegno e dal rampantismo sociale.

Veniamo quindi al cuore pulsante del libro, e cioè alla fantascienza, definita come «nuovo realismo» all’interno della ‘distopia’ reale che ci troviamo a vivere. L’uomo dall’altro mondo offre le schede dettagliate di 23 film di fantascienza, con tanto di foto di scena, locandine e bibliografia critica, girati in Italia nel periodo della giunta Paoloni. Se la maggior parte sono opere, se così si può dire, di propaganda del regime, che mirano alla sua esaltazione, alcune rappresentano una contestazione più o meno velata allo stesso. Qual è il background reale di questi film inventati? Ci risponde Eugenio Barzaghi, sempre nell’intervista uscita su «Machina»: l’Elio Petri di La decima vittima, Mario Bava, Antonio Margheriti, Luciano Salce, Ugo Gregoretti con Omicron, Ubaldo Ragona con L’ultimo uomo della Terra e diversi altri. I nomi inventati di registi e attori fanno tanto – se così si può dire – anni Sessanta e primi Settanta: suonano come reali possedendo quasi l’anima di tutto quell’universo cinematografico di matrice ‘popolare’, fatto di attori di sceneggiati e di stuntmen (“cascatori”, come si diceva all’italiana), di campioni sportivi convertitosi al cinema (ad esempio Carlo Pedersoli-Bud Spencer), di registi-attori più che, come diversi anni dopo, attori-registi. Ricordiamone alcuni, che spesso tornano di film in film: Dino Cipressi, Italo Quassi, Arrigo Speri, Giacomo Infanti, Giuseppe Fagiani, Attilio Biseglie, Aldo Moiso, Giacomo Alberti.

Fra i film inventati e analizzati dagli autori incontriamo, all’inizio della disamina, La fabbrica, del 1965, con la regia di Carlo Sacci, «probabilmente il primo film di fantascienza contro il regime, anche se giunse nelle sale il 3 gennaio, tre giorni prima dell’arrivo al potere della giunta militare» (p. 30). La storia si ambienta «in un ipotetico 1999, anno in cui l’Italia non esiste più, inglobata in un’alleanza transatlantica che fa pensare alla Nato e che è riuscita a conquistare anche il blocco sovietico. Il mondo è un’immensa megalopoli gestita dai padroni della Fabbrica, l’impresa dell’alleanza transatlantica che organizza il lavoro globale» (p. 30). Un altro film contro il regime è Dopo la bomba, sempre del 1965, di Francesco Billotti, che mette in scena una Roma devastata dall’esplosione atomica; il lungometraggio, progettato nel 1964, ebbe degli intoppi produttivi perché la Rai, che avrebbe dovuto co-produrlo, si tirò indietro all’ultimo momento su pressione del ministro della ricerca scientifica che vi intravedeva una critica al Grande Piano Energetico Nazionale, varato solo nel 1970 ma presentato fin dall’insediamento della giunta Paoloni nel 1965. Il film si ricorda anche perché lo scrittore Emilio de Rossignoli ne rimase colpito e ne trasse ispirazione per il suo romanzo H come Milano (1966), che inizialmente ha circolato solo in traduzione francese perché vietato in Italia. Un esempio di cinema di fantascienza clandestino è Passaggio vietato (1970), di Aristide Tirotti, un regista dal passato letterario, in quanto aveva svolto l’attività di traduttore di autori come Aldous Huxley e George Orwell. Nel film si immagina una società del futuro iperproduttiva divisa in due classi sociali, i Liur, manager ricchi e potenti, e gli Opres, proletari schiavizzati dai ricchi. Il film, oggi, costituisce una testimonianza del clima di angoscia che si respirava in Italia all’inizio degli anni Ottanta. Ricordiamo anche La morte dolce (1976), realizzato dai Collettivi autonomi proletari, considerati dalla giunta Paoloni un’organizzazione terroristica (gli attori, infatti, per non essere riconosciuti hanno tutti il volto oscurato o coperto). Il film intende denunciare il disastro di Seveso del 1976 e l’esplosione nello stesso anno di altre tre fabbriche (fra cui una fabbrica di gazzosa al caffè) che rilasciarono ingenti quantità di diossina: è la storia di una coppia di operai in una fabbrica di gazzose che vengono avvolti da una nuvola di fumo grigio e intossicati. L’ultima scena mostra in modo raccapricciante la giovane operaia che partorisce un neonato mostruoso in un ospedale dietro l’immagine pubblicitaria della bibita. Fra i film ostili al regime si può infine ricordare quello che offre il titolo – con una leggera modifica – al volumetto di Comberiati e Barzaghi, cioè L’uomo dell’altro mondo, del 1977, con la regia di Aldo Moiso. Si tratta di una produzione ufficiale della Rai, finanziata con soldi pubblici del Ministero della Propaganda, eppure venne recepito come un film ostile alla giunta militare. La storia si incentra sull’arrivo, in un’azienda statale, di un nuovo impiegato che giunge da una dimensione parallela, un «altro mondo» appunto. Il messaggio implicito nel film (la cui ucronia riflette en abyme quella che avvolge l’intero libro), probabilmente voluto dagli stessi autori, è allora che esiste un «altro mondo» rispetto all’Italia irreggimentata dalla giunta Paoloni.

Fra i film ufficiali e inneggianti al governo troviamo invece La camminata sbilenca del granchio (1968), di Giacomo Infante, appartenente al sottogenere dei mostri mutanti, «piuttosto utilizzato nella fantascienza ufficiale durante la giunta Paoloni» (p. 38). Uno scienziato crea un granchio gigante per debellare un virus che si trasmette attraverso le acque salate ma un gruppo di terroristi, venuto a conoscenza della scoperta, uccide il dottore e cattura la sua assistente. Il granchio, che aveva un debole per quest’ultima, li elimina e riesce a debellare il virus. Probabilmente, nella figura del granchio vi è una metafora delle azioni della polizia nel 1968 a Catanzaro, quando una rivolta di studenti venne repressa nel sangue grazie a una manovra militare detta appunto “del granchio”. Interessante è anche Alieni ad Asmara (1974), di Adriano Grimi (il libro è corredato anche di una foto del regista con la divisa da ufficiale coloniale del nonno) un film di propaganda mirante a perseguire la legittimazione dell’avventura coloniale italiana portata avanti dalla giunta Paoloni. Ad Asmara, nonostante gli italiani abbiano riportato l’armonia fra la popolazione, ci sono ancora alcuni eritrei ostili. Arriva quindi una nave spaziale aliena con intenti bellicosi: sarà solo grazie agli italiani e agli eritrei fedeli che gli extraterrestri verranno sconfitti e sarà riportata la pace. Film di regime è anche Le proprietà dello stralisco (1976): racconta la ribellione di un giovane a un proprietario terriero generoso e di buon cuore; il giovane, grazie a una pozione realizzata con foglie di stralisco, una pianta che cresce in quelle zone, acquista una forza sovrumana e aggredisce il proprietario terriero il quale però riuscirà a impadronirsi della pozione e a ristabilire l’ordine. Si tratta di una storia caratterizzata da un’originale ambientazione bucolica che possiede un riferimento all’uccisione di due proprietari terrieri avvenuta nel 1975 a Matera, in piena crisi economica, attribuita a cinque militanti dei Collettivi autonomi proletari arrestati alla frontiera con la Svizzera. In un momento di crisi del regime, vicino al suo tracollo, si colloca Domani, l’apocalisse (1978), ultimo film di finzione prodotto in Italia sotto la giunta militare. Il protagonista è Franco Aldi, ex campione di catch (lo vediamo anche in una foto di scena, con baffi posticci e collanona) passato al cinema: il suo personaggio è ispirato allo Zed interpretato da Sean Connery nel film Zardoz (1975) e si muove in una Roma deserta attraversata di notte da terribili creature che rappresentano i nemici del regime. Le violenze inscenate sono una metafora dei pericoli che correva l’Italia ad abbandonare la sicurezza del governo Paoloni. Ma il film appare alla «vigilia delle elezioni che sancirono il declino politico di Paoloni, che però non venne mai arrestato né inabilitato politicamente» (p. 85).

Dopo aver qui preso in considerazione alcuni dei film presentati, possiamo quindi pensare che uno dei temi principali di L’uomo dall’altro mondo sia proprio la stretta connessione fra la dimensione socio-politica e la produzione artistica legata al genere della fantascienza. Nella realtà come nell’ucronia immaginata dai due autori, la fantascienza rappresenta una significativa cartina di tornasole delle dinamiche sociali, economiche e politiche; abbiamo visto come sia nei film ostili al regime sia in quelli ad esso compiacenti si riflettano costantemente gli avvenimenti legati a queste dinamiche: scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, arresti, attentati, crisi economica, sociale e politica, momenti di debolezza o di forza del potere. Come leggiamo nell’introduzione a un saggio sulla narrativa di fantascienza italiana contemporanea dal significativo titolo di Ideologia e rappresentazione, realizzato da Comberiati assieme a Simone Brioni, la produzione di genere ha sempre affrontato «importanti temi nella cultura italiana contemporanea quali, fra gli altri, il colonialismo e la sua eredità, la robotica, il sessismo, l’ecocritica, le leggi sui manicomi, il terrorismo, il ‘ventennio’ berlusconiano, il complesso rapporto fra l’Italia e l’Europa, e la fine dell’antropocene»1. I due studiosi affermano poi che l’intrattenimento che deriva dalla fruizione di queste opere potrà servire «come l’ispirazione per la creazione di un sistema di norme e regole alternativo a quello esistente»2. Come ha scritto Valerio Evangelisti, «l’immaginario è dunque tra i terreni salienti di battaglia, per chi voglia sottrarsi alla dittatura più insinuante, senza scrupoli e invasiva che la storia ricordi»3 cioè quella del capitale. Un importante terreno di battaglia che anche oggi, più che mai, dovrebbe essere tenuto vivo e acceso perché il pericolo dell’arrivo di nuove giunte Paoloni mascherate da alfieri della democrazia è sempre in agguato.


  1. S. Brioni, D. Comberiati, Ideologia e rappresentazione. Percorsi attraverso la fantascienza italiana, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 12. 

  2. ivi, p. 15. 

  3. V. Evangelisti, Prefazione. La lotta per le “altre” otto ore, in AA.VV., Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis, Milano-Udine, 2018, p. 8. 

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La “malinconia senza rimedio” di Valerio Zurlini https://www.carmillaonline.com/2024/05/06/la-malinconia-senza-rimedio-di-valerio-zurlini/ Mon, 06 May 2024 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82459 di Paolo Lago

Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio. Vita e cinema di Valerio Zurlini, prefazione di Marco Bertozzi, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 193, euro 18,00.

“Non ti ho cercata per passare una serata divertente, queste cose non mi interessano affatto. Ma lo sconforto che hai dentro… la tua malinconia senza rimedio, non riesco a sopportarla”: sono le parole che, ne La prima notte di quiete (1972) di Valerio Zurlini, Daniele Dominici (Alain Delon), il professore di lettere maudit arrivato a Rimini per una supplenza al liceo a bordo di una vecchia Citroën nera anni Cinquanta (come se fosse un epigono decaduto [...]]]> di Paolo Lago

Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio. Vita e cinema di Valerio Zurlini, prefazione di Marco Bertozzi, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 193, euro 18,00.

“Non ti ho cercata per passare una serata divertente, queste cose non mi interessano affatto. Ma lo sconforto che hai dentro… la tua malinconia senza rimedio, non riesco a sopportarla”: sono le parole che, ne La prima notte di quiete (1972) di Valerio Zurlini, Daniele Dominici (Alain Delon), il professore di lettere maudit arrivato a Rimini per una supplenza al liceo a bordo di una vecchia Citroën nera anni Cinquanta (come se fosse un epigono decaduto degli eroi dei noir francesi), rivolge alla sua allieva Vanina (Sonia Petrova). Una “malinconia senza rimedio” è anche quella che, al pari della ragazza, prova il professore, è quella che promana da ogni singola inquadratura del film, ambientato in una livida Rimini invernale, fatta di gelide albe e tramonti, di giorni di pioggia che rintoccano nella quotidiana tristezza della provincia, di notti passate a bere e a giocare a carte, di mare in tempesta e di vento incessante, di strade alberate piene di foglie cadute. E, grazie al recente saggio di Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio, che proprio dalla battuta di Delon trae il titolo, adesso sappiamo che è anche quella di Valerio Zurlini, regista del film. Un grande autore per lungo tempo ingiustamente dimenticato, ‘riabilitato’ e riscoperto, se così si può dire, soltanto molti anni dopo la sua prematura scomparsa avvenuta nel 1982. Grazie al lavoro della studiosa, riusciamo infatti a scoprire molti lati della vita e dell’attività artistica di Zurlini poco noti al grande pubblico, non da ultime le delusioni e le malinconie derivate dall’impossibilità di realizzare diversi progetti, dal vedere sfumare all’improvviso dei film che erano sul punto di essere realizzati e che avrebbero potuto facilmente essere dei capolavori. Quando l’arte si inzacchera nel fango dell’economia, dei tornaconti delle produzioni e dell’universo aziendalistico della macchina-cinema (spietato oggi come negli anni Cinquanta, Sessanta o Settanta), le stesse realizzazioni artistiche spesso si bloccano perché sono lontane dai compromessi e dai favoritismi. Zurlini è stato un cineasta libero come pochi: come sostiene anche Fioroni, se un progetto, frutto o meno di un compromesso, non gli andava a genio, era impossibile farglielo realizzare.

Eppure, insieme a molti progetti non realizzati a causa di forza maggiore, il regista bolognese ci ha lasciato diversi capolavori. È il caso, ad esempio, della cosiddetta “trilogia della Romagna” o “trilogia adriatica”, composta da tre film girati sulla riviera romagnola – Estate violenta (1959), La ragazza con la valigia (1961) e, appunto, La prima notte di quiete (1972) – alla quale Fioroni dedica largo spazio. L’ambientazione adriatica, secondo la studiosa, “più che un elemento decorativo facilmente identificabile, è un paesaggio dell’anima, una metafora della condizione umana”. Infatti, “Zurlini è il cineasta dei paesaggi come stati d’animo, ossia in tutti i suoi film l’ambientazione è sempre lo specchio della realtà interiore dei personaggi”. Sembra che la riviera adriatica, più che quella tirrenica, trasudi di malinconia: siamo lontani, in effetti, dall’atmosfera scanzonata della Castiglioncello de Il sorpasso (1962) di Dino Risi. Si tratta di un paesaggio forse più ‘nordico’ e glaciale rispetto all’altro versante, che ha molto da dire anche nei momenti di fine estate o, addirittura, invernali, dalle toccanti descrizioni della spiaggia in settembre, quando il mare comincia a ingrossarsi e a cambiare colore, che incontriamo ne Gli occhiali d’oro di Giorgio Bassani (1958) fino alle malinconiche tonalità con le quali Pier Vittorio Tondelli lo descrive nell’articolo Fuori stagione (1985), appartenente alla raccolta Rimini come Hollywood e dedicato alla riviera in inverno, quando emerge la “vita segreta delle cose e degli oggetti”. Né bisogna dimenticare che lo stesso Zurlini, come leggiamo nel saggio, d’inverno amava ritirarsi in un albergo di Riccione a lavorare e a scrivere in solitario, assaporando di quel mondo i suoi aspetti più malinconici.

In tutti i film della trilogia (l’unico ambientato in estate è, ça va sans dire, Estate violenta) si narrano amori impossibili portati avanti da personaggi maschili che ridisegnano una nuova concezione di eroe: “un uomo trasognato, sensibile, vicino all’universo femminile con cui vuole entrare in contatto profondo, e ineluttabilmente destinato al fallimento”. La malinconia appare perciò come “un rifiuto consapevole del machismo e di una virilità grossolana, che sfocia in una rappresentazione queer cioè non normativa né tantomeno canonica della mascolinità”. Carlo Caremoli (Jean-Louis Trintignant), in Estate violenta, si innamora di Roberta (Eleonora Rossi Drago), ma sarà un amore impossibile a causa dei disastri della guerra e delle convenzioni sociali come impossibili saranno anche quelli che vedono coinvolti Lorenzo (Jacques Perrin) e Aida (Claudia Cardinale) ne La ragazza con la valigia e i già ricordati Daniele e Vanina ne La prima notte di quiete.

Nel libro di Federica Fioroni incontriamo però un’accurata analisi anche degli altri film di Zurlini, vale a dire Le ragazze di San Frediano (1955), Cronaca familiare (1962), entrambi tratti da romanzi di Vasco Pratolini, Le soldatesse (1965), Seduto alla sua destra (1968), Il deserto dei Tartari (1976), dal romanzo di Dino Buzzati. Sono film, tra l’altro, come Cronaca familiare in special modo, intrisi di fitti rimandi all’arte pittorica: di essa, Zurlini era un esperto ed un appassionato e allora, nel lungometraggio tratto da Pratolini, la fotografia si arricchisce di rimandi all’opera di Ottone Rosai come La prima notte di quiete ci offre un “momento di sospensione diegetica” (allo stesso modo di Nostalghia di Tarkovskij) dedicato alle inquadrature della “Madonna del Parto” di Piero della Francesca. Anche ne Il deserto dei Tartari la macchina da presa indugia spesso sui quadri appesi alle pareti instaurando altri momenti di pittura diegetica. Quest’ultima è presente altresì in Estate violenta, nel momento in cui Carlo e Roberta, nella casa del primo, ballano volteggiando vicino a un quadro di Carlo Carrà, Atleti in riposo (1935) e ad “un affresco che rappresenta la famiglia alla maniera di Picasso”.

È necessario ricordare che, oltre che da una bella prefazione di Marco Bertozzi, il libro è corredato da una interessante intervista a Francesco Zurlini, figlio di Valerio, il quale ci rivela – insieme ad altri episodi e aneddoti della vita del padre – che il cappotto cammello indossato da Delon ne La prima notte di quiete era del regista ed è stato successivamente indossato a lungo anche dal figlio Francesco. Come già accennato, il saggio, oltre che un rigoroso percorso di analisi attraverso l’opera del regista bolognese, è anche un prezioso e discreto avvicinamento al travaglio esistenziale dell’autore e, al pari dei film realizzati, vengono passati sotto setaccio anche i diversi ‘sogni infranti’ di Zurlini, cioè i progetti non realizzati. Se ne possono ricordare alcuni: un film su Arthur Rimbaud; un’opera dal titolo La zattera della Medusa, in cui il rimando al celebre dipinto di Géricault doveva tratteggiare metaforicamente l’esistenza di un gruppo di intellettuali americani che aveva ritrovato a Roma una “zattera di salvezza”; un altro film dal titolo Verso Damasco, incentrato su un’inchiesta sulla morte di Cristo realizzata da Saulo di Tarso (poi San Paolo), un progetto che sarà ripreso da Damiano Damiani nel 1986 con L’inchiesta.

Scopriamo perciò come i film di Zurlini rappresentino tante tappe autobiografiche del suo personale tormento, “un oscuro fardello che lo accompagna fin dalla sua nascita, una macchia di nera malinconia che si allarga sempre di più fino a inghiottire lo splendore di una vita destinata al successo, processo di cui lui stesso è lucidamente consapevole”. Ecco perché quella “malinconia senza rimedio” da cui siamo partiti – e da cui il saggio di Fioroni trae il titolo – non è soltanto quella di Vanina, o di Daniele, o degli altri personaggi zurliniani. Essa appare radicata nel profondo del suo cinema, nelle scelte artistiche ed estetiche, e trova il suo corrispettivo più riuscito nel paesaggio di Rimini e della riviera adriatica in inverno. Come Vanina, i personaggi zurliniani (e probabilmente lo stesso autore), immersi nella solitudine degli inverni sul mare, per esprimere la loro malinconia potrebbero usare anacronisticamente le parole de Il mare d’inverno, la canzone di Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone portata al successo da Loredana Bertè nel 1983, un anno dopo la morte di Zurlini: “Mare mare / qui non viene mai nessuno a trascinarmi via / Mare, mare / qui non viene mai nessuno a farci compagnia”.

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Il sommo revival, di Gabriele Galligani https://www.carmillaonline.com/2023/12/17/il-sommo-revival-di-gabriele-galligani/ Sun, 17 Dec 2023 21:05:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80228 Transeuropa, Massa 2023, pagg.95 € 15

(In questa epoca in cui il politicamente corretto, la cosiddetta cancel culture, un certo timore nell’osare, una ritrosia nella sfida, una museizzazione mediatica della lotta di classe, sembrano avvolgere di un velo opaco una società malata, violenta e ingiusta, una riscoperta di Tondelli può essere addirittura terapeutica. Il suo breve passaggio ha segnato un’epoca. Il suo lavoro letterario ed editoriale, sempre segnato da una puntigliosa ricerca critica e stilistica hanno resa immortale una certa scrittura selvaggia anni Settanta, indifferente alle mode e sprezzante di ogni condizionamento. Questo libro può essere molto utile sia per chi [...]]]> Transeuropa, Massa 2023, pagg.95 € 15

(In questa epoca in cui il politicamente corretto, la cosiddetta cancel culture, un certo timore nell’osare, una ritrosia nella sfida, una museizzazione mediatica della lotta di classe, sembrano avvolgere di un velo opaco una società malata, violenta e ingiusta, una riscoperta di Tondelli può essere addirittura terapeutica. Il suo breve passaggio ha segnato un’epoca. Il suo lavoro letterario ed editoriale, sempre segnato da una puntigliosa ricerca critica e stilistica hanno resa immortale una certa scrittura selvaggia anni Settanta, indifferente alle mode e sprezzante di ogni condizionamento. Questo libro può essere molto utile sia per chi conosce l’autore, e ne ha letto l’opera, sia per chi, nella jungla di un mercato bulimico, ne ha solo sentito parlare. Di seguito pubblichiamo l’introduzione dell’autore, che funziona egregiamente come piano dell’opera. Per motivi editoriali il testo compare senza le note a piè di pagina. MB)

QUATTRO ROMANZI, UNA FORMAZIONE

“Altri libertini”, “Pao Pao”, “Rimini” e “Camere separate”: questo studio sui romanzi di Tondelli concede uno spazio rilevante alla dimensione personale, per molti motivi.

Il primo è che i quattro romanzi sopracitati, ciascuno con modalità diverse, dialogano di frequente con la biografia dell’autore, in quanto presentano personaggi che ne sono alter ego evidenti. In secondo luogo perché sono stati scritti in un momento storico, tra la fine dei settanta e l’inizio dei novanta, in cui le dimensioni di personale e politico sono legate tra loro forse ancor più che di norma, come nello slogan “il personale è politico” coniato proprio in quegli anni. Infine, per via del curioso intreccio tra i romanzi in questione e alcuni elementi biografici del sottoscritto.

Il mio primo incontro con Tondelli è stato con la lettura del suo romanzo d’esordio “Altri libertini”. Poco più che diciottenne, senza saperlo viaggiavo in treno verso la città dove l’autore del libro che sfogliavo aveva studiato una trentina d’anni prima, a quello stesso DAMS (Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo) in cui andavo a iscrivermi. Il mio ricordo dello shock profondo, suscitato dalle vicende di emarginazione ed eccessi che prendevano vita nel libro, è ancora vivo e mi ha portato a queste pagine. Ciò che più mi aveva colpito delle molte scene in cui degrado e pulsioni erotiche si intrecciavano come non potessero esistere l’una senza l’altra, era l’immediatezza con cui venivano narrate, quasi rappresentassero fatti del tutto ordinari.

Dopo più di un decennio, stringo tra le mani il suo ultimo romanzo, quello più dolente ed intimo, sempre durante un viaggio: un volo da Berlino, città che lasciavo dopo avervi vissuto gran parte degli ultimi anni, e nella quale si svolgeva una parte importante del romanzo che tenevo tra le mani.

Alla fine della lettura, un secondo fattore era sopraggiunto ad accrescere la sensazione di scomodità dei sedili del volo low-cost: lo scarto ingombrante che separava le anime dei due romanzi, il primo e l’ultimo della breve vita dell’autore. Basta un rapido confronto tra le due conclusioni per farsene un’idea: dall’inno all’avventura di “Altri libertini” alla tristezza del protagonista di “Camere separate” che immagina i propri spostamenti da un ospedale all’altro, prima di morire.

Assumendo l’interpretazione proposta da Concolino, per cui i quattro romanzi di Tondelli potrebbero essere accorpati in un unico percorso di formazione, non ho potuto fare a meno di interrogarmi su cosa fosse accaduto nei dieci anni che separano l’esordio dall’ultimo romanzo e che corrispondono, né più né meno, al decennio degli anni ottanta (in cui sono nato).

Due romanzi intermedi, una pièce teatrale, alcuni racconti e moltissimi articoli di costume, fino alla malattia mortale, hanno accompagnato il passaggio dalla protesta e dall’impegno della fine dei settanta all’ingresso nel riflusso, «tragedia dal punto di vista del rampantismo, della superficialità, del becero presenzialismo, di una certa stupidità» . “Weekend postmoderno” è l’etichetta, tanto intrigante quanto ambigua, che Tondelli ha coniato per questi dieci anni.

L’ampiezza dell’argomento mi ha suggerito di individuare un punto d’accesso da cui circoscrivere il campo di ricerca. In questo caso, continuando ad affidarsi alla dimensione personale (ma, si vedrà, anche politica), si è scelta la comunanza dei percorsi di studio tra Tondelli e il sottoscritto, nella fattispecie l’elemento dello spettacolo che, oltre a vivere un periodo di esplosione proprio negli anni ottanta, riveste un ruolo, questa è la mia tesi, determinante nel grande Bildungsroman di Tondelli. Quasi ne costituisse un personaggio ricorrente, è sembrato importante ricostruirne l’aspetto nelle varie narrazioni di Tondelli, un aspetto che si avvicina all’archetipo ambiguo, mutevole e problematico dello shapeshifter .

Punto di partenza è la consapevolezza di Tondelli di appartenere alla prima generazione italiana cresciuta davanti alla televisione , dichiarazione da leggersi come rivendicazione della sua scelta, per certi versi gramsciana, di ricorrere a linguaggi ed elementi dell’intrattenimento per toccare un pubblico quanto più eterogeneo possibile .

L’intento di questa ricognizione è rintracciare gli elementi della cultura nazional-popolare nei romanzi di Tondelli nel tentativo di definire le modalità con cui vengono piegate dalla sua scrittura (o, al contrario, con cui la piegano) e individuarne l’evoluzione, non tanto a fine catalogatorio quanto per coglierne l’influsso rispetto alle problematiche principali dei suoi romanzi: emarginazione, abbandono e solitudine.

Questo approccio ambisce a fornire elementi utili a comprendere la malinconia esistenziale che caratterizza l’autore, definito «scrittore del magone» , quasi che il suo rapporto con lo spettacolo sin dall’opera d’esordio già prefigurasse gli esiti che caratterizzano l’ultimo, introspettivo viaggio di “Camere separate”.

L’ipotesi da cui prendo le mosse è la seguente: i romanzi di Tondelli – oltre che opere di impegno politico sfaccettato e di riflessione sul rapporto tra generazione, individuo e società – costituiscono una preziosa resa narrativa di importanti teorie critiche sulla società tardo-capitalistica, al punto da precorrere dinamiche concretizzatesi anche decenni dopo la sua morte, con l’evoluzione dei mezzi di comunicazione e dello spettacolo. Di rimando, molte di queste teorie critiche sembrano sorprendentemente efficaci nell’illuminare alcuni elementi impliciti dei romanzi di Tondelli, collegabili alla nostalgia e al magone dell’autore.

Nell’analisi che segue, le scene più significative (e scandalose) del grande Bildungsroman in quattro romanzi dialogheranno con scritti di teorici accomunati da una stessa volontà di analizzare, con discipline e strumentazioni diverse, la condizione di malessere derivante da una sorta di bug della nostra società: il situazionista Guy Debord – cui si deve l’espressione “società dello spettacolo”, il sociologo Jean Baudrillard, i filosofi Mark Fisher e Byung-Chul Han e molti altri.

Lo studio si costituisce di cinque capitoli, uno per ciascuno dei quattro romanzi di Tondelli, seguiti da una chiusura che interroga il “fuori campo” dei romanzi, la raccolta “Weekend postmoderno”, quaderno del viaggio spazio-temporale negli anni ottanta in cui lo spettacolo manifesta in maniera lampante il legame con altri esiti della società tardo-capitalista, quali la pornografia, il turismo, la diffusione dei nonluoghi ed il consumo. Rispetto a questi fenomeni, in corso di svolgimento all’epoca e oggi assodati, Tondelli è stato un osservatore e narratore particolarmente attento, quasi che lui stesso vivesse in sé stesso la metamorfosi che era in corso nel mondo.

Il primo capitolo prende le mosse dalla presunta oscenità del romanzo d’esordio, con lo scopo non di mitigarla (visto che quella stessa oscenità aveva colpito anche il sottoscritto) ma di valorizzarla e farla esplodere. A partire dalla contestata scena di masturbazione tra tossici nei bagni pubblici della stazione, si leggeranno i “libertini” sulla base di una loro insoddisfazione e bisogno esistenziali profondi, rispetto a cui lo spettacolo (nelle sue varie forme) interviene per bisbigliare una risposta.

Il secondo capitolo riflette sul paradosso insito nel romanzo altamente autobiografico “Pao Pao”, nel quale una sorprendente ricchezza di situazioni di vita e di affetti germoglia nel mondo solitamente restrittivo, anche rispetto allo spettacolo, della caserma militare.

Il terzo capitolo esplora il tripudio di kitsch e paillettes della Rimini hollywoodiana di Tondelli, dove il vissuto si confonde con lo spettacolare annebbiando la lucidità degli osservatori più acuti, in un romanzo poco riuscito nel quale i tanti personaggi sono appesantiti dalla sensazione di un’apocalisse greve come l’afa estiva.

Il quarto capitolo, dedicato all’ultimo romanzo, indaga in merito al sospetto di correità dello spettacolo nella situazione di abbandono e infelicità esistenziale in cui vive il protagonista appena trentenne, Leo, alter ego del coetaneo Tondelli e, come lui, scrittore.

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Che cosa sono le “Nuvole corsare”? https://www.carmillaonline.com/2022/02/10/che-cosa-sono-le-nuvole-corsare/ Thu, 10 Feb 2022 22:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70487 di Paolo Lago

[Nel 2020 è uscito, per i tipi di Caffèorchidea, Nuvole corsare, a cura di Francesco Borrasso e Giuseppe Girimonti Greco, una raccolta di racconti di quindici scrittori italiani ispirati alla figura e all’opera di Pier Paolo Pasolini. Il testo che segue – riproposto adesso a quasi due anni dall’uscita del libro e a quasi cento dalla nascita di Pasolini – è la mia postfazione. PL]

L’opera di Pasolini continua a suscitare grande interesse, generando studi che la affrontano e la analizzano da molteplici punti di vista e dando luogo alle [...]]]> di Paolo Lago

[Nel 2020 è uscito, per i tipi di Caffèorchidea, Nuvole corsare, a cura di Francesco Borrasso e Giuseppe Girimonti Greco, una raccolta di racconti di quindici scrittori italiani ispirati alla figura e all’opera di Pier Paolo Pasolini. Il testo che segue – riproposto adesso a quasi due anni dall’uscita del libro e a quasi cento dalla nascita di Pasolini – è la mia postfazione. PL]

L’opera di Pasolini continua a suscitare grande interesse, generando studi che la affrontano e la analizzano da molteplici punti di vista e dando luogo alle più disparate forme di ricezione e ricodificazione. È nata anche una rivista internazionale, «Studi pasoliniani», dedicata agli studi critici sulle varie espressioni artistiche di Pasolini, dalla poesia alla narrativa, dal cinema al teatro. Come ha sottolineato Tullio De Mauro, Pasolini è probabilmente «il primo artista di grande livello internazionale che possa definirsi multimediale nel mondo di oggi»1.

All’interno di questa “multimedialità” dell’opera di Pasolini è possibile incontrare, se così si può dire, una sorta di “narratività primaria”. Infatti, alla base delle singole opere è presente una fondamentale volontà di narrazione: dalle poesie, che spesso si srotolano in veri e propri racconti in versi, fino al cinema e al teatro. Ed è proprio nel solco di questa “narratività primaria” che si inserisce il progetto di Nuvole corsare, una rilettura appunto narrativa (e a tratti meta-narrativa) dell’intera opera e della figura stessa di Pasolini. Ma i racconti qui raccolti non rappresentano affatto l’ennesimo prodotto agiografico; non sono una fra le tante sorprese che si possono trovare nell’«ovetto Kinder» Pasolini2. In Nuvole corsare l’opera e il pensiero di Pasolini vengono trasfigurati in forma delicata e poetica e la sua stessa presenza fisica appare sfumata, inserita in arditi e coinvolgenti giochi metacronici.

L’aspetto dell’opera pasoliniana che è stato prevalentemente recepito dagli autori di questa raccolta è quello legato alla dimensione performativa della provocazione e dello scandalo, all’esposizione del corpo (suo e dei suoi personaggi), all’aspetto più “profetico” e “apocalittico” della sua opera. Quindi, oggetto privilegiato di ricezione è stato sicuramente l’ultimo Pasolini, con le sue disquisizioni sul potere, coi suoi interventi “corsari” sulla società e sulla politica italiana degli anni Settanta. Però non manca neppure, come già accennato, una dimensione più poetica e delicatamente figurale: quella legata alla rappresentazione di personaggi marginali, “dannati” e “perduti”, proprio come i borgatari sottoproletari dei primi romanzi e dei primi film di Pasolini. Nel titolo Nuvole corsare, del resto, sono presenti entrambi gli aspetti. Se le “nuvole” rimandano chiaramente al noto, struggente cortometraggio del 1967 – Che cosa sono le nuvole? –, un vero e proprio film-fiaba in cui appaiono in scena personaggi innocenti e sottoproletari, pur sotto forma di marionette, nel travestimento cinematografico (indimenticabili, tra gli altri, Totò-Jago e Ninetto Davoli-Otello), nell’aggettivo “corsare” è racchiusa la carica polemica e performativa dell’ultimo Pasolini, quello degli Scritti corsari, di Salò, del postumo Petrolio.

Ed è proprio all’universo sadiano di Salò che rimandano soprattutto due dei racconti che qui presentiamo: La farsa di Diego Bertelli e Possano essere maledetti i miei occhi di Gilda Policastro. Il primo mette in scena un rapporto tra vittima e carnefice che si sviluppa all’interno di un rapporto di coppia: lei impone a lui di eccitarsi guardando dei film porno e a un certo punto, tra i video che dovrebbero servire al compimento di questo rituale erotico, compare anche una scena di Salò. Attraverso questo espediente narrativo, l’autore inserisce nel suo testo, come inatteso pendant del video “scabroso”, dei frammenti che provengono da un’intervista che Pasolini rilascia a Philippe Bouvard il 31 ottobre del 1975, due giorni prima di essere ucciso all’Idroscalo di Ostia. Il racconto riflette su potere e violenza, temi-chiave in Salò (le cui violenze sono la metafora dell’abbrutimento in cui era precipitata la società dei consumi italiana negli anni Settanta), ma anche sul moralismo che pervade costitutivamente la società borghese e sull’irruzione dello “scandalo”, inteso come il raggiungimento e la consapevolezza del piacere personale in netta contrapposizione con l’idea moralistica del piacere. Il titolo del racconto di Policastro è una citazione testuale da Salò. Nel film, di fronte al pianto disperato di una delle vittime, il carnefice Blangis afferma: «Possano essere maledetti i miei occhi se questa lagna non è la cosa più eccitante che io abbia mai udito». I temi del racconto, scritto in piena pandemia, sono quelli della prigionia, della dittatura e della teatralizzazione delle relazioni di potere. Anche qui viene messo in scena un rapporto di coppia in un momento in cui i personaggi si ritrovano confinati in casa, con una sottile allusione a un preciso periodo (il lockdown della primavera del 2020). Questi due personaggi, non meglio identificati, si trovano a rivestire il ruolo di carceriere e di sottoposto, ruoli tuttavia “dinamici” e suscettibili di un repentino ribaltamento, rispetto al gioco dialettico degli equilibri e delle forze in campo (il ribaltamento dei ruoli è un tema tipicamente sadiano e pasoliniano). Il racconto di Policastro si configura, quindi, come un’altra possibile riflessione sul potere e sulla sua intrinseca violenza simbolica, nonché sulla sua sublime, irriducibile arbitrarietà (motivo, quest’ultimo, che genera un misto di attrazione e repulsione, sia a monte, ovvero in Pasolini, sia negli esiti delle riscritture, nei testi che a Pasolini si ispirano).

Al tema del potere e della violenza, declinato entro una dimensione distopica, rimanda anche il racconto di Elena Giorgiana Mirabelli, Il sarto. In un futuro dominato da un regime oppressivo, il personaggio del Sarto e Tetis (il cui nome è lo stesso di un personaggio demonico di Petrolio) sono coloro che devono infliggere terribili punizioni corporali a chi viola le regole. È ancora una volta l’ultimo Pasolini a essere chiamato in causa, perché, alla fine del racconto, il Sarto pronuncia una frase tratta dall’Abiura dalla “Trilogia della vita”, un testo del 1975, in cui viene formulata l’amara accettazione di un mondo ormai completamente degradato (in una corrispondenza fra l’Italia degli anni Settanta descritta da Pasolini e il distopico mondo futuro in cui è ambientata la vicenda). Tonalità distopiche sono presenti anche nel racconto di Piero Sorrentino, in cui, in un tempo non precisato, a rompere l’idillio campestre di una coppia di amanti irrompe la violenza della macchina da guerra dell’esercito. Non a caso il racconto si intitola Meccanica del freddo e reca in esergo una citazione pasoliniana riguardo alla freddezza con la quale la polizia uccide, a Reggio Emilia, il 7 luglio 1960, cinque operai nel corso di una manifestazione. Come un macchinario perfetto e micidiale, brutale e annientatore, l’esercito irrompe in un lembo di campagna per svolgere le proprie esercitazioni, turbando il silenzio e la pace che i due personaggi si illudevano di aver trovato (lontano dal mondo borghese), e facendo violenza alla natura.

Una riflessione sul potere, non in forma distopica bensì ucronica, è offerta anche da Alessandro Zaccuri nel suo Capo Marrargiu. Il racconto trae il titolo dalla località della Sardegna dove sarebbero dovuti essere imprigionati i cosiddetti “enucleandi” del “Piano Solo”, il golpe ordito dal generale De Lorenzo nel 1964. Nella sua ucronia, l’autore immagina che il Piano abbia avuto successo e che lo stesso Pasolini venga prelevato e condotto in prigionia (negli anni Novanta si venne a sapere che fra i nomi degli “enucleandi” figurava anche il suo). Alla narrazione ucronica Zaccuri unisce il trattato pasoliniano di psicopedagogia Gennariello. Si immagina infatti che il “Gennariello” del trattato sia un giovane carabiniere napoletano di nome Gennaro al quale è affidata la custodia di Pasolini. Quest’ultimo vi compare come personaggio principale del racconto, e al suo interno la riflessione sul potere sembra emergere dalle pagine che Pasolini scriverà in anni successivi al 1964, soprattutto negli interventi degli Scritti corsari sui poteri occulti della politica italiana e sulle stragi di Stato irrisolte e impunite.

Pasolini come personaggio lo si incontra anche nel racconto di Jacopo Narros, Atti relativi alla morte di PPP, nel quale alla morte del poeta viene data un’interpretazione letteraria. L’autore si rifà al Purgatorio dantesco (opera, tra l’altro, insieme a tutta la Commedia, assai importante come fonte di ispirazione per l’intera produzione letteraria di Pasolini, fino a Petrolio), che coincide con il litorale di Ostia, luogo in cui Pasolini è stato assassinato. Gli ultimi momenti della vita del poeta vengono quindi ambientati in questo luogo simbolico, letterariamente così connotato, mentre il titolo del racconto è ripreso da un saggio-inchiesta di Leonardo Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, in cui lo scrittore siciliano si interroga sui molti punti oscuri relativi alla morte, avvenuta nel 1933 a Palermo, dell’autore francese.

Ed è in forma trasfigurata, invece, che Pasolini compare nel racconto di Giorgio Biferali, Finché siamo vivi, nelle vesti di un fornaio di Trastevere. Ma la vera protagonista del racconto è Roma, una città vista attraverso il filtro deformante dello sguardo del protagonista, uno studente di Lettere che sta scrivendo una tesi di laurea su Pasolini. La Roma del racconto appare, quindi, distorta dalla lente “pasolinizzante” dello studente: un personaggio che stravolge, proprio per mezzo della letteratura (che coincide, in questo caso, con l’opera di Pasolini), la realtà che lo circonda, un po’ come l’Encolpio del Satyricon di Petronio, un personaggio “mitomane”, secondo Gian Biagio Conte, che filtra ogni aspetto della realtà attraverso il mito e letteratura “alta”3. Un’allusione a Pasolini personaggio (idolo, icona, maestro di vita, “santino”, ecc.) la ritroviamo anche nel racconto di Ilaria Gaspari in cui la protagonista, un’insegnante di scrittura creativa in una scuola serale per adulti, si imbatte in una sorta di alter ego del poeta e scrittore, «Enrico Pajata, detto Pasolini, meccanico di Ostiense». Il racconto di Gaspari, dopo un sapiente affresco dei personaggi che frequentano la scuola serale, diventa un percorso esplorativo, alla ricerca dei luoghi frequentati da Pasolini, fino alla scoperta finale – vero e proprio colpo di scena – dell’esistenza di un supposto sosia di Pasolini, ancora vivente ai giorni nostri. Sia nel racconto di Biferali che in quello di Gaspari, Pasolini si trasforma in un suo alter ego che, non a caso, è un personaggio appartenente a quell’universo borgataro e sottoproletario cantato e idealizzato dal poeta.

Lo sfondo della Roma sottoproletaria cara a Pasolini è presente anche in Apologia di Giorgia Tribuiani. Il protagonista di questo testo, Nino o Ninetto, rimanda a una figura importante dell’universo pasoliniano, Ninetto Davoli, amico e attore prediletto di Pasolini, chiamato a interpretare personaggi immancabilmente innocenti e indifesi, circonfusi di un’indescrivibile grazia e gaiezza infantile. Il Ninetto di Apologia è un senzatetto, innocente e angelico come il suo omonimo: su di lui grava lo stigma sociale, dovuto a una colpa di carattere sessuale (ha praticato autoerotismo in pubblico). Il tema centrale è il corpo e l’ossessiva ricerca del proprio corpo perduto e delle sensazioni ad esso legate, anche a costo di sconvolgere e turbare il comune senso del pudore e la cosiddetta morale pubblica (che non ha mai esitato a linciare Pasolini come uomo e come artista). Il racconto si dipana in una tenue forma poetica e musicale: è leggibile come l’equivalente di uno spezzone di “cinema di poesia”, e ricorda Il biondomoro, un racconto di Pasolini del 1950 (poi inserito in Alì dagli occhi azzurri), scritto in forma di lunga poesia narrativa.

Un’ambientazione in un universo proletario e sottoproletario contemporaneo, dominato però da una violenza quasi cieca, fa da sfondo al racconto di Fabio Rocchi, La catana. Il protagonista è un personaggio diseredato, squattrinato e trascurato dalla sua famiglia piccoloborghese. In un impeto di rabbia, questi progetta, fantasticando-delirando, una sorta di “vendetta sociale”, che dovrebbe realizzarsi attraverso l’oggetto che dà il titolo al racconto, una affilatissima catana, una spada giapponese con l’impugnatura a due mani. Per questo rituale di vendetta il personaggio sceglie una vittima sacrificale: Stivaletto, il gatto della nonna; la narrazione indugia su una possibile, atroce morte del piccolo animale innocente, che dovrebbe essere inferta, appunto, per mezzo della catana. Vengono in mente gli accenti “pulp” presenti nella descrizione del cadavere di un gatto nel racconto pasoliniano Studi sulla vita di Testaccio (incluso in Alì dagli occhi azzurri).

Un ambiente sottoproletario caratterizzato da cieca violenza è presente anche nel racconto di Simone Innocenti, in cui i personaggi progettano una rapina a mano armata, concepita, anche qui, come forma di “vendetta sociale” nei confronti di una classe di “privilegiati” (gli «statali», che vengono individuati come nemico “borghese”). Lo sfondo sottoproletario e malavitoso affrescato da Innocenti con piglio cronachistico può ricordare certe ambientazioni sociali dei film di Claudio Caligari oppure, su un versante opposto, quelle dei “poliziotteschi” degli anni Settanta. Una violenza generata dalla miseria e da una dura condizione di subalternità sociale, stavolta però nata all’interno della struttura della famiglia, viene tematizzata anche da Serena Penni nel suo racconto Estate. L’autrice sembra caricare di maggiore violenza – rispetto a una sua precedente prova narrativa (Il vuoto) – la raggelante, alienata tensione che, in alcuni contesti, regola i rapporti sociali all’interno della famiglia, a tal punto da trasformare quegli stessi rapporti in una sorta di danza macabra. La violenza sembra emergere in modo gratuito, all’interno dei ricordi che il protagonista – anch’egli un emarginato e un diseredato – sciorina tra gli ombrelloni di una crudele estate a Forte dei Marmi, in un resoconto a tinte fosche che ricorda certe atmosfere tondelliane, in particolare quelle di Rimini, in cui le spiagge adriatiche durante la stagione estiva della metà degli anni Ottanta assumono tonalità apocalittiche. Uno sfondo e una violenza sociale che appaiono lucidamente suggellati da un esergo pasoliniano: una riflessione dello scrittore sulla famiglia come microcosmo inevitabilmente oppressivo, come «nucleo di consumatori», e quindi perno di invidie sociali, triangolazioni e desideri mimetici.

In La struttura interna di Ivano Porpora la presenza di Pasolini emerge in modo inedito attraverso la mise en scène della lettura dei suoi libri. Il protagonista del racconto è un personaggio che si presenta come una scoperta proiezione autobiografica dell’autore; nelle notti trascorse negli stabilimenti e nei campi per la raccolta dei pomodori, nell’estate del 2009, fra immigrati extracomunitari, l’io narrante legge di nascosto, con crescente entusiasmo e partecipazione emotiva, gli Scritti corsari e Petrolio. La lettura di questi testi ha luogo clandestinamente, su uno sfondo sociale dominato dai nuovi sottoproletari – gli immigrati appunto – dei quali lo stesso Pasolini (sempre in Alì dagli occhi azzurri) aveva “profetizzato” l’arrivo.

Alla tematica dell’eros scoperto e vissuto insieme ai giovani sottoproletari, così presente (e pervasivo) nell’opera di Pasolini, si ricollega Soldati sulla luna di Ezio Sinigaglia. Siamo negli anni Sessanta: il protagonista, un giovane ufficiale di leva a Genova, si compra una Cinquecento usata per adescare e portare in giro le reclute. Nel titolo del racconto possiamo intravedere un riferimento al cortometraggio pasoliniano La Terra vista dalla Luna. La dimensione fiabesca, la grazia, la malinconica leggerezza che caratterizzano questo film del 1967 (e, in generale, buona parte della produzione di Pasolini di questo periodo) si ritrovano nel delicato racconto di Sinigaglia, nel quale la Cinquecento si trasforma in una sorta di razzo spaziale che serve a portare i soldati «sulla luna». Ed è proprio lo spazio lunare, vero e proprio spazio “altro”, connotato – da Luciano di Samosata fino al Voyage dans la lune di Georges Méliès – da una dimensione fantastica e fiabesca a trasformarsi, in modo poetico e surreale, in uno spazio dominato dall’eros, dove possono essere liberate le più recondite passioni, le energie sessuali che pulsano nei corpi dei più vitali tra gli enfants du peuple, i soldati di leva, che molto ricordano i “ragazzi di vita”, personaggi-feticcio, in tutta l’opera di Pasolini, soggetto collettivo e al tempo stesso “sistema di personaggi” che viene indagato a tutto tondo – dal poeta, dal narratore, dal regista –, ben al di là del dato meramente sociologico, dall’omonimo romanzo fino a Petrolio. La tessitura narrativa appare inoltre pervasa da una costante dimensione di gaiezza e innocenza: sia il protagonista che i ragazzi si abbandonano all’eros nel modo più naturale e vitale possibile; e sono i secondi, paradossalmente, a regalare al primo frammenti di esperienza e a rendere quindi possibile un percorso di formazione, un’educazione sentimentale anomala (dopo il viaggio lunare, infatti, non si va da nessun’altra parte: questo l’insegnamento del soldatino umbro nel finale del racconto).

Questa dimensione gaia e vitalistica (sia pur venata di malinconia) ha il suo pendant simmetrico nel racconto di Angelo Di Liberto, L’attesa, in cui la passione di un professore – che non a caso si chiama Paolo (nome con cui gli amici sottoproletari si rivolgevano a Pasolini) – nei confronti di un suo giovane allievo (un altro erede dei “ragazzi di vita” pasoliniani, connotato, stavolta, da tonalità gergali palermitane) si riveste di amari e lancinanti sensi di colpa. In maniera più esplicita che nel racconto di Policastro, inoltre, vi è un riferimento al lockdown della primavera del 2020. La figura del professore – che viene additata come capro espiatorio – si configura quasi come una versione aggiornata, come una straniante declinazione contemporanea del personaggio del professor Giubileo, che, in un racconto di Pasolini del 1950 – Giubileo (relitto d’un romanzo umoristico), poi raccolto in Alì dagli occhi azzurri – è costretto, a causa della sua passione per i ragazzi, a lasciare Roma, vista come città oscurantista, «ruffiana e pinzochera».

Nuvole corsare, insomma, grazie alla forma breve, non fa altro che ribadire la stringente attualità di Pasolini: è un omaggio ispirato alla volontà di ricostituire e rivitalizzare quella narratività primaria cui si è già accennato, così forte in Pasolini. E la forza, la grazia, l’irruenza, la bellezza della sua opera vengono rimesse in gioco anche nei meandri più cupi della nostra iper-contemporaneità: minacciose e irrisolte spirali di violenza e ingiustizia sociale, oscuri rigurgiti di fascismo, pervasività del potere, giochi illogici legati al cortocircuito fra potere e paura (come nei momenti più claustrofobici del lockdown), plaghe irrisolte di povertà che, nonostante tutto, riescono ancora a vivere con grazia e dignità. E di tutto ciò parlano queste “Nuvole corsare”, di bellezza e violenza, di dura realtà e fantasia, di tutta quella “straziante, meravigliosa bellezza del creato” che, con le sue mille contraddizioni, affascina e incanta Totò-Jago alla fine di Che cosa sono le nuvole?

 


  1. T. De Mauro, Pasolini critico dei linguaggi, in Id., L’Italia delle Italie, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 258. 

  2. L’espressione è di Pier Luigi Sassetti, (Post(f)azione … Per gli eredi … Per coloro che sapranno apprezzare l’eredità …, in L’eredità di Pier Paolo Pasolini, a cura di A. Guidi e P. Sassetti, Mimesis, Milano-Udine, 2008, p. 118. Sassetti, sulla scorta di Žižek, osserva che proprio questo sembra essere diventato Pasolini: un contenitore in cui ciascuno si aspetta di ritrovare la sorpresa che più gli aggrada. 

  3. Cfr. G.B. Conte, L’autore nascosto: un’interpretazione del Satyricon, Pisa, Edizioni della Normale, 2007 (prima ed. Bologna, Il mulino, 1997). 

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Mare bianco, di Stefano Mazzesi https://www.carmillaonline.com/2021/03/15/mare-bianco-di-stefano-mazzesi/ Mon, 15 Mar 2021 21:15:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65325 Clown Bianco Edizioni, Ravenna 2021, pp 306; 18,00 euro

di Nevio Galeati

«In una reale notte fonda dell’anima sono sempre le tre del mattino». Pier Vittorio Tondelli, Rimini (1985)

Il mare d’inverno è romantico e amaro, lo sanno tutti almeno dal 1984, dalle rime di Enrico Ruggeri, cantate da Loredana Bertè. Ci si aspetta, insomma, che insieme agli alberghi chiusi e ai «manifesti già sbiaditi di pubblicità», si moltiplichino i misteri. E i delitti. In realtà anche d’autunno, quando la bora non ha ancora iniziato a soffiare e i buratelli non hanno intrapreso [...]]]> Clown Bianco Edizioni, Ravenna 2021, pp 306; 18,00 euro

di Nevio Galeati

«In una reale notte fonda dell’anima sono sempre le tre del mattino». Pier Vittorio Tondelli, Rimini (1985)

Il mare d’inverno è romantico e amaro, lo sanno tutti almeno dal 1984, dalle rime di Enrico Ruggeri, cantate da Loredana Bertè. Ci si aspetta, insomma, che insieme agli alberghi chiusi e ai «manifesti già sbiaditi di pubblicità», si moltiplichino i misteri. E i delitti. In realtà anche d’autunno, quando la bora non ha ancora iniziato a soffiare e i buratelli non hanno intrapreso la lunga migrazione verso l’Atlantico, può nascondere intrighi e ferocia; complice la nebbia. È in questo clima che Michele Rio, «quello che parla alla radio», speaker di una fra le ultime emittenti sopravvissute ai network nazionali, deve muoversi per tener fede alla promessa che fa a Senza, una prostituta slava che teme per la sorte della sorella Lubiana, scomparsa da qualche giorno. La ragazza è bellissima e Rio resta coinvolto, in tutti sensi, precipitando in un vortice di delitti e crudeltà; e trova la conferma di come il divertimentificio della riviera romagnola abbia più volti neri di quanto aveva immaginato fino a quel momento. Dietro agli happy hour superalcolici dell’estate si muovono organizzazioni criminali internazionali e uomini legati da patti scellerati e criminali, uniti dall’immagine del Clown Bianco, il pagliaccio circense severo, dal sopracciglio inarcato e con il cappello a punta. Che in questo caso ha denti acuminati, da predatore.

Così, spostandosi dalla città – una Ravenna asettica e nascosta dalla foschia – a uno fra i luoghi più suggestivi della costa romagnola, la riserva naturale della Foce del Bevano, – la “Bassona” – per arrivare alla frazione rivierasca di Marina Romea, Michele Rio, versione italiana di Lew Archer, l’ironico detective hard boiled statunitense, inciampa in cadaveri su cui gli assassini si sono accaniti, facendone scempio; viene pestato, sedotto, minacciato di morte, ingannato. Si risolleva grazie a un amico giornalista, Lucio; a un capitano dei carabinieri anticonvenzionale; a un ex poliziotto che ha scelto un capanno abusivo (per altro pieno di libri) dell’oasi ambientale per fuggire dalla società e dai propri fantasmi, dedicandosi alla pesca.

Con un colpo di scena dopo l’altro, e come esige un buon noir, Mare bianco apre finestre sulla realtà di una terra, la Romagna, che lotta per arginare l’infiltrazione delle mafie, riuscendoci solo a volte. Così a Michele Rio può capitare di entrare in una pizzeria dove non c’è nessuno, a cena; solo i guardaspalle di un boss della mafia, che usa quell’attività come copertura di altri affari. Perché la riviera romagnola è stata ed è anche questo. E Stefano Mazzesi riesce a “parafrasare” avvenimenti accaduti in passato (la strage in una caserma dei carabinieri e altro ancora) per rendere l’ambientazione più efficace e cupa. L’immagine dell’isola felice, delle città con un buon governo, si dissolve nella realtà, troppo spesso negata, di un magma appena tenuto sotto controllo dai “buoni”. Appunto come nei racconti del maestro Dashiell Hammett; così per vincere sul male si devono usare le sue stesse armi. Con la consapevolezza che il male si rigenererà. Poi ci si può pentire; forse stringendo la mano a una ragazza che soffre.

Questa è un’altra scelta narrativa importante di Stefano Mazzesi: l’attenzione non superficiale per la sofferenza delle donne, che possono essere bellissime, ingenue e forti; e che devono affrontare dolori altrettanto intensi.

Per gli esperti: occhio alla colonna sonora, martellante come il ritmo con cui capitano le cose: si incontrano, fra gli altri, i Sigur Ròs, band post-rock islandese della fine del secolo scorso; e Billy Joel di “New York State of Mind”.

Il romanzo è la versione riveduta e ampliata di Bianco come la notte, romanzo pubblicato nel 2012 nella collana “I Narratori”, curata da Eraldo Baldini per Foschi Editore. Questa edizione conserva la prefazione di Baldini e aggiunge un racconto prezioso, a sé stante, che svela dettagli della vita di alcuni protagonisti della trama principale: Bianco perfetto.

Stefano Mazzesi ha lavorato a lungo in un’emittente radiofonica privata e ha un’importante esperienza come tecnico del suono per reti televisive nazionali. Nel 2013 il suo racconto Il cercatore di bolle è stato finalista al Premio Polidori; nel 2015 ha pubblicato con Nero Press ebook Rosso e nero; nello stesso anno la canzone Un giorno a colori, di cui è autore del testo, ha partecipato al 58° Zecchino d’Oro. Nel 2016 ha pubblicato il romanzo breve La voce dell’acqua per Clown Bianco Edizioni.

Mare bianco avrà un seguito: Stefano Mazzesi lo ha annunciato in una recente intervista online sulla pagina Facebook dell’editore e su quella del festival GialloLuna NeroNotte.

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Giovinezza, identità, impegno in Pier Vittorio Tondelli https://www.carmillaonline.com/2020/12/15/giovinezza-identita-impegno-in-pier-vittorio-tondelli/ Tue, 15 Dec 2020 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63923 di Paolo Lago

Olga Campofreda, Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli. Con due inediti tondelliani, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 268, € 24,00.

Alla cospicua letteratura critica sull’opera di Pier Vittorio Tondelli, scomparso il 16 dicembre 1991 a soli trentasei anni, si aggiunge adesso un interessante saggio di Olga Campofreda, Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli, che riporta in appendice anche due inediti tondelliani, Jungen Werther / Esecuzioni e Appunti per un intervento teatrale sulla condizione giovanile. Il saggio si propone di colmare un limite che, secondo l’autrice, ha investito molta della [...]]]> di Paolo Lago

Olga Campofreda, Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli. Con due inediti tondelliani, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 268, € 24,00.

Alla cospicua letteratura critica sull’opera di Pier Vittorio Tondelli, scomparso il 16 dicembre 1991 a soli trentasei anni, si aggiunge adesso un interessante saggio di Olga Campofreda, Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli, che riporta in appendice anche due inediti tondelliani, Jungen Werther / Esecuzioni e Appunti per un intervento teatrale sulla condizione giovanile. Il saggio si propone di colmare un limite che, secondo l’autrice, ha investito molta della critica precedente, cioè la lettura dell’opera tondelliana come strettamente legata a un preciso contesto generazionale. Soprattutto nei due primi romanzi, Altri libertini (1980) e Pao Pao (1982), “la giovinezza raccontata da Tondelli non costituisce una fase di passaggio ma si afferma quale atteggiamento di protesta nei confronti di una società ordinata secondo parametri borghesi nella versione declinata dalla società di massa degli anni ottanta”. Il maggiore punto di forza del volume di Campofreda sta infatti nell’intuizione che la rappresentazione della giovinezza inscenata da Tondelli in queste opere non costituisce semplicemente una condizione di passaggio in un percorso di formazione ma si focalizza come una condizione permanente “caratterizzata dal rifiuto di adesione a strutture sociali predeterminate (lavoro, orientamento di genere, famiglia)”.

Una puntuale analisi, anch’essa incentrata sul superamento di una lettura esclusivamente generazionale, è dedicata all’inedito Jungen Werther / Esecuzioni, appunti preparatori per una performance teatrale che trae il titolo dal personaggio di Goethe, il quale diviene per Tondelli quasi una immagine simbolo della giovinezza. I personaggi della performance sono dei giovani emarginati che si pongono in aperto contrasto col mondo degli ‘integrati’, dei “padri” e delle “madri”, e tale contrasto è evidenziato anche dagli oggetti scenici, i quali appartengono all’universo di una controcultura underground. Fin da adesso, i personaggi creati dallo scrittore di Correggio possiedono una personalità ben delineata e la loro caratterizzazione non è riconducibile semplicemente a un contesto generazionale, come se fossero dei meri “ritratti di una generazione”. Certo, la controcultura legata al movimento del Settantasette è assai importante in Tondelli – basti ricordare la sua frequentazione del DAMS di Bologna in un momento in cui Gianni Celati, che lì insegnava, allestiva le performance di Alice disambientata – ma appare assai riduttivo considerare la sua opera (e soprattutto i due primi romanzi) come il “ritratto di una generazione”.

Altri libertini trasferisce sulla pagina un gusto per il pastiche e per la contaminazione stilistica che, facendo capo a un importante paradigma novecentesco come Gadda, incontra nell’opera di Arbasino (soprattutto nell’Anonimo lombardo) un sicuro punto di riferimento. La prospettiva critica adottata da Campofreda permette di analizzare sicuramente in modo più lucido e analitico i temi e lo stile tondelliani. Slegando da un contesto meramente generazionale un’opera come Altri libertini è possibile sondare più in profondità la lingua e lo stile, caratterizzati da rapidità e fluidità sintattiche che mimano il linguaggio parlato e giovanile per trasferire sulla pagina un continuo movimento dominato dalla velocità. Uno dei temi privilegiati è infatti quello del viaggio, che deriva all’autore da Kerouac e dalla beat generation. Se in Arbasino (penso soprattutto a Fratelli d’Italia) il viaggio si travestiva di un involucro letterario, come rilettura contemporanea del Grand Tour settecentesco, in Tondelli esso diviene quasi la somatizzazione di quella protesta e di quel contrasto insanabile che i suoi “libertini” pongono in atto nei confronti della società borghese. E nei racconti è possibile leggere come tale protesta non sia solamente qualcosa di passeggero, un capriccio legato alla giovinezza, ma si configuri invece come una condizione esistenziale che oppone un netto rifiuto a determinate logiche perbeniste. Il continuo spostamento, l’erranza e il viaggio che caratterizzano i nuclei tematici delle pagine di Tondelli appaiono come rappresentazioni simboliche della contemporaneità. Gli stessi personaggi si prestano ad essere analizzati, a mio avviso, attraverso la lente del nomadismo e del policentrismo, caratteristiche messe in rilievo da Deleuze e Guattari e da Rosi Braidotti che rappresentano una nuova soggettività decentrata e deterritorializzata. La stessa mescolanza di stili utilizzata dall’autore presuppone un ibridismo che è anche culturale e identitario: all’identità rigidamente determinata dalla norma eterosessuale e dall’universo borghese della famiglia essi oppongono una fluidità identitaria e sessuale che assume connotazioni estetiche queer.

Anche in Pao Pao (ispirato a Tondelli dall’esperienza del servizio militare), come nota Campofreda, i personaggi si battono per imporre una propria idea di identità che si ponga in netto contrasto con un’idea dominante: in questo caso lo scontro è con la rigida istituzione della caserma. Il “carcere”, la “colonia”, la “scuola” (spazi ‘altri’ che, secondo Foucault, rientrano all’interno delle “eterotopie”) sono luoghi in cui l’individuo è sottoposto a determinate regole ed è tenuto al rispetto di esse. Anche in questo caso i personaggi si oppongono ad un rigido e onnicomprensivo sistema di omologazione che cerca stavolta di trasformarli in “meri soggetti” militari. E se spesso nelle due prime opere tondelliane sono stati intravisti elementi che le avvicinano al classico romanzo di formazione, la studiosa ribadisce che “più che di romanzo di formazione si potrebbe parlare di romanzo di affermazione delle alterità, come al lettore veniva del resto suggerito proprio dal titolo del romanzo d’esordio”.

Un’erede diretta dei “libertini” presenti nell’opera prima di Tondelli la ritroviamo nel personaggio di Claudia in Rimini (1985), un bestseller caratterizzato da uno stile asciutto e equilibrato che appare assai lontano dalle precedenti prove narrative. Il personaggio in questione si configura come il conduttore dello stile ibrido e tendente al pastiche, caratteristico degli altri romanzi, all’interno della prosa asciutta e essenziale di Rimini. Claudia, una giovane tedesca scappata di casa (la cui ossessiva ricerca da parte della sorella Beatrix costituisce uno degli episodi della struttura corale del romanzo), appare perciò, secondo la studiosa, come “l’ultima dei libertini tondelliani: con la sua storia Tondelli chiude i conti con il suo passato, mentre la riflessione sull’identità e sulla giovinezza arriva ad assumere toni più maturi”. Il personaggio della ragazza rappresenta un estremo lembo di ribellione e di volontà di autoaffermazione della propria identità di outsider all’interno di un universo dominato dal disimpegno e dal rampantismo sociale che caratterizzano la metà anni ottanta, segnati da una piatta integrazione all’insegna del benessere.

Un vero e proprio outsider è anche il personaggio di Leo in Camere separate (1990, romanzo caratterizzato da uno stile più asciutto e “minimalista”), il quale non ha né una famiglia né figli mentre anche dal punto di vista lavorativo la sua attività di scrittore risulta irregolare. Anch’egli è dotato di un’identità fluida in quanto si configura come “creatore e creatura, nel momento in cui si affaccia alla nuova fase della sua vita adulta”: incapace, nel suo percorso personale, di uscire definitivamente dalla giovinezza ma anche oberato del compito di assistere il ben più giovane compagno Thomas. Allora, Camere separate potrebbe essere definito come un romanzo di formazione sui generis, “l’unico possibile nel momento storico in cui Tondelli sta scrivendo: è l’individuo che prende coscienza della sua voce in una società postmoderna in cui le istituzioni, la politica, il sistema educativo, la famiglia o il mondo del lavoro non entrano più in rapporto diretto col problema dell’identità”.

L’ultima parte del saggio, sicuramente la più filologica, è dedicata all’attività di Tondelli come editor: se la prima antologia Under 25 che egli cura, Giovani Blues (1986), appare caratterizzata da una spiccata emulazione dei primi romanzi dello scrittore correggese, le successive Belli e perversi (1987) e Papergang (1990) dimostrano una maggiore autonomia nei confronti del modello. La studiosa, in modo rigoroso, analizza lo stile e le espressioni linguistiche di alcuni dei racconti attuando una puntuale comparazione con lo stile e la lingua di Altri libertini e di Pao Pao.

Giovinezza, identità e impegno, perciò, si configurano come entità inscindibili all’interno dell’intera opera di Pier Vittorio Tondelli, opera che il saggio di Campofreda scandaglia interamente in modo inedito e suggestivo. E, anche se i personaggi tondelliani non si presentano ‘impegnati’ come quelli, ad esempio, di Vogliamo tutto! di Balestrini e di Porci con le ali di Ravera e Lombardo Radice, in loro è quasi la stessa giovinezza a trasformarsi in impegno, perché essa è “l’immaginario della dissidenza, della difesa delle voci diverse, è l’anti-kitsch-piccolo-borghese, è il linguaggio dell’individuo che si allontana dalla massa”. Un impegno che, per i personaggi di Tondelli, nasce e cresce in seno alla letteratura, una letteratura che non offre certo situazioni pronte ma individua le contraddizioni, rappresenta forme di relazioni conflittuali e cerca di comprenderne le cause. E, come auspica l’autrice nei ringraziamenti finali, è anche capace di infondere coraggio in ciascuno per arrivare a potersi raccontare come meglio desidera.

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Sulle rotte del disincanto prattiano (e dintorni) https://www.carmillaonline.com/2017/06/09/sulle-rotte-del-disincanto-prattiano-e-dintorni/ Thu, 08 Jun 2017 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38449 di Gioacchino Toni

corto-maltese-0100Boris Battaglia, Corto. Sulle rotte del disincanto prattiano, Armillaria edizioni, 2017, pp. 200, € 12,00

“Adesso”, “disincanto” e “ambiguità” sono le tre parole chiave con cui Boris Battaglia ci trascina in un affascinante viaggio critico attorno/insieme al personaggio di Corto Maltese creato da Hugo Pratt.

Il saggio parte, apparentemente, da lontano, tanto che si apre con alcune riflessioni sulla geometria euclidea utili allo studioso per sottolineare come i «personaggi dei fumetti non sono che figure geometriche le cui ‘relazioni spaziali’ con altre figure geometriche sono rappresentate nel sistema di riferimento [...]]]> di Gioacchino Toni

corto-maltese-0100Boris Battaglia, Corto. Sulle rotte del disincanto prattiano, Armillaria edizioni, 2017, pp. 200, € 12,00

“Adesso”, “disincanto” e “ambiguità” sono le tre parole chiave con cui Boris Battaglia ci trascina in un affascinante viaggio critico attorno/insieme al personaggio di Corto Maltese creato da Hugo Pratt.

Il saggio parte, apparentemente, da lontano, tanto che si apre con alcune riflessioni sulla geometria euclidea utili allo studioso per sottolineare come i «personaggi dei fumetti non sono che figure geometriche le cui ‘relazioni spaziali’ con altre figure geometriche sono rappresentate nel sistema di riferimento cartesiano costituito dalla tavola» (p. 8). Visto che un sistema cartesiano è composto da un certo numero di rette ortogonali capaci di rappresentare il modello di realtà preso a riferimento e che al fumetto è concesso di rifarsi anche a realtà inesistenti, quando lo leggiamo «facciamo un esercizio di interpretazione di tutte queste n misure impossibili. In una storia a fumetti non ha particolare rilevanza chi fa cosa e dove la fa, ma quando la fa» (p. 9). Il fumetto, allora, sottolinea Battaglia, non è arte sequenziale ma potenzialità isometrica.

Riprendendo Umberto Eco (I limiti dell’interpretazione, 1990) che distingue tra mondi possibili, impossibili, concepibili ed inconcepibili, Battaglia trattiene per il suo studio la categoria dei mondi inconcepibili mirabilmente concretizzati a livello visivo dalle opere dell’olandese Maurits Cornelis Escher. Ebbene, nel fumetto «l’inconcepibile costruisce continuamente le coordinate della propria possibilità» (p. 10).

A differenza dei linguaggi verbali che non prescindono dalla linearità temporale, nel fumetto una vignetta si offre allo sguardo mostrando i segni tanto a livello spaziale che temporale nello stesso momento; nel fumetto «la mappa è il territorio» (p. 10). Nel fumetto, caratterizzato com’è dal “disordine probabilistico”, dalla mancanza di rigore sequenziale, non è per forza di cose il passato a determinare il futuro. A tal proposito Battaglia riprende le riflessioni di Ludwig Boltzmann (Fisica e probabilità) che vedono nel tempo una linea priva di direzione. «La direzione del tempo è dettata dal racconto che ne facciamo. Il fumetto potrebbe quindi essere un complesso sistema cartesiano di n ‘adesso’ organizzati arbitrariamente dall’autore/lettore» (p. 10).

Dunque, «anche quando una storia a fumetti è raccontata concatenando i suoi eventi in progressione lineare, non c’è nessun vincolo ineluttabile tra quegli eventi […] i segni e i fatti che la raccontano sono irreversibili, ma non c’è nulla di inevitabile nelle storie, né di temporalmente determinato» (pp. 14-15). E in Pratt, come mostra lo studioso, a volte, è il futuro a determinare il passato. «Parafrasando Godard: ogni storia a fumetti non ha un inizio, non ha un centro e non ha una fine, non necessariamente in quest’ordine. Ogni fumetto è un periplo» (p. 15).

Un periplo, dunque una circumnavigazione, ma anche una modalità scientifica di descrizione nautica e geografica che nulla ha a che vedere con la magia, il misticismo ed il romanticismo. È per questo motivo che Battaglia rifiuta l’idea di collocare Corto all’interno di categorie che hanno a che fare con il fantastico ed il romantico. «C’è tanto di immaginario, di ideale e di irrazionale, nell’opera di Pratt, ma non c’è nulla di romantico. Basterebbe leggerli, per rendersi conto che non è l’incantamento la ragione d’essere dei suoi fumetti» (p. 16). I fumetti di Pratt hanno a che fare, piuttosto, sottolinea Battaglia, con l’azione.

A questo punto lo studioso riprende le riflessioni del biologo libertario Henri Laborit in L’elogio della fuga (1976), ove si sostiene che l’unica ragion d’essere di una struttura vivente è essere, vivere. L’essere umano, a differenza di altri esseri viventi, quando si trova impedito all’azione, può rifugiarsi nell’immaginazione e ciò gli «permette, attraverso il moto di deriva della narrazione, di giungere ai limiti estremi di rottura della realtà senza muoversi dal proprio divano» (p. 17). Ed è questo che traspare, secondo Battaglia, dai fumetti di Pratt «persino quando i suoi protagonisti […] sembrano sospesi nei tempi morti delle attese e delle convalescenze, la retorica narrativa prattiana non ci permette mai di dimenticare che quel momento di pausa è possibile solo grazie alla sua causa prima: l’avventura. Accanto al pensiero c’è sempre l’azione» (p. 17).

Anche Corto, come Odisseo, fugge da una Calipso, così come ha la sua Penelope ma non vi è alcuna nostalgia che lo guida nelle diverse avventure; secondo Battaglia è lo stesso sistema narrativo del fumetto ad impedire cedimenti nostalgici. «La nostalgia è legata al senso di mancanza per qualcosa che se n’è andato o da cui si è andati via, collocato in un tempo precedente in cui si desidera tornare. Nel fumetto non esiste un tempo precedente e uno futuro, ma solo una più o meno lunga catena di adesso. Una storia è in continua evoluzione a seconda di come lo sguardo interpreta l’asse temporale» (pp. 115-116).

Viaggiatore, dunque straniero, estraneo, migrante, nemico, diverso, Corto non appartiene, per scelta, a nessuna comunità ed anche quando prova nostalgia non desidera alcun ritorno. «Fin dal suo primo apparire Corto Maltese si colloca in questa linea di ambiguità nomadica, caricata però di un’eccezionalità prometeica a sua volta così assolutamente ambigua da sconfinare in una normalità epimeteica. E sul mito di Prometeo e di Epimeteo ci torniamo per forza, appena cominciamo a parlare della Ballata del mare salato. La messa in crisi del discorso mitologico in Pratt è fondativa di tutta la sua opera» (pp. 21-22).

È da tali riflessioni che Battaglia giunge alle tre parole chiave indicate in apertura: “Adesso”, “disincanto” e “ambiguità”, ed è da queste che inizia il suo viaggio critico all’interno del mondo prattiano.

Il 1967 segna l’uscita di Una ballata del mare salato, si tratta di un momento importante per la storia del fumetto. Nata inizialmente come storia a sé, senza aver previsto una serie, il personaggio di Corto Maltese appare soltanto alla sesta tavola, quando sono già comparsi tutti gli altri personaggi principali, senza che il lettore conosca granché di lui, così come, a dire il vero, degli altri personaggi. Al momento in cui compare Corto questo ha la medesima rilevanza degli altri personaggi ma, sottolinea Battaglia, nelle cinque tavole precedenti si sono poste le basi per gli accadimenti futuri. «La storia si apre con una tavola intera in cui è riportata la lettera di un certo Raul Obregon Carrenza […], sedicente nipote di Cain Groovesnore, che sostiene di avere affidato all’autore i diari di suo zio affinché Pratt ne raccontasse la storia. Un espediente narrativo abusato, da Cervantes passando per Scott fino a Manzoni; solo che Pratt lo usa in modo assolutamente originale rispetto ai suoi modelli» (p. 52).

Qua il manoscritto serve all’autore per neutralizzarsi, per impedirsi commenti di carattere morale. Ciò che c’è da sapere è scritto in quella lettera; non vi sarà una voce narrante giudicante nelle tavole successive. Nel momento in cui la storia prende il via la voce narrante è quella dell’oceano, una voce indifferente.

La prima vignetta, quella in cui l’Oceano Pacifico comincia il suo racconto in prima persona, è costruita in modo da far coincidere il nostro sguardo con quello della voce narrante: guardiamo da lontano con la stessa indifferenza con cui il mare, prima in tempesta, ha spazzato isole e navi, e con cui ora accarezza in tranquillità la carena del catamarano che a quella tempesta è scampato. Guardiamo da lontano e ci sentiamo al sicuro, sia dalla tempesta, sia da qualsiasi responsabilità per ciò che accadrà. E ciò che accade è già nella seconda vignetta. Lo sguardo del mare, sulla cui direttrice ancora ci appoggiamo, ci mostra i marinai del catamarano che avvistano e recuperano un relitto con due naufraghi. Due giovani, maschio e femmina. Ancora vivi.
A questo punto scatta la trappola.
Neanche ce ne accorgiamo, quasi, ma nel giro delle ultime due vignette il nostro sguardo viene ribaltato nella semi-soggettiva del capitano Rasputin. Accompagnati dal movimento dei flutti ci ritroviamo alle sue spalle a guardare ciò che vede lui.
Quando, girata la pagina (nel fumetto è importantissimo il ritmo del girare le pagine), guardiamo la tavola successiva, è come se anche noi ci fossimo girati. Adesso siamo di fronte al capitano Rasputin. Diventiamo oggetto del suo sguardo, e della sua rabbia. La nave si è fermata per raccogliere i naufraghi senza un suo ordine, e questo lo ha fatto infuriare: per lui è una perdita di tempo. Invece, per noi lettori è l’inizio della storia, il motivo per cui non smetteremo di leggere (pp. 54-55).

Così, in poche tavole, lo sguardo del lettore da indifferente diviene implicato. «L’incontro tra il catamarano di Rasputin e la scialuppa dei naufraghi è necessario alla storia che l’Oceano ci sta raccontando. È il nostro sguardo, quindi, in buona sostanza, la causa di quanto accade» (p. 55).
Dunque, sottolinea lo studioso, Pratt in primo luogo ci presenta Rasputin definendo il suo carattere, la sua visione amorale in cui non vi è nulla di giusto ed ingiusto, è l’istinto a suggerire come agire in base all’utilità immediata. In secondo luogo Pratt conduce lo sguardo del lettore in una direzione desiderante; scopriamo ciò che lo sguardo di Rasputin desidera: Pandora Groovesnore.

armillaria_corto_boris_battaglia_cover_Circa i riferimenti al mito di cui è costellata la narrazione prattiana, sostiene lo studioso, occorre dire che esso «non interessa a Pratt in quanto forma definita e particolare di pensiero […] quanto piuttosto quale struttura articolata di organizzazione della casualità. In altre parole, quello che interessa a Pratt dei miti è la loro necessità narrativa, che si manifesta nel continuo tentativo di sottomettere l’hybris all’ethos al fine di dare ordine alla casualità delle vicende umane. Tutta la Ballata non è che la cronaca di questo tentativo reiterato» (p. 59).

Corto compare sulle tavole legato ad una struttura ad X, i rimandi al Cristo in croce ed al Prometo incatenato risultano palesi. «Cristologica vittima sacrificale, salva Pandora e viene salvato da Rasputin. L’eroe non salva la fanciulla in pericolo con un’azione mirabolante ma facendo mostra della propria impotenza» (p. 61). Se il fumetto d’avventura fino a questo momento ci presenta eroi che salvano il mondo, Corto non solo non salva il mondo ma non è nemmeno in grado di salvare se stesso, tanto che, nelle diverse storie, verrà salvato da altri in varie circostanze.

Interessante anche la scelta del nome che Pratt assegna al personaggio. Il nome Corto, secondo Battaglia, ha la medesima ambiguità del Nessuno omerico.

Corto è nessuno, quindi è tutti […] è contemporaneamente Abele, Prometeo e Cristo. Eppure, e qui sta l’ambiguità del personaggio, nonostante la costruzione iconica e l’uso di nomi pronti a farcelo pensare, Corto non è nessuno dei tre. Non può deciderlo. Pratt non glielo concede. Corto è continuamente in balia della narrazione, non la controlla mai; al limite può cercare di mettersi in disparte, ma spesso neppure questo gli è concesso. Non fa ma simboleggia delle possibilità, e in quanto vittima sacrificale e innocente – per quattro volte in qualche modo muore e risorge – non le esercita, le subisce.
Chi invece esercita continuamente opzioni sulla simmetria della narrazione (come causa scatenante, come tentatrice, come assassina, poi come innamorata e alla fine con la rinuncia) è Pandora. Potremmo dire che Pandora viene prometeizzata.
Il suo personaggio è il perno su cui Pratt fa ruotare il più radicale ribaltamento ideologico che mai sia stato realizzato nell’ordinata struttura del fumetto e della narrativa d’avventura (p. 62).

Dunque, secondo lo studioso, è attraverso Pandora che Pratt esplicita la volontà di sottrarre la narrazione alla funzione eroico-simbolica, tipica invece del fumetto italiano.

Pandora è il vettore di senso che permette l’articolazione del testo della Ballata. È attorno al suo corpo, e in particolare attorno al suo volto, che Pratt costruisce il campo figurativo che determina il racconto e l’esistenza degli altri personaggi. Il racconto è la trasformazione di Pandora, il suo personaggio è il luogo della coerenza logica della narrazione. La sua trasformazione grafica è continua, è il personaggio più instabile da questo punto di vista, perché questa instabilità […] è dosata da Pratt per mantenere l’analogia tra la rappresentazione grafica di Pandora e il suo carattere morale. La novità non sta nella trasformazione etica del personaggio, da rampolla viziata di una ricca famiglia a personaggio consapevole del proprio statuto narrativo, ma nel fatto che Pratt di questa consapevolezza ce ne dia certezza grafica usando proprio quella trasformazione grafica come motore delle trasformazioni narrative (p. 66).

In Una ballata del mare salato a compiere realmente il “viaggio dell’eroe” è lo sguardo del lettore.

Se nell’inverno del 1969 la rivista “Sgt. Kirk” pubblica l’ultima puntata della Ballata, storia nata non per aprire una serie, la svolta si ha nella primavera del 1970, quando sulla rivista francese “Pif Gadget” appare Il segreto di Tristan Bantam: con questo racconto Corto Maltese diviene un personaggio seriale. Secondo Battaglia se nella Ballata, la hybris di Corto riprende quella di Prometeo e Odisseo, in questo nuovo racconto viene fatto riferimento ad un personaggio storico. Mentre la Ballata si sviluppa in un tempo sospeso, mitico, ora le vicende vengono inserite all’interno di un tempo storico, che però Corto ha la facoltà di sospendere.

Con le storie brevi di Corto Maltese realizzate tra il 1970 e il 1973, Pratt esegue un’operazione sulla narrazione a fumetti che rivoluziona l’idea di avventura per come la si intendeva prima (e in Italia ancora oggi, purtroppo) nell’editoria a fumetti seriale, e – fatto molto più importante – quasi risolve il problema che toglieva il sonno a Sant’Agostino: la differenza fra il testo visto nella mente e il testo pronunciato dalla voce. In …E riparleremo dei gentiluomini di fortuna, dove la storia viene scandita dalle frasi scritte sulle carte dei quattro assi, Pratt dice una cosa che, come tutte le cose evidenti, è rivoluzionaria: il fumetto è guardare le figure e le parole (pp. 79-80).

È certamente l’ambiguità a farla da padrona in …E riparleremo dei gentiluomini di fortuna, visto che, evidenzia lo studioso, Pratt, oltre a giocare con l’ambiguità tra testo e parole, mantiene l’avventura in bilico tra storia e mito. Non a caso uno dei personaggi del racconto si chiama proprio Ambiguità. Nell’opera successiva, Per colpa di un gabbiano, nonostante il tempo mitico prenda decisamente il sopravvento sul tempo storico, l’ambiguità non accenna ad affievolirsi: la perdita di memoria di Corto lo rende «al contempo il personaggio Corto, per noi che leggiamo […] storicamente collocato, sia il prigioniero di Soledad Lokaarth […], novello Odisseo prigioniero di Calipso» (pp. 81-82).

[Ne La laguna dei bei sogni] il paradosso del ricordo giunge a compiutezza: ricordare qui significa morire. Però, non potendo far morire Corto Maltese, Pratt lo relega a meno che spettatore. Non è nemmeno presente mentre si svolgono i fatti. Toccherà al tenente Stuart affrontare la pazzia per recuperare il proprio passato e cambiare le conseguenze degli errori commessi, della propria vigliaccheria e della propria delusione d’amore. Se Corto aveva usato i funghi allucinogeni per ritrovare la memoria, patendo poi la delusione d’amore causata dalla fuga di Soledad, come nella Ballata l’addio di Pandora, il tenente Stuart entra nel delirio della febbre malarica per recuperare l’amore di Evelyn. Riuscendoci, perderà la memoria del presente e troverà conseguentemente la morte; perché, come afferma l’indio che l’ha assistito per tutto il tempo, “noi non abbiamo il diritto di cambiare l’ordine delle cose” (pp. 84-85).

Il tempo lineare ed irreversibile degli avvenimenti è fatto saltare e Pratt, grazie al fumetto, si permette di ripercorrere la linea temporale nella direzione che preferisce a piacimento.

Conquistato il successo in terra francese grazie alla pubblicazione di storie brevi, Pratt viene “arruolato” nel 1972 da “Linus” che inizialmente replica le storie pubblicate da “Pif”. Terminato il sodalizio con la rivista francese, Pratt accetta di realizzare per “Linus”, a partire dal 1974, il racconto Corte Sconta detta Arcana che si protrae, a cadenza variabile, addirittura fino all’estate del 1977.

Battaglia, nel soffermarsi sulla rivoluzione espressiva degli anni Settanta, si focalizza sull’uscita, nel 1975, della rivista francese “Metal Hurlant”, pubblicazione che, sovvertendo il fumetto classico, finisce con l’influenzare la generazione di giovani artisti italiani protagonisti della rivista “Cannibale” pubblicata a partire dall’estate del 1977. «Anche il fumetto popolare non sfugge a questa sovversione. La rivoluzione linguistica del decennio, unita alla rivoluzione tematica (e ideologica) di Pratt, che ha messo la disillusione al centro della sua poetica, reagiscono creando il terreno fertile per la nascita di due personaggi che non possiamo assolutamente trascurare per capire lo sviluppo stesso di Corto Maltese nel decennio successivo: Mister No e Lo Sconosciuto» (p. 121).

Mister No arriva in edicola nel 1975 ed il suo successo è dovuto al fatto che è il fumetto adatto all’epoca; il personaggio «coglie una richiesta del pubblico, soprattutto giovane, ancora inespressa ma che già era nell’aria. La necessità di uno spiraglio narrativo nella compressione ideologica e culturale di quegli anni. Prova ne sia che proprio l’anno dopo uno dei più grandi successi editoriali sarà Porci con le ali, in cui Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera mettevano in forma narrativa le istanze più diffuse della vita reale dei giovani del decennio. Invece, il maggior successo del 1979 sarà Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, in cui la formula narrativa prende addirittura il sopravvento sulla realtà» (p. 126).

Secondo Battaglia Mister No riesce ad inserire tematiche libertarie degli anni Settanta, liberate da un certo conformismo ideologico, innestandole su modalità narrative più classiche.

Dal 1975 al 1982 la narrazione di Mister No […] costruisce – incastrando in storie avventurosissime con una struttura tradizionale temi contestatari come l’antimilitarismo, l’antiautoritarismo, l’egualitarismo – una visione del mondo disincantata come quella prattiana, è vero, ma a differenza di questa molto più consolatoria […]
La grande riuscita poetica, e politica, del Mister No di quegli anni è questa precisa commistione tra piacere e dovere, mentre Corto il dovere lo rifugge. Nella lotta per l’utopia, godersela non è un peccato. E nonostante fosse solo un fumetto a raccontarci questa cosa, lo compravamo e lo leggevamo avidamente proprio per questo (p. 127).

Gli anni Ottanta si aprono con Altri libertini (1980) di Pier Vittorio Tondelli, un esempio di ricerca di una via alternativa ad una stagione, quella degli anni Settanta, ormai esaurita ma, sottolinea lo studioso, senza alcuna pretesa di tracciare una mappa. Se il libro di Tondelli testimonia la fine dello scontro frontale con cui prende il via il nuovo decennio, Mister No è ancora profondamente immerso nella realtà sociale del suo mondo; gli Altri libertini, invece, fuggono da quella realtà.

Sono arrivati gli anni Ottanta e con essi, inevitabilmente, anche Mister No inizia ad essere inattuale. Con il nuovo decennio il linguaggio inizia a ripiegare su se stesso tanto da giungere presto a diventare il luogo totalizzante dell’esperienza della verità ed è così che si arriva, nel 1986, a Dylan Dog «in cui è solo il linguaggio a raccontare sé. Nei fumetti di Sclavi il mondo diventa logos. Esclusivamente linguaggio. Ogni possibilità di verifica razionale della realtà come qualcosa che esiste al di là del linguaggio è abolita. L’unica esperienza possibile della verità per Sclavi è quella dell’appartenenza a un linguaggio, ma non del linguaggio che parliamo, bensì di quello che ci parla» (p. 131).

Con l’uscita nel 1982 della rivista “Orient Express” si giunge, secondo Battaglia, ad un punto nodale per comprendere quanto Pratt abbia influenzato il fumetto italiano. È sulle pagine di questa pubblicazione che compare Lo Sconosciuto: L’uomo che uccise Ernesto Che Guevara di Magnus.
In questo fumetto Magnus tende a concedere molto spazio al testo rispetto alle immagini;

Il primo passo verso l’abbandono del classico modo di realizzare fumetti è segnalato da Magnus mettendo da parte Lo Sconosciuto. Egli, pur con tutta la sua peculiarità, può ben simboleggiare l’eroe tipico del fumetto seriale e in questa avventura la sua presenza è poco più che marginale. Però, pur comunicandoci la sua intenzione di cambiare registro, Magnus non vuole rinnegare niente del proprio passato di fumettaro ed è la partecipazione alla storia – in un ruolo non principale, ma comunque chiave – di quella ragazza che Lo Sconosciuto aveva conosciuto a Marrakech, a testimoniarlo. L’esperienza precedente è servita a Magnus per arrivare a questo punto, che è solo la base per costruire una nuova opera (pp. 134-135).

Lo studioso si sofferma sul personaggio detto El Lugubre evidenziando come questo sia un uomo che vive di ricordi ed illusioni artificiali, ossia fuggendo nelle immagini ed il suo riscatto lo si ha nel momento in cui diviene consapevole della vacuità di queste. «Esse cominciano a vacillargli davanti agli occhi, a sfocarsi, finché El Lugubre le rifiuta completamente attraverso un gesto simbolico e liberatorio: strappa il manifestino (Bolivia no serà otra Cuba) dal muro. Da questo momento diviene un altro personaggio, non è più El Lugubre ma diventa il comandante Inti. Rifiutando le immagini comincia ad agire» (p. 135).

Se Mister No e Lo Sconosciuto riportano «l’ambigua forza dell’immagine, e dell’immaginazione, dalla confusione libertaria delle ‘storie a forma di farfalla’ nel canone della narrazione a fumetti classica. In questo canone ciò che ha la supremazia è la parola» (p.136), Pratt prende invece la strada opposta, quella che concede tutto lo spazio del senso alle immagini.

corto-maltese-001Nel 1980 Pratt pubblica la seconda parte di Fort Wheeling su “Metal Hurlant” e l’anno successivo prende il via la pubblicazione sul quotidiano francese “Le Matin” di La Giovinezza, storia incentrata sulla fuga. «Corto, Rasputin, Jack London sono personaggi liberati dalla necessità, propria di quasi tutti gli altri personaggi seriali, di avere illusioni. Per questo fuggono, ognuno a suo modo. Rasputin cambiando continuamente divisa; Corto lasciando continuamente Venezia, la sua Itaca; Jack London navigando sullo Snark e raggiungendo, in altri fumetti realizzati da altri, luoghi in cui in realtà non è mai stato. Cosa che nel fumetto si può» (p. 163).

Ne Le Elvetiche, avventura pubblicata nel 1987 sulla rivista “Corto Maltese”, secondo Battaglia non si tratta di «un’esoterica affermazione dell’immortalità del personaggio Corto, quanto una divertita […] demistificazione del concetto di ‘letteratura disegnata’. In fondo, quando esce questa storia, sono esattamente vent’anni che Pratt non fa altro che affermare, attraverso Corto, la superiorità narrativa dell’immagine rispetto alla parola» (pp. 173-174).

Siamo così giunti, con qualche inevitabile salto rispetto alla puntuale analisi proposta dal libro di Battaglia, a Mu la città perduta, ultima avventura di Corto realizzata tra il 1988 ed il 1991 e pubblicata a puntate sempre su “Corto Maltese”. «Mu è un esperimento complesso in cui Pratt tenta, riprendendo il discorso cominciato con Le Elvetiche, di realizzare con i suoi fumetti un testo filosofico e teorico in cui rimettere in discussione, attraverso la storia del proprio personaggio (col serrato sovrapporsi di tanti personaggi passati e di situazioni topiche dell’intera saga di Corto Maltese), quella di tutta l’ermeneutica occidentale a partire dalle idee di Platone. Ma come lo farebbe ogni rispettabile flâneur, divagando» (p. 180).

Concludendo il volume lo studioso auspica di essere riuscito nell’intento di dimostrare come in Corto non vi siano né desideri di ritorno, né nostalgie per luoghi o tempi perduti. «Corto non è un eroe romantico, non è una rilettura prometeica, perché l’eroe rifiuta di rassegnarsi a circostanze a cui è impossibile rimediare nonostante il coraggio e l’intelligenza; Corto è piuttosto un eroe rassegnato, il cui continuo desiderio di andare è frustrato dal fatto che, nel fumetto, non c’è alcun luogo dove andare perché il fumetto è una struttura fatta di attimi continuamente presenti» (p. 184).

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