Peter Brook – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cinquanta sfumature di Sade (II) (Nightmare Abbey 17/II) https://www.carmillaonline.com/2021/08/17/cinquanta-sfumature-di-sade-ii-nightmare-abbey-17-ii/ Tue, 17 Aug 2021 20:38:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67720 di Franco Pezzini

(Qui la prima parte)

Lo spazio di una donna speciale

Alberto Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, pp. 368, € 24, Mimesis, Sesto San Giovanni MI 2014.

Claudia Salvatori, L’amica divina, pp. 510, € 15, isenzatregua, Riva del Garda TN 2021.

Dopo la prima parte introduttiva, la ricca, esemplare monografia di Alberto Brodesco (Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, Mimesis, 2014) passa ad affrontare nella seconda “Gli spazi del cinema sadiano”, cioè il castello (in particolare Silling, “spazio centripeto che spinge i [...]]]> di Franco Pezzini

(Qui la prima parte)

Lo spazio di una donna speciale

Alberto Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, pp. 368, € 24, Mimesis, Sesto San Giovanni MI 2014.

Claudia Salvatori, L’amica divina, pp. 510, € 15, isenzatregua, Riva del Garda TN 2021.

Dopo la prima parte introduttiva, la ricca, esemplare monografia di Alberto Brodesco (Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, Mimesis, 2014) passa ad affrontare nella seconda “Gli spazi del cinema sadiano”, cioè il castello (in particolare Silling, “spazio centripeto che spinge i suoi abitanti, vittime o carnefici, a un’obbligata, totale adesione”), le prigioni (la Bastiglia e altre), il manicomio (Charenton), il teatro, e in ultimo il viaggio (come “insegna Roland Barthes, si viaggia infatti solo per rinchiudersi: il viaggio serve come transizione, come tendina, costituisce il pretesto per spostarsi da una scena all’altra, da un luogo chiuso all’altro”).

Premettendo con A. Le Brun che “Non è una filosofia, né un discorso e ancora meno una scrittura che Sade ha inventato ma uno spazio”, Brodesco conduce la riflessione sugli spazi con lo sguardo a singole opere:

 

La logica romanzesca con cui vengono costruiti gli edifici di Sade è quella dell’organizzazione del racconto, di una tassonomia delle passioni, non quella di una disposizione equilibrata degli spazi. Entrando nei luoghi sadiani viene meno ogni interesse per la verosimiglianza: si abbandona la realtà per avventurarsi nel suo “cuore sepolto”, un mondo oscuro fatto di pietra e di vuoto.

La condizione, il prerequisito perché gli spazi architettonici (o, in seconda battuta, naturali) siano ritenuti confortevoli e ospitali dai signori sadiani è la loro chiusura e inaccessibilità. La sovranità del libertino è basata sull’isolamento. Sade, che lo teorizza, definisce questo stato con un neologismo: “Isolisme”. Tale condizione è ontologica, rappresenta una “tesi filosofica”, il “motto stoico dei libertini”, una “promessa di piacere”, il “nocciolo dell’impolitica sadiana” e della sua “antropologia negativa”. L’isolamento risponde alla situazione esistenziale più autentica per l’uomo sovrano (l’uomo integrale, l’Unico), che ha bisogno di segregare il proprio godimento per portarlo al grado massimo di intensità. Gli spazi geografici e architettonici di cui egli va in cerca sono studiati per assecondare questa esigenza.

Nei romanzi di Sade compaiono così case qualificate come deserte, lontane, impenetrabili, impraticabili, inabbordabili, isolate, ritirate, segrete, separate, solitarie… La geografia è occupata da castelli, fortezze, padiglioni, conventi, monasteri; gabinetti, cripte, celle, cellule, loculi, nicchie, cappelle, camere, ridotti, cantine; isole, sotterranei, buchi… A essi si aggiungono, come spazi per l’intimità, l’alcova, il bordello, il boudoir, il bagno… I luoghi in cui Sade ambienta le sue storie si inseriscono in buona parte nella definizione di istituzioni totali proposta da Erwin Goffman. Tutta la giornata dei protagonisti, tutte le loro attività – lavoro, svago, mangiare, fottere… – si svolgono all’interno di un’unità di spazio che garantisce la continuità del vivere libertino.

 

Nell’ambito delle sue riflessioni sul tema della follia, Michel Foucault sottolinea come la detenzione continua di Sade influisca sulle sue storie, ambientate in gran parte in luoghi da cui non si può fuggire. Nata dall’internamento e nell’internamento, “tutta l’opera di Sade è ispirata dalle immagini della Fortezza, della Cella, del Sotterraneo, del Convento, dell’Isola inaccessibile, che formano così il luogo naturale della sragione. Non è un caso neppure se tutta la letteratura fantastica di follia e d’orrore che è contemporanea all’opera di Sade, si situa nei luoghi dell’internamento”, come corrente più o meno sotterranea presente in tutto il primo gotico. Per Foucault “l’apparizione del sadismo […] come fenomeno storico (e non come tendenza sempre presente nelle manifestazioni dell’eros) coincide precisamente con il momento in cui la sragione viene rinchiusa”. Le fortezze nate per internare, al fine di bloccare il virus della sragione e impedire il contagio della società, escludendo dal vivere sociale di chi ne era colpito, “hanno svolto un ruolo culturale del tutto opposto” perché il “contesto […], come una pentola a pressione, ne alimenta la forza” (legittimo domandarci per inciso, in rapporto a un altro tipo di virus e a lockdown lungamente protratti, quali sviluppi culturali sia lecito attendersi).

 

La nostra filmografia dimostra che ragionare sulla presenza cinematografica di Sade equivale a percorrere i luoghi che la contengono, esplorare gli ambienti invalicabili in cui i film trovano il loro contesto. Gli spazi occupati dai film a tematica sadiana non sono soltanto funzionali al racconto ma mettono a fuoco alcune delle questioni chiave poste dalla figura di Sade nel suo rapporto con il tema dello sguardo e della visione. Per analizzare le pellicole prescelte ci è sembrato quindi utile – più che affrontarle da un punto di vista autoriale, osservando capitolo dopo capitolo come la figura di Sade venga presa in considerazione dai singoli registi – utilizzare le cornici offerte da questi posti. L’accostamento di pellicole diverse accomunate dall’inserimento del racconto nel medesimo spazio permette di circoscrivere le domande affrontate sinora sui temi della riflessività, della mise en abyme, del voyeurismo, della protezione dello sguardo e della sua chiusura.

 

Il tema del castello – topos gotico, luogo chiuso delle Centoventi giornate di Sodoma e vera e propria “macchina ottica”, “gigantesco occhio mentale” tra le cui mura “l’immaginazione più estrema può rimbombare libera” – viene affrontato al filtro di due film diversissimi, il provocatorio L’âge d’or, 1930, di quel Luis Buñuel che costella la propria filmografia di riferimenti a Sade (pensiamo solo al diffuso interesse per il Marchese di surrealisti e relativi fiancheggiatori), e il Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, 1975, contestato da tutto un filone di critica su Sade (sulla base delle riflessioni degli apologeti Bataille, Pauvert e Annie Le Brun) per l’abbinamento – giudicato indebito (contra un altro filone: Queneau, Adorno, Horkheimer, Simone De Beauvoir, Éric Marty) – tra Sade e il fascismo. Entrambi i film susciteranno comunque scandali e censure anche da un fronte assai meno filologico.

Le prigioni sono affrontate guardando, prevalentemente, prima a Marquis di Henri Xhonneux, 1989, cosceneggiato dal geniale Roland Topor: gli attori recitano con maschere animali mosse in animatronics (ma non mancano sequenze di pura animazione in stop-motion, e “il Marchese” prigioniero alla Bastiglia dialoga con il proprio pene che si picca di dargli consigli di stile, e che alla fine si autonomizzerà scendendo surrealmente in piazza coi rivoluzionari assieme a Juliette, una mucca-prostituta). Si passa poi a Sade – Segui l’istinto di Benoît Jacquot, 2000, che riprende e romanza la storia di Sade che sfugge alla ghigliottina, ma dall’internamento è costretto a vedere e sentire gli effluvi delle spaventose fosse comuni dei giustiziati. Si torna però anche alla breve, raggelante apparizione di Sade ne La via lattea di Buñuel, 1969, e ad altri cenni nell’opera del regista a evocare le prigioni psicologiche delle convenzioni borghesi.

 

La successiva sezione riguarda lo spazio del manicomio, a partire dal quell’istituto di Charenton dove si giocano all’epoca di Sade – lì ricoverato dal 1803 al 1814, anno della morte – pagine memorabili nella storia del rapporto con la follia, attraverso l’opera degli illuminati medici Philippe Pinel e Jean-Étienne Dominique Esquirol. Qui i film di riferimento sono il Marat/Sade di Peter Brook, 1966, dalla pièce di Peter Weiss (1964) con tre

 

piani che si stratificano: tre piani di identificazione degli attori in scena: attori che interpretano un attore (alienato) che interpreta un personaggio storico; tre livelli temporali: il presente filmico (1966), quello di Charenton (1808) e quello dell’assassinio di Marat (1793); e tre piani spaziali: i Pinewood Studios dove è girato il film ricreano il bagno del manicomio adattato a teatro, sulla scena del quale viene a sua volta rievocato il bagno di casa Marat

e Sade è al centro, a mediare, tra tutti questi piani; Šilení aka Lunacy, di Jan Švankmajer, 2005, che ibrida alla vicenda sadiana suggestioni di Poe (in particolare da “Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma”), con spezzoni in stop-motion; e Quills, la penna dello scandalo di Philip Kaufman, 2000, con le sue libertà un po’ troppo gridate dalla storia reale, a dispetto di straordinari interpreti.

Lo spazio successivo è quello del teatro, ambito che nella sua opera – benché importante a livello biografico e teorico (“Niente procura al libertino un piacere più grande della teatralizzazione del godimento”) – quanto a valore dei testi viene di solito maltrattato dalla critica. I film che capitalizzano la suggestione del teatro sono, nell’ordine qui proposto, De Sade di Cy Endfield, 1969, sceneggiato dal brillante Richard Matheson, con l’enorme John Huston nei panni dell’abate De Sade e tuttavia, quanto a esito, goffamente romanticheggiante, benché suggestivo per la scelta di portare la vita del Marchese su un palcoscenico; il meno nobile Marquis de Sade di Gwyneth Gibby, 1996, citato di sfuggita; il raffinato Madame de Sade (Markisinnan de Sade o La Marquise de Sade) di Ingmar Bergman, 1992, versione di teatro filmato sulla base del dramma in tre atti scritto da Yukio Mishima (1965), dove il protagonista resta evocato in absentia; Akutoku no sakae di Akio Jissoji, 1988, storia di un regista teatrale chiamato il Marchese (che alla fine, poco originalmente, si presenterà come de Sade), che inscena una versione teatrale di Juliette facendola recitare a una compagnia di criminali; il disturbante Eugénie de Franval di Louis Skorecki, 1975, tratto dall’omonima novella sadiana, girato completamente in una sola stanza d’appartamento, in undici inquadrature.

Infine per il viaggio e il suo citato rapporto col rinchiudersi, il riferimento è al “viaggio nella perversione” di Jesús Franco (il “regista che mostra con maggior insistenza il movimento dei personaggi sadiani” e anzi l’unico che ha realmente valorizzato il tema del viaggio, per esempio quello picaresco di Justine) attraverso una serie di pellicole.

 

Anche per quanto riguarda il palinsesto sadiano i film di Franco sono il frutto di un compromesso: si assiste a continui incroci tra simbolismi ingenui e intuizioni surrealiste, costrizioni di budget e manifestazioni di libertà espressiva, ligi didascalismi e voli pindarici, letture banalizzanti del testo di Sade e lucide illuminazioni interpretative. Gli spunti sadiani vengono utilizzati in modo da poterne trarre il massimo possibile di visibilità, fino a sfondare le porte dell’hardcore. Questo desiderio di visione (e godimento) si scontrerà, nei modi che approfondiremo, con il problema generale dei limiti della rappresentazione e, in seconda battuta, con quello più specifico dei limiti della rappresentazione pornografica. Il cinema sadiano di Franco, pur proponendosi come intrattenimento nutrito di intenzioni giocosamente erotiche (la posizione spettatoriale proposta è certamente di tipo ludico), manifesterà la sua incapacità di mostrare una sessualità sadica davvero gioiosa (come talvolta accade nella scrittura di Sade, ad esempio nella Filosofia nel boudoir) e sarà, volontariamente o meno, costretto a ripiegare, al di là del principio di piacere, in direzione della pulsione di morte.

La selezione dei film ai fini del nostro studio è motivata in base a un ordine di ragioni: l’esplicito adattamento di romanzi o racconti; il riferimento dichiarato a Sade nei titoli di testa; la presenza diegetica di Sade o dei suoi libri. Talvolta, più che un singolo testo, è un gruppo di film a completare e motivare adeguatamente il riferimento a una matrice sadiana.

 

Brodesco fornisce un lungo elenco di titoli franchiani che in questi tre sensi si richiamano a Franco, e poi passa a sintetizzarli in cinque filoni:

 

1) Il filone “Justine”: una ragazza sconta le sfortunate conseguenze della sua innocenza: De Sade’s Justine;

2) Il filone “Eugenie”: il racconto di un incesto tra un padre e una figlia: Eugénie;

3) Il filone “La filosofia nel boudoir”: la storia dell’iniziazione di una ragazza alla perversione: Eugenie… The Story of her Journey into Perversion e Cocktail spécial;

4) Il filone “Bressac”: complotto di famiglia in una casa isolata: Sinfonia erotica e Gemidos de placer;

5) Il filone “Filosofia nel boudoir con Bressac”, che somma i due precedenti: Plaisir à trois e Eugenie, historia de una perversión.

Come abbiamo visto riassumendone brevemente le trame, rimane tuttavia una certa sovrapposizione tra i cinque filoni. L’unico adattamento vero e proprio è infatti De Sade’s Justine, mentre gli altri sembrano piuttosto comporre un mélange o puzzle sadiano: diversi frammenti estratti dai romanzi (circostanze, nomi, percorsi…) vengono incollati insieme per fabbricare non tanto una narrazione, ma un collage visivo di spunti narrativi.

 

Il punto di partenza è ovviamente Marquis De Sade’s Justine, 1969, versione carnevalizzata o decaffeinata – così qualcuno si è espresso – del romanzo sadiano. “Ma l’atteggiamento parodico e in parte iconoclasta con cui Franco tratta il suo autore preferito è sicuramente volontario. Franco testimonia di esser stato costretto a ‘modificare tutta la storia e convertirla in una specie di Walt Disney’ da una serie di circostanze produttive, in particolare dall’imposizione dell’attrice protagonista” Romina Power. La cui recitazione fastidiosamente ingenua, tuttavia (si può concordare con Brodesco) calza perfettamente al profilo al personaggio. Mentre molto adatto e convincente è Klaus Kinski nel ruolo di Sade, incarcerato e ossesso dai suoi fantasmi che spurgano in tutto il film.

 

Il tristissimo Eugénie (in Italia, De Sade 2000), 1970-1973, che riprende spunti da L’occhio che uccide (Michael Powell, 1960) e da Lolita (Stanley Kubrick, 1962), brilla di luce livida per la presenza, nel ruolo della giovane eponima in rapporto incestuoso col padre (Paul Müller), di una malinconica e bellissima Soledad Miranda, che l’uomo coinvolge in una serie di omicidi. Brodesco prende poi in esame altri titoli della produzione franchiana, notando come anche il disinvolto regista abbia dovuto ammettere un’impossibilità a portare fedelmente sullo schermo i connotati estremi di Sade. Ciononostante il peso degli scritti del Marchese e soprattutto i relativi temi per l’horrotica del regista spagnolo restano fondamentali.

 

La pornografia possiede una sua grammatica per rendere eccitanti le riprese del sesso. Franco non la rispetta e si trova quindi costretto di volta in volta a improvvisare, a seguire la velocità dell’istinto, a fronteggiare, in un letterale corpo a corpo, la difficoltà a riprodurre cinematograficamente il desiderio.

Questa incapacità di fermare il desiderio è tanto teorica quanto pratica. Per tentare di tamponare l’insoddisfazione di chi guarda, la strategia che Franco mette in campo si basa su quattro elementi (che riprendiamo da Du Mesnildot): spostamento, descrizione, voyeurismo, passività […]

 

con l’uso dello zoom come “erezione visiva tesa verso il sesso femminile”, ma con un mix di “attrazione artistica e panico psicologico” (come lo definisce Carlos Aguilar), sorta di “reazione ai limiti del rappresentabile”. “Dopo migliaia di inquadrature dirette, il sesso femminile rimane dunque la Medusa castrante teorizzata da Freud”, e nei film di Franco troviamo spesso donne assassine o castranti. La filmografia a fine volume completa analiticamente la ricca panoramica.

La terza parte dell’opera, “Il cinema sadiano e la mediasfera contemporanea”, si sviluppa dal caso di scuola della presenza di Salò su YouTube – film intero ma anche spezzoni, video sul tema e videorecensioni, spesso molto banalizzanti, e commenti del pubblico – per passare al rapporto tra panorama audiovisivo contemporaneo e riflessi teorici del cinema sadiano (rapporti tra pornografia e tortura, sorveglianza e voyeurismo, eccetera).

 

L’odierna ipesessualizzazione del corpo violato fa […] affiorare alla superficie della mediasfera alcuni dettagli (e solo alcuni) della sovranità sadiana [nel senso: “Se fa del male agli altri, che voluttà! Se gli altri gli fanno del male, che godimento!”]. Mario Perniola ritrova degli elementi dell’attualità di Sade nel “delighful horror”, nell’armonizzazione di polarità opposte quali piacere e dolore, desiderio e paura, sublime e abietto. La vera ombra sadiana sul panorama contemporaneo si estenderebbe così non tanto in relazione a ciò che viene definito “sadismo”, ovvero “il piacere di vedere soffrire gli altri”, quanto nei territori audiovisivi dove vige la “ricerca di una certa sensualità nell’atto di violenza”.

[…] Se Luis Buñuel (insieme alla maggioranza dei cineasti che lavorano su Sade) sfrutta il potenziale trasgressivo e liberante di Sade, Pasolini ricopia le parole scritte nelle 120 giornate sopra i rotocalchi di attualità per dimostrare che un incubo è divenuto realtà, che la fantasia romanzesca corrisponde alla frenetica disponibilità (di corpi, di merci, di corpi mercificati) off erta dalla società dei consumi.

La concentrazione riflessiva, lo sforzo di immaginazione, l’immersione nella materialità dei corpi, il confronto con l’osceno cui costringe la figura di Sade svolge dunque la funzione, più che di una cartina di tornasole, di una galleria degli echi, che non può far altro che restituire amplificato ogni personale interrogativo e tormento.

 

Le Conclusioni (prima di filmografia e bibliografia) vertono insomma sullo stallo della rappresentazione e sull’insemplificabile problematicità dei riferimenti a Sade.

Il testo di Brodesco offre, insieme a un’estrema ricchezza di analisi, una griglia di riflessioni preziose. E di estremo rilievo pare il suo discorso sullo spazio e gli spazi, cui merita tornare:

 

Lo spazio per lo sguardo si spalanca nel momento stesso della sua interdizione. Il luogo chiuso sadiano eccita il voyeurismo del lettore e poi dello spettatore attraverso le pratiche di infrazione della segretezza che il testo gli offre. Il film lo invita a sentirsi parte di un scena (un retroscena) che non dovrebbe essere a disposizione del suo sguardo. La sua visione diviene quella di chi ha accesso a uno spazio proibito. Basta questo a stabilire una complicità su cui lo spettatore sarà costretto a interrogarsi, anche per motivo della struttura riflessiva di molti dei film a tematica sadiana. Alcuni registi vorranno ribadire questa complicità, assecondarla; altri denunciarla; altri porla in tutta la sua crudezza davanti ai nostri occhi. Sono ragionamenti che, in ogni caso, ci portano sempre a fermarci sulla soglia della visione, indecisi tra il dentro e il fuori, il guardare e il non guardare.

E sugli spazi sadiani merita meditare leggendo un recente, affascinante romanzo di Claudia Salvatori, L’amica divina (isenzatregua, 2021 – volume molto elegante anche come oggetto, grafica e carta). Tra narrazione e palcoscenico (ai capitoli sono alternati flashback in chiave teatrale) vengono qui narrati gli ultimi trentadue giorni “di libertà (e forse di felicità)” di Sade – appena evaso una prima volta –, prima del lungo internamento tra carcere e manicomio. È il 1778, siamo a La Coste in Provenza al castello dei Sade. Donatien ha trentasette anni (“ma ne dimostrava ventisette, o meno ancora”), un burrascoso passato e un rapporto complesso con la potentissima e dispotica famiglia della moglie: e la storia riguarda il suo dialogo, che diventa rapporto sempre più profondo ed esclusivo, con Milli, cioè Marie-Dorothée de Rousset (1744-1784), “amica d’infanzia colta e letterata, forse il più importante fra i suoi amori giovanili, la sola donna capace di mantenersi rispetto a lui su un piano di parità, oltre a essergli complementare nel destino personale di libertà e solitudine” (così l’autrice, nella Nota introduttiva). Di Donatien, Milli diverrà insostituibile confidente e amante, in un rapporto non privo di tensioni e scambi anche durissimi ma di straordinaria ricchezza umana. “Quello che avviene fra loro è in parte dedotto dalla loro corrispondenza posteriore e in parte frutto della mia immaginazione”, con qualche licenza rispetto alla ricostruzione storica più diffusa che vede il rapporto tra Milli e Donatien come puramente platonico. Scrive l’autrice:

 

Questo romanzo può essere letto come un esempio del mio metodo di lavoro. Commissionato come romance erotico, non ha poi trovato la strada per le librerie: ma non è questo l’importante.

Come in ogni lavoro commissionato, sono intervenuta a modo mio, innestando altri stili e contenuti. Ho intercalato la narrazione di una serie cronologica di giornate a intermezzi teatrali che orecchiano quelli messi in scena da Sade giovane nel suo castello di La Coste. Così, del romance, il libro non conserva più che una goccia di profumo.

Benché l’approccio sia quello del romanzo erotico (o meglio storico-erotico, sulla base di lunghe letture dei romanzi e della saggistica sul Marchese, cui Salvatori dedica anche lo splendido saggio finale “Questa donna unica nel suo genere: la Juliette di Sade”), L’amica divina offre del protagonista un ritratto ampio, profondo e complesso, in nulla cedendo alle banalizzazioni della vulgata. Circondato da donne – la moglie Renée-Pélagie, l’ingombrante suocera Presidentessa di Montreuil, la seducente cognata canonichessa Anne-Prospère de Launay, inservienti come la fedele e procace Gothon, per non parlare di tutte le donne della sua infanzia – Donatien non ha mai incontrato una interlocutrice come Milli: più giovane di lui e non appartenente all’aristocrazia, ma come lui profondamente appassionata di scrittura, colta e di scintillante intelligenza, combattiva e non scevra da impennate d’orgoglio, comprensiva per perspicacia e non per buonismo, dotata di un senso etico ma non moralista e pronta ad affrontare esperienze che altre rifiuterebbero, razionale ma capace di seguirlo nei suoi mondi fantastici, dotata all’occorrenza di un buon approccio pratico…

Lui ha capito quanto lei sia stata ferita e umiliata nell’infanzia:

 

“È stata vostra madre a soffocarvi? Ha preferito gli altri suoi figli? Vi ha trattato come il cucciolo malriuscito del suo ventre? Ci sono molti modi per uccidere qualcuno. L’ho visto fare infinite volte. Una coppa di veleno offerta amorevolmente. ‘Bellezza e grazia vengono dalla natura. Se una donna non le possiede conviene mille volte che si faccia amare coltivando modestia, dolcezza e virtù’. Mia moglie è stata distrutta in questo modo da sua madre […] Non vi hanno battuta con le verghe o mutilata, ma è come se l’avessero fatto. Con le frasi congegnate per marchiare a fuoco una creatura. Le frasi più innocue che contengono gli insulti più atroci. Hanno ritorto tutte le vostre qualità contro di voi, come strumenti di punizione. […] E siccome pensate e leggete, e minacciate la volgare stupidità dei borghesi del vostro villaggio, siete diventata un’eccentrica da additarsi per strada.”

“Una preziosa ridicola. Una strampalata un po’ tocca. È questo che dicono di me”.

“E voi lo avete creduto”. Il marchese le passò una mano sul volto. Non una carezza, ma come se volesse toglierle una maschera.

[…] Milli sarebbe caduta in ginocchio per ringraziarlo a mani giunte. Una lacrima scese sulla sua guancia. Lui la raccolse.

“Come potete conoscere tutto questo?” gli chiese.

 

Per quanto più giovane e disposta al ruolo di discepola e collaboratrice nell’attività di scrittura, di depositaria dei ricordi, pensieri e sentimenti di lui (“So bene che non si possono raccontare certe cose alle donne allevate in buone famiglie, ma voi siete filosofa, Sapete sopportare la verità”), Milli non è prona alla volontà dell’interlocutore e gli tiene testa intellettualmente e caratterialmente. Donatien è bizzoso e sa essere irritante e inopportuno nel parlare, ma insieme è umanissimo e sensibile: cresciuto senza l’amore dei genitori, tormentato da problemi fisici che gli rendono penoso l’amplesso, fondamentalmente non capito dagli altri che gli ruotano intorno (a parte qualche valletto suo partner sessuale, di relativa cultura e buon senso), si trova demonizzato da tutto un mondo circostante che in lui cerca il lupo mannaro come cattivo esempio da colpire. Amareggiato dalla lontananza di un suo grande amore italiano, il bel medico Giuseppe Iberti di Roma – finito in carcere a Castel Sant’Angelo per aver copiato per Donatien documenti su casi torbidi dell’Inquisizione –, Sade è anzitutto stupito dalla personalità di Milli e dal tipo di rapporto che si evolve tra loro: “la Sainte” – come la chiama lui – non solo gli risponde a tono, ma prende a inseguirlo con tenacia e devozione (che diventano amore) fin negli inferni della sua interiorità. Così Donatien:

 

“Ho visto il ritratto che mi state facendo; lo avete lasciato in vista nel salone. Non si dipingono ritratti così, se non si ama molto qualcuno. Si vede dal fatto che nelle linee, in tutto quello che esprime, ci sono io ma ci siete soprattutto voi. È la vostra immagine nella mia. Non so esprimerlo bene… e di solito non sono le parole a mancarmi.”

 

[…]

 

“Di tutte le bestie umane di sesso femminile che scrivono fra i due poli, voi siete quella che scrive più divinamente, la più intelligente e la più amabile. Vorrei gridarlo ai quattro venti”.

La fece volteggiare, e lei si mise a ridere per il sollievo e la gioia. La vertigine le procurò una leggera nausea.

Lui si fermò, sedendosi sulla panchina ma tenendola sulle ginocchia.

“Spezzerò le mie lance per voi” disse.

“Come un cavaliere per la sua dama?”

“No, come Don Chisciotte per Dulcinea”.

Milli fece una smorfia di finta desolazione.

“Dulcinea!”

“Oggi è di moda così, tesoro. Le donne girano con una padella e gli uomini con piccoli mulini a vento sui cappelli”.

Risero di nuovo, e lei gli circondò il collo con le braccia.

Caro signor de Sade, delizia del mio intelletto, scrivete come un angelo. Sono vostra. Farò tutto quello che vorrete.

Stava per dirglielo, ma fu lui a dirlo per primo.

“Solo per il modo in cui avete riempito voluttuosamente quelle pagine, potete chiedermi tutto quello che volete”.

“Ma io voglio…”

“…sì?”

“Voglio rimanere qui sulle vostre ginocchia, con le braccia intorno a voi, e sussurrarvi nell’orecchio dolci parole, sperando che non facciate il sordo, e farvi comprendere che la mia anima può espandersi all’infinito e desidera che la vostra si espanda nella mia”.

“Non so se ho un’anima, ma quale che sia fatela pure espandere nella vostra, se accettate il rischio”.

 

[…]

 

“Dov’eri in tutti questi anni, Milli?”

“Sono sempre stata qui. Ma c’era troppa gente che voleva divertirsi con te”.

 

[…]

 

“Io non potrò mai lasciarti, perché sono te”.

Il marchese scosse la testa. Volubilmente, scoppiò a ridere.

“Tu sei me? Impossibile. Io sono unico”.

“Unico? E come giustificheresti una simile pretesa?”

“Si è unici facendo cose che non fa nessun altro”.

Sì, signor del Sade, hai ragione a crederti unico. Non ci sei che tu al mondo, a non volere che la tua amante ti dica: ‘sono te’. Io vorrei che tu lo dicessi a me cento, mille volte al giorno.

 

[…]

 

La solitudine e la convivenza avevano fatto crescere quello che già esisteva fra loro, e non era accaduto che quello che doveva accadere. Si erano cercati, studiati, esplorati da sempre, e il fuoco aveva acceso la miccia. […] Le aveva aperto la mente, oltre alle vie del piacere.

 

Il risultato è un rapporto esclusivo, profondo, passionale, fondato certo su una complessa alchimia iniziale, su una dialettica anche vivace, ma tale da spiazzare e coinvolgere il grande Spiazzatore: un rapporto da cui entrambi usciranno più profondi, imparando la fiducia reciproca e con il sapore di qualcosa che assomiglia maggiormente alla felicità – fino a tentare, stavolta nel modo più ordinario, di avere un figlio assieme. Senza troppa convinzione (da parte di lui) e comunque troppo tardi, perché i fatti stanno già precipitando.

La scrittura dell’autrice è come sempre di grande eleganza, i personaggi sono trattati con intelligenza e sottigliezza. Ovvio, il testo è molto esplicito, la sessualità in scena anche molto cruda – per un pubblico adulto, si legge nelle indicazioni di vendita –, le finestre sui lati in ombra della personalità di Sade debitamente dischiuse (come sulle sue camere segrete, dal contenuto non esattamente tranquillizzante): il Marchese non è ancora l’abbrutito autore delle 120 giornate di Sodoma e di altri scritti debitori della lunga carcerazione, ma come ovvio la storia d’amore in scena presenta alcune peculiarità legate al protagonista, le sue oscenità e “pratiche rivoltanti”, l’ombra di altre donne e la presenza sessuale dei valletti. Che però non escludono, tra scontri verbali e idilli, la vertigine di una relazione unica e di una speciale tenerezza con l’amica divina protagonista.

Tutto verrà interrotto da una brutale manovra di polizia dell’ispettore Marais, volto bigotto e invidioso di un Ordine i cui connotati purtroppo conosciamo: per Sade inizia una lunghissima carcerazione, undici anni tra Vincennes e la Bastiglia, interrotti da altri undici anni arruolato e poi di nuovo imprigionato dalla rivoluzione (e rischia la ghigliottina per il suo moderatismo, rifiutando come giudice di avallare condanne a morte – chi lo giudica un mostro dovrebbe ricordarlo), quindi gli ultimi tredici internato a Charenton. Milli, che ha fatto tutto il possibile per lui, è morta di tisi ad appena quarant’anni, senza rivederlo. Chi vada a La Coste (oggi Lacoste, occitano La Còsta), a visitare i ruderi del castello tra cui sorge una suggestiva statua di Sade – due braccia conserte unite da un pilone a una testa imparruccata, chiusa in una gabbia – dedichi a Milli un pensiero.

 

Affascinante, nel romanzo, anche e specificamente il rapporto con la dimensione degli spazi di cui parlava Brodesco: il castello a tratti claustrofobico (La Coste ispirerà Silling), la prigione da cui Donatien è evaso e che incombe – come il manicomio – sul suo futuro, il teatro che permette di rileggere il suo passato.

Che Milli e Donatien fossero legati da un rapporto sessuale o invece soltanto platonico ai nostri fini importa poco. Esistono affetti, saldati in contesti diversi, che per profondità sappiamo saranno per sempre: come fu il loro, poi tragicamente separati da distanze e muraglie. Per quanto amiamo le parole, pretendere di uniformare con un nome di specie questo tipo di legami, quasi Linneo tassonomizzasse anche lì, è spesso abbastanza inutile. L’autrice ne offre una lettura romanzesca – o, se si preferisce, mitica, nel senso di portare a galla in modo emblematico e paradigmatico i nodi di un rapporto d’amore – che tuttavia non perderebbe valore a una diversa lettura dei fatti. Quel dialogo intensissimo ci fu, e molto dello scambio epistolare torna qui sceneggiato negli scambi tra i personaggi. Riporta sempre l’autrice:

 

Mi piacerebbe che dalla mia storia trasparissero gli elementi meno riconoscibili dell’anima sadiana, opposti alla cupezza e pesantezza che gli attribuiscono i suoi scandalizzati detrattori: l’umorismo, il profondo senso di giustizia, la verità, e quella specie di magia che percorre tutta la sua scrittura, da qualunque parte la si legga.

E mi piacerebbe che le mie parole, pur narrando di grandi sfortune e sofferenze, avessero il brio festoso di una musica d’epoca.

 

Obiettivi che la qualità di scrittura di Claudia Salvatori ha senz’altro permesso di raggiungere.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 76 https://www.carmillaonline.com/2016/12/15/divine-divane-visioni-cinema-porno-76/ Thu, 15 Dec 2016 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34800 di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979 Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: [...]]]> di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979
Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: ho sbrigliato la mia fibra ottica e, voilà, eccovi il resoconto di quanto ho visto. Purtroppo.
Che si tratti di un’epocale fetecchia è evidente dopo pochi secondi di visione: si parte con il monumento a Lenin e il picchetto d’onore sulla piazza Rossa. Poi scene della ridente Mosca brezneviana, grigia e piovosa. Stacco e c’è una bella bruna che ansima a gambe larghe e un bel tomo le zompa addosso e con voce off si rivolge a noi malcapitati spettatori: “Vi chiederete come mai mi trovi in un posto come questo… Mosca intendo”. Capisco che si arriverà a vette sublimi. Ma come siamo giunti a questo punto? Dunque: Scott è un giornalista di Seattle minacciato di licenziamento; gli fanno vedere un filmino hard e veniamo a sapere che in URSS sta proliferando la pornografia underground con funzione dissidente e la leader è tale Librianna: Scott deve andare a intervistarla, costi quel che costi. E per entrare in Unione Sovietica basta chiedere, no? Il protagonista arriva come turista sul Mar Nero (che non è chiaramente il Mar Nero) in treno (da Seattle!) e poi da lì a Mosca in aereo, con intrattenimento orale gentilmente offerto in volo da una compagna (“Abbiamo infranto la barriera del suono”). Scott finisce sulla piazza Rossa (e c’è sul serio! E fa quasi più impressione che ci sia del contrario!) e si chiede, da vero segugio: come trovare Librianna? Basta andare ai magazzini GUM, e dove, se no? (C’è solo una milionata di russi, del resto, a guardare i prodotti, pochi). È il momento più godibile dell’immonda pellicola: Scott salta fuori qui e là nelle location moscovite come un Paolini in cerca di notorietà. Però gli va sempre buca: decide allora di provare la fortuna alla parata che celebra la Rivoluzione d’Ottobre. Del resto è logico: più gente c’è, più è probabile che si trovi lì anche Librianna… La logica viene ulteriormente violentata grazie a un tizio che vende al mercato nero la dritta verso tale Maya, una con il tatuaggio di una stella rossa su una chiappa, giuro. Ovvia copula ma il lavoro di intelligence va in malora perché Maya è un’agente KGB. Arrestato e interrogato, Scott riesce a scappare (non è dato sapere come: la mai abbastanza celebrata grandezza dell’ellisse narrativo!) ed è Librianna a contattarlo. La leader controrivoluzionaria è una ninfomane che vuole liberarsi del giogo comunista e si masturba con i libri di storia sovietica: sa tutto di Scott e lo ha seguito insieme al suo servo, un personaggio incappucciato chiamato Igor. Riceve lo straniero nel suo covo segreto, lo invita a farsi un bagnetto e gli concede l’agognata intervista. Lui le chiede come mai sia così ricca e riesca nella sua attività porno-politica e lei gli risponde come se parlasse a un deficiente: in URSS sono tutti così timorosi di fare domande che nessuno le fa e questo le permette di prosperare. Ma pensa! E da qui prosegue l’assortimento di bestialità, con una trama pensata da qualcuno che ha ingestito peyote grossi come birilli, farcita di scene pornografiche eccitanti come in un film di Rocco – ma Buttiglione non Siffredi – con fotografia amatoriale, musiche stonate e montaggio e regia che farebbero augurare un’effettiva permanenza in Siberia degli autori di cotanta vaccata. C’è tutto il repertorio: sopra, sotto, davanti e dietro, ma è sempre tutto di una bruttezza indicibile, assolutamente inibente qualunque desiderio sessuale, anche a causa di attori orrendi, senza distinzione di genere, tutti, maschi e femmine, oltretutto pelosi anche oltre le folte abitudini dell’epoca. Lui sembra un Kevin Costner con la frangetta, finito sotto una pressa e senza un bagliore di intelligenza negli occhi ed è un attore bestiale, asinino ma non dove ti aspetteresti che lo sia un attore porno. Lei è una non irresistibole tettona alla Russ Meyer, dal volto cubista e con parrucca platinata. Il top della comicità involontaria è toccato con la scena di seduzione della bionda nei confronti di Scott: passeggiata sulla spiaggia, bacetti, cena a lume di candela e ballo lento, con lui con un completo enorme che andrebbe forse a Galeazzi e lei vestita come Moira degli elefanti. Tra le altre perle la liberazione di Igor da un gulag entro il circolo polare artico, impresa irrisoria perché “sanno impedire alla gente di uscire dai campi, ma non di entrarci”. Infine la conclusione: Scott torna a casa, pubblica il suo articolo e si riguarda beato i filmini della sua avventura, con il degno finale di lui che possiede Librianna con addosso un costume da orso sovietico, scena degna del peggior film porno mai visto, ma mai brutto come questo. (22/8/11)

ddv7602877 – La bestia nel cuore – e temo anche alla regia – di Francesca Comencini, Italia 2006
Premetto: farò di tutto per non scadere nel querelabile. E aggiungo: non escludo che cattiva digestione, ansie professionali e meteopatia possano avere influenzato il mio giudizio. La prendo larga: per quel che mi riguarda questo film è disastroso ed è l’epitome (ehi, ho usato la parola “epitome”) di tanto cinema italiano, tronfio e insopportabile. La cosa che soffro di più è il testo, mortificante, tutto scritto, legato, finto: la regia insistita e non granché originale contribuisce a questo senso di poca spontaneità, in una generale piattezza talvolta interrotta da qualche lampo d’invenzione, alternanza – rara – che insinua il dubbio della casualità e dell’inconsapevolezza. La drammaturgia è gestita come un macellaio tratta un nodino, con improvvisi apici recitativi scomposti, tra urla e gemiti. Poi arriva il momento leggiadro, sentimentale e, zac!, parte la Gnossiénne numero 5: povero Satie, ridotto a stereotipo musicale. Giovanna Mezzogiorno non recita, ma sussurra ai limiti dell’inudibile e sembra avere qualche problema di dizione e siccome l’argomento è scottante la si premia, anche in memoria del padre Vittorio che in vita, invece, ce l’eravamo filati poco nonostante avesse lavorato con Peter Brook. Luigi Lo Cascio se la cavicchia, ma qui non mi sembra un problema di capacità attoriali, ma proprio di gestione delle stesse, con una regia che anestetizza tutto fino alla prossima accelerazione isterica, passando da personaggi narcotizzati a giulivi e poi tragici. In certi momenti il film sembra Boris, ma per comicità involontaria. Finale con rallenti e fermo immagine: non vado oltre se no finisco nel penale. Audio brutto, luci e scene finte, con interni irreali, case vuote, senza tende o persiane (la metafora? Spero di no ma pure potrebbe). Dialoghi da manuale, ma di quelli per principianti: più che indignato, sono incredulo e Barbara mi è testimone dello scempio cui assistiamo. La trama è tratta da un romanzo della regista e si può sintetizzare il più brevemente così: papà è pedofilo e incestuoso, ma la figlia ha rimosso nonostante l’evidenza dei ricordi. E certo, se no il film non si fa. Lei incinta va in USA dal fratello per rasserenarsi dato che la turba l’immagine ricorrente della patta aperta del padre che la raggiungeva nel suo lettino di bimba. E chissà mai cosa sarà potuto accadere. Ma in USA non ha il coraggio di chiedere esplicitamente al fratello. Poi annuncia che è incinta e quando la cognata dice che la gravidanza le farà dimenticare tutto, che questa nascita la salverà, arriva il picco drammatico: “Salva da cosa!?!”, urlando all’improvviso. E da lì rivelazioni a cascata e ritorno in Italia con ulteriori vicissitudini che culminano nella scena stracult del delirio preparto, con camera zenitale che ondeggia sulla Mezzogiorno in deliquio. Candidato per l’Italia al premio Oscar, il film non è stato però premiato e chissà poi perché. Mentre scrivo, cioè il giorno dopo questo supplizio, la Comencini ha presentato il suo nuovo film a Venezia, tratto da un altro suo romanzo. Ci son state risate a scena aperta durante le scene drammatiche. Lei ha accusato i critici maschi, e te pareva. Mi dispiace, ma dopo questo La bestia nel cuore non ho dubbi su chi possa aver ragione. Critico no, ma maschio sì, sorry, e non significa che devo accettare sullo schermo ogni cosa solo perché la regista si ritiene intoccabile per nascita, eh. Vabbeh, basta: ho una fame nera, comunque, e vorrei capire perché se basta una sera per prendere un chilo, serve un mese per abbatterlo e perché a 20 anni mangiavo 5 etti di patatine fritte e non avevo problemi e adesso non posso più farlo. È un mondo cattivo, con la bestia nel cuore, certamente. (Diretta su RaiMovie; 6/9/11)

ddv7603879 – L’incantevole, giuro, Come d’incanto di Kevin Lima, USA 2007
Galeotto fu il trailer in un dvd Disney visto recentemente. Le bimbe pretendono e il pessimo padre obbedisce. Il concept è imbattibile (personaggio da favola, simil-Principessa, immerso in realtà metropolitana odierna) e il risultato finale è ottimo perché si tiene il ritmo delle trovate e non si sbraca mai. La prima parte funziona benissimo ma è anche la più facile (per modo di dire) da scrivere. È la parte destruens, con tutta l’ironia – anche cattiva – sul mondo disneyano e gira a mille con equivoci, gag e anche battute azzeccate. Il primo Shrek era tutto così ed era amabile. Ma era solo così: parodia, geniale perché inedita, ma solo parodia. Diventa difficile però portare avanti il gioco, la parte construens: come far funzionare la trama, come risolvere tutto ed è qui che io batto le mani perché tutto si incastra alla perfezione, sempre con autoironia e plausibilità narrativa. È un ottimo lavoro, sinceramente, e non l’avrei mai detto, ma mai mai mai. Brava la protagonista principale, Amy Adams, e anche il belloccio contemporaneo, tale Patrick Dempsey, che, mi spiega Barbara, si tratta di gnoccolone riverito dall’universo mondo femminile intiero in quanto protagonista di Grey’s Anatomy, uno di quei telefilm di bassa lega che ha conosciuto immensa popolarità in tempi recenti (ne ho visto una volta una puntata e l’unica cosa curiosa era che protagonista fosse una cinese con la faccia più storta che avessi mai visto, tolti due quadri di Picasso). Film adorato dalle bambine (le mie, intendo) e pure apprezzato da me, com’è evidente. (1/10/11)

ddv7604880 – Boris – Il film di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, Italia 2011, non vale il Boris che conoscevamo
La partenza è buona, con la sentenza definitiva sul fare tivù (“è come la mafia: non se ne esce, se non da morti”, confermo) e con il racconto dolorosamente attendibile del sottobosco cinematografico: la cialtronaggine dei produttori finti e veri, le fisime intellettuali degli sceneggiatori, i salari rubati, le pose acculturate. Finisce che René Ferretti accetta di girare un improbabile La casta, provando il colpaccio con un’operazione in stile Gomorra. Ovviamente finirà tutto in vacca, rassegnati – anche su pellicola – a riprodurre le modalità lavorative della televisione. Perfetta la caratterizzazione della grande attrice italiana, che non parla ma sussurra ed è piena di fobie, ritrattino che mi sembra adattabile a un numero imprecisato di attrici (ma facciamoli ‘sti nomi: la Mezzogiorno, la Morante, la sempre nevrotica Buy). Ci sono alcune trovate azzeccate, ma più che ridere si sorride e in alcuni momenti si subiscono stasi esiziali e la questione è che da un film così vorresti avere una brillantezza insuperabile, come nella serie tivù. Invece si rimane in superficie in troppi momenti. La seconda parte ricalca le dinamiche note nella serie, ma senza la freschezza e la velocità cui eravamo abituati e la morale finale l’abbiamo già vista in tre finali di serie, anche se Barbara parte con le ipotesi: e se fosse stato un sogno? Ma non cambia il risultato: René quello sa e deve fare, la tivù cialtrona, ammesso che ne esistano altre possibili. Gli attori sono tutti bravi e ben diretti. Sermonti è l’unico che mi risulta fastidioso, ma non per limiti suoi, ma perché il suo ruolo non ha più misura, è completamente fuori controllo e non credibile nel pur poco credibile livello di realtà. Cameo grandioso di Nicola Piovani che si riscatta dall’amorazzo con Giovanna Melandri e rende meritevole l’Oscar vinto anni fa con La vita è bella. (1/10/11)

ddv7605886 – Babylon A.D., una babelica stronzata di Mathieu Kassovitz, Francia 2008
Questo film fa cacare, ma dolorosamente, con crampi e nebulizzazioni diarroiche tipo spray. È di sconcertante bruttezza, dalla trama intorcinata e inspiegabile, senza alcun fascino visivo e narrativo. Pure le scene d’azione fanno schifo e Vin Diesel non ha una battuta una che sia decente. Di contorno una Rampling truccata come The Joker (e con qualcosa della Moratti, ecco) e un Depardieu conciato da cattivo in maniera grottesca con un nasone immenso e i denti marci. Brutto tutto, la fotografia buissima, la musica che si dimentica subito. Prevedibili gli sviluppi della trama, sono implausibili anche nel campo dell’implausibilità della fantascienza i motori narrativi della vicenda. Tremendo. Rai4 sta comunque diventando il nostro canale preferito del digitale terrestre: ha un programma denso di vaccate assolutamente godibili. Ti siedi, accendi e subisci, sdivanato e assente. Sembra una Italia1 di 15 anni fa, piena di film d’azione di cui uno non sospetta neanche l’esistenza. Barbara s’è vista due film dedicati alla Banlieue 13, che io invece ho assunto a tratti. Scene d’azione sempre godibili, montate freneticamente ma anche con bei cinematismi, inventivi, cosa che nel film di Kassovitz mancava clamorosamente togliendo anche uno dei pochi motivi di visione. Le trame e i dialoghi invece facevano schifo, ma la colpa magari è della traduzione, chissà. (No, non credo). Ad ogni modo il secondo episodio finisce con gli eroi della banlieue (arabi, dropout, punk, delinquentelli, sballati etc.) che fanno tenerezza al presidente francese improvvisamente illuminato, tutti vanno d’amore e d’accordo, egalité, fraternité, Beyoncé, e si completa il piano del cattivone di turno (il capo della flicaille) che voleva bombardare la banlieue per realizzare una pesante speculazione. La si bombarda sì, ma tutti decidono che la si ricostruirà migliore e con del verde. Ma che buffoni! (Diretta su Rai4, 21/10/11)

hqdefault888 – Fulminati e persi ne La Vallée di Barbet Schroeder, Francia 1972
Moglie di diplomatico annoiata conosce 4 hippie storti che nella verdeggiante Nuova Guinea vogliono trovare l’uccello del paradiso in una valle misteriosa. Ovviamente la ciccetta si diletta di ornitologia in altra maniera, con consumo entusiasta di droghe, tronata e libera da convenzioni piccolo borghesi, e l’allegra combriccola intraprende un trekking: il film diventa quasi un documentario, con facce, usi e costumi degli aborigeni e la consueta uccisione dei maiali (sembra un obbligo narrativo degli anni Settanta) presi a legnate in faccia, in una scena abbastanza cruenta e insistita. Il viaggio prosegue imperterrito sinché la compagnia arriva stremata in cima a una montagna. Sono tutti affamati, sporchi, distrutti da fame, sete e fatica e – con un effettaccio tipo TeleTubbies che simula la rifrazione dei raggi solari – la protagonista si risveglia e dice: la vedo, ecco la valle! (letteralmente, come da titolo: la vallée!) e poi “FIN” e buonanotte ai suonatori. Eeeeh? E nonostante ciò il film ha un suo perché: è lentissimo e ipnotico, drogato e drogante, nel senso che non riesci a metterlo giù nonostante l’azione pressoché nulla e il finale stupefacente nel suo lasciarti a bocca asciutta. La Nuova Guinea, è un’isolaccia immensa, pressoché disabitata se non da tribù che vivono su altipiani a 2000 metri e senza quasi risorse alimentari (ho appena letto Armi, acciaio, malattie di Jared Diamond, bellissimo, sull’evoluzione dell’uomo e ‘sti poveretti sono (stati) cannibali per la drammatica mancanza di proteine nella loro dieta). Per altro gli indigeni seminomadi sono fisicamente stranissimi, come degli aborigeni australiani, ma più scuri, con niente in comune con gli orientali né tanto meno gli occidentali. I paesaggi sono maestosi: sembrano alpini, ma con foreste intricatissime, ed è sempre nuvolo, con una percepibile umidità che solo a guardare il film mi sentivo venire i reumatismi. Sono andato su Google Maps a dare un’occhiata e in effetti è ovunque chiazzato di nuvole. La colonna sonora (per canzoni) è dei Pink Floyd, contenuta nell’album Obscured By Clouds, come la valle paradisiaca, sconosciuta e introvabile in quanto non fotografata nelle ricognizioni aeree perché oscurata dalle nubi. La musica è usata poco e male ed è un peccato perché è una delle opere più originali dei Pink. Realizzata in due settimane, praticamente buona alla prima, ha un piglio rock niente male (dall’hard fino a due pezzi invece inusitatamente pop, con David Gilmour in bella evidenza) e stupisce al confronto del coevo Dark Side of the Moon. O forse mi piace perché c’è quell’inconfondibile sonorità, ma su pezzi non così rifiniti, non cesellati, puliti, quasi asettici come nel capolavoro di cui si celebrano in questi giorni i 40 anni con edizioni clamorosamente costose e ricche (di roba inutile: un capolavoro per pulizia progettuale e interpretativa ti viene rivenduto con gli scarti zozzi? mah!). La protagonista Bulle Ogier è interessante, sembra una bambolina, così compita coi suoi occhioni azzurri e i capelli biondi. Gli hippie invece sono mostruosi, non particolarmente convincenti come attori e ce n’è uno che a un certo punto indossa il chiodo da metallaro… in Nuova Guinea! Alle volte, i corto circuiti temporali e climatici, mah! Il film l’ho cominciato a guardare in treno sul computer e al 15° minuto ‘sti qui trombano, come se fosse la cosa più normale del mondo. E forse lo era. (Quando sarebbe interessato a me, no. Dopo neanche. Oggi neppure). Comunque non potevo vederlo col timore che arrivasse alle spalle un controllore mentre due copulano sullo schermo. Vabbeh, l’ho spento e rivisto con più calma a casina mia. Interessante spaccato di vita quotidiana, nevvero? (29/10/11)

ddv7607889 – La libertà irripetibile di Alpe del Vicerè 1973 e Re Nudo di Luigi Salvaggio e Dario Vergani, Italia 2010
Raccolta di documenti visivi (che si accompagnano a un divertente libro di Matteo Guarnaccia) che rinuncia programmaticamente alla forma filmica e alla nostalgia. Si tratta di diversi reperti storici dei primi raduni pop in Italia, genuinamente underground e realizzati con pochi soldi e tanta energia e idee. Le immagini sono attualizzate con interviste ai testimoni dell’epoca, realizzate tecnicamente un po’ coi piedi e con poca severità nei tagli, ma comunque interessanti e congruenti allo spirito rievocato. E non puoi che voler bene a queste persone che non ostentano alcun reducismo post sessantottino. Nelle immagini vediamo maree di giovani e c’è meno politica “parlata” di quanto si possa credere, piuttosto tanta politica praticata. Le sequenze di Alpe del Vicerè sono straordinarie e c’è un Battiato che se non lo vedi non ci credi. Ha una testa di capelli che al confronto Angela Davis era una dilettante calva: magrissimo e simpaticissimo, era già geniale allora, ma questo lo sa chiunque abbia ascoltato Fetus. Tra i protagonisti dell’epoca anche Finardi che racconta sullo sfondo di San Michele di Pagana, tra Rapallo e Santa Margherita. Quando lo vedo, penso: ma quegli scogli io li conosco! Incredibile: questo va da sempre nella spiaggia in cui andavo io da bambino (ho un evidente legame sotterraneo con Eugenio Finardi: veniva d’estate anche a Champoluc e oggi abita vicino a me: prima o poi devo intervistarlo). Dopo questo tuffo nella memoria, emozionante e per nulla compiaciuto, mi son rifatto la bocca con il finale del grandioso Trappola d’amore, un disastroso thriller sentimentale con un risibile Richard Gere al top della forma, tra pianti e scenate isteriche: prima o poi si impone una visione integrale con doverosa disamina critica. (3/11/11)

ddv7608890 – Il grande freddo di Drive, di Nicolas Winding Refn, USA 2011
Raggelato, stilosissimo, intrigante: il kitsch anni Ottanta che diventa stile. Mi ricorda uno Scorsese, ventenne nei temi e cinquantenne nella forma, ma c’è molto di più, è chiaro. C’è il Vivere e morire a Los Angeles di Friedkin, per esempio, e altre cose ancora che i critici seri sanno e io non ricordo più e neanche ho voglia di farlo. Drive è girato benissimo, con una lentezza ostentata che va di pari passo col mutismo del protagonista: non ricordo se l’ha detto Ryan Gosling o Refn proprio, ma sarebbe un sogno, o potrebbe esserlo, con le sequenze finali come uniche ambientate nella realtà. Ma non mi interessa, il film viaggia bene così. Titoli con lettering e colori fluo a sottolineare la curiosa adesione estetica di cui dicevo: si veda anche la musica di plastica, decisamente azzeccata (anche se a film finito non la sentirei manco sotto tortura). Bravi gli attori, bello il montaggio e intelligenti le piccole deviazioni narrative che ti ingannano per pochi secondi. (12/11/11)

ddv7609893 – Altrimenti ci arrabbiamo!, sempre!, di Marcello Fondato, Italia Spagna 1974
In realtà lo abbiamo visto a rullo per un mesetto circa, ma con continuità io l’ho rivisto solo stasera. E con che stolido piacere, signori miei. Pochissimo dialogo, tutto memorabile però, nella sua semplicità archetipica: quando l’ho visto nell’agosto 1979 ricordo che con Pier Paolo citavamo a memoria – e dopo una sola visione – tutte le frasi del duo Bud and Terence, manco declamassimo versi dell’Ariosto. E oggi lo vedo fare a mia figlia. I due protagonisti erano in stato di grazia e affiatatissimi, ma anche i personaggi di contorno sono perfetti (su tutti Donald Pleasance!), così come le caratterizzazioni (i duri della banda nemica, il killer Paganini). Le musiche dei fratelli De Angelis alias Oliver Onions sono eccezionali (e non solo la frizzante Dune Buggy, anche il Coro dei pompieri, Across the Fields che accompagna il rally iniziale e Il ballo, in tutte le scene danzerecce). Un giorno m’è venuto lo sghiribizzo di fare un controllino e ho verificato che lo stadio era quello dell’Atletico Madrid (Google Map è uno strumento prodigioso: certe volte passo un’ora a passeggiare virtualmente in posti che conosco. Sono un cretino, lo so). Poi ho googlato e trovato un sito con estensione Tokelau di un simpatico matto che ha perlustrato Madrid ritrovando tutti i luoghi del film 40 anni dopo. Vabbeh. Di solito coi film amati nell’infanzia, quando si rivedono dopo tanto tempo, si prova una sensazione agrodolce, scoprendo quanto fossero irrisolti, salvati dalla benevolenza della memoria. E invece no: Altrimenti ci arrabbiamo sta in piedi non solo dignitosamente, ma proprio benissimo e potrebbe correre la maratona. L’incasso fu stratosferico e non ho né voglio cercare le pezze d’appoggio, ma insieme a Fantozzi e a Ultimo tango a Parigi credo sia uno dei film più visti dal popolo italiano. D’accordo che c’erano le seconde visioni, le terze e i parrocchiali (io il film – del 1974 – l’ho visto al cinema sia nel 1979 che nel 1980) e la televisione era quella del monopolio Rai (e non ancora del monopolio Nano), ma Benigni, Aldo Giovanni e Giacomo, Zalone e Giù al sud, gli fanno una pippa ad Altrimenti. E anche non fosse un semplice calcolo sui biglietti staccati o sugli incassi, io parlo proprio di immaginario, perché non c’è persona tra i 40 e i 50 che non sia stato segnato dalla visione di questi film. Comunque che si continui a parlare d’incasso più grosso di tutti i tempi basandosi solo sul valore nominale dell’incasso e non sull’effettivo valore considerando la svalutazione, beh, è una coglionaggine che non ha veramente senso. (5/12/11)

ddv7610895 – Voglio i Gremlins di Joe Dante, USA 1984
Approfittando del sonno pomeridiano della piccola Elena, Sofia e io ci concediamo una peccaminosa visione di un film che mamma Barbara sconsiglia. Ma vinciamo noi e, non avendo visto il film all’epoca, capisco a chi si riferisca il nome della band attualmente à la page dei Mogwai. Noto anche che il mio amore Phoebe Cates era proprio patatissima, nonostante certe camicette emetiche tipicamente anni Ottanta. Invece il protagonista non l’ho mai più visto. Dunque: siamo alla vigilia di Natale e un inventore senza arte né parte regala al figlio un curioso mostricciattolo peloso scovato in un robivecchi cinese. Ma, attenzione: niente luce, niente acqua e guai a dargli da mangiare dopo mezzanotte. Cose che puntualmente accadono e mentre sulla tivù girano prima La vita è meravigliosa e poi L’invasione degli ultracorpi, la cittadina viene invasa da mostruose creature devastatrici. È una fiaba di Natale horror, dove il buonismo spielberghiano viene sbeffeggiato (complice Spielberg stesso che produce). Rimandi cinefili e tanta ironia: altro che E.T.: questi gremlins sconquassano lo status quo, pervertono e perturbano anarchicamente tutto, sfasciano, fumano, sbevazzano, fanno pure giustizia dei tanti personaggi negativi della cittadina, ma ovviamente l’orrore sano non può vincere su quello reale, di un paese ormai finto, che finge di credere a Babbo Natale e che si sente assediato dagli stranieri (tantissime volte, se ne parla e si vedono prodotti esteri). Insomma, ne esce un film più intelligente di quanto vuol dare a vedere – con la sua estetica infantile e smaccatamente falsa (ma i mostri finti in modo pacchiano sono anche un omaggio alla fantascienza maccartista degli anni Cinquanta). Però rimane il solito problema: si ride e si scherza e si dicono pure cose non banali, ma il film non va bene per gli adulti (a meno che non siano un po’ rimbambiti) né per i bambini, perché al di là della vicenda (molto prevedibile) i temi sono fin troppo alti. Sofia ha visto tutto senza fare un plissé né reagendo al clamoroso spoiler: Babbo Natale non esiste! (9/12/11)

ddv7611897 – Fumata nera per Habemus Papam di Nanni Moretti, Italia 2011 Dvd
Naaaa. Non riuscito. Parte con un tema interessante che però non viene granché sviluppato: la solitudine della scelta di un uomo sembra lasciata esattamente al protagonista e la regia e la trama non provano a darci altre indicazioni. Un po’ comodo, quando invece si indugia su stupidaggini autoreferenziali (la partita a pallavolo che non finisce più, il tormentone prevedibilissimo della mancanza di accudimento) o alcune macchiette irritanti (il giornalista del Tg2 che poi, per fortuna, viene perso di vista). Un’occasione persa, insomma. C’è l’intelligenza di Moretti, ci mancherebbe, ma anche tante scorciatoie che lasciano l’amaro in bocca. A me che Nanni faccia Nanni, un po’ incazzoso e monomaniaco, non dispiace. Oh, è ben per questo che lo abbiamo amato, ma non si può cadere nella parodia di sé. Cosceneggiatori Francesco Piccolo (che ha venduto mille milioni di copie di un trascurabile liberculo intitolato Momenti di trascurabile felicità) e la genovese Federica Pontremoli che mai sono riuscito a incrociare tra Lumière e altro. (11/12/11)

ddv7612899 – Le colpe dei padri… Children of the Revolution di Shane O’Sullivan, Irlanda/Germania 2011
Curioso documentario dal repertorio iconografico storico clamoroso che racconta la storia di due madri “rivoluzionarie”, Fusaku Shigenobu e Ulrike Meinhof, e delle loro figlie, figlie della rivoluzione, senza padri e sballottate per il mondo, senza identità. Il film è apologetico e non “critico” o storiografico: sceglie di non dedicarsi alla storia delle madri in maniera approfondita, non entra nelle polemiche sui crimini commessi o meno né si occupa granché della morte della Meinhof. Circoscrive l’indagine privilegiando gli aspetti privati ed essendo un ritratto emotivo fallisce proprio perché rimane asettico, senza far scattare una vera empatia. Mai una scintilla, dell’affetto, una partecipazione, anche tra gli stessi protagonisti. Bettina Meinhof è una derelitta incarognita che ha pagato eccome per le colpe della madre, se la madre ne ha avuto, ancora ossessionata dai fan postumi. Le amiche di Ulrike che la raccontano sono delle anziane borghesi che sembrano non aver capito il travaglio della Meinhof (che a loro si ribellava) e tendono a giustificarla dando la colpa – ‘anvedi – alle cattive compagnie o ai problemi neurologici della giornalista (che si portava una bella piastra di metallo in testa che potrebbe averle cambiato la personalità). Mah. Delle due storie la più riuscita è decisamente quella di May Shigenobu, persona realizzata e dalla vita interessante. La madre Fusaku Shigenobu è stata partecipe in maniera onorevole, proprio secondo l’accezione giapponese – che non conosco, ma ci siamo capiti – della lotta palestinese per la libertà, assieme al FPLP, e non si può che provare simpatia quando la traducono in carcere, indifesa, innocua, dopo 30 anni di latitanza e lotta ideale, giacché dopo la partecipazione ai dirottamenti degli anni Settanta non ha più fatto nulla, se non vivere in fuga. I vecchi compagni della Shigenobu sono invece dei mai domi compagni nipponici, sorridenti, capaci di ironia, ancora irrequieti. Come del resto lei, di cui si vedono le immagini della cattura nell’aprile 2011, salda e sicura. Edizione sottotitolata in inglese quando i protagonisti non lo parlano direttamente (alcuni militanti palestinesi in maniera atroce e incomprensibile). Film interessante, non so quanto riuscito. (16/12/11)

(Continua, forse – 76)

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