Peter Bogdanovich – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Soltanto la morte danzava sulle grandi pianure https://www.carmillaonline.com/2017/12/07/la-morte-danzava-sulle-grandi-pianure/ Wed, 06 Dec 2017 23:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41690 di Sandro Moiso

Larry McMurtry, Lonesome Dove, Einaudi 2017, collana Supercorall, pp. 952, € 25,00

Torna nelle librerie a trent’anni di distanza dalla prima edizione, nella nuova traduzione di Margherita Emo e con il titolo originale non tradotto, un autentico classico della letteratura western e della letteratura americana contemporanea. Sicuramente un’ottima scelta per una casa editrice che già ha avuto il merito di far conoscere in Italia l’opera di Cormac McCarthy (classe 1933), cui non solo idealmente è possibile ricollegare questo romanzo dell’altro grande vecchio del western: Larry McMurtry (classe 1936).

Ottima [...]]]> di Sandro Moiso

Larry McMurtry, Lonesome Dove, Einaudi 2017, collana Supercorall, pp. 952, € 25,00

Torna nelle librerie a trent’anni di distanza dalla prima edizione, nella nuova traduzione di Margherita Emo e con il titolo originale non tradotto, un autentico classico della letteratura western e della letteratura americana contemporanea. Sicuramente un’ottima scelta per una casa editrice che già ha avuto il merito di far conoscere in Italia l’opera di Cormac McCarthy (classe 1933), cui non solo idealmente è possibile ricollegare questo romanzo dell’altro grande vecchio del western: Larry McMurtry (classe 1936).

Ottima scelta per un paese in cui l’attenzione della critica letteraria per la letteratura americana sembra, negli ultimi anni, essersi concentrata principalmente su autori come David Foster Wallace o Don DeLillo. Scelta utile anche per contrastare un’idea di cultura e letteratura che incoraggia una certa critica, tutt’altro che competente, a recensire positivamente un film noioso e inutilmente ripetitivo come “Revenant” di Alejandro González Iñárritu, dimenticando o, peggio ancora ignorando, che alla base dello stesso possa esserci invece un ottimo ed essenziale romanzo come “Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta” di Michael Punke, edito anch’esso da Einaudi nel 2014. Critici superficiali che finiscono col ridurre le vicende drammatiche dell’espansione wasp verso l’Occidente americano, nei primi decenni dell’Ottocento, ad una storiella degna del grande Blek. Ignorando così sia la storia che la tradizione letteraria degli Stati Uniti.

Nel 1986 il romanzo di Larry McMurtry, che aveva appena vinto il premio Pulitzer, era stato infatti edito da Arnoldo Mondadori con il titolo, poco accattivante per l’epoca, Un volo di colombe nella traduzione di Roberta Rambelli. Titolo che tradiva non solo il titolo originale,1 ma l’intero senso della storia narrata.
Devo infatti dire che, all’epoca, se non mi fosse stato regalato da un carissimo amico, non avrei mai preso in considerazione un libro che, a differenza dell’attuale riedizione, mostrava in copertina un’immagine e un titolo degni di un romanzo di Barbara Cartland: una giovane e avvenente donna bionda che salutava romanticamente un cowboy in sella e già pronto a partire per chissà quali avventure.

E proprio in tale suggerimento sta la questione, poiché se l’editore attuale si ostina ad inserirne ancora la trama nell’epopea della grande avventura del West, in realtà questo non è un romanzo di avventure. O, meglio, un romanzo in cui l’avventura costituisce il centro delle vicende. Larry McMurtry, nei romanzi che compongono la quadrilogia da cui è tratto Lonesome Dove,2 ma non solo in quelli, non è uno scrittore d’avventure. Cosa che lo metterebbe sul piano di Zane Grey, Louis L’Amour o altri autori seriali del genere western-avventuroso.

In realtà McMurtry ha suddiviso la sua esperienza di scrittore in almeno in tre settori: un settore mainstream in cui ha pubblicato romanzi come Voglia di tenerezza (da cui, nel 1983, fu tratto un film di Jame L. Brooks con Jack Nicholosn e Shirley McLaine, vincitore di 5 premi Oscar); un settore western (numerosi romanzi e racconti) e, infine, uno dedicato alla ricostruzione storica di personaggi e vicende dell’Ovest americano dell’Ottocento.3

Sono in particolare queste ultime opere a rivelare che per lo scrittore di Wichita Falls l’interesse per la storia e le vicende della conquista dei territori dell’Ovest non è né superficiale né tanto meno casuale. La conoscenza della materia è infatti approfondita e l’attenzione per tutto il sangue che ha intriso la terra delle grandi pianure su cui un tempo pascolavano i bisonti non ha una funzione soltanto narrativa. Come le vicende del romanzo in questione dimostrano ad ogni pagina.

In uno paese al confine fra Texas e Messico, ben dopo la fine della guerra civile, Augustus McCrae e Woodrow Call, due ex-ranger, ammazzano il tempo bevendo e giocando a carte oppure lavorando sodo dall’alba al tramonto, allevando uno smagrito bestiame, mentre nei dintorni si aggirano solo armadilli e capre spelacchiate. Un giorno però torna un vecchio amico che descrive i pascoli lussureggianti del Montana. Radunata una mandria di bovini e messa insieme una nuova squadra di autentici proletari a cavallo i due soci partiranno per essere i primi a fondare un ranch oltre lo Yellowstone.

E’ il tipico inizio di una miriade di trame western classiche: da Red River-Il Fiume Rosso di Howard Hawks (1948) a Open Range – Terra di confine di Kevin Costner (2003). Ma qui, fin dall’inizio non vi è altro che la morte ad attendere gran parte dei personaggi durante il lunghissimo viaggio oppure alla sua fine. Morti banali legate alla presenza nei fiumi dei velenosi mocassini d’acqua oppure violente dovute allo scontro tra bianchi, avidi di guadagno, e tribù che non intendono cedere i propri territori e gli animali selvatici che li popolano, anche se ancora per poco.

Morti di donne che sognano una vita che non sia quella in una monotona cittadina di frontiera e di bambini, che non hanno altra colpa di essere lì, da qualche parte nello sperduto nulla del West, nel momento peggiore e ultimo della loro vita. Morti che concludono vite qualsiasi oppure apparentemente già entrate nel mito e vite di rinnegati, bianchi o nativi americani, che cercano nella violenza un’ingiustificata vendetta oppure una sorta di impossibile riscatto.

Morte per i cacciatori di bisonti e per chi si accompagna a loro in cerca di fortuna; morte per chi immaginava una vecchiaia tranquilla tra pascoli verdi e acque ancora chiare. Morti istantanee e morti atroci, magari tra gli spasmi di una cancrena o di un veleno che divora il corpo. In terra non esiste che l’inferno e nel cielo si aggirano soltanto nubi di tempesta. Il sogno americano muore in ogni riga e in ogni capitolo del romanzo.

La banalizzante e inveterata abitudine, specialmente legata alla critica di cui si parlava all’inizio, di considerare la narrazione western come il caposaldo della difesa del mito fondativo americano non tiene conto del fatto che, molto spesso, proprio in quella narrativa, sia essa cinematografica o letteraria, si trovano gli argomenti più forti per comprendere come gli Stati Uniti siano nati da un grosso equivoco, da un’altrettanto grande menzogna e da una ancor più grande violenza che ha distrutto spesso insieme l’opera dell’uomo e l’ambiente che la circondava.

Basti pensare ad alcuni altri grandi romanzi della letteratura americana del dopoguerra come Il grande cielo di A. B. Guthrie (1947) oppure Butcher’s Crossing di John Williams (1960), oltre a quelli di Cormac McCarthy, 4 oppure ancora alla cinematografia recente di Tommy Lee Jones e in particolare al suo The Homesman (2014), tratto dall’omonimo romanzo di Glendon Swarthout del 1988,5 per non citare sempre e soltanto i classici di Sam Peckinpah, Dick Richards (The Culpepper Cattle Company,1972 – Fango, sudore e polvere da sparo) e Robert Aldrich (Ulzana’s Raid, 1972 – Nessuna pietà per Ulzana). Quelle appena citate non appartengono comunque ad una letteratura e una cinematografia buonista e non sono neppure troppo politically correct,6 ma appartengono tutte ad una visione più antica e profonda dei drammi che hanno fondato la storia e la nazione americana.

Una visione drammatica che, se ancor non rivolta alle grandi pianure, ha inizio proprio con Moby Dick di Melville, in cui desiderio di guadagno e sete di vendetta non possono portare ad altro che ad un’inutile e sanguinosa distruzione di uomo e natura insieme. Intendendo qui come natura anche le comunità ancora non sottomesse alla successiva regola capitalistica travestita da civiltà universale. Un’ombra che si allunga già sul primo romanzo della Frontiera, Last of the Mohicans di James Fenimore Cooper, attraverso la figura tragica di Magua e la sua feroce e inutile ribellione contro una Storia già scritta da ben altre forze. Un senso di sconfitta e di irrealizzabilità di qualsiasi umano desiderio che sta agli antipodi del sogno americano, sia esso promesso da Donald the Duck Trump oppure da Mickey Mouse Obama, e che di conseguenza rivela anche la menzogna contenuta nella leggenda del melting pot.
Quasi a conferma di ciò che affermava William Burroughs nel suo Pasto nudo (1959):

L’America non è una terra giovane: era già vecchia, sporca e malvagia prima dei coloni, prima degli indiani. Il male è lì che aspetta.

Una fine che giunge ancor prima che il sogno abbia inizio, all’interno di una morale puritana in cui il senso della predestinazione raggiunge, fin dai tempi di Cotton Mather, i suoi vertici letterari e culturali. Il cui senso ultimo è sempre lo stesso: nessuno è destinato a salvarsi e i predestinati della tradizione luterana forse neppure esistono. Poiché alle spalle tutti hanno un peccato originale così grave, la distruzione della Natura e delle comunità umane preesistenti, che neppure Dio può cancellare.
Animando così quel cupo senso di morte, quell’autentico memento mori che sembra caratterizzare quasi tutta la letteratura americana da Melville a Poe, da Twain a Hemingway, da Cormac McCarthy a Burroughs.

Nell’opera di McMurtry decine di piccole storie s’intrecciano tra loro ed escono dall’ombra della Storia per un attimo. Fantasmi dimenticati di una vicenda di conquista e indebita appropriazione che ha segnato l’immaginario di un secolo. Non solo americano. E se per caso qualcuno dubitasse di questa interpretazione basterebbe rileggere oppure riguardare un altro romanzo dell’autore americano: The Last Picture Show del 1966,7 da cui Peter Bogdanovich trasse, nel 1971, uno dei suoi film migliori.

Un’autentica elegia sulla fine del West e della sua leggenda, vista attraverso le vicende di un’amicizia tra due giovani, il loro rapporto con l’unica sala cinematografica in cui si proiettano ancora e soltanto film western, con l’ultimo dei cowboy e l’amore per la stessa ragazza.
La guerra di Corea costringerà uno dei due ad allontanarsi da tutto ciò e al suo ritorno tutto sarà svanito: l’amore, la sala cinematografica ormai chiusa e il vecchio cowboy ormai morto.
Segnando una cesura definitiva con un prima che probabilmente poteva essere soltanto immaginato dai giovani protagonisti a causa dell’età.

Anche Lonesome Dove nasce da un’idea di collaborazione tra lo scrittore texano e il regista Bogdanovich, quando all’inizio degli anni Settanta, Peter Bogdanovich avrebbe voluto girare un film in omaggio al suo maestro John Ford.8 Nasce così il primo abbozzo di Lonesome Dove, sebbene con un altro titolo. Successivamente, nel 1989, Lonesome Dove verrà adattato in una mini-serie televisiva, con Robert Duvall e Tommy Lee Jones.

La collaborazione con il cinema continuerà nel tempo per McMurtry, anche attraverso l’adattamento cinematografico di una storia tratta dall’opera di un’altra grandissima autrice statunitense, di origini canadesi, di storie western: Annie Proulx. Il film sarà quel Brokeback Mountain (I segreti di Brokeback Mountain), diretto da Ang Lee9 che nel 2005 proporrà una visione assolutamente diversa della vita e della sessualità dei cowboy. Contribuendo a distruggere uno degli ultimi miti della Frontiera: il machismo sciupafemmine e la virilità incontaminata degli uomini delle grandi praterie.


  1. Lonesome Dove, colomba solitaria, è il nome del ranch da cui prende inizio la vicenda  

  2. Gli altri sono: Streets of Laredo (1993), Dead Man’s Walk (1995) e Comanche Moon (1997). Tutti ancora non tradotti in Italia  

  3. Crazy Horse: A Life, 1999 pubblicato in Italia come Cavallo Pazzo. Storia del capo Sioux che vinse a Little Bighorn, Mondadori 2003; Oh What A Slaughter! : Massacres in the American West: 1846—1890, 2005 e, solo per citarne uno dei più recenti, Custer, 2012  

  4. In particolare Blood Meridian, or The Evening Redness in the West (1985), traduzione italiana Meridiano di sangue, Einaudi 1996; All the Pretty Horses (1992), Cavalli selvaggi, Einaudi,1996; The Crossing (1994), Oltre il confine, Einaudi, 1995 e Cities of the Plain (1998), Città della pianura, Einaudi, 1999  

  5. In assoluto la migliore descrizione delle reali condizioni di vita delle donne sulle grandi pianure del West e del Midwest  

  6. A differenza di film come Little Big Man (Il piccolo grande uomo) diretto da Arthur Penn nel 1970 e tratto dal romanzo omonimo di Thomas Berger (1964) oppure Soldier Blue (Soldato blu) diretto nel 1970 da Ralph Nelson e ispirato al romanzo dello stesso anno Arrow in the Sun di Theodore V. Olsen, che risentivano, soprattutto il secondo, del clima intellettuale e culturale creato dalle proteste contro la guerra in Vietnam.  

  7. Traduzione italiana: L’ultimo spettacolo, Mattioli 1885, 2006  

  8. Cui aveva dedicato, nel 1971, il documentario-intervista Directed by John Ford  

  9. Regista di origine cinese che già aveva diretto un altro film western dedicato ai guerriglieri sudisti dopo la Guerra Civile: Ride with the Devil (Cavalcando con il diavolo) nel 1999  

]]>
Discorrendo di musica, ufo, rivoluzione ed altro ancora https://www.carmillaonline.com/2015/06/24/talkinbout-ufo-revolution-music-and-something-else/ Wed, 24 Jun 2015 20:14:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23392 di Sandro Moiso

Boyd_Biciclette Joe Boyd, Le biciclette bianche. La mia musica e gli anni sessanta, Odoya 2014, pp. 300, € 14,00

Nonostante la distanza degli argomenti trattati, la lettura di queste memorie di uno dei più grandi produttori musicali degli anni sessanta, ma in attività ancora oggi, mi ha fatto lo stesso effetto del film di Peter Bogdanovich su John Ford.1 Forse perché, in entrambi, è presente lo stesso senso di nostalgia per una forma [...]]]> di Sandro Moiso

Boyd_Biciclette Joe Boyd, Le biciclette bianche. La mia musica e gli anni sessanta, Odoya 2014, pp. 300, € 14,00

Nonostante la distanza degli argomenti trattati, la lettura di queste memorie di uno dei più grandi produttori musicali degli anni sessanta, ma in attività ancora oggi, mi ha fatto lo stesso effetto del film di Peter Bogdanovich su John Ford.1 Forse perché, in entrambi, è presente lo stesso senso di nostalgia per una forma quasi artigianale di conduzione del lavoro, oggi quasi impossibile, che ha fatto grande il cinema (western) e la musica degli anni sessanta e settanta.

Se nel primo caso rimarrà per sempre mitica la narrazione di come John Ford si immergesse fino al petto nelle acque di un torrente per mostrare all’operatore quale fosse il punto migliore da cui filmare, in un unico piano sequenza, una scena di dialogo tra James Stewart e Richard Widmark in “Cavalcarono insieme”, le descrizioni contenute nel testo di Joe Boyd della ricerca dei punti esatti in cui posizionare microfoni e musicisti negli studi di registrazione pre-digitali non sono da meno. Tenuto anche conto dell’altissima qualità dei dischi e dei suoni che risultarono da quelle sedute di registrazione.

Ora la maggior parte degli studi hanno grandi sale di regia e i dispositivi esterni possono essere collegati direttamente alla console: le drum machine, le tastiere elettroniche, i sequencer eccetera…La maggior pare della musica registrata oggi viene creata dai musicisti – o dagli operatori – seduti di fianco al tecnico del suono: passa direttamente all’hard disk invece che risuonare nell’aria per essere captata dai microfoni, Di conseguenza , la sala studio si riduce a uno spazio modesto destinato ai cantanti o ai singoli musicisti. Oggi l’acustica ideale è una situazione morta: la registrazione digitale può apparentemente sintetizzare qualsiasi atmosfera, dal Madison Square Garden al vostro bagno […] Negli anni Sessanta i musicisti registravano ancora la maggior parte di un pezzo suonandolo insieme nella stessa stanza e nello stesso momento […] Le sezioni ritmiche respiravano con gli altri musicisti, accentuando o ritardando il tempo a seconda dello stato d’animo. L’acustica degli studi cambiava moltissimo, così come gli stili del tecnico del suono e della produzione. In teoria, i computer fanno in modo che i musicisti e i produttori scelgano da una gamma infinita di suoni vari, ma le moderne registrazioni digitali sono molto più monocromatiche e simili fra loro di quanto lo fossero le vecchie tracce analogiche” (pag. 209)

In questo caso però, stiamo ben attenti, non ci troviamo di fronte alla stantia polemica da audiofili sulle differnze tra suono analogico e suono digitale, ma a una ben più profonda riflessione su differenti modi di intendere lo show business e la musica in generale.
Joe Boyd è stato un grandissimo produttore, ma difficilmente i suoi musicisti e cantanti hanno immediatamente raggiunto il successo e il grande pubblico ai tempi dei loro primi dischi. Così Joe ha modo di lamentarsi in varie pagine di come gli sia spesso sfuggita l’occasione di mettere sotto contratto gruppi destinati vendere nell’immediato milioni di dischi. Dai Lovin’ Spoonful a Stevie Winwood, dai Cream ai Pink Floyd e canzoni quali Fire di Arthur Brown o A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum.

Eppure egli, più o meno inconsapevolmente, lavorava per il futuro; con un senso dell’avventura, della ricerca e del melange musicale che lo rendono quasi unico nella storia del blues, del rock, del jazz e del folk. Ha lavorato con vecchi bluesmen quali il Reverendo Gary Davis o Sleepy John Estes e ha prodotto, tra il 1966 e il 1971, i dischi, oggi leggendari, della Incredible String Band, dei Fairport Convention, di Chris McGregor, di John e Beverly Martin, di Vashti Bunyan, di Nico e di Nick Drake. Soltanto per citarne alcuni.

Ancor prima, giovane americano nato nel 1942, era giunto a Londra nel 1965, a caccia di emozioni, avventure, musica e, soprattutto, musicisti e dischi da produrre. Il primo risultato, però, si era concretizzato con l’apertura del mitico UFO club, il primo locale in cui si esibirono gruppi psichedelici come i Pink Floyd di Syd Barrett, i Soft Machine (ancora eterodiretti da Daevid Allen, Kevin Ayers e Robert Wyatt) e i Tomorrow (che comprendevano musicisti del calibro di Steve Howe, Keith West e John Alder “Twink”, tutti destinati a lasciare diversamente il segno nel rock inglese degli anni a venire), autentica prefigurazione di tutte le follie e sperimentazioni lisergiche che sarebbero seguite negli anni successivi, che con uno dei loro brani più famosi, My White Bicycle, finirono con l’ispirare il titolo del libro di Boyd.

Ma fu ancora un altro brano dello stesso gruppo a cogliere, in anticipo, lo spirito dei tempi: Revolution. Sì, perché, anche se il produttore americano dichiara sempre apertamente di aver fatto tutto per guadagnare soldi e fama, oltre che per amore della musica, i cambiamenti culturali, comportamentale sociali in atto in quegli anni non potevano lasciare insensibili i musicisti (che spesso ne costituivano il diretto prodotto) e i nuovi produttori, oltre che le case discografiche più intelligenti, sempre a caccia di novità da proporre sul mercato dei consumi giovanili.

Si creava in tal modo, e il testo lo spiega benissimo, una sorta di spirale virtuosa in cui le mode e i comportamenti ribelli dei baby boomers nati nel dopoguerra si rispecchiavano nei prodotti musicali incisi su vinile, che, a loro volta, finivano col diventare amplificatori e diffusori di quei comportamenti anche tra le fasce giovanili inizialmente meno coinvolte. Abiti eccentrici, droghe, ribellione e antiautoritarismo si mescolarono in una straordinaria ed esplosiva miscela da cui sarebbero conseguiti il ’68 e le proteste giovanili in tutto il mondo.

Joe Boyd fu al centro di tutto questo. “Qualsiasi causa, non importava quanto radicale fosse, era benvenuta e poteva far proseliti sul posto” (pag. 153) In una Londra che cercava di essere alternativa al grigiore esistenziale dell’establishment e delle famiglie piccolo borghesi o proletarie e che avrebbe finito col fare da modello ai giovani americani, già segnati dalla lotta contro la segregazione razziale e dalla guerra in Vietnam.

Talvolta poteva essere un film, ma che film, a fare la differenza. “nella primavera del 1965 volai da Londra a San Francisco per incontrare Bill Graham […] A un cinema vicino al Fillmore davano La battaglia di Algeri. Quando entrai, stavano scorrendo i titoli di testa: le scene della kasba erano buie […] Cercavo un posto a tentoni, ma continuavo a trovare persone. Una sensazione strana: mi aspettavo che in un pomeriggio di un giorno feriale un cinema d’essai fosse abbastanza vuoto […] Le vivide scene della guerriglia urbana mi fecero velocemente dimenticare dove fossi.
Quando il film terminò, le luci si accesero e mi mostrarono un cinema pieno. La mia era l’unica faccia bianca tra il pubblico. Gli uomini portavano baschi neri, le donne i dashiki e avevano tutti un quaderno per gli appunti
” (pag. 135).

Poco più di un anno dopo, nell’ottobre del 1966, proprio nella Bay Area sarebbe stato fondato il Black Panther Party. Ma il Free Jazz dei fratelli Ayler aveva già anticipato anche questo. Come a Parigi quando, dopo aver fornito una versione stravolta e destrutturata della Marsigliese, avevano scatenato una rissa colossale tra gli ascoltatori favorevoli e contrari alla loro reinterpretazione.

Non solo musica dunque nel libro in questione e non solo folk o rock.
In tutta la narrazione, a suo modo epica, aleggiano personaggi leggendari (Hendrix, Drake, Dylan, Seeger, Sandy Denny e Barrett), impresari delinquenziali, brutti ceffi, spacciatori di vario genere , skinhead, militanti neri, angry young men come Mick Farren e i suoi Deviants, etichette discografiche innovative (Elektra e Island), debiti, successi ed insuccessi e tantissimi personaggi ingiustamente e colpevolmente dimenticati.

Il vortice di denaro che girava intorno all’affare della musica “giovanile” sembrava anticipare le crisi finanziarie e gli squali della finanza che finiranno col dominare il capitalismo globale. Trasformando, nel tempo, anche il senso di tanta musica. “Sei anni dopo che Sgt. Pepper ebbe sconvolto il mondo della musica […] gli album di carole King e neil Young superarono di molto le vendite del capolavoro dei Beatles. Dieci anni dopo, le vendite di Thriller di Michael Jackson avrebbero reso insignificanti tutte quelle dei dischi dei Beatles messe insieme e lui avrebbe acquistato con gli spiccioli i diritti di pubblicazione del catalogo dei brani di Lennon e McCartney. Aprii la mia società di produzione in un periodo innocente di attese relativamente modeste“. (pag. 175)

Così, mentre lavorava per la Warner, Joe Boyd fu incuriosito dal fatto che John Calley, produttore del più grande disastro cinematografico, dal punto di vista economico, fino a quei tempi, fosse considerato un grande produttore.
Mi stavo documentando sugli aspetti finanziari del mondo del cinema. «Base Artica Zebra? Ma non ha perso più di ogni film nella storia del cinema?».
«Sìì! Quello!» Non capivo. Come si passa dal produrre un fiasco costosissimo a dirigere uno studio?
«Joe, Joe, Joe! Devi capire Hollywood! Qui non valgono tanto i soldi che fai, quanto i soldi che maneggi!
»” (pag. 249) Ovvero Lesson number 1 per comprendere tutto quello che sarebbe arrivato con le crisi finanziarie e gli stipendi dei top manager fino ai nostri giorni.

Spesso è la sconfitta a segnare la narrazione. Il rimpianto per ciò che il produttore non aveva saputo fare per salvare Nick Drake dall’autodistruzione e dal suicidio oppure gli Incredible String Band da se stessi e da Scientology. Ma è il ricordo di un sogno, di un grande magnifico sogno a trionfare alla fine. Un sogno per il quale è valsa la pena aver vissuto tutto, nel bene e nel male.
E le ultime straordinarie righe ne rivelano l’anima e il senso in maniera onestissima.

Un libro bellissimo, da leggere e da amare. Una storia di ciò che è cambiato, ma anche di ciò che è andato irrimediabilmente perduto nel corso delle trasformazioni e a causa dell’allontanamento culturale e politico tra le generazioni. Un libro da leggere tutto di un fiato, anche sotto un ombrellone, in un’altra estate di crisi e di promesse mancate.


  1. Directed by John Ford, 1971 poi riassunto nel libro dello stesso Peter Bogdanovich, Il cinema secondo John Ford, Pratiche Editrice 1990  

]]>