permafrost – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 21 Oct 2025 20:14:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La posta in gioco https://www.carmillaonline.com/2018/12/04/la-posta-in-gioco/ Tue, 04 Dec 2018 06:20:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49967 di Alexik

You don’t need a weatherman to know which way the wind blows”. (Bob Dylan, Subterranean Homesick Blues.)

Sabato prossimo migliaia di persone marceranno contro le Grandi Opere Inutili e Imposte e per il diritto al clima. Scenderanno in strada a Parigi come a Torino, Padova, Melendugno, Venosa e Niscemi. L’appuntamento dell’otto dicembre, nato in Valsusa come anniversario della liberazione di Venaus e poi assunto come data simbolo dei movimenti contro la devastazione dei territori, quest’anno si interseca con le mobilitazioni internazionali per [...]]]> di Alexik

You don’t need a weatherman to know which way the wind blows”. (Bob Dylan, Subterranean Homesick Blues.)

Sabato prossimo migliaia di persone marceranno contro le Grandi Opere Inutili e Imposte e per il diritto al clima.
Scenderanno in strada a Parigi come a Torino, Padova, Melendugno, Venosa e Niscemi.
L’appuntamento dell’otto dicembre, nato in Valsusa come anniversario della liberazione di Venaus e poi assunto come data simbolo dei movimenti contro la devastazione dei territori, quest’anno si interseca con le mobilitazioni internazionali per la giustizia climatica, in contemporanea alla conferenza mondiale sul clima di Katowice.

La posta in gioco è alta: la difesa degli ecosistemi e degli equilibri idrogeologici della terra,  la difesa delle condizioni di vita di chi la abita, la difesa delle risorse pubbliche aggredite dalla speculazione privata.
Interessi  generali della società che i movimenti da sempre rappresentano, a dispetto di chi li accusa di nimbyismo.
Ma non si tratta solo di questo.
La drammaticità dell’emergenza climatica ha imposto prepotentemente un cambio di passo, un innalzamento degli obiettivi e delle parole d’ordine, perché è l’intero modello di sviluppo – di cui la logica delle Grandi Opere è un’ espressione – che sta portando il Pianeta al collasso.
O meglio: ciò che sta collassando sono le condizioni necessarie per la sopravvivenza di decine di migliaia di specie viventi, compresa quella umana.
Il Pianeta in realtà può continuare tranquillamente senza di noi, mentre la vita sulla Terra muterà le sue forme e abitudini, come già ha cominciato a fare1.

Che il tempo a nostra disposizione stia finendo ce lo ripetono, ormai da anni, centinaia di scienziati da tutto il mondo, e non hanno certo l’aspetto di millenaristi medievali.
Ce lo ripetono con frequenza crescente i venti che sfondano le nostre finestre, i fiumi di fango che invadono strade e case travolgendo cose e persone.
Altrove, lontano dai nostri occhi e dai nostri teleschermi, succede anche di peggio.
In Africa, nel 2017, il disastro climatico ha trascinato 39 milioni di persone di 23 paesi nell’insicurezza alimentare disseccando fonti d’acqua, pascoli e colture2.
In questo modo, affogando o crepando di fame, parte dell’umanità celebra l’innalzamento di 1°C della temperatura della Terra rispetto all’epoca preindustriale.

Meno di due mesi fa 224 scienziati, coautori dell’ultimo Rapporto dell’Intergovernmental Panel On Climate  Change3, ci hanno intimato di non superare la soglia di 1,5°C.
Non per porre fine, ma solo per limitare l’innalzamento del livello dei mari, l’acidificazione e l’ipossia degli oceani, la crescita dei rischi per la salute, sicurezza alimentare, accesso all’acqua e ai mezzi di sussistenza per milioni di persone.

Alcuni loro colleghi ci avvertono che, anche restando al di sotto dei limiti fissati dall’Accordo di Parigi, è probabile l’avvio meccanismi irreversibili, un effetto domino impossibile da contenere4, in grado di riscaldare il Pianeta fino a 4- 5°C in più rispetto al periodo preindustriale.
Ci parlano della morte delle foreste, trasformate in steppe e savane.
Ci parlano del disgelo del permafrost, il ghiaccio perenne nei suoli delle regioni artiche, sotto al quale risiede un terzo del carbonio della Terra, immensi strati di sostanza organica accumulati da millenni.
Il disgelo l’offre in pasto ai batteri dei suoli, che la decompongono restituendola all’atmosfera sotto forma di Coe metano.
Sotto il Mar Glaciale Artico il permafrost racchiude centinaia di milioni di tonnellate di metano che, liberate dal calore, stanno tornando in superficie in quantità impressionanti5.
E  il metano genera un effetto serra 25 volte maggiore dell’anidride carbonica.

Devastanti le prospettive per gli esseri viventi.
Su 80.000 specie vegetali e animali all’interno di 35 “Zone Prioritarie” per la biodiversità, si prevede per il 2080 la scomparsa del 19% delle specie qualora l’innalzamento della temperatura si mantenga entro i 2°C rispetto al periodo preindustriale (cioè i limiti dell’Accordo di Parigi).
Nel caso di un innalzamento di 4,5°C l’estinzione riguarderebbe quasi il 50% in media delle specie, con picchi del 89% , soprattutto per chi, come gli anfibi, non sarà in grado di emigrare verso le aree ancora vivibili.6.

Non c’è bisogno di particolari studi per capire che, in questo contesto, agli umani il futuro riserva migrazioni epocali – di cui quelle d’oggi sono soltanto un assaggio – e conflitti crescenti. Mutuando le parole da Guido Viale, “un mondo pieno di guerre e conflitti per spartirsi le risorse residue7

Quanto siamo lontani dal punto di non ritorno ?
Possiamo discutere se ci vorrà qualche decennio in più o in meno, ma il percorso è quello descritto.
La temperatura terreste si sta riscaldando ad un ritmo di 0,17°C ogni dieci anni8, ed il livello dei gas serra in atmosfera non è mai stato così alto.
Le concentrazioni di gas climalteranti hanno raggiunto nel 2017 il loro massimo storico dai livelli preindustriali:  405.5 parti per milione per la CO2, 1859 ppm per il metano, 329.9 ppm per l’ ossido di azoto. Valori che rappresentano rispettivamente aumenti delle concentrazioni del 146%, 257% e 122%  rispetto a quelli  stimati nel 17509.

Davanti all’incombere di un’apocalisse, ci si potrebbe aspettare che anche le classi dirigenti più retrive corrano ai ripari con azioni di contrasto.
Così non è.
Lo vediamo ogni giorno nei territori, dove trivellazioni, fracking, costruzione di oleodotti e gasdotti, vengono considerate “opere strategiche”, imposte dagli Stati e difese manu militari.
Indifferente all’Accordo di Parigi ed agli allarmi lanciati dagli scienziati dell’IPCC, l’economia mondiale va da un’altra parte.
Al contrario che per i comuni esseri umani e per gli altri esseri viventi del Pianeta, la catastrofe è colta dal Capitale come un’opportunità, come dimostra la guerra silenziosa già da tempo in atto per accaparrarsi le risorse minerarie dell’Artide in disgelo10, o l’apertura di nuove rotte commerciali rese possibili dal graduale ritiro dei ghiacci11.

Quanto all’abbandono dei combustibili fossili, è interessante in proposito l’ultimo rapporto annuale dell’OPEC12.
Si tratta ovviamente di un documento di parte, redatto da chi i combustibili fossili è interessato a venderli e quotarli, con previsioni comunque da dimostrare. Ma sulla base di previsioni come queste si basano gli investimenti, le strategie delle multinazionali e le politiche degli Stati.
Il rapporto prevede, fra il 2015 e il 2040, un aumento della intera domanda primaria di energia di 96 milioni di barili di petrolio equivalenti  per giorno (mboe/d),  trainato soprattutto da India e Cina. Prevede che la domanda si rivolga in primo luogo al gas naturale e – nonostante l’aumento del peso percentuale delle energie rinnovabili – si aspetta un’ulteriore crescita in termini assoluti dell’estrazione e del consumo di petrolio e carbone.
Non vi è dunque all’orizzonte nessuna reale intenzione di invertire la tendenza e di ridurre drasticamente le emissioni climalteranti.

Il Rapporto OPEC  riporta i dati ONU sulla crescita demografica mondiale –  da 7,3 miliardi di persone sul pianeta del 2015 a 9,2 miliardi nel 2040, che nasceranno principalmente nei paesi in via di sviluppo.
Quasi due miliardi di persone in più con i relativi bisogni da trasformare in merce: è questo il contesto previsto per l’espansione, oltre che dell’estrattivismo energetico,  anche di quello minerario, agroindustriale e delle infrastrutture, sul quale oggi si misurano in termini di concorrenza spietata non solo i paesi dell’imperialismo classico, ma anche varie potenze su scala regionale (o aspiranti tali), e soprattutto la Cina, con il suo immenso potenziale di spinta verso la costruzione della “nuova via della seta”.
Su questa strada, che sta portando l’umanità in un vicolo cieco, si sono avviati tutti, al di là dell’ordinamento politico e dell’orientamento economico: democrazie e dittature, neoliberisti incalliti e socialisti di mercato.

Grava sui movimenti l’onere di fermare tutto questo. (Continua)


  1. Brett R. Scheffers, Luc De Meester, Tom C. L. Bridge, Ary A. Hoffmann, John M. Pandolfi, Richard T. Corlett, Stuart H. M. Butchart, Paul Pearce-Kelly, Kit M. Kovacs, David Dudgeon, Michela Pacifici, Carlo Rondinini, Wendy B. Foden, Tara G. Martin, Camilo Mora, David Bickford, James E. M. Watson, The broadfootprint of climatechange from genes to biomes to people, in “Sciences”, Vol. 354, 11 Nov 2016. 

  2. FSIN, Global Report on Food Crises 2018, marzo 2018, pp.201. 

  3. IPCC, Global Warming of 1,5°C, giugno 2018, pp. 792. 

  4. Will Steffen, Johan Rockström, Katherine Richardson, Timothy M. Lenton, Carl Folke, Diana Liverman, Colin P. Summerhayes, Anthony D. Barnosky, Sarah E. Cornell, Michel Crucifix, Jonathan F. Donges, Ingo Fetzer, Steven J. Lade, MartenScheffer, Ricarda Winkelmann, and Hans Joachim Schellnhuber, Trajectories of the Earth System in the Anthropocene, PNAS,  14 Agosto 2018, 115 (33) 8252-8259. 

  5. Steve Connor, Vaste methane ‘plumes’ seen in Artic Ocean as sea ice retreats, Indipendent, 13 dicembre 2011. 

  6. Warren, J. Price, J. VanDerWal, S. Cornelius, H. Sohl, The implications of the United Nations Paris Agreement on climate change for globally significant biodiversity areas, in “Climate Change”, April 2018, Volume 147, pp. 395–409.
    Lo studio è riassunto in italiano nel rapporto WWF 2018: WWF, Il futuro delle specie in un mondo più caldo. Gli effetti del cambiamento climatico sulla biodiversità nelle zone prioritarie WWF, marzo 2018, pp. 24. 

  7. Guido Viale, Un cambiamento irreversibile, Comune-info, 16 ottobre 2018. 

  8. Will Steffen e altri. Op.cit. 

  9. World Meteorological Organization, WMO Greenhouse Gas Bullettin, n. 14, 22 novembre 2018, p. 9. 

  10. Roberto Colella, Geopolitica dell’Artico, tra risorse e interessi espansionistici, Huffingtonpost, 27 febbraio 2017. Nicola Sartori, La guerra silenziosa per controllare il petrolio dell’Artico, Outsidernews, 20 ottobre 2017. 

  11. Laura Canali, Le nuove rotte artiche, Limes, 13 giugno 2008. Francesco Sassi, Chi ci guadagna dalla nuova rotta dell’Artico, Wired, 8 ottobre 2018 

  12. OPEC, 2017 Annual Report, 2018, pp. 110. 

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La carica dei 600 https://www.carmillaonline.com/2014/03/06/13250/ Wed, 05 Mar 2014 23:10:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13250 di Sandro Moiso

balaclava 1

“A furia di incidenti, di guerre provocate ad arte, di primavere improbabili, come quella fasulla in Libia, o come in Egitto dove ora comandano i militari dopo un colpo di Stato nel silenzio più assoluto delle cosiddette democrazie, a furia di nazioni usate come terreno di scontro di interessi internazionali a colpi di bombe e di disinformazione, come in Siria, la situazione potrebbe sfuggire a tutti di mano. Potrebbe scoppiare un incendio che brucia la casa come può succedere a un bambino che gioca con i fiammiferi. Andò così nel 1914, Sarajevo fu solo una scintilla” di Sandro Moiso

balaclava 1

“A furia di incidenti, di guerre provocate ad arte, di primavere improbabili, come quella fasulla in Libia, o come in Egitto dove ora comandano i militari dopo un colpo di Stato nel silenzio più assoluto delle cosiddette democrazie, a furia di nazioni usate come terreno di scontro di interessi internazionali a colpi di bombe e di disinformazione, come in Siria, la situazione potrebbe sfuggire a tutti di mano. Potrebbe scoppiare un incendio che brucia la casa come può succedere a un bambino che gioca con i fiammiferi. Andò così nel 1914, Sarajevo fu solo una scintilla”1. Per una volta Beppe Grillo non ha postato soltanto un’ennesima boutade, ma si è avvicinato ai fatti con una certa precisione. Diamogliene atto. Anche se, dal punto di vista dell’antagonismo di classe, la questione rimane un po’ più complessa.

D’altra parte ciò che scrive sul suo blog era già stato precedentemente affermato qui, su Carmilla, proprio a proposito della Siria2. E oggi, come allora, lo scontro politico in Ucraina potrebbe sia fermarsi, e rimanere tale, sia svilupparsi in un conflitto più allargato. Ciò che conta però è la tendenza e questa rimane sicuramente, e soprattutto da parte statunitense, indirizzata verso una situazione di guerra diffusa, destinata a minare gli equilibri e gli interessi europei nel Mediterraneo e nell’Europa Orientale. Come le code di giovani nazionalisti ucraini pronti ad arruolarsi a Kiev, dopo la visita di Kerry, fanno purtroppo presagire.

Anche se qui da noi si fa a gara, nei mezzi di informazione, nel far vedere chi è più ignorante di cose ucraine3 e di tutto ciò che riguarda la storia recente e passata , dovrebbe essere chiaro che l’Ucraina e, in particolare, la penisola della Crimea costituiscono nei rapporti con la Russia un nodo sicuramente delicato, spinoso e pericoloso. Un autentico terreno minato per la politica, la diplomazia, la geopolitica e l’economia.

Qualsiasi studente che abbia terminato la quarta classe degli istituti superiori dovrebbe, infatti, sapere che uno dei conflitti più sanguinosi della metà dell’ottocento fu proprio quello che vide coinvolte Gran Bretagna, Francia e Impero Ottomano da un lato e Impero Zarista dall’altro per il controllo della penisola della Crimea e di Sebastopoli. Peccato che, troppo spesso, non si spieghi il perché di quella guerra che vide schierate su fronti opposti due potenze che dal congresso di Vienna in avanti avevano costituito il cuore politico e militare della Santa Alleanza ovvero Russia e Gran Bretagna.

Unite nella reazione e nella controrivoluzione, ma nemiche negli scopi di espansione imperiale. Unite nel reprimere qualsiasi sollevazione rivoluzionaria in Europa, ma nemiche giurate dal Caucaso all’Hindu Kush e dal Mare Mediterraneo agli oceani e ai mari del nord. Ma una domanda ancora più difficile sarebbe, per gran parte del giornalismo italiano e per gli insegnanti di storia, chiedere quali fossero, e ancora siano, i porti principali per le flotte russe e quale la loro dislocazione.

Sì, perché il rapporto della Russia, in ogni sua forma statuale (Impero, Sovietica o attuale), con il mare è stato da sempre problema di non poco conto. Impero o nazione dal territorio immenso, ma scarsamente dotato di sbocchi al mare o, per lo meno, di sbocchi al mare utili sia dal punto di vista commerciale che militare. Non per nulla fu proprio lo czar Pietro I detto il Grande a cercare di sviluppare una prima flotta russa a partire dalla fondazione di San Pietroburgo, che per quello czar avrebbe dovuto costituire lo sbocco verso il mare, e l’ammodernamento del paese, in chiave anti-svedese e di politica di potenza sul Baltico ed oltre.

Infatti uno dei motivi della cronica arretratezza dello sviluppo russo aveva, sicuramente, ed ha avuto, anche in epoca sovietica, origine nella scarsità di accessi al mare. Infatti da Atene a Roma, dal Portogallo alla Spagna e dall’Olanda alla Gran Bretagna fino agli Stati Uniti, la libertà di accesso al mare e agli oceani e il loro dominio ha sempre costituito non solo un motivo di potenza ma, anche, di sviluppo. Mentre la Russia, sicuramente imponente come potenza continentale, si è sempre vista invece relegata a pochi altri porti oltre a quelli sul Baltico, mare chiuso e talvolta gelato:

– Primi tra tutti i porti sul Mar Nero e, in particolare, oltre a quello di Odessa, in Crimea. Sostanzialmente chiusi in un mare il cui controllo sta però nelle mani della Turchia (da lì l’insanabile conflitto politico e militare tra le due nazioni di cui si è avvantaggiata da sempre la NATO), attraverso il Bosforo e poi attraverso i Dardanelli.

– Il porto di Vladivostock, in Siberia, nell’estremo oriente del paese, che costituisce il più importante (quasi unico) accesso diretto della Russia all’Oceano Pacifico, ma chiuso tra Cina, Corea del Nord e Mar del Giappone ed estremamente isolato dal resto del paese (come si dimostrò durante la guerra civile quando fu occupato da truppe canadesi, cecoslovacche, americane, giapponesi ed italiane), di cui costituisce la stazione finale della ferrovia transiberiana.

– Arcangelo, posto sul Mar Bianco e scelto nel 1693 dal solito Pietro il Grande come sede dei cantieri navali russi. Idea che fu poi superata dalla fondazione nel 1704 di San Pietroburgo poiché il porto di Arcangelo rimaneva bloccato dai ghiacci per almeno cinque mesi all’anno. Proprio questa impossibilità di navigare per lunghi periodi sul Mare di Barents e sui susseguenti Mar di Kara e sul Mar Glaciale Artico fino al Mare della Siberia Orientale e al Pacifico, spinse l’Unione Sovietica alla costruzione di navi rompighiaccio sempre più grandi e potenti, fino alle attuali a propulsione nucleare. Anche, se in anni recenti, il riscaldamento globale ha permesso alle navi russe di navigare lungo tutte le coste settentrionali fino all’Oceano per tutto l’inverno. E questo costituirà ben presto per gli americani un vero e proprio problema “ambientale”.

– A tutto ciò va poi aggiunto che se la più grande nazione del mondo è sostanzialmente sotto-popolata e la sua popolazione è principalmente concentrata nella Russia europea, ciò è dovuto alla scarsa abitabilità di un territorio, come quello siberiano, in cui la presenza del permafrost 4 impedisce la presenza di qualsiasi forma di agricoltura, con una densità media di popolazione di 2 abitanti per kmq.
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Tutto ciò dovrebbe rendere chiaro che l’accanimento politico-mediatico e militare occidentale attuale nei confronti di territori strategici per la Russia (in Siria, è già stato precedentemente detto, vi è l’unica base navale russa nel Mare Mediterraneo), non potrà essere tollerata né da Putin né da qualsiasi altro gerarca russo (compreso quel vecchio ubriacone di Boris Eltsin cui l’Occidente poté chiedere qualsiasi cosa, ma che non avrebbe mai ceduto la Crimea).
Senza contare, poi, che l’Ucraina, oltre che importante per la sua posizione geo-strategica, è anche fondamentale per la sua produzione agricola, che ne ha fatto per secoli l’autentico granaio d’Europa e della Russia.

Chi spinge, oggi, in direzione della secessione sta cercando la guerra economica e mediatica oppure, domani, guerreggiata oppure, ancora, la semplice sottomissione della Russia alle pretese americane di dominio. Non vi sono altre scuse. Dimenticando, però, che la Russia di Putin sembra poco propensa a piegarsi ai voleri della NATO e dell’Occidente, così come ha già dimostrato in Siria e col sorprendente recupero di posizionamento politico in Egitto.

Certo, la Russia può essere vista come un gigante militare dai piedi economici d’argilla, come è provato ancora in questi giorni dalle difficoltà del rublo e della borsa russa, ma il controllo dei rifornimenti di gas, dai suoi enormi giacimenti verso l’Europa, concede ai suoi governanti un significativo potere di contrattazione, anche se la crisi economica mondiale ha finito col pesare sul valore delle sue riserve di materie prime. Ma la crisi pesa anche sugli Stati Uniti che, nonostante la fasulla retorica obamiana, hanno ben poco da proporre (un miliardo di dollari di aiuti all’Ucraina quando questa ha bisogno di decine di miliardi) se non lo spettro delle sanzioni economiche e militari. Di fatto le stesse modalità operative rimaste nelle mani del leader del Cremlino.

Chi scrive sicuramente non parteggia per la Russia di Putin e, tanto meno, ha mai parteggiato per la retorica “socialista” della Russia staliniana o brezneviana, ma le scuse addotte oggi per un possibile intervento ricordano troppo il pianto sui luoghi santi non rispettati dai russi che gli inglesi usarono in preparazione della guerra di Crimea. Oggi sostituito dal solito cordoglio per la solita generica libertà offesa, dalla lotta all’omofobia o dal sabotaggio delle Olimpiadi di Sochi e del G8 ivi convocato e dal pianto di Papa Francesco per i poveri ucraini.

Come nei riti feciali dell’antica Roma, la colpevolizzazione del nemico diventa allo stesso tempo rituale e fondamentale nella preparazione della guerra. “Attraverso una vera e propria «litis contestatio», alla quale veniva chiamato, come testimone tutto il creato (dei, piante, animali, uomini, magari passanti ignari) […] e segna un momento essenziale nella vicenda di rottura tra tempo di pace e tempo di guerra5 .

Oltre a tutto ciò va ricordato che l’Ucraina ha una lunga, drammatica e contraddittoria storia: sede della prima Rus’ nel medio Evo vichingo; parte della presenza svedese in Russia in età moderna; residuo parziale (proprio in Crimea) del khanato dell’Orda d’oro; protagonista della resistenza anarchica alle truppe bianche e rosse durante la guerra civile; testimone della più grande carestia europea del ‘900 durante gli anni trenta, di grandi massacri di popolazione ebraica durante l’avanzata nazista e dei trasferimenti forzati di molti suoi abitanti di origine tedesca e tatara verso la Siberia dopo il secondo conflitto mondiale.

Ma oggi tutto questo ha poco a che fare con le rivolte e gli interventi militari. Al massimo ne costituisce lo sfondo confuso da cui è possibile trarre ogni tipo di giustificazione. Per l’uno e l’altro fronte. Quello che conta davvero è che la Crimea per la Russia è irrinunciabile e qualsiasi tentativo di strapparla alla stessa (dalla guerra del 1853 e degli anni seguenti fino alla guerra civile, quando fu sede delle armate bianche di Denikin e Wrangel) è di fatto considerato da quella nazione come una minaccia alla propria sicurezza..

Certo, la rivolta di Kiev affonda le sue radici nella corruzione dell’esecutivo e nella crisi economica e Viktor Yanukovich non ha nessun carattere in grado di suscitare la minima simpatia o giustificazione per il suo operato, ma lì i gruppi di sinistra sono stati malmenati, minacciati e costantemente allontanati dalle piazze dagli appartenenti ai gruppi paramilitari di estrema destra. Proprio là dove, come tutti ricorderanno, la “Rivoluzione arancione” di Yulia Tymoshenko aveva già costituito il modello per tutte quelle che sarebbero state le rivoluzioni telecomandate via social network che sarebbero poi diversamente esplose sulle sponde del Mediterraneo, con i risultati che tutti, oggi, possono avere facilmente sotto gli occhi. Là dove i rivoltosi di Kiev, anche quando armati di fucili di precisione sono stati compianti come vittime quasi inermi, mentre qui, in Italia, chi incendia una betoniera è accusato di terrorismo. No, c’è qualcosa che non funziona…c’è del marcio in Danimarca6 .
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L’assenza di precisi riferimenti di classe e la presenza “importante” sulla piazza di un partito di estrema destra come l’Unione Pan-Ucraina “Libertà”, meglio conosciuto come Svoboda, e il fatto che questo abbia superato nelle elezioni del 2012 il 10% dei voti, non fa presagire niente di buono e fa intravedere risvolti e collegamenti politici internazionali certamente inquietanti. E non può bastare a giustificare ciò il fatto che per decenni l’ideologia del potere nell’URSS, prima del suo disfacimento, fosse stata quella del socialismo di stato.

Si tratta forse di dover parteggiare per la Russia? Ancora, dopo l’esperienza dello stalinismo e dell’espansionismo di stampo sovietico? Sicuramente no, ma non va accettata la retorica con cui si paragona la presenza militare russa in quella penisola con le invasioni dell’Ungheria, della Cecoslovacchia o delle altre nazioni europee definite all’epoca, da Stalin e dai suoi successori, come repubbliche sorelle.

Quelle invasioni rappresentavano la sostanziale continuità politica con la Santa Alleanza ottocentesca. Solo che, dopo Yalta, gli Stati Uniti avevano sostituito la Gran Bretagna nel gioco imperiale europeo e avevano comunque visto di buon occhio, e senza muovere un dito, la repressione violentissima delle rivolte operaie di Berlino Est del 1953, di Budapest del 1956 e dei successivi moti cecoslovacchi e polacchi. Là dove occorreva schiacciare l’iniziativa autonoma di classe erano le due super-potenze ad essere davvero sorelle.

Il conflitto rimaneva e rimane sui mari e sugli altri territori, esattamente come nell’ottocento. Ma la crisi, oggi, su uno sfondo in cui la Cina si va affermando come prima potenza economica, spinge i vecchi antagonisti della guerra fredda a bluffare in maniera sempre più pericolosa, creando una situazione di tensione, cui potrebbe bastare un nonnulla per trasformarsi in un autentico conflitto. Che per gli americani risolverebbe non pochi problemi economici, soprattutto se combattuto, ancora una volta, fuori dai propri confini e, magari, nelle vesti di una guerra civile appoggiata dall’esterno. Esattamente come successe nei Balcani a partire dal 1991.

Obama ha promesso pochi giorni or sono di voler ridurre la spesa militare a quella che era prima del secondo conflitto mondiale per destinare risorse allo sviluppo della società; peccato, però, che da più di un secolo per l’economia statunitense sviluppo e guerra coincidano perfettamente. Un conflitto alle porte dell’Europa e con la Russia, o anche solo la minaccia di una sua eventualità, avrebbe come risultato immediato quello di irrigidire e precarizzare i rapporti economici tra Russia ed Europa e tra Russia e Germania, in particolare, e finirebbe con l’indebolire ulteriormente la fragile economia europea e la sua inconsistente unione politica. Tutto a vantaggio del dollaro e delle imprese americane.

Non a caso, mentre la Francia , proprio come nell’ottocento, si è schierata da subito contro la Russia, Italia e Germania tentennano. Soprattutto l’Italia che, dalla rivolta anti- Mubarak in poi, ha perso terreno in Egitto (dove era il secondo partner economico), in Libia (dove era il primo beneficiario del petrolio e del gas libico) e ora in Ucraina ( dove, ancora una volta, è il secondo partner economico). Anche se, come sempre, la classe politica più vile del mondo occidentale alla fine si schiererà con chi saprà fare la voce più grossa.

Infine, una guerra, guerreggiata o anche solo pesantemente minacciata, servirebbe ancora una volta a dividere le società europee ed i lavoratori delle stesse attraverso il peggior sciovinismo nazionalista. Per questo occorre non cadere nella trappola dello schierarsi con le forze e le potenze in campo. Tutte egualmente ambigue.
Il capitale, di qualsiasi e colore e tendenza, è nemico non solo dei lavoratori ma di tutta la specie umana, come le recenti statistiche della rivista scientifica americana Lancet, sull’aumento del 43% della mortalità infantile in Grecia dovuto alle manovre e ai tagli dettati dall’austerità europea, ben dimostrano.

Nostra patria è il mondo intero, ma il capitale ci è nemico ovunque, comunque e soprattutto in casa nostra. Perché, nonostante le convinzioni dei pacifisti integrali, il capitale significa guerra e la società capitalistica è una società costantemente in guerra: tra le imprese, le nazioni, gli imperi e, last but not least, le classi. Per questo non possiamo far altro che augurargli la fine della brigata di cavalleria leggera inglese a Balaklava, la carica dei seicento7 appunto, durante la guerra di Crimea. Fu distrutta. Amen e così sia.


  1. 1914 Sarajevo – 2014 Sebastopoli, Il blog di Beppe Grillo, 01/03/2014  

  2. War! editoriale del 10 settembre 2013  

  3. Basti pensare che Maidan Nezhaleznosti ovvero Piazza Indipendenza è ripetutamente nominata dai nostri media come Piazza Maidan, là dove “maidan” in Ucraina già significa “piazza”  

  4. Un terreno gelato tutto l’anno anche fino a 1500 metri di profondità  

  5. Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli 1966, 1970 e 1988, pag.40  

  6. William Shakespeare, Amleto, atto I, scena IV  

  7. Celebrata in un bellissimo film antimilitarista di Tony Richardson del 1968, I seicento di Balaklava e in un album di folk rock antimilitarista dei Pearls Before Swine di Tom Rapp, sempre del 1968, intitolato Balaklava  

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