Penelope – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Liberarsi dal “giogo dei ruoli” https://www.carmillaonline.com/2022/12/19/liberarsi-dal-giogo-dei-ruoli/ Mon, 19 Dec 2022 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75218 di Paolo Lago

S. Chemotti, M. Coglitore, Il giogo dei ruoli, Il Poligrafo, Padova, 2021, pp. 201, euro 23,00.

È difficile liberarsi dei “ruoli”, delle identità cristallizzate e incancrenite da dinamiche di tipo sociale, politico, economico e, perché no, anche letterario. È difficile perché il ruolo può presto trasformarsi in “giogo”, in una sorta di prigionia identitaria che cresce intorno ai singoli individui. E, probabilmente, risulta ancora più difficile quando i ruoli assumono le loro forme all’interno di una coppia, una struttura sociale appesantita da rigidità imposte dall’alto, dalle convenzioni di matrice borghese [...]]]> di Paolo Lago

S. Chemotti, M. Coglitore, Il giogo dei ruoli, Il Poligrafo, Padova, 2021, pp. 201, euro 23,00.

È difficile liberarsi dei “ruoli”, delle identità cristallizzate e incancrenite da dinamiche di tipo sociale, politico, economico e, perché no, anche letterario. È difficile perché il ruolo può presto trasformarsi in “giogo”, in una sorta di prigionia identitaria che cresce intorno ai singoli individui. E, probabilmente, risulta ancora più difficile quando i ruoli assumono le loro forme all’interno di una coppia, una struttura sociale appesantita da rigidità imposte dall’alto, dalle convenzioni di matrice borghese e cattolica ancora dure a morire nell’Italia di oggi, dove è stato creato addirittura un ministero “della famiglia, della natalità e delle pari opportunità”. Ma il “giogo dei ruoli” può trasformarsi anche in un vero e proprio gioco nel quale, per mezzo di una sottile ironia, si cerca di prendere a staffilate quelle antiquate e rigide convenzioni imposte dal potere. È ciò che si propongono di fare Saveria Chemotti e Mario Coglitore nel loro bel libro intitolato, appunto, “Il giogo dei ruoli”, in cui i due autori mettono in scena dei dialoghi fra personaggi letterari o reali che appartengono a coppie famose di innamorati o di amanti, cristallizzati dal tempo e dall’immaginario comune. All’interno di una struttura articolata in tre tempi, incontriamo, fra gli altri, Paolo e Francesca, Dulcinea e Don Chisciotte, Orfeo ed Euridice, Marianna e Sandokan ma anche Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, Mileva Marić e Albert Einstein, Sibilla Aleramo e Dino Campana. La scrittura si trasforma quindi anche in un gioco in cui la rigidità del giogo si rompe perché, come affermano gli stessi autori in una nota finale, “i momenti più divertenti di questa scrittura senza affanni sono consistiti nella stesura di quelli che abbiamo chiamato «ordini inversi», quando cioè ci siamo scambiati i ruoli, affidando al maschio di questa inusuale coppia di sorella e fratello per «elezione» il personaggio femminile e viceversa alla femmina il personaggio maschile. Un rovesciamento del «gioco delle parti» che ci è piaciuto particolarmente”.

I personaggi messi in gioco non dialogano soltanto fra di loro ma anche, metaletterariamente, con il lettore e con la sua epoca, con avvenimenti storici ancora di là da venire. Il “giogo” viene rotto anche in questo modo: le figure reali e letterarie messe in scena da Chemotti e Coglitore escono dal loro imprigionante contesto e si inseriscono all’interno di un immaginario comune non statico ma avvolto da un movimento continuo. Altre volte, come nel caso di Paolo e Francesca o di Alphonsine Plessis e Alexandre Dumas figlio non si instaura un vero e proprio dialogo ma una narrazione commentata attraverso la quale gli autori discutono sui personaggi, sul loro tempo e sul loro ambiente sociale, intervallando la narrazione con un andamento più riflessivo e saggistico. Ad esempio, come scrive Saveria Chemotti giocando sul significato del verbo “scambiare” e “scambiarsi”, “la colpa di Paolo e Francesca non è stata solo quella di scambiarsi di nascosto un tenero bacio, ma quella di aver scambiato la letteratura con la vita, cadendo nel più pacchiano degli errori”. Perché la stessa letteratura può trasformarsi in gabbia, in schema, in rigido meccanismo che consegna all’immaginario comune figure stereotipate. Gli stessi personaggi letterari (e mitici, come in questo caso) lottano per scrollarsi di dosso quegli stereotipi, quei gioghi arbitrariamente imposti, come Euridice (la cui voce è mediata da Chemotti) che, dopo essersi dichiarata una “preda del destino a cui mi hanno assoggettata gli dei”, afferma perentoria: “A nessuno viene in mente che io ero in grado di resuscitarmi da sola? Che potevo fare affidamento sulla mia sensibilità, sulla mia stessa natura per vincere le ombre e risalire al sole? Che potevo liberare la mia anima prigioniera dei gioghi di un potere che mi avrebbe incatenata a una ventura tragica e senza soluzione di continuità, secolo dopo secolo? Un giorno, nella primavera di molte ragazze io avrò finalmente consolazione e riscatto. Sarò una di loro e non mi volterò mai indietro”. Euridice, esprimendo la sua autoaffermazione di donna contro un potere invisibile che la vorrebbe sempre assoggettata, viaggia, se così si può dire, nel tempo fino a prefigurare le lotte femministe che verranno.

Bisogna infatti notare che tutti i personaggi femminili del libro possiedono in sé una forte carica di ribellione dalle connotazioni di genere, in quanto si oppongono costantemente al potere patriarcale rivestito e simboleggiato dalla controparte maschile della coppia. Penelope, sempre con le parole di Chemotti (che non a caso è una studiosa di letteratura di genere e delle donne), rivendica il suo diritto a raccontare la sua versione dei fatti perché ormai “stanca di essere additata a eroina del matrimonio consacrato”. Ebbene, secondo Penelope, Odisseo è tornato “per attuare la sua vendetta, non per raggiungere me”. E, sicuramente, nella rivisitazione del Giogo dei ruoli, l’eroina omerica avrebbe ceduto alla corte serrata dei pretendenti se avesse capito che l’intenzione di Odisseo era quella “di restare per una toccata e fuga capace di mettermi di nuovo incinta, cioè di imprimermi le stimmate del padrone”. L’eroe se n’è andato senza neanche salutarla: “egocentrico e avido di conoscenza se n’è andato alla ricerca dei confini del mondo”. Naturalmente, adesso non si tratta più del personaggio omerico ma di quello dantesco e, infatti, con spirito metaletterario, Penelope conclude che “si merita di finire all’inferno”. Ma non sono soltanto i personaggi femminili a rimproverare e, quasi, a maledire i propri uomini, in una sorta di libera rivisitazione delle Heroides di Ovidio; anche alcuni personaggi maschili sottolineano la condizione subalterna delle donne nella loro epoca. È il caso, ad esempio, di Alexandre Dumas figlio (non un personaggio letterario, quindi, ma uno reale, anche se legato all’immaginario della letteratura), a cui presta la voce Mario Coglitore. Quest’ultimo, attingendo alla sua vocazione di storico e studioso di dinamiche storico-sociali, dopo una digressione in cui descrive gli effetti nefasti della rivoluzione industriale (“L’età delle ciminiere. Che da giovane ho visto spuntare a una a una, sentinelle implacabili dell’economia di mercato e per converso dello sfruttamento indecente di uomini, donne e persino bambini”), pone l’accento su alcune dinamiche della “sessualità «vittoriana»”, in un periodo in cui le donne dovevano rivestire il ruolo di procreatrici “meglio se di maschi e non di femmine, naturalmente, specie nel caso dei primogeniti cui verrà affidato il patrimonio familiare”. Parlando di Alphonsine Plessis, la cortigiana divenuta amante dello scrittore al quale ha ispirato il personaggio di Marguerite Gautier per il suo romanzo La signora delle camelie, così Coglitore-Dumas figlio si esprime: “Lei, considerata né più né meno che una prostituta, ha preso tutto ciò che ha potuto dalla vita senza risparmiarsi, assaggiandone i frutti più dolci e soprattutto quelli più amari. Fino a che la malattia non ha spezzato l’insopportabile giogo che la teneva prigioniera di questi uomini dall’animo violento e dalla insaziabile bramosia. Gli stessi che la domenica frequentano la chiesa del quartiere o le grandi cattedrali, inginocchiandosi davanti agli altari e prendendo la comunione”.

Un altro personaggio letterario inchiodato al suo ruolo dalla tradizione è l’Angelica dell’Orlando furioso (la cui voce è quella di Chemotti) che giustifica la sua fuga continua dalla guerra (“Io scappo. Anche da questo scempio, ma lo tengo per me”) e da Orlando con il suo diritto ad innamorarsi: il cavaliere “non contempla neppure l’ipotesi che io mi sia finalmente innamorata, che in me sia sorto un sentimento sconosciuto e raro che mi spinge ad abbandonarmi senza l’aiuto di sortilegi”. Ciò che rifugge è, ancora una volta, il ruolo stereotipato: “Certo: alcuni dicono che io non ho davvero una vita mia propria, che sono un «sorridente fantasma» perché configuro un modello che è fin troppo facile convertire in stereotipo e destabilizzarlo”. Perché una donna non può essere un “soggetto del desiderio”. D’altra parte, Angelica conclude la sua ‘tirata’ appassionata con un appello alle donne musulmane, parole che valicano i confini del tempo per giungere fino ai giorni nostri, dense di significato politico e sociale se pensiamo ai tragici fatti che avvengono in Iran: “Perché allora noi, cristiane e mussulmane, non stringiamo un patto che ci sveli nella nostra essenza, con la pretesa di esser guardate oltre la pelle liscia o a rughe, i capelli al vento o sotto un velo, comunque sia?”. Una rivendicazione di sé e dei propri diritti che suona anche come una contestazione alla società tout court è anche quella che Mario Coglitore, dando la voce a Jane (nel ‘dialogo’, costruito dagli autori in un “ordine inverso”, dedicato a Tarzan e Jane, i personaggi inventati da Edgar Rice Burroughs nel suo romanzo Tarzan delle scimmie del 1914), fa risuonare con echi politici e sociali. La giovane, infatti, afferma che la società europea e occidentale ha da sempre avuto pregiudizi non solo nei confronti degli africani ma dell’Africa intera, vista come “il Continente Nero pieno di misteri, giungle soffocanti e umidità insopportabile, screpolata in alcune latitudini da un sole impietoso e da sabbie smosse dal Ghibli tormentoso”. E allora, l’inglese Jane, innamorandosi del misterioso “Tarzan delle scimmie”, riesce a spezzare “i vincoli opprimenti della società del mio tempo, ben poco seducente” e, finalmente, non sarà più costretta a “respirare i miasmi del carbone delle industrie della capitale che sbuffavano a pieno ritmo, nebbia puzzolente dentro alla nebbia che già saliva dal Tamigi”.

E i personaggi maschili? Anche loro, nonostante siano in alcuni casi staffilati ben bene dalla loro controparte femminile, riescono a liberarsi dal giogo che li vorrebbe imprigionati nel loro ruolo. Se, come abbiamo visto, Dumas figlio sottolinea la subalternità della condizione femminile, Tarzan, da parte sua, nelle parole di Saveria Chemotti, afferma che anche lui si sente un ‘diverso’ nella giungla e, alcune volte, è stato costretto a nascondersi perché cosciente della propria diversità rispetto alle scimmie. Forse, però, la figura maschile che viene presentata più slegata dal proprio ruolo è quella di Giacomo Casanova, irrigidito nello stereotipo del seduttore fino all’antonomasia. Mario Coglitore, da buon veneziano, ci presenta un Casanova vecchio e triste in una lontana Boemia, profondamente immalinconito dal ricordo della sua ormai irraggiungibile Venezia: “Venezia mi manca. Mi manca l’odore dell’acqua che ristagna, i rumori del remo che sciaborda, lo spettacolo della laguna in qualunque stagione”. In quest’immagine malinconica (che può ricordare il poetico finale del Casanova di Federico Fellini, in cui il personaggio sogna di danzare sulla laguna ghiacciata con una dama meccanica), Casanova si libera del suo ruolo, concedendosi finalmente un immaginario libero dagli stereotipi. Ed è lo stesso immaginario che ci regala Il giogo dei ruoli: un tentativo di resistenza – attuato per mezzo di una scrittura che valica i confini fra realtà e letteratura – ai gioghi imposti da qualsiasi potere.

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Odissea, dal poema di Omero (II) https://www.carmillaonline.com/2022/12/03/odissea-dal-poema-di-omero-ii/ Sat, 03 Dec 2022 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75022 di Franco Pezzini

(qui la prima puntata)

Atena, l’adultità e la letteratura

E mentre Ermes va a Ogigia, Atena (notiamo che non aspetta un assenso di Zeus) si recherà a Itaca, a spronare e dar forza al figlio di Odisseo, perché convochi il consiglio e imponga ai pretendenti (μνηστήρ, μνηστῆρες, ma è più nota la traduzione latina “procus, proci”) di sua madre – parassiti che si mangiano pecore e buoi della sua casa – di andarsene di lì. Poi lo manderà a Sparta e a Pilo, a chiedere notizie del [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima puntata)

Atena, l’adultità e la letteratura

E mentre Ermes va a Ogigia, Atena (notiamo che non aspetta un assenso di Zeus) si recherà a Itaca, a spronare e dar forza al figlio di Odisseo, perché convochi il consiglio e imponga ai pretendenti (μνηστήρ, μνηστῆρες, ma è più nota la traduzione latina “procus, proci”) di sua madre – parassiti che si mangiano pecore e buoi della sua casa – di andarsene di lì. Poi lo manderà a Sparta e a Pilo, a chiedere notizie del padre, “e nobile gloria lo coroni fra gli uomini”: si faccia un po’ conoscere, almeno tra i principi achei che hanno avuto il buongusto di non commettere enormità e sono riusciti a tornare a casa. Scopriremo più tardi che il figlio di Odisseo si chiama Telemaco; e i primi quattro libri dell’Odissea vengono detti Telemachia, dove il giovane prende coscienza della propria situazione e decide di reagire, un insieme considerato il primo Bildungsroman della letteratura occidentale. Quindi, senza attendere ulteriori risposte, Atena lega ai piedi i sandali d’oro, ambrosii – cioè della sostanza delle cose divine – che la portano su mare e terra “insieme col soffio del vento”, impugna l’asta dalla punta di bronzo con cui atterra intere schiere di forti guerrieri, e in un balzo è giù dall’Olimpo, a Itaca, davanti al portico della casa/reggia di Odisseo, sulla soglia dell’atrio, simile nell’aspetto a un ospite, Mente capo dei Tafi. Un personaggio che in teoria lì poteva venire con frequenza, i Tafi sarebbero stati (ma si discute) commercianti e pirati dell’Acarnania, Grecia nordoccidentale, e delle isole di fronte – in particolare Tafo, identificata con Meganisi nelle Ionie, a est della più grande Leucade o Leica. I Tafi si consideravano discendenti di Perseo, tramite la nipote Ippotoe che con Poseidone avrebbe generato l’eponimo Tafio, ma appaiono collegati anche a un’altra stirpe arcaicissima, gli egoeoanatolici pregreci Lelegi (dal luvio lulahi, “stranieri”?). Imbarazzi mitici ben comprensibili: nel calderone meticcio del mare, le identità di queste popolazioni di predatori e mercanti dell’età del Bronzo non potranno che lasciare frastornati i mitologi classici, intenti a cercar di spiegare i nomina nuda della tradizione epica. E Atena/Mente trova i pretendenti seduti a divertirsi sulle pelli dei buoi che si sono mangiati, giocando con le pedine – un gioco tipo dama? – mentre araldi e scudieri mischiano nei crateri l’acqua con il vino secondo l’uso, lavano le mense con le spugne, affettano la carne: tutto per loro.

Per primo è Telemaco – ecco il nome – a vedere il falso Mente, che (scopriremo) non conosce:

 

sedeva tra i pretendenti, crucciato nell’anima,

sognando il nobile padre nel cuore, se a un tratto venisse

e liberasse da tutti i pretendenti la casa,

e riavesse il suo onore e sopra i suoi beni regnasse.

Questo, seduto fra i pretendenti sognava; e vide Atena.

 

Non sa che è lei, ma va incontro all’ospite arrabbiato che quello abbia dovuto inurbanamente attendere alla porta: si occupa lui di prendergli di mano l’asta di bronzo – un po’ come faremmo a un ospite che abbia un ombrello – e lo saluta, annunciando che sarà ben accolto lì, anzi dopo il pranzo dirà cosa gli occorra. Poi lo introduce precedendolo nella reggia. Nell’alto salone gli posa l’asta contro una delle colonne dov’è un’astiera che raccoglie anche le lance di Odisseo (notiamo il valore simbolico dell’allineare l’asta di Atena a quelle del suo eroe prediletto); quindi lo fa sedere su un seggio, stendendovi sopra un panno di lino e ponendogli ai piedi uno sgabello. Di fianco sposta per sé una sedia dai vivaci colori, in disparte dai pretendenti maleducati ché non lo disturbino, e l’idea è di chiedere se – hai visto mai – ci siano notizie del padre desaparecido. Un’ancella porta all’ospite – con brocca d’oro e bacile d’argento – da lavarsi per il pranzo, e gli stende avanti una mensa (una sorta di tavolo pieghevole, mancano testimonianze archeologiche micenee ma ve ne sono per il mondo ittita). La dispensiera arriva con una serie di vivande e lo scalco serve una varietà di piatti di carne, e offrendo loro coppe d’oro dove l’araldo versa vino tornando via via.

Come è fatta casa di Odisseo? Non immaginiamo la reggia di Caserta, ma nemmeno quelle dei grandi regni micenei. Si tratta di una casa in muratura – ampia, non enorme – con un cortile recintato, due ingressi (uno dalla strada al cortile, l’altro da questo all’edificio), ciascuno con un atrio: Mente si è fermato sul bordo dell’atrio esterno, e lì Telemaco è andato ad accoglierlo. Ora si trovano nel mégaron, la grande sala al pianterreno con il focolare.

Si noti che il frammento di verso su Mente sovrano dei Tafi echeggia per scelta di parole e metrica quello dell’Iliade su un altro Mente sovrano dei Ciconi, e in entrambi i casi è un dio (Apollo, nell’Iliade) sotto mentite spoglie. Ciò non significa che in generale nell’epos Mente sia una sorta di nickname degli dei sotto falsa identità, ma in questo caso il richiamo a menos come impulso, e al connesso mimnesco, cioè richiamo alla memoria (rammentare ha la stessa radice, attraverso il nostro sostantivo mente) non è casuale: la funzione dello straniero è di rammentare a Telemaco l’urgenza della situazione, un po’ come più avanti nel caso di Atena/Mentore.

Ma intanto arrivano i pretendenti, siedono su seggi e troni della sala e il personale – le serve del palazzo e gli araldi e scudieri dei pretendenti – è costretto ad affrettarsi a versare l’acqua, portare pane, riempire i crateri di vino… poi quelli tuffano le mani sui “cibi pronti e serviti”, a sottolineare il ruolo da profittatori. Che forzano l’uso tradizionale che un pretendente trovasse ospitalità a casa della donna ch’egli manifestava l’intenzione di voler sposare, fino alla decisione dell’avente tutela, andando però a dormire a casa propria (come qui vedremo fare dai pretendenti): ovviamente in questa situazione c’è un abuso, perché sono tanti, troppi, non hanno misura nel loro godere le sostanze della casa, sono accampati lì da troppo tempo e oltretutto il marito della donna “corteggiata” può essere ancora vivo. Ma per un altro caso di pretendenti numerosi – e potenzialmente pericolosi – ricordiamo la situazione dei pretendenti di Elena affluiti a Lacedemone alla corte del re Tindaro: e anche in quel caso – con parallelismo non casuale – a portare ordine era stato Odisseo, con il famoso giuramento di sostenere colui che Elena avesse scelto.

Poi i parassiti (al libro XVI Telemaco provvederà a conteggiare loro, in tutto centootto, e il personale che si portano dietro, dieci tra scudieri e araldi), riempitisi la pancia, pretendono l’“ornamento al banchetto”  di un po’ di spettacolo, “musica e danza”. E l’araldo pone la cetra in mano al povero Femio, che sotto costrizione canta per loro. È lui il primo simil-Omero dell’opera: l’aedo di una piccola corte insulare, coartato a cantare per dei prepotenti. E mentre comincia, Telemaco avvicina la testa a quella dell’ospite per parlare non udito dagli altri: e spiega che a quelli piace molto il canto, perché nel frattempo si mangiano impunemente gli averi di un uomo le cui ossa biancheggiano da qualche parte o vengono rotolate dal mare. “Ma se lo vedessero tornare qua in Itaca, / tutti farebbero voto d’esser più lesti di piedi, / che ricchi d’oro e di splendide vesti”. E invece evidentemente è morto e loro non hanno consolazione: anche se qualcuno dice che tornerà, “il giorno del suo ritorno è perduto!”.

Ma che l’ospite dica sinceramente chi sia e da dove venga, da quale città e stirpe, su quale nave sia giunto e perché a Itaca, e i marinai come si presentavano – visto che certo sull’isola non è arrivato a piedi… e dica anche se è la prima volta che viene o se era stato ospite – come tanti altri stranieri – di suo padre, “anche lui molto viaggiava tra gli uomini”.

E Atena, nella sua identità contraffatta, risponde che sarà molto sincero, dichiarando le proprie generalità come Mente figlio di Anchialo, “signore dei Tafi amanti del remo”. Dov’è delizioso il gioco di vero/falso: proprio l’identità farlocca che racconta fanfaluche intende portare a Telemaco un’istanza di verità pratica. E non solo: per bocca della dea dell’intelligenza, noi riceviamo una lezione scintillante sul ruolo della letteratura, l’arte che tramite una finzione (ma diciamo pure una fiction) racconta cose vere.

Mente spiega d’essere appena approdato coi compagni nell’ambito di un viaggio commerciale verso terre straniere, verso Temese – luogo non identificato, forse a Cipro – per acquistare bronzo, mentre loro portano ferro. La sua nave è laggiù, oltre i campi, nel porto itacense di Reitro sotto il monte Neio. Fin qui è tutto falso, e non deve stupire che una dea come Atena ricorra alla finzione, come spesso in altri punti-chiave del poema. Comunque sì, c’è un antico rapporto di ospitalità, vada a chiedere “al vecchio / eroe” Laerte, il padre di Odisseo e nonno di Telemaco, che gli dicono non scenda più in città,

 

ma lontano, fra i campi, soffre dolori,

con una vecchia serva, che bere e mangiare

gli porta, quando stanchezza le membra gli opprime

a strascinarsi pel dosso del suo colle a vigneti.

 

E Mente riferisce della voce giuntagli che Odisseo fosse tornato, “ma forse gli dèi gli impediscono il viaggio”: perché non è morto sulla terra, ma bloccato ancora vivo sul mare, “forse in un’isola in mezzo alle onde, gente feroce l’ha in mano, / selvaggia, che suo malgrado lo tiene” (…).

 

Ma farò un vaticinio, come dentro nell’animo

Gl’immortali mi ispirano, e credo avrà compimento,

per quanto io non sia né indovino né esperto d’uccelli:

non molto tempo lontano dalla sua terra paterna

starà, neppure se ferrea catena lo tiene;

saprà tornare perché è ricco d’ingegno.

 

Poi l’ospite chiede a Telemaco se sia figlio di Odisseo, “tu già così grande”: gli assomiglia tanto, nella testa, nei begli occhi… un elemento, quello familiare delle tracce di Odisseo, forse morto, incarnate però in suo figlio, che nella crisi delle altre istituzioni d’epoca acquista un valore particolare. Con Odisseo erano amici, si trovavano spesso prima che s’imbarcasse per Troia con gli altri. E da allora non si sono più visti…

E Telemaco risponde con il cuore in mano, e parole in apparenza spiazzanti che denunciano una sofferenza, un’ombra implicita fin nel suo nome: Τηλέμαχος, “che combatte lontano”, riferito al padre, quasi il figlio si esaurisse  nell’ombra di quella distanza e quella guerra lontana. Figlio “di lui mi dice la madre, ma io non lo so. / Nessuno da solo può sapere il suo seme”, e si augurerebbe di essere il figlio felice di un uomo vissuto tra i propri beni: non può avanzare quella filiazione come vanto, e la problematizza in una situazione in cui invece rischia di apparire patetica. Colui di cui chiede è stato il più sfortunato dei mortali.

A quel punto l’interlocutore – si noti che il testo dice Atena, come a voler ricordare che l’identità parlante è proprio lei e rimarcare che è lei a usare quelle parole – commenta che gli dei hanno deciso un futuro glorioso per quella stirpe, “se un simile figlio ha generato Penelope”. (Omero sta cantando per qualche presunto discendente di Telemaco? Spiegherebbe qualcosa…). E simula di non sapere che tipo di banchetto si tenga lì, con quali ospiti e quale scopo, di festa o forse di nozze. A giudicare dagli insolenti cafoni che banchettano, non sembra uno sporgimento a spese comuni, una persona perbene che entrasse lì ne proverebbe sdegno…

E Telemaco spiega che quella casa un tempo era ricca e onorata quando quell’uomo era ancora in patria; ma gli dei hanno evidentemente deciso dell’altro, “movendo sciagure, / e l’hanno annientato, come nessuno fra gli uomini”. E il giovane non sarebbe tanto straziato se il padre fosse caduto combattendo sotto Troia o tra le braccia dei compagni alla chiusura della guerra: gli Achei tutti assieme gli avrebbero eretto una tomba e quella memoria ne avrebbe onorato il figlio. “Invece l’hanno travolto le Arpie, senza gloria”, cioè i venti della tempesta (non è ancora maturata l’immagine teratologica di sozzi uccelli dal volto di donna, ma Virgilio recupererà lo spunto di questa presenza per l’Eneide…).  Come una sorta di milite ignoto o di disperso in Russia, Odisseo è semplicemente scomparso, lasciando al figlio soltanto dolore. Dove il pianto non è solo per il padre, ci sono “altri mali terribili” fabbricati dagli dei o piuttosto – come Zeus osservava – tutti umani. I più nobili delle isole dell’area che l’Iliade definiva dei Cefalleni, Dulichio, Same, Zacinto, e i principi stessi di Itaca, ora chiedono in sposa la madre di Telemaco e gli distruggono la casa. Lei non rifiuta esplicitamente nozze che le ripugnano ma neanche ha il coraggio di accettarle: “e intanto questi banchettando rovinano / la casa mia e presto sbraneranno anche me”.

Al che, sdegnata, Atena/Mente commenta che Telemaco ha un gran bisogno del “lontano Odisseo” – continua questa dialettica sulla distanza – che metta le mani addosso a quegli sfrontati. Bella sorpresa se all’improvviso se lo vedessero comparire all’ingresso dell’atrio “con ascia e scudo e due lance” – una sorta di prefigurazione del finale –, “gagliardo com’io la prima volta lo vidi / nel mio palazzo bere e godersela, / di ritorno da Efíra, da Ilo di Mèrmero”… Efira è un centro della Tesprozia, in Epiro, di cui era signore Ilo figlio di Mermero: Odisseo vi era andato per procurarsi veleno per le frecce, ma Ilo non gliel’aveva fornito “perché i numi temeva, che vivono eterni”. A quel punto a provvederglielo era stato il padre di Mente, che a Odisseo voleva bene. Le frecce avvelenate, che Omero non cita altrove, devono al tempo conoscere una riprovazione morale: già l’arco, arma da caccia, non è considerata arma troppo apprezzata dagli eroi – salvo il caso di alcune figure specializzate come Filottete, connotate da archi mitologici – ma in particolare le frecce avvelenate sembrano incorrere nella condanna morale delle odierne armi chimiche o batteriologiche. Non è il caso che a pensare di usarle sia l’astuto Odisseo che prenderà Troia con l’inganno del cavallo.

Ecco, se Odisseo riapparisse forte come allora, i pretendenti avrebbero tutti corta vita e nozze amare… Certo, il fatto che Odisseo possa o meno vendicarsi giace sulle ginocchia degli dei: ma Atena/Mente esorta Telemaco a pensare come togliersi i pretendenti di casa. L’idea, in sostanza, è la riconquista del regno. Ascolti e dia retta. L’indomani chiami i capi all’assemblea, parli a tutti e gli dei siano testimoni: ordini ai pretendenti di dividersi e di tornare alle proprie case. Quanto a sua madre, “se il cuore la spinge a sposarsi” torni dal suo potente padre che si occuperà delle nozze e le darà una ricca dote. Ascolti il suo consiglio: prenda la miglior nave che ha, a venti remi, e vada a cercare notizie del padre “da tanto tempo lontano” – torna il tema della lontananza –, hai visto mai che gliene parli un mortale o gli giunga “la fama / di Zeus, che molto divulga le voci tra gli uomini” (quasi come forza non umana). Vada prima di tutto a Pilo e interroghi Nestore, e poi a Sparta dal biondo Menelao, ultimo a tornare tra gli Achei. E se scopre che il padre è vivo, per quanto i suoi beni siano dilapidati, sopporti ancora un anno; se invece è morto, allora torni a Itaca e gli alzi un tumulo con degni doni funebri e affidi la madre a un marito. E compiuto tutto questo, mediti come massacrare in casa propria i pretendenti, “se di nascosto, d’inganno, o apertamente”: non è più un bambino, ormai è cresciuto – e questo tema, sviluppato nel contesto di una dialettica coi pretendenti, tornerà a più riprese nel poema. Non sente della gloria che si è conquistato Oreste ammazzando Egisto assassino di suo padre? Lo vede bello e aitante, sia forte e ancora i nipoti più tardi loderanno il suo comportamento. Per noi oggi leggere l’elogio di questa giustizia fai-da-te appare straniante, ma Atena non è solo dea guerriera e immagine della Vergine che sorge dalla battaglia (magari previ sacrifici umani), ma anche patrona delle soluzioni pratiche: in un’epoca tanto lontana dalla morale ebraico-cristiana come la conosciamo, l’eliminazione fisica del nemico in grazia di vendetta contro un atto contrario alle leggi umane e divine rientra perfettamente nel contesto etico condiviso, risolvendo in radice un problema.

Si è osservato che il discorso contiene marcate contraddizioni: prima si dice che il ragazzo deve cacciare i pretendenti e lasciare che la madre torni alla famiglia di provenienza, dove si provvederà a rimaritarla (un quadro sostanzialmente assurdo); poi che deve partire a cercare il padre e, se scoprisse che è morto, provvedere lui a un nuovo matrimonio della madre; quindi che deve uccidere i pretendenti. Si è cercato di spiegare in vario modo l’incongruità delle proposte, in realtà si tratta di un testo rimaneggiato per collegare le storie delle avventure di Telemaco, in origine indipendenti dal resto (gli echi delle singole proposte emergeranno nel libro secondo). Ma in generale Atena intende alzare il livello dello scontro coi pretendenti, che non basta cacciar via e occorrerà uccidere; e indicare che capisce la complessità della procedura di un risposarsi di Penelope – qualcosa che impegnerebbe le iniziative di Telemaco, di Icario padre di Penelope e di lei stessa. Così la funzione non è solo di infondergli coraggio, ma di rafforzare la memoria del padre: di fargli porre a fuoco chi fosse Odisseo e trarne un sostegno per la sua identità adulta. Io non so se sia capitato anche a voi, dopo un lutto – e particolarmente in occasione della scomparsa di un adulto che avesse per voi un certo tipo di ruolo simbolico – di scoprire che riuscivo a fare cose prima per me impensabili. Il passaggio di un testimone, uno scatto di adultità. Qui Odisseo non è morto, ma potrebbe esserlo, e la presa di coscienza che Atena favorisce permette a Telemaco di scoprirsi in grado di fare cose nuove. E anche di dirle, come vedremo.

È uso ricordare la preferenza di Atena per l’eroe politropo, quell’Odisseo cui la lega una complicità fatta di prassi comuni (la finzione/menzogna, il trasformismo, la ricerca di soluzioni pratiche); nel libro secondo comprenderemo meglio come Penelope, non solo abilissima in quelle tecniche della casa patrocinate da Atena, ma astuta macchinatrice d’inganni come il partner, possa ben essere a lei gradita. Nessuno stupore dunque che patrona del passaggio all’adultità di Telemaco sia proprio lei, protettrice di una famiglia tanto eccezionale (quella forse di qualche ascoltatore eccellente).

Ma ora è tempo – continua il falso Mente – che lui torni alla nave e ai compagni stufi di aspettarlo. Telemaco abbia a cuore la questione e gli dia ascolto…

Telemaco risponde che non scorderà quelle sue parole offerte con animo amico e anzi davvero paterno, e lo esorta a fermarsi, anche se vorrebbe affrettarsi nel viaggio: prenda un bagno lì, si ristori e torni alla nave portando con sé un bel dono di ospitalità. Atena/Mente gli risponde di non trattenerla più, ha troppa fretta: il dono – lo scelga bellissimo, si raccomanda – glielo darà al suo ritorno, in modo che possa portarselo direttamente a casa. E ne avrà il contraccambio… Ciò detto, Atena si allontana, “come un uccello volò via sparendo”, nell’eco di antichi zoomorfismi, anche se qui sembra trattarsi di una pura similitudine: ma a quel punto l’apparizione ispira a Telemaco forza e ardimento, gli infonde un ricordo del padre molto più intenso di prima – tanto più che lui, attonito, si rende conto che a parlargli è stata una divinità. Sovente nelle antiche storie c’è il brivido della messa a fuoco di un contatto con il sovrannaturale mascherato, che solo al congedo rilascia qualche straniante indizio epifanico.

Allora torna tra i pretendenti “l’eroe pari ai numi”: nessun dubbio che Telemaco sia un gran bel ragazzo, figlio com’è di una splendida coppia, ma in casi come questo si tratta soprattutto di un epiteto formulare per l’ottimizzazione metrica. Nella sala il cantore sta intonando, nel silenzio attento degli ascoltatori, “il ritorno degli Achei, / che penoso a loro inflisse da Troia Pallade Atena”. Cioè sta cantando i nostoi, idealmente lo stesso poema che recherà questo titolo, idealmente la stessa Odissea col più famoso di questi ritorni: quell’Atena che ha colpito i suoi fedeli dimostratisi empi nella loro vittoria protegge però Odisseo…

Il canto raggiunge le sale di sopra e Penelope, la saggia figlia di Icario, “bellissima”, affiancata da due ancelle fedeli – la notazione, vedremo, non è scontata – scende la scalinata, fino a trovarsi tra i pretendenti. Si ferma accanto a un pilastro, “davanti alle guance tirando i veli lucenti” (ancelle, pilastro e velame sono apparati difensivi nello spazio occupato del mégaron), e piangendo si rivolge al cantore. Lui ha tutto un repertorio di altri canti capaci di affascinare il pubblico, “fatti d’eroi, di numi” glorificati dagli aedi: intoni uno di quegli altri, che gli spettatori possano godersi in silenzio bevendo vino, ma smetta quel canto particolare che le spezza il cuore, “perché a me soprattutto venne pazzo dolore”, col rimpianto di quella testa a lei tanto cara e il pensiero continuo a un uomo dalla gloria tanto eccezionale diffusa per l’Ellade (qui per Grecia centro-settentrionale) e fin “nel cuore d’Argo” (il Peloponneso). Iniziamo a considerare che nell’Odissea – a differenza che nell’Iliade – la guerra di Troia è letta come una catastrofe.

Al che Telemaco interviene: perché vieta che l’aedo rechi diletto “come la mente lo ispira?”. Le situazioni penose non sono certo causate dai cantori ma da Zeus: è lui che assegna la sorte agli uomini che agiscono, e notiamo in questo libro il continuo contrappunto per cui gli dei – Zeus in particolare – accusano gli uomini per quanto accade, e loro accusano gli dei, soprattutto Zeus. Per cui il povero Femio non merita biasimo, se canta la cattiva sorte dei Danai, perché il pubblico apprezza maggiormente un canto più nuovo. Dunque cuore e mente della madre sopportino quell’ascolto: non è stato solo Odisseo ma anche tanti altri eroi hanno perso la via del ritorno e la vita. Su, che torni alle sue stanze e ai suoi lavori, telaio e fuso, e si occupi di far lavorare le ancelle; al canto (le parole importanti, mythos) pensino gli uomini e lui in particolare – “mio qui in casa è il comando”. I versi 356-359 appaiono insistitamente assonanti con quelli dell’Iliade (VI, 490-493) di esortazione di Ettore ad Andromaca che assieme alle ancelle prenderà a piangerlo mentre è ancora vivo. Dove attenzione, non si tratta di uno sfoggio di machismo mediterraneo o di poco amore verso la mamma: Telemaco, sollecitato da una divinità (non sa quale sia, ma importa poco) intende dare un segnale ai pretendenti e in generale alla corte. Che la gente riparli dei disgraziati ritorni degli eroi, riparli di suo padre, è importante e gli fa gioco – un po’ come oggi ha senso che la gente recuperi le storie della Resistenza ai Proci fascisti, perché solo la storia può farci capire dove andiamo e dove rischiamo di finire. Ovvio che Penelope, che non è affatto una stupida ma non aveva mai udito il figlio esprimersi così e aveva parlato spinta dai sentimenti (che molto ci dicono dell’amore da lei conservato dopo tanti anni per Odisseo) resti spiazzata: “Lei stupefatta tornò alle sue stanze, / e la prudente parola del figlio si tenne in cuore”. Per cui risale nelle sue stanze con le ancelle e piange a lungo lo sposo in apparenza perduto, fin quando Atena non le versa sulle ciglia un sonno soave.

Ma al piano di sotto i parassiti rumoreggiano, “e bramarono tutti di stendersi in letto con lei”: ovvero, impalmarla non è solo una faccenda di potere – che pure non sarebbe automatico – ma di testosterone, perché lei è bellissima. E a quel punto, davanti alla platea dei maschietti ingrifati, Telemaco presenta una mozione d’ordine a muso duro. Rivolgendosi ai pretendenti di sua madre che mostrano una spocchia tanto offensiva, esorta a godersi il banchetto senza schiamazzi, perché è bellissimo ascoltare uno come Femio, dalla voce che pare divina. All’alba andranno tutti assieme in assemblea, dove l’ordine del giorno sarà la loro espulsione da quella casa: si cerchino altri banchetti, invitandosi a vicenda e mangiandosi reciprocamente le proprie sostanze. Se a loro sembra invece più facile e migliore dissipare impunemente i beni di una sola persona, facciano – ma lui invocherà gli dei, e hai visto mai che Zeus conceda “il ricambio: / e allora senza vendetta voi nella sala morrete”. Uno stupore si allarga nella sala, Telemaco non si era mai espresso con tanto coraggio, e gli risponde sbeffeggiandolo Antinoo figlio di Eupite – che ci abitueremo a riconoscere come una sorta di leader dei pretendenti, e l’arci-vilain della situazione. Certo sono gli dei a insegnargli a fare l’oratore e il chiacchierone temerario: meglio dunque che Zeus non lo renda re di Itaca come sarebbe suo diritto ereditario…

Telemaco ribatte che invece, a dispetto della sua stizza, vorrebbe proprio quello. Crede sia una cosa brutta? Essere re non è male, significa avere una casa ricca di beni, essere molto onorato… Ma la successione non sarebbe scontata, lì nelle isole e nella stessa Itaca ci sono altri basilēes degli Achei, di età diverse, che possono aspirare al titolo (teniamo presente che nel mondo miceneo i qa-si-re-we – da cui βασιλεύς in greco classico – costituiscono una piccola nobiltà ereditaria a capo delle comunità periferiche, e almeno a Pilo dove Telemaco si recherà gestiscono il potere con il sostegno di una ke-ro-si-ja – cfr. la futura γερουσία – di anziani e ricchi contadini). A suggerire che la sua uscita di scena non comporterebbe un automatico accesso di Antinoo o di altri giovani parassiti al trono. “Qualcuno di loro [gli altri basilēes] abbia il regno, se è morto Odisseo luminoso. / Allora della mia casa io sarò finalmente padrone / e dei servi, che m’acquistò Odisseo luminoso”, nel senso che quel sostanziale vuoto di potere (Penelope resta regina, ma senza la possibilità d’imporsi) non permette, potremmo dire, neppure il godimento della proprietà privata.

Ribatte Eurimaco, l’altro pretendente eminente: è sulle ginocchia degli dei chi diverrà re di Itaca. Nessuno può venire e a forza espropriarlo dei beni, fin quando ci sia a Itaca della gente – potremmo dire, una società civile. Il parassita Eurimaco vuole avallare la lettura che sia tutto normale, tutto conforme alle regole solite: una cosa è il potere pubblico, un’altra la proprietà privata. Ma ha notato che Telemaco parlava con Mente, e dopo ha mostrato un coraggio tutto nuovo: per cui ha fatto due più due… Chi era quello straniero, da dove veniva, da quale stirpe e luogo? Forse gli ha recato notizie sul ritorno del padre? O era in viaggio per affari? E com’è sparito in fretta, “d’un balzo”, senza permettere di riconoscerlo! Tra l’altro, “non sembrava uno qualunque a vederlo”… Telemaco ha colto in quello sparire la presenza della divinità, ma non può farlo il superficiale arraffone Eurimaco. Dunque il principe risponde che no, nulla di nuovo, “perso è il ritorno del padre”: non crede alle voci, “chiunque [le] porti”, e nemmeno alle profezie a cui sua madre qualche volte indulge invitando profeti a palazzo. Quello straniero era un ospite di suo padre, dell’isola ionia di Tafo: si è presentato come Mente figlio di Anchialo, “ed è signore dei Tafi, amanti del remo”. Anche se Telemaco, qui si sottolinea, in realtà ha ben capito che si trattava di una divinità.

Per cui quelli riprendono la festa con danza, canto – essenzialmente quello di Femio, non è chiaro se possano esserci canti corali – e si godono la giornata aspettando la sera. E quando è tardi, ciascuno torna a dormire a casa propria (o, per chi venga da altre isole, ospite di amici). E Telemaco si ritira nella sua stanza appartata dall’alto soffitto, con tanti pensieri che ronzano in testa: lo accompagna con fiaccole accese (una per mano, probabilmente, per fargli raggiungere la stanza senza inciampare, una probabilmente gliela lascerà, o la userà per accendere luci nella camera) la dispensiera di cui prima ignoravamo il nome, la fedele Euriclea figlia di Opo Pisenoride, che Laerte aveva comprato quand’era ancora giovanissima e pagata venti buoi – cioè un prezzo alto, doveva essere una ragazza di alto lignaggio rapita dai pirati. “E come sposa fedele l’onorò nella casa, / ma non le s’unì mai di letto, ché l’ira della sua sposa evitava”: un dato sociale curioso, per cui Euriclea è una sorta di partner per Laerte ma non in senso sessuale. E dal modo in cui ciò viene narrato pare si tratti di una situazione particolare ma fino a un certo punto.

Comunque Euriclea segue Telemaco con le fiaccole, gli vuole molto bene – è stata la sua nutrice quand’era piccolo: gli apre la porta, lui si siede sul letto e si toglie la tunica, che affida alle mani di lei abili a piegarla e appenderla “a un piolo, vicino al letto a trafori”. Poi esce di lì, chiude la porta per l’anello d’argento e fa correre il paletto con la correggia (un tipo di serratura arcaico ma efficace).

Dunque sul letto, avvolto da un vello di pecora come coperta, Telemaco medita nel cuore “il viaggio che Atena ispirava”. E questo sonno che chiude la giornata chiude anche il libro primo, tutto incentrato su eventi del giorno 1.

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