Pedro Sánchez – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Democrazia popolare e autodeterminazione nella Catalogna del XXI secolo https://www.carmillaonline.com/2019/12/31/democrazia-popolare-e-autodeterminazione-nella-catalogna-del-xxi-secolo/ Tue, 31 Dec 2019 22:30:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57033 di Giovanni Castagno

Nonostante gli iniziali proclami di Pedro Sanchez e Pablo Iglesias, in Spagna i tentativi di formare un governo hanno incontrato molte difficoltà e a più di un mese di distanza dalle elezioni la situazione continua a essere enormemente ingarbugliata. Come mai? Partiamo da alcuni dati, tanto per rinfrescarci la memoria e avere maggiormente presente quali sono le forze in campo: in Euskadi i partiti di destra restano quasi a bocca asciutta ed eleggono solo un rappresentante (del PP) e solo dopo un complesso riconteggio delle schede. L’inossidabile Partito Nazionalista [...]]]> di Giovanni Castagno

Nonostante gli iniziali proclami di Pedro Sanchez e Pablo Iglesias, in Spagna i tentativi di formare un governo hanno incontrato molte difficoltà e a più di un mese di distanza dalle elezioni la situazione continua a essere enormemente ingarbugliata. Come mai?
Partiamo da alcuni dati, tanto per rinfrescarci la memoria e avere maggiormente presente quali sono le forze in campo: in Euskadi i partiti di destra restano quasi a bocca asciutta ed eleggono solo un rappresentante (del PP) e solo dopo un complesso riconteggio delle schede. L’inossidabile Partito Nazionalista Basco è al suo posto, ma a pochi voti dal Partito Socialista c’è Eh-Bildu che in parlamento porta ben cinque rappresentanti (se si somma quello eletto in Navarra ai quattro eletti nelle province basche). In Catalogna, l’indipendentismo anticapitalista della Cup che per la prima volta partecipa a una tornata elettorale dalla quale, per una vocazione municipalista, aveva sempre deciso di tenersi lontana, riesce a eleggere addirittura due deputati. La Sinistra Repubblicana Catalana di Junqueras, anche se con una leggera flessione in termini di voti, consolida la sua posizione e si conferma primo partito, continuando a staccare l’indipendentismo moderato cattolico di Junts per il si. In Galizia le cose non sono andate male per il Blocco Nazionalista Gallego, che elegge un deputato (dopo tre legislature in cui non c’era riuscito) e ritorna a raccogliere più di centomila voti, anche se il risultato molto positivo di Vox getta tinte chiaro scure su quel territorio la cui composizione sociale e politica merita alcuni distinguo rispetto alle altre due nazioni storiche dello Stato spagnolo.

In sintesi, la questione territoriale, al netto delle considerazioni che ognuno può fare sul senso, il portato, le prospettive che rappresenta, ha condizionato la campagna elettorale, come la precedente e determinato il definitivo tramonto del bipolarismo alla spagnola, restituendo a chi lo osserva uno scenario composito, plurale, diverso, non interpretabile se si utilizzano le categorie della scienza politica utilizzate fino a questo momento, destra e sinistra, ma anche quelle di élites e popolo. Sanchez sembra averlo capito anche se fare i conti con le istanze delle organizzazioni indipendentiste non si sta rivelando per nulla semplice in un quadro sociale e politico, ma anche economico, molto diverso da quello che aveva caratterizzato il rapporto tra governo centrale e partiti nazionalisti durante gli ultimi trent’anni.

Sanchez e Iglesias potranno stringere tutti i patti che vorranno, ma entrambi sanno perfettamente che da soli sommano numeri enormemente inferiori a quelli che servono per governare e che il piccolo contributo del Más País di Errejón e Carmena non basterà per governare.
Che passo daranno, entrambi, per affrontare l’evidente e progressivo tramontare del regime politico della transición e quale soluzione elaboreranno per superarlo con un nuovo patto sul quale edificare la Spagna del futuro?
Il punto 9 dell’accordo tra PSOE e UP sembra almeno a un primo sguardo insufficiente.
Lo stanno a dimostrare le mobilitazioni che continuano a riempire le piazze di Barcellona e di tutta la Catalogna.

Lo hanno chiamato Tsunami democratic, e considerata la quantità di appuntamenti che chi ne tiene le redini è riuscito a organizzare, lavorando nell’ombra, gabbando i tentativi della polizia di paralizzarne l’espressione, nome non poteva essere mai più appropriato. Basta iscriversi a un canale Telegram e quotidianamente si ricevono centinaia di comunicazioni. Appuntamenti ai quali partecipa un numero molto variabile di persone, da poche centinaia, a molte migliaia. Piccoli flash mob di quartiere o grandi manifestazioni come quella svoltasi nella piazza Urquinaona il 19 ottobre, il giorno dello sciopero generale contro le sentenze del Tribunale supremo contro i leader indipendentisti, quando i mossos hanno disperso i manifestanti distribuendo botte da orbi ed ammesso di aver usato pallottole di gomma. La Avenida Meridiana è ormai impercorribile, il Comitato di Difesa della Repubblica del quartiere di Sant Andreu la occupa sempre alla stesa ora, da oltre due mesi. Dopo aver paralizzato l’aeroporto di Madrid, quello di Barcellona, nei pressi di Junquera è stata chiusa la frontiera con la Francia e per evitare che il traffico si spostasse più a Ovest la stessa sorte è toccata all’autostrada numero 8, che collega la Francia ai Paesi Baschi. È stata bloccata la centralissima stazione di Sants, dove solo l’intervento dei Mossos ha permesso di ripristinare il servizio. Le accampate nelle principali piazze di Barcellona, come quella antistante l’università, sono state sgomberate solo recentemente dopo settimane di occupazione. Il “clásico”, Barça-Madrid, assediato da migliaia di manifestanti che hanno raccolto l’ennesima proposta di Tsunami Democratic e invaso il Camp Nou di decine di migliaia di cartelli chiedendo una soluzione politica al conflitto (la scritta “Span sit and talk” era ovunque dentro e fuori lo stadio). Anche il tradizionale concerto di Santo Stefano al Palazzo della Musica è stato, lo scorso 26 dicembre, interrotto dai manifestanti che scandivano slogan sui detenuti politici, sulla libertà d’espressione, sull’autodeterminazione, rinvigoriti dalla sentenza della Corte di giustizia europea che ha ammonito la Spagna per non aver lasciato libero Junqueras di occupare regolarmente il proprio posto come europarlamentare.
Non ci voleva proprio avrà pensato Pedro Sanchez. Ora anche le istituzioni europee, complici bisogna dirlo, fino a questo momento, hanno dovuto sollevare dei dubbi sull’azione dello Stato spagnolo nei confronti dei leader indipendentisti.

La sentenza, in realtà, a parte i diretti interessati, è stata accolta abbastanza tiepidamente, la società catalana si è ormai abituata ad agire in totale autonomia. Europa o non Europa, in Catalogna assistiamo ogni giorno a forme di partecipazione sempre più ampie, come se la determinazione della società civile catalana aumentasse invece di vedersi fiaccata, provata dall’impegno e lo sforzo profuso. E nonostante i più di seicento feriti, i duecento fermi, le decine di arresti (due proprio in occasione delle cariche contro i manifestanti fuori dal Camp Nou, il giorno della partita), sono rarissimi i casi, e immediatamente stigmatizzati, di reazione violenta alla repressione. La maggior parte del movimento indipendentista continua a utilizzare la disobbedienza civile come strategia di lotta, convinto come lo era il giorno del Referendum del 1 ottobre che proprio quella strada sarebbe stata la più proficua, l’unica capace di tenere uniti settori diversi, generazioni diverse, sensibilità diverse all’interno di un orizzonte di lotta comune.

Proprio mentre da anni si parla di una crisi della partecipazione politica, un po’ in tutte le democrazie occidentali, di un progressivo allontanamento delle nuove generazioni ripiegate su se stesse, molto più interessate a progetti di affermazione personale che collettiva, in Catalogna ci troviamo di fronte a un fenomeno opposto, nel quale proprio i giovani hanno assunto un ruolo di enorme protagonismo, sia all’interno dei tradizionali contesti dove essi si sono sempre espressi, a scuola, all’università, sia nelle forme diffuse che non rimandano direttamente a una appartenenza politica specifica ma che li vedono impegnati da prospettive diverse e attivi nel dare il loro contributo al percorso intrapreso dalle organizzazioni indipendentiste. I militanti dell’organizzazione indipendentista Arran lo chiamano capitalismofobia, un malessere ormai dilagante dovuto al rapido deteriorarsi delle condizioni economiche dei più giovani.
Senza voler risalire indietro la corrente della storia e menzionare le esperienze che proprio in Catalogna aprirono la strada a forme di profonda contestazione, di radicale contrapposizione tra la società civile, i partiti, le organizzazione sindacali e studentesche e quelle forme di governo che non le tenessero sufficientemente in conto, ci troviamo ormai da alcuni anni di fronte a forme di resistenza molto più radicate e determinate che altrove in Europa e lo scenario, quotidianamente, ci permette di apprezzare iniziative massive che altrove sarebbero impensabili.

Non sono certo la Semana Tragica del 1909, o gli scioperi come quello alla Canadiense del ’19, l’eredità di personaggi come Salvador Seguí, Francesc Masia o Lluís Companys, il boicottaggio alle Olimpiadi di Berlino del ’36, la resistenza al franchismo, a determinare il livello della partecipazione al quale assistiamo, ma probabilmente senza questa profonda e radicata cultura cooperativistica, mutuale, solidale, in buona parte libertaria, che ha attraversato la storia della Catalogna e da un passato molto lontano continua a caratterizzarla, non avremmo assistito alla reazione popolare, alla determinata convinzione di una parte molto ampia della popolazione catalana che con lo Stato spagnolo non ci sia più nulla da fare, che esso non sia riformabile e che abbandonarlo significherebbe sferrare un colpo durissimo non solo alla Spagna ma a quello che le democrazie liberali sono diventate in questa fase storica, smascherandone la dimensione reazionaria e autoritaria.

Oggetto di equivoci, di malintesi, di interpretazioni poco disposte a riconsiderare assunti di partenza dati per buoni una volta per tutte, il variegato e diverso movimento indipendentista catalano costituisce una delle esperienze più radicate di contestazione del rapporto tra stato e società civile in un’ottica progressista che ci sia in questo momento in Europa.
Analizzarne i contenuti e mostrarne limiti e le virtù al di fuori da facili riduzionismi e semplificazioni, verificandone nella concretezza dell’azione politica la capacità di dare risposte a chi vuole trasformare il presente e costruire un futuro di emancipazione dovrebbe essere almeno da parte di chi sente di collocare il proprio orizzonte esistenziale in una prospettiva critica, l’atteggiamento prevalente. Perché quello che avviene in Spagna non venga ridotto a una vicenda di politica interna e si colga invece il rapporto che ha questioni molto urgenti del nostro presente.

Nel frattempo che questa sensibilità, interesse, curiosità, maturi, vale la pena interrogarsi sugli scenari ai quali potremmo assistere da qui ai prossimi mesi. Dovesse lo Stato spagnolo proseguire nel suo ottuso e controproducente atteggiamento repressivo, dovesse continuare a ignorare le istanze che la società catalana continua a proporsi di raggiungere, la strada della disobbedienza sarà ancora quella prevalente? Dovessero proseguire i processi, gli arresti, i pestaggi da parte della polizia, dovessero essere lacrimogeni e pallottole di gomma la moneta con la quale la Spagna si presenta per negoziare una soluzione politica al cospetto della società catalana siamo così sicuri che altre forme di conflitto, altre strade non cominceranno a farsi largo soprattutto tra i più giovani, e che un senso di esasperazione e frustrazione non determinino una svolta verso un confronto i cui binari possano essere diversi? Il conto alla rovescia sembra essere iniziato. Tic tac. Tic tac.

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Una guerra civile mondiale https://www.carmillaonline.com/2019/10/23/una-guerra-civile-mondiale-gia-in-atto/ Wed, 23 Oct 2019 21:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55526 di Sandro Moiso

“Non servono più eccitanti o ideologie, ci vuole un’altra vita” (Franco Battiato, Un’altra vita, 1983)

“Se l’emancipazione delle classi operaie esige il loro concorso fraterno come potranno compier tale missione finché una politica estera che persegue disegni criminosi punta sui pregiudizi nazionali e spreca in guerre di rapina il sangue e i tesori dei popoli? Non la saggezza della classe dominante ma l’eroica resistenza della classe operaia inglese alla sua follia criminale fu ciò che salvò l’Occidente europeo dal gettarsi a corpo morto in un’infame crociata per propagare la [...]]]> di Sandro Moiso

“Non servono più eccitanti o ideologie, ci vuole un’altra vita”
(Franco Battiato, Un’altra vita, 1983)

“Se l’emancipazione delle classi operaie esige il loro concorso fraterno come potranno compier tale missione finché una politica estera che persegue disegni criminosi punta sui pregiudizi nazionali e spreca in guerre di rapina il sangue e i tesori dei popoli? Non la saggezza della classe dominante ma l’eroica resistenza della classe operaia inglese alla sua follia criminale fu ciò che salvò l’Occidente europeo dal gettarsi a corpo morto in un’infame crociata per propagare la schiavitù sull’altra riva dell’Atlantico. L’approvazione vergognosa, la simpatia ipocrita o l’indifferenza idiota con cui le classi superiori dell’Europa hanno visto la Russia prender la fortezza montuosa del Caucaso e annientar l’eroica Polonia; gli attacchi incontrastati di tale potenza barbarica, la cui testa è a Pietroburgo e le cui mani sono in tutti i gabinetti ministeriali europei, hanno imposto alle classi operaie il dovere di iniziarsi ai misteri della politica internazionale, vegliare sugli atti diplomatici dei loro rispettivi governi, opporsi ad essi all’occorrenza con tutti i mezzi in loro potere, e, se non possono prevenirli, coalizzarsi e denunciarli simultaneamente e rivendicar le semplici leggi della morale e della giustizia che dovrebbero regolare sia i rapporti superiori fra i popoli che le relazioni tra gli individui. La lotta per una tale politica estera fa parte della lotta generale per l’emancipazione della classe operaia. Proletari di tutti i paesi, unitevi!” (Karl Marx, Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai, fine ottobre 1864)

Due citazioni in apertura potrebbero sembrare davvero troppe per molti lettori.
Soprattutto due citazioni tratte da autori e contesti così lontani tra di loro.
Eppure, eppure…
L’attuale situazione internazionale, in cui non passa giorno senza che nuove proteste esplodano in ogni parte del mondo, a Est come a Ovest e a Sud come a Nord, ci deve far riflettere sull’enorme scontento sociale che agita milioni di persone in ogni angolo del globo.

Un malessere che non può trovare risposta nelle politiche messe in atto da governi apparentemente così diversi tra di loro per forme istituzionali e rappresentanze politiche, ma uniti sostanzialmente dalla necessità di salvaguardare gli interessi del capitale finanziario internazionale.
Governi disposti, in ogni area del pianeta, a distruggere la vita della specie e devastare l’ambiente con cui essa dovrebbe convivere pur di continuare a far vivere ciò che è già morto, per sua stessa essenza.

Infatti ci vuole un’altra vita, inteso come slogan, potrebbe sintetizzare benissimo il contenuto delle proteste attuali: dalle marce dei giovani in difesa della giustizia climatica ed ambientale alle manifestazioni in difesa dell’esperienza rivoluzionaria del Rojava, dalle proteste di Hong Kong a quelle dei giovani iracheni, dalle rivolte cilene ed ecuadoriane a quelle catalane fino ai gilets jaunes e ai movimenti NoTav e NoTap ai quali, nel corso degli ultimi giorni si sono aggiunte anche le proteste in Libano (qui).

Nessuna di queste cause può rappresentare in sé e per sé un assoluto, ma il loro insieme, la simultaneità sempre più frequente delle lotte e il richiamo che intercorre spesso tra l’una e l’altra (la solidarietà del movimento NoTav nei confronti dei combattenti del Rojava, gli studenti di Hong Kong che indossano gilet gialli, manifestanti catalani con gli ombrelli, la diffusione a macchia d’olio della maschera eversiva del Joker nelle rivolte, solo per fare alcuni esempi) ci aiutano a ricostruire un mosaico politico e sociale accomunato da un disegno che, pur non essendo ancora stabilmente delineato, inizia a manifestare una sua intrinseca organicità. Probabilmente dovuta proprio alle risposte messe in campo dai governi in maniera pressoché univoca.

In tutti i casi le proteste nascono da un malessere più generale che affonda le proprie radici in un modo di produzione in cui l’accumulo di lavoro morto trasformato in valore-denaro sta soffocando la vita e il lavoro vivo della specie, sia sul piano meramente fisico che su quello psichico.
In nome di un profitto sempre più effimero, soprattutto se si osserva come ormai un 20% dei titoli di Stato complessivi e almeno il 40% del debito aziendale a rischio default conservato nelle casseforti delle otto principali economie mondiali consista in titoli a tasso negativo (qui).

Le differenze che caratterizzano tutti i movimenti elencati prima possono nascondere soltanto ad un occhio spento o accecato dall’ideologia il fatto che gli stessi derivano tutti dalla necessità di interrompere un rapporto di sottomissione in cui, come affermava uno slogan di successo di qualche anno or sono, Siamo il 99%!, la maggioranza dell’umanità (donne, lavoratori salariati, disoccupati, giovani privi di futuro sia dal punto di vista climatico che economico, classi medie in rovina, popoli indigeni e piccoli contadini) è costretta a ridurre sempre più le proprie esigenze minime in favore del rilancio di un profitto che si accumula quasi esclusivamente nelle mani di un gruppo sempre più ristretto di investitori e compagnie multi e sovranazionali. Oppure di imperialismi, vecchi e nuovi, che vedono ridursi sempre più gli spazi per la loro espansione finanziaria ed estrattivista, se non a rischio di nuove e sempre più devastanti guerre.

Dai curdi del Rojava che non vogliono vedere distrutto il loro esperimento di autogoverno che ha messo al centro di ogni iniziativa politica e militare la questione femminile, quella ambientale e quella di nuove forme di democrazia non basate sullo Stato e sulla nazionalità, ai giovani e ai rivoltosi di ogni genere e età di Hong Kong, assillati da una situazione economica disastrosa per la maggioranza degli abitanti della ex-colonia britannica1; dai milioni di Catalani scesi in piazza per le durissime condanne inflitte ai promotori del referendum indipendentista del 2017 e per ribadire la propria voglia di indipendenza ed organizzazione repubblicana nei confronti di uno Stato che fonda ancora le proprie radici nel fascismo franchista e in una monarchia ormai fuori dalla Storia, ai giovani iracheni scesi in piazza contro l’aumento del costo della vita e la mancanza di lavoro o altre fonti di reddito; dai popoli indigeni amazzonici in Ecuador e Brasile all’esplosione sociale di Santiago del Cile, fino alle proteste ambientali e territoriali di movimenti come quelli italiani NoTav e NoTap, sembra levarsi dal pianeta un unico urlo di rivolta che invita a farla finita con un sistema di sfruttamento della vita, nostra e delle altre specie, ormai insopportabile.

L’elenco delle proteste e delle lotte potrebbe ancora continuare a lungo, così come quello delle forme di organizzazione e delle richieste immediate messe in campo dai rivoltosi di ogni dove, ma ciò che qui occorre sottolineare è il fatto che tutte queste lotte si trovano davanti a uno spazio di manovra e trattativa istituzionale sempre più ristretto, a dire il vero quasi nullo.
Dai carri armati messi in campo da Erdogan nel Nord-est curdo-siriaco quanto da Pinera in Cile, alle parole sprezzanti del rappresentante del Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE), Pedro Sánchez Pérez-Castejón, nei confronti degli indipendentisti condannati in Spagna; dai carri armati e le truppe minacciosamente ammassate dal governo cinese ai confini con Hong Kong fino alla condanna definitiva per i militanti NoTav accusati per il blocco di un casello stradale nel 2012 oppure fino alle decine di denunce per i militanti del Movimento NoTap per atti assolutamente risibili, la risposta dei governi non è altra che quella legata alla intimidazione, alla repressione e al silenziamento, se non al massacro, dei movimenti e dei militanti che negli stessi sono coinvolti.

Silenziamento e repressione che si avvalgono, a seconda della situazione, di armi, ipocriti appelli alla condivisione di obiettivi comuni (tipo il Green New Deal o le raccolte firme online a favore dei Curdi da parte di personaggi come Roberto Saviano ed Enrico Mentana) mentre la polizia reprime le manifestazioni di piazza a favore del Rojava (come a Firenze), la magistratura inquisisce chi è andato a combattere per quella causa (come a Torino) e sono oscurati i profili Fb delle testate che più si sono impegnate a difendere il Rojava, insieme a quelli individuali dei militanti che maggiormente si sono dati da fare per diffondere in rete iniziative e messaggi in tale direzione (come a Brescia, ma non soltanto).

Tutto questo sembra aver fatto perdere la bussola anche a molti di coloro che avrebbero dovuto prendere una posizione univoca e solidale a favore di tutti questi movimenti, a prescindere da ciò che affermano in prima istanza nelle parole delle loro organizzazioni o dei loro rappresentanti.
Dimenticando la lezione di Karl Marx e dell’Associazione Internazionale dei lavoratori del 1864, troppi hanno iniziato a disquisire sulla validità o meno dei singoli obiettivi o sugli appoggi che tali movimenti potrebbero ricevere da forze altre, facendo in modo che la cultura del sospetto di staliniana memoria tornasse sotto forma di apparenti dotte analisi geo-politiche oppure politiche, ma in realtà soltanto prossime al disfattismo.

Insomma, alcuni fingendo di rappresentare un’autentica ortodossia marxista hanno finito col tradire lo spirito che ha sempre contraddistinto l’azione e la riflessione del Moro di Treviri, sempre ed esclusivamente rivolto a trovare e denunciare i gangli vitali del modo di produzione capitalistico, da un lato, e ad individuare i suoi reali antagonisti insieme alle lotte destinate a superarlo, dall’altro.

E’ vero che oggi l’appello all’unità non può più passare soltanto attraverso quello rivolto alla classe operaia, ma è anche vero che l’appello del 1864 si concludeva con quel proletari di tutto il mondo unitevi! che superava la soglia ristretta dei semplici operai salariati per rivolgersi a tutti gli espropriati d’Europa e del mondo intero. A quell’immenso proletariato in cui, i processi di espropriazione ed impoverimento della maggioranza della popolazione, stanno precipitando tanto i milioni di rifugiati e profughi che migrano da un angolo all’altro del pianeta, in cerca di una sicurezza esistenziale ed economica che nessun governo intende realmente garantire loro, quanto le classi medie impaurite dell’Occidente, che nello slogan dei gilets jaunes, Fine del mondo – fine del mese stessa cosa possono riconoscere un perfetta sintesi della loro situazione.

Una gigantesca ricomposizione di classe in cui, al momento attuale e soprattutto sul versante occidentale del pianeta, proletariato e proletariato marginale, sottoproletariato e lavoratori salariati si confondono in continuazione grazie alla diffusione del lavoro precario, delle agenzia del lavoro e, soprattutto, del venir meno di qualsiasi garanzia del e sul posto di lavoro. Non comprendere ciò significherebbe ridurre la “classe operaia” ad un mero feticcio da sventolare in occasione delle celebrazioni del 1° maggio, rendendola oltretutto schiava di una visione lavorista che la relegherebbe ad essere una semplice appendice dell’apparato produttivo senza più alcuna reale autonomia di classe.

Marx aveva inoltre ben chiaro che “Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale […] cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, ma cresce anche la ribellione”.2 Affermazione cui andrebbe aggiunta quella di Friedrich Engels, là dove scriveva: “Il modo di produzione capitalistico, trasformando in misura sempre crescente la grande maggioranza della popolazione in proletari, crea la forza che, pena la morte, è costretta a compiere questo rivolgimento.”3

Probabilmente non tutti coloro che scendono in piazza in Catalogna condividono le stesse finalità (tra l’indipendentismo di Carles Puigdemont i Casamajó e quello dei CDR, i comitati di difesa della repubblica, oppure dei comitati di quartiere corrono diversi lunghezze di distanza in termini di obiettivi e modalità di lotta e organizzazione dal basso), così come ad Hong Kong gli interessi coinvolti nelle agitazioni possono essere tanti quanti quelli presenti tra i governi che hanno parzialmente appoggiato, e poi tradito, i curdi del Rojava nelle loro lotta, obbligata dalla necessità della sopravvivenza, contro l’Isis, ma ciò non vuol dire che non sia assolutamente necessario appoggiare e condividere tutte queste lotte, in nome di un comune e necessario superamento non solo delle ingiustizie consumate a livello planetario, ma anche del modello sociale e del modo di produzione che le rendono plausibili.

Occorre infine considerare che molti movimenti indipendentisti nascono proprio dalla crisi degli stati nazionali, ormai troppo spesso ridotti ad una mera funzione repressiva, e della scarsa, o nulla, autonomia decisionale dei propri governi. Senza tali considerazioni, che andrebbero certamente approfondite, non si riesce però nemmeno a cogliere la sempre più evidente insignificanza dei governanti e dei loro partiti: da Di Maio a Trump, passando da Salvini, il PD, Boris Johnson e tutte quelle forze che, fingendosi di volta in volta, sovraniste, populiste, democratiche o liberali, non possono far altro che riscaldare la solita vecchia minestra e portare avanti lo stesso progetto predatorio e repressivo.

Ancora negli anni Sessanta dell’Ottocento, Marx invitava gli operai inglesi, avversi alla presunta concorrenza lavorativa dei lavoratori immigrati irlandesi, a difendere quei lavoratori più deboli e meno garantiti invece di combatterli poiché chi non sa difendere gli altrui diritti, non sa difendere neppure i propri. Tutto ciò vale ancora, e forse di più, per noi oggi. Guai a tradirne il mandato.

Anche perché oggi, a livello internazionale, è diventato necessario parlare di guerra civile, poiché l’obiettivo ultimo di questo scontro globale si potrà completare non tanto e soltanto con la vittoria di uno dei due attori principali (operai e borghesi per semplificare secondo un mal digerito marxismo) ma, piuttosto, con la negazione di entrambi attraverso una negazione e un superamento dell’attuale modo di produzione, anche attraverso la distruzione immediata dello Stato nazionale, proprio come Marx aveva affermato sull’onda dell’esperienza della Comune di Parigi. Guerra civile che, tra l’altro, i difensori più feroci del dis/ordine esistente non esitano più a dichiarare apertamente, così come ha fatto in questi giorni il presidente cileno Pinera (qui).

Carcere, lager, morte, tortura e violenza non sono stati strumenti repressivi tipici soltanto del passato e dei regimi totalitari, ma sempre più lo saranno nel presente, in ogni angolo d’Europa e del mondo. Miseria y represion come sta scritto su uno striscione dei manifestanti cileni. Ma tutto questo non costituisce soltanto una momentanea deviazione dalla normalità quotidiana politica e democratica, così come tutti i media vorrebbero ancora farci credere; piuttosto deve essere appropriatamente riconosciuto e chiamato col nome più adatto: guerra civile, aperta o strisciante che sia4, dichiarata dai governi e dalle élite dell’economia mondiale in nome dei “sacri diritti” del profitto e dello sfruttamento. Ma che dovrà essere rovesciata nel suo contrario.

Una violenta e tutt’altro che sotterranea guerra civile che si è aperta tra sfruttatori, sia della specie umana che dell’ambiente, e sfruttati che si risolverà soltanto con la ridefinizione delle forme sociali di governo e di produzione. Forme che non possono ancora essere del tutto date, ma che potrebbero esserlo nel corso degli eventi oppure definirsi completamente soltanto al loro termine; certo è che dobbiamo, con intelligenza e lucidità di pensiero, renderci conto che dalla Comune in avanti tutte le lotte fino a quelle attuali, fanno tutte parte di una lunga, forse lunghissima, guerra civile (non solo di classe, poiché spesso gli attori sono stati più numerosi delle due classi canonizzate dall’ideologia) destinata a ridefinire i confini del futuro della nostra specie. Uno scontro, quello che viviamo, che soltanto dal futuro, inteso come negazione dei rapporti sociali di produzione presenti e passati, può trarre l’ispirazione e le giuste motivazioni.

Lasciando agli odierni manutentori del dis/ordine imperiale mondiale attuale il ruolo che già toccò alle peggiori forze conservatrici, liberali, fasciste o fintamente socialiste che fossero, del passato. Ovvero quello di negare, con ogni mezzo, un futuro diverso e possibile affinché ciò potesse e possa ancora impedire qualsiasi azione di cambiamento del presente.

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N.B.

In occasione della manifestazione Logos-Festa della Parola che si terrà a Roma dal 23 al 27 ottobre presso il CSOA EX SNIA si svolgeranno incontri, dibattitti e presentazioni di libri direttamente collegati ad alcuni dei temi qui trattati (qui il programma).


  1. Si veda H. Dieter, Poveri e senza casa: le radici sociali della protesta in Hong Kong: una Cina in Bilico, Limes n° 9/2019, pp. 117-120  

  2. K. Marx, Il capitale, Libro primo,cit. in A.Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli 1974, p. 87  

  3. F. Engels, Antidühring, in A. Heller, op. cit. p. 87  

  4. cfr. https://www.carmillaonline.com/2019/03/07/tre-secoli-di-guerra-civile/  

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