partito storico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 György Lukács, un’eresia ortodossa / 5 – Sul filo del tempo https://www.carmillaonline.com/2025/04/30/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-5-sul-filo-del-tempo/ Wed, 30 Apr 2025 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86436 di Emilio Quadrelli

La lettura del conflitto di classe non avviene stilando una statistica al fine di individuare il punto medio della conflittualità ma osservando e facendo proprie le istanze strategiche che provengono dalle punte avanzate della classe. Su ciò si plasma la tattica cosciente del partito. Dalla prassi d’avanguardia della classe al partito dell’avanguardia di classe al fine di riversare e generalizzare in questa, quella tendenza. Il partito, quindi, non si accoda semplicemente alla lotta di classe, non si limita a portare solidarietà a questa, cosa che può fare chiunque, e neppure, come le letture burocratico-organizzative di Lenin offrono, [...]]]> di Emilio Quadrelli

La lettura del conflitto di classe non avviene stilando una statistica al fine di individuare il punto medio della conflittualità ma osservando e facendo proprie le istanze strategiche che provengono dalle punte avanzate della classe. Su ciò si plasma la tattica cosciente del partito. Dalla prassi d’avanguardia della classe al partito dell’avanguardia di classe al fine di riversare e generalizzare in questa, quella tendenza. Il partito, quindi, non si accoda semplicemente alla lotta di classe, non si limita a portare solidarietà a questa, cosa che può fare chiunque, e neppure, come le letture burocratico-organizzative di Lenin offrono, si limita a porsi alla testa delle lotte. Certo, il partito solidarizza con la lotta e cerca di prenderne la direzione ma perché? A qual fine? Qui sta il nocciolo della questione. Il partito deve, soprattutto, trasformare coscientemente quella lotta in qualcosa che sta nella lotta ma solo in potenza. Non ha senso prendere la direzione di qualcosa che rimane in potenza, ma lo ha se questo prendere la direzione vuol dire realizzare la potenza. Detta in altre parole la tattica del partito mette la classe nella condizione di compiere un salto nell’elaborazione della strategia. In altre parole il partito più che prendere la testa del movimento è la testa del movimento. Facciamo un esempio: nel 1905 le masse organizzano una dimostrazione la quale, come noto, sfocia nel sangue e in seguito a ciò, in piena spontaneità, iniziano a battersi. Il partito sicuramente solidarizza con la lotta e cerca di mettersi alla testa di questo movimento, ma fare questo significa operare per far fare un salto qualitativo a quanto sta andando in scena. Questo salto è l’indicazione pratica dell’insurrezione quindi, di fatto, essere la testa del movimento. Dalla classe al partito, dal partito alla classe. Il partito non si è inventato nulla, non fa nulla, esso agisce come elemento cosciente e d’avanguardia dentro il punto più alto della conflittualità di classe. Ecco che, in quel momento, tutto il suo lavoro preparatorio emerge in maniera cristallina. Ma, una volta fatto ciò non è che all’inizio del suo lavoro perché la stessa pratica dell’insurrezione non farà altro che dare vita e forme qualitativamente diverse alla strategia della classe e inevitabilmente ciò porterà a una nuova lettura della strategia di classe e a una successiva rielaborazione della tattica di partito.

Non vi è nulla di più sbagliato, infatti, che vedere il partito leniniano come corpo estraneo alla classe, esso, infatti, è tutto interno alla classe ma non in maniera aritmetica e lineare ma geometrica e dialettica, anzi è strumento della classe e lo è se applica, come vedremo a breve, anche nei propri confronti le leggi della dialettica marxiana. Certo i dubbi e i pericoli che Luxemburg e altri intravedono in una sua accentuazione non sono del tutto fuori luogo e la possibilità che esso diventi un corpo estraneo alla classe sussiste e lo stesso partito bolscevico non risultò immune da tale pericolo, infatti esiste sicuramente la possibilità che un siffatto organismo tenda a sentirsi esonerato dall’obbligo di applicare a sé stesso la dialettica marxiana per trasformarsi, nel tempo, in un grigio corpo di burocrati e funzionari. Ma è un rimprovero che non può essere mosso a Lenin il quale, proprio su questo, dice e fa cose che non lasciano alcuna sorta di dubbio. Prima di affrontare questo aspetto decisivo della teoria leniniana soffermiamoci, però, su un altro aspetto.

Ciò che riformisti e comunisti di sinistra non colgono è che, per Lenin, il partito non fa la rivoluzione ma la prepara, quindi l’idea un po’ blanquista del colpo di mano è quanto di più distante vi sia da lui. È questo preparare che sfugge per intero ai critici di destra e di sinistra. Fin dai tempi del “Che fare?” come si è visto in precedenza, Lenin parla del partito come partito dell’insurrezione. Questo senza ventilare, a breve, la presa delle armi, eppure tutti i suoi sforzi politici e organizzativi sono rivolti a ciò. Quando ipotizza un giornale per tutta la Russia, e subisce le accuse di intellettualismo da parte dei menscevichi, chiarisce immediatamente che il suo obiettivo non è costruire una consorteria di giornalisti socialdemocratici, ma dei corrispondenti insurrezionali. L’insurrezione, quindi, è l’orizzonte entro cui Lenin si muove. Ma concretamente cosa significa? Significa che il partito deve dedicare ogni sforzo in quella direzione ma non solo. Posto in questi termini potrebbe sembrare un atto di puro volontarismo, ma questo compito è il frutto del riconoscimento di essere entrati dentro un’era di rivoluzioni. Qui, allora, non si può che tornare a quanto sinteticamente esposto nel paragrafo introduttivo. Si tratta, cioè, di ricavare la tendenza storica entro la quale si è immessi. Si tratta di leggere i fatti avendo a mente l’insieme di questi, il loro legame, l’intreccio a cui tutto ciò rimanda. In altre parole si tratta di applicare la totalità nell’analisi di fase e da questa presa d’atto il partito può essere solo il partito dell’insurrezione. Dietro a ciò non vi è alcun volontarismo ma il riconoscimento che, in un simile contesto, solo la soggettività di classe e il partito dell’insurrezione possono piegare verso una direzione piuttosto che in un’altra.

Se il filo del ragionamento seguito ha un senso possiamo dire che, in merito alla questione del partito, la costante tensione che anima Lenin è la relazione tra partito storico e partito formale1. Si tratta, cioè, di rendere sempre il partito formale in grado di stare sul filo del tempo ossia confezionare la forma organizzativa intorno alla carne e al sangue della classe. Ciò significa che non esiste un vestito buono per tutte le stagioni. Per questo, in maniera apparentemente paradossale, Lenin non fa altro che destrutturare in permanenza il partito. Ogni volta che il partito rischia di irrigidirsi, di non cogliere la strategia della classe, di separarsi da questa e porre sé stesso e le sue certezze davanti alla classe, Lenin si fa interamente uomo anti–partito. Sotto questo aspetto l’esempio della guerra partigiana ne è la migliore esemplificazione. Di fronte all’apparire spontaneo di questa forma di lotta, che la maggioranza degli stessi bolscevichi inizialmente condanna e taccia di banditismo, Lenin ne coglie in pieno il portato storico: si tratta di un passaggio tutto interno alla strategia della classe e come tale deve essere colto e reso cosciente dal partito d’avanguardia, ma lui non si limita a ciò, non solidarizza semplicemente con questa forma di lotta sorta spontaneamente dalla classe ma la fa interamente sua. Il partito d’avanguardia, se vuole rimanere tale, deve diventare lui stesso il migliore organizzatore della guerra partigiana, deve ampliarla, darle continuità, organizzazione e metodo. Per farlo deve, però, comprenderla, studiarla, fare inchiesta entrando così in relazione dialettica con quei segmenti di classe che la stanno praticando. Il partito può dirigere solo se è capace di andare a scuola dalle masse perché è lì e solo lì che si forma la strategia e con ciò mostra quanto distanti da lui siano le derive organizzativiste, burocratiche e particolarmente prone a porre l’apparato e i suoi membri sopra e innanzi a tutto. La sola preoccupazione di Lenin è mantenere intatta la dialettica prassi/teoria, tattica/strategia, classe/partito. Se questa relazione viene a interrompersi il partito si trasforma in un inutile orpello burocratico. Gli occhi di Lenin, pertanto, sono continuamente puntati sulla classe, sulla sua composizione, sulla sua strategia. Come possiamo tradurre tutto ciò nel presente? Cosa significa oggi organizzazione politica? Cosa significa essere leniniani oggi? Per rispondere occorre inevitabilmente arrivare a definire la composizione di classe contemporanea e il contesto imperialista in cui questa ha preso forma.

Come sappiamo se c’è qualcosa che muta in continuazione pelle è proprio il capitalismo. Niente è più dinamico del modo di produzione capitalista e delle formazioni economiche e sociali che questo determina2. Per arrivare a parlare del presente, pertanto, è necessario ripercorrere, sia pur brevemente, alcuni passaggi relativi alla composizione di classe. Da tempo in ciò che comunemente era definito primo mondo si è assistito a una vera e propria trasformazione nell’ambito della produzione. L’era fordista, che aveva caratterizzato tutto un ciclo storico e il modello keynesiano a questa coeva, è stata posta in archivio dando il la a quel modello politico, economico e sociale che, nella vulgata comune, è stata denominata come era post fordista. Ciò ha comportato la fine delle grandi concentrazioni operaie, la delocalizzazione del ciclo della merce in quelli che erano i paesi del terzo mondo o negli ex stati del socialismo reale e, nei nostri mondi, alla frantumazione delle tradizionali figure operaie e proletarie. Precarietà e flessibilità sono diventati il modo in cui si sono definite le attuali relazioni industriali, relazioni che non poco attingono a quel modello di governo della forza lavoro proprio del sistema coloniale e che, in prima istanza, viene attivato su quella figura proletaria incarnata dalle corpose masse di migranti. Un proletariato, quindi, del tutto nuovo e in gran parte estraneo ai modelli politici e organizzativi dell’epoca fordista. Un proletariato non legato, a differenza del passato, a un luogo di lavoro, ma obiettivamente senza fissa dimora. Questo proletariato e le sue lotte non possono essere comprese entro una forma che è stata propria di una condizione operaia e proletaria del tutto diversa da quella attuale. Riprodurre i modelli del passato risulta pertanto un’operazione perdente in partenza. Per prima cosa occorre comprendere i tratti di questa nuova classe, occorre comprendere la concretezza cui questa rimanda. Lenin, del resto, non fa qualcosa di diverso nel momento in cui pone le basi del partito, l’inchiesta dentro la classe diventa lo strumento attraverso cui è possibile comprenderne la strategia. Dalla classe al partito, dal partito alla classe, esattamente qui si pone la dialettica tra partito storico e partito formale.

Il partito storico, ovvero la classe in quanto strategia, pone una serie di questioni, queste sì estremamente storicamente determinate, che devono trovare una forma per esprimersi politicamente ma questa forma può darsi solo se è saldamente ancorata e legata al partito storico. Se ciò non avviene, ovvero si rovescia la questione arrivando al paradosso che è il partito storico a doversi uniformare al partito formale, non si vedranno altro che sorgere una serie di sette alla ricerca di adepti. Non il partito dell’insurrezione ma, nella migliore tradizione educazionista, il partito della formazione3.

La classe non lotta e non lo ha mai fatto, assecondando i desideri delle sette, lotta a partire da sé stessa, punto e non è questa che deve entrare nella scarpa elaborata da qualche circolo sovversivo ma, al contrario, è questo che deve modellare la scarpa intorno alla lotta della classe e, a partire da ciò, renderne esplicita tutta la potenzialità rivoluzionaria. A quella forza posta in gioco dalla classe il circolo sovversivo deve dare progettualità politica e forma organizzativa. Facciamo un esempio: palesemente una delle lotte maggiormente poste in atto da parte delle figure proletarie attuali è la lotta contro i confini. Una lotta la cui obiettiva politicità è difficile da porre in discussione. Questa è un’indicazione non proprio irrisoria poiché, in un attimo, mette al centro del discorso politico qualcosa come sovranità, idea di nazione, militarizzazione del territorio e, sullo sfondo, ma come asse centrale, le pratiche di guerra coloniale che vengono condotte contro i proletari dell’ex terzo mondo. Da tutto ciò si ricava, o si dovrebbe, che il partito formale è colui il quale è in grado di preparare l’insurrezione verso e contro questa forma di dominazione. Come si vede non è che la classe non dia indicazioni, il problema è coglierle. La molteplicità degli esempi, al proposito, non manca di certo. Recentemente abbiamo assistito a un proliferare di lotte non secondarie in settori come la logistica e l’agricoltura. Quest’ultima, in seguito ad alcuni fatti drammatici, ha catturato un’attenzione di vastissime proporzioni. I braccianti si sono mossi rivendicando tutta una serie di cose ma, soprattutto, hanno reso evidente come quell’infame modello di sfruttamento non fosse il frutto di condizioni di lavoro arcaiche e pre-moderne ma, al contrario, incarnassero al meglio il punto più avanzato del sistema capitalistico. Dietro ai caporali e ai piccoli sfruttatori locali non ci sono arcaiche strutture agricole che cercano di sbarcare il lunario ma multinazionali moderne, quotate in borsa e ben insediate nei salotti dell’industria e della finanzia internazionale. Quelle lotte hanno detto chiaramente che il fronte del conflitto non è locale ma internazionale e che, in virtù di ciò, quello deve essere il piano dell’azione4. L’internazionalizzazione del capitale ha posto al centro del conflitto l’internazionalizzazione delle lotte e il proletariato internazionale come soggetto guida di queste. Un’indicazione, anche questa, non proprio di poco spessore e che comporta, o dovrebbe comportare, tutta una serie di ricadute sul piano dell’organizzazione formale. L’elenco potrebbe dilungarsi a dismisura ma già questi due esempi appaiono essere più che sufficienti. Solo ponendosi in grado di leggere la strategia della classe diventa possibile attualizzare nel presente quella forma organizzativa in grado di legarsi al partito storico.

N. B.

Con la pubblicazione di questa quinta parte del commento di Emilio Quadrelli al Lenin di György Lukács si conclude la pubblicazione su Carmillaonline del medesimo testo, poiché nel frattempo è comparso in tutta la sua interezza nel libro appena pubblicato da DeriveApprodi che riproduce il testo del marxista ungherese insieme al lungo saggio introduttivo di Quadrelli e a una lezione di Mario Tronti su Lenin, che sarà prossimamente recensito su queste pagine. Rimane fermo, però, l’impegno di Carmillaonline a pubblicare o ripubblicare i testi, inediti oppure già editi ma poco conosciuti, di un intellettuale-militante che non esitiamo a definire unico che, nonostante le difficoltà degli ultimi anni di vita, ha dato un fondamentale contributo alla riflessione politica e alla ricerca sociale sul campo.


  1. Il partito storico è la classe, mentre il partito formale è l’involucro che, volta per volta, è deputato a incarnare la strategia del partito storico. Questo a Lenin è estremamente chiaro e tutta la sua militanza politica è consacrata a ciò. Meno chiaro, invece, sembra esserlo stato per gran parte degli epigoni che hanno sostanzialmente ribaltato il tutto, ponendo il partito formale al di sopra del partito storico mettendo così gli apparati, in non pochi casi, non solo al di sopra della classe ma contro di questa. Sintomatico il fatto di come, per questi apparati, la lettura della composizione di classe sia qualcosa di sostanzialmente superfluo. Nel PCI, ad esempio, dopo Togliatti, che indipendentemente da tutto rimane il maggior dirigente politico di questo partito, non vi è più stato nessun interesse sociologico per la classe e la sua composizione, ma una sorta autismo tutto incentrato sui destini dell’apparato. In altre parole, e su questo Lenin conduce sempre una battaglia politica che non risparmia nessuno, l’apparato è legittimato a esistere solo se in grado di incarnare sempre il punto di vista storico della classe e non gli eventi contingenti che riguardano le sue sorti. C’è un passaggio in Lenin quanto mai esplicito al proposito: «Persone che intendono per politica piccoli imbrogli che spesso confinano con la truffa, devono trovare presso di noi il rifiuto più deciso. Le classi non possono essere ingannate», riportato in C. Schmitt, Le categorie del politico, pag. 148, Il Mulino, Bologna 1972, con ciò Lenin, avendo a mente gli intrallazzi ai quali, al fine di auto conservarsi, l’apparato può giungere, mostra come il partito dell’insurrezione non può e non deve avere nulla a che fare con tutto ciò.  

  2. Al proposito, Marx ed Engels ne Il manifesto, Editori Riuniti, Roma 1994, erano stati a dir poco eloquenti. A caratterizzare il modo di produzione capitalista è la sua estrema e permanente dinamicità, non certo l’immobilismo e il conservatorismo.  

  3. In fondo è esattamente questa l’impostazione, dalla quale i più sembrano impossibilitati a emanciparsi, propria del culturalismo gramsciano il quale, della cultura e della formazione culturale (che è altra cosa dalla formazione politico–militare propria del bolscevismo), finì per farne un totem. Su questo in fondo aveva ragione Bordiga quando, di fronte all’ossessione di Gramsci per la cultura, gli ricordò che i temi culturali appartengono più a una associazione di maestri piuttosto che ai militanti di un partito rivoluzionario. Cfr., Il programma comunista, Storia della sinistra comunista 1912 – 1919, Vol. I, Edizioni il programma comunista, Milano 1964.  

  4. Ciò, del resto, è implicito nel ciclo della merce nel mondo contemporaneo. Se, per molti versi, l’idea di un’economia nazionale risultava già bislacca con la nascita del capitalismo, cfr., G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1994; I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, 3 Vol. Il Mulino, Bologna 1978–1995, con l’era globale è diventata un vero e proprio non senso. Da ciò ne consegue che, per forza di cose, le lotte non possono essere perimetrate entro i ristretti ambiti dei confini statuali.  

]]>
Kamo, Lenin e il “partito dell’insurrezione” https://www.carmillaonline.com/2024/07/17/kamo-lenin-e-il-partito-dellinsurrezione/ Wed, 17 Jul 2024 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83421 di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 208, 18 euro

Oratori silenzio! A voi la parola compagno Mauser. (Vladimir Vladimirovic Majakovskij, Marcia di sinistra)

Sono numerosi i contributi e le ricerche di Emilio Quadrelli sullo sviluppo e la storia dei movimenti antagonisti e rivoluzionari, così come sulle problematiche che gli stessi, anche in situazioni di riflusso sociale come quella che accompagna i nostri giorni, devono costantemente prepararsi ad affrontare. Per questo motivo si è scelto di aggiungere in coda alla presente recensione una bibliografia, certamente ancora incompleta, dell’opera e degli articoli dello [...]]]> di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 208, 18 euro

Oratori silenzio!
A voi la parola
compagno Mauser.

(Vladimir Vladimirovic Majakovskij, Marcia di sinistra)

Sono numerosi i contributi e le ricerche di Emilio Quadrelli sullo sviluppo e la storia dei movimenti antagonisti e rivoluzionari, così come sulle problematiche che gli stessi, anche in situazioni di riflusso sociale come quella che accompagna i nostri giorni, devono costantemente prepararsi ad affrontare. Per questo motivo si è scelto di aggiungere in coda alla presente recensione una bibliografia, certamente ancora incompleta, dell’opera e degli articoli dello studioso e, soprattutto, militante genovese che nel corso degli ultimi anni ha fornito anche alla nostra testata.

Detto e sottolineato questo, però, va detto che a giudizio di chi scrive il testo da poco pubblicato da DeriveApprodi può costituire una specie di summa dell’interpretazione data dall’autore dell’azione di classe e del rapporto intercorrente tra questa e lo sviluppo di una coerente teoria rivoluzionaria, capace di fornire ai militanti dei movimenti e al processo destinato a superare lo stato di cose presenti una cassetta degli attrezzi non permeata dall’ideologia e dai suoi evidenti limiti, ma capace di resistere alle chimere di questo tempo infame per superarlo.

Non per nulla il volume si intitola L’altro bolscevismo e rovescia, nel sottotitolo ma non soltanto, quel Kamo, l’uomo di Lenin che era stato il titolo della più celebre opera pubblicata in Italia1 sulla figura del militante, bandito e combattente irriducibile che dal 1903 al 1922, anno della sua morte per una banale caduta dalla bicicletta, avrebbe dato prova di una fedeltà totale alla causa della Rivoluzione proletaria e comunista. Motivo per cui avrebbe trascorso, in fasi e periodi diversi, una buona parte della sua vita nelle carceri zariste.

Il rovesciamento del titolo non corrisponde soltanto alla necessità di superare la visione parzialmente romantica dell’eroe fornita dal testo di Baynac ma, soprattutto, da quella di spezzare letteralmente la vulgata che si è data a Sinistra del rapporto intercorrente tra prassi e azione in Lenin e nel suo partito. Una lettura mitopoietica, tutt’altro che dialettica, che sempre ha anteposto all’analisi concreta dello sviluppo dell’attività rivoluzionaria, anche sul piano militare e della “forza”, quello della capacità critica del singolo individuo, in questo caso Lenin, “solidamente” formatosi nella tradizione marxista.

Una lettura sviluppatasi sia in ambito staliniano che in quello dell’antistalinismo, che ha cercato di fare del rivoluzionario e dirigente russo una sorta di deus ex-machina della rivoluzione bolscevica che le varie fazioni in gara per contendersene l’eredità hanno potuto citare e, probabilmente, mutilare per poter rivendicare la propria “autentica” se non “unica” discendenza. Accantonando, nel fare ciò, la realtà della Storia e la concretezza dell’azione militante richiesta per giungere alla Rivoluzione di ottobre e alla sua successiva influenza sul movimento comunista internazionale.

Oggi, in anni in cui quest’ultimo termine ha cominciato a risultare un po’ troppo vago per definire lo sviluppo di un nuovo movimento antagonista capace di rovesciare gli attuali rapporti di produzione su scala mondiale, è salutare l’impegno di Quadrelli teso a dimostrare i diversi apporti, spesso dal basso e da aree politiche poi rimosse, in nome dell’”ortodossia”, dal curriculum del partito bolscevico, da cui derivò il successo dello stesso, prima e dopo il 1917.

Parafrasando l’incipit di un famoso e probabilmente dimenticato editoriale degli anni Sessanta2 iniziamo con una asserzione che non lascia spazio a equivoci e tanto meno a malintesi di sorta: cominciamo con il dire Kamo poiché, ciò che con il testo presente si è provato a ricostruire è la fabbrica della strategia leniniana, o l’altro bolscevismo, osservando la figura di Kamo come esemplificazione di tutto questo. Con ciò proveremo a discutere e leggere Lenin in maniera decisamente poco convenzionale, nella convinzione che il brigante del Caucaso (questo l’altro modo in cui Kamo, specialmente nella narrazione popolare è passato alla storia) rappresenti, non il tratto folcloristico del bolscevismo, bensi la cartina tornasole della teoria leniniana stessa3.

Come afferma fin dalla prima pagina, l’autore va a ricostruire su più solide e materialistiche basi lo sviluppo di quella che è stata considerata la fabbrica della strategia leniniana, in cui, occorre dirlo da subito, l’audacia (esattamente come nel pensiero militare di Napoleone) ha giocato un ruolo essenziale. Sia sul piano teorico che pratico. Una teoria e una prassi politica, oltre che militare, dell’audacia di cui Kamo costituì l’autentica e, forse, insuperata epitome.

Il testo di Quadrelli si divide in tre parti ben distinte. Nella prima (L’altro bolscevismo. Kamo, Lenin e il «partito dell’insurrezione», pp. 5- 69) viene evidenziato come non pochi tratti del populismo politico russo, di cui Marx nell’ultima parte della sua vita fu estimatore nonostante l’opera di rimozione in seguito condotta a partire da Plechanov4, divennero parte costitutiva dell’eresia leniniana. Nella seconda parte (La stagione di Kamo, pp. 70-146), avvalendosi delle metodologie della storia orale e della ricerca etnografica, si ricostruisce la ricezione che i militanti politici di base ebbero di Kamo nel corso degli anni Settanta. Mentre nelll’ultima (S’avanza uno strano soldato, pp. 147-204), declinata al presente, si argomenta la necessità di una ripresa «metodologica», senza dogmi di sorta, dell’eresia di Kamo e di Lenin.

In questa terza e ultima parte del libro si rivela la summa teorica, si potrebbe dire, dell’ulteriore eresia di Quadrelli che inizia là dove egli si pone una domanda tipica del presente:

esiste oggi “una questione immigrazione”? La risposta appare scontata. Ma cosa significa porsi questa domanda se non riconoscere che, in fondo, gli immigrati sono un corpo estraneo alle nostre societa? Cosa significa porsi “la questione immigrazione” se non percepire l’immigrato come qualcosa che rompe gli equilibri dei nostri mondi? Cosa significa ratificare l’esistenza dell’extracomunitario se non continuare a pensare che esiste un qua e un rigidamente separati. In fondo le retoriche dell’accoglienza o del respingimento che tanto animano il dibattito politico europeo soggiacciono alla medesima logica: “gli immigrati sono altro da noi”.
Ma gli immigrati sono veramente altro? I Paesi dai quali provengono sono veramente qualcosa che non ha nulla a che vedere con i nostri mondi? In altre parole, siamo ancora dentro i confini della vecchia fase imperialista? Ecco che, se posta in questi termini, la domanda sull’esistenza o meno di una “questione immigrazione” appare meno ovvia e scontata di quanto, in prima battuta, poteva apparire. La cosiddetta questione immigrazione, a ben vedere, non e altro che lo specchio per nulla deformato di cio che la fase imperialista globale ha prodotto. Gli immigrati e con loro i rispettivi Paesi di origine non sono l’arcaicità che approda al moderno, non sono i retaggi di un qualche ritardato modello di sviluppo, non sono il frutto esotico che improvvisamente compare nel mercatino rionale sotto casa, ma l’avanguardia, sotto il profilo politico e sociale, dell’attuale modello politico, economico e sociale capitalistico. Gli immigrati non sono plebi, lumpen, e chi più ne ha più ne metta. Gli immigrati sono la concretizzazione della figura proletaria prodotta dal punto piu alto dello sviluppo capitalista. Sono la storia del presente, non del passato5.

Per poi proseguire affermando che:

La polarizzazione sociale dell’attuale fase imperialista non può che proletarizzare gran parte di quella middle class sulla quale poggiava per intero il “consenso di massa” al potere imperialista nelle nostre società. La classe media e l’aristocrazia operaia occidentali di un tempo, il che è ampiamente comprensibile, rimangono strenuamente ancorate alle coordinate del vecchio mondo imperialista, guardando con avversione e terrore l’imporsi del nuovo ordine imperialista globale. La loro battaglia di retroguardia è tutta tesa ad evitare di precipitare dentro la condizione di vita del proletariato internazionale, non certo a sovvertire il modo di produzione capitalista. Per loro, ma non per il proletariato internazionale, la conservazione dei perimetri politici dello Stato Nazione è qualcosa di assolutamente appetibile e desiderabile. In fondo ciò a cui questi settori sociali mirano è la conservazione di un modello politico in grado di riconvertire nelle loro tasche una quota dei sovra-profitti rastrellati dall’imperialismo sulla pelle e sul sangue delle popolazioni extraoccidentali.
Questi settori, del resto, si sono sempre mostrati ampiamente schierati contro le insorgenze di popolo e proletarie di carattere radicale. Basti pensare, solo per citare esempi tanto noti quanto macroscopici, alla “linea di condotta” di questi segmenti di classe in Francia nel corso della Rivoluzione algerina, oppure nei confronti del movimento antimperialista tedesco degli anni
Sessanta e Settanta o nell’Italia del decennio insurrezionale. Centrale in questo ragionamento è il riconoscere come oggi siamo posti di fronte ad una trasformazione radicale sia della forma-stato che ha fatto da sfondo al nostro ‘900 sia della composizione di classe e della sua soggettività6.

Ed è a questo punto che Lenin, sempre secondo Quadrelli, torna ad insegnarci qualcosa, al di fuori degli schemi:

Abbiamo visto come, per Lenin, la lotta di classe e la soggettività a questa coeva siano il solo e unico termometro su cui misurare l’agire del partito. Tutto ciò, ovviamente, ha delle ricadute non secondarie sull’organizzazione e il suo modello. Abbiamo visto come, per Lenin, l’organizzazione sia sempre il prodotto storico della lotta di classe, quindi di una determinata composizione di classe e della soggettività di questa. L’organizzazione non è mai data una volta per tutte ma, volta per volta, il partito formale è tale solo se in grado di essere la materializzazione storicamente determinata del partito storico. Dentro le fasi storiche, e su questo Lenin, come si e ricostruito nei paragrafi precedenti, scrive cose che non lasciano dubbi in merito, l’organizzazione deve essere sempre in grado di cambiare pelle. Per farlo, non di rado, deve letteralmente gettare per aria tutto ciò che solo un attimo prima poteva considerarsi il punto di vista politico e organizzativo più elevato del conflitto di classe. Ma la storia, la lotta di classe, come non cessa mai di ammonire Lenin, obbligano a balzi, rotture e fratture che scompaginano e disorientano anche lo stesso partito d’avanguardia poiché quest’ultimo non può essere o pensarsi come soggetto astorico immune dalla dialettica storica. Ciò che vale per la classe, vale per il partito. Per questo tra partito formale e partito storico non può che esistere una costante dialettica storica in virtù della quale il partito formale è soggetto a una permanente mutazione.
Mantenere la struttura, la forma e le retoriche del partito formale all’interno di un contesto storico trasformato vuol dire condannarsi all’estinzione. Ciò che e valso per i populisti, incapaci di leggere il mondo nuovo che avevano di fronte e perciò condannati a estinguersi o a sopravvivere nell’ambito dell’archeologia storica, vale non meno per il movimento comunista. Chi non coglie il portato delle giornate rivoluzionarie e, a partire da ciò, non e in grado di organizzare e rilanciare ciò che la lotta di classe ha posto all’ordine del giorno si pone, obiettivamente, fuori dalla storia7.

Purtroppo, e per sole ragioni di spazio e tempo di lettura, occorre fermare qui l’analisi di un testo e di un’opera, quella complessiva di Quadrelli, che soltanto negli anni a venire dimostrerà appieno la sua utilità e indispensabilità per il ragionamento militante. Ecco perché vale davvero la pena di iniziare a conoscerla fin da oggi.

Bibliografia (sommaria) delle opere di Emilio Quadrelli.

La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, (con Alessandro Dal Lago), Feltrinelli Editore, Milano 2003

Andare ai resti. Banditi. Rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, DeriveApprodi, Roma 2004

Gabbie metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza, DeriveApprodi, Roma 2005

Evasioni e rivolte. Migranti Cpt Resistenze, Agenzia X, Milano 2007

Sulla guerra. Crisi Conflitti Insurrezioni, Red Star Press, Roma 2017

Le condizioni dell’offensiva. «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti»: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975-1978), Red Star Press, Roma 2019

Autonomia Operaia. Scienza della politica, arte della guerra, dal ’68 ai movimenti globali, in appendice la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta del 1975, Interno 4, 2020

Gang, merce, autodifesa. Note sul “fronte interno” e la guerra permanente in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021

Ri-cominciamo a dire Lenin. Dal “Partito di Mirafiori” al “Partito della banlieue” in G. Toni, P. Lago, Spazi contesi, cinema e banlieue, Milieu Edizioni, Milano 2024

Articoli di Emilio Quadrelli apparsi su Carmillaonline:

É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio; serie di otto articoli comparsi tra il 22 luglio e il 22 settembre 2023

Atena sulla terra, 5 agosto 2023

Cronache marsigliesi; serie di otto articoli comparsi tra il 2 aprile 2023 e il 13 luglio 2023

Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia ; serie di quattro articoli comparsi tra il 26 marzo 2023 e il 22 aprile 2023

Genova 2001. Una storia del presente; due articoli comparsi il 3 e il 6 marzo 2023

Il mondo della prigione tra alterità e realismo storico. La morte di Francis Turatello, (con Bruno Turci); due articoli comparsi il 25 e il 28 febbraio 2023

Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica; serie di sei articoli comparsi tra il 1° ottobre e il 29 ottobre 2022

Le gang dei “minori stranieri”: teppisti o nuovo soggetto operaio?, 28 settembre 2022

Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente; serie di quattro articoli comparsi tra il 6 e il 17 settembre 2022

Le voci di dentro. Intervista a Emilio Qudrelli (a cura di Chiara Cretella); pubblicata in due parti il 22 e il 23 dicembre 2005

A tutto questo va aggiunto che se nel frattempo nessun editore vorrà farsi carico della pubblicazione dell’opera di Quadrelli sulla lettura data da György Lukács dell'”eresia Leniniana”, György Lukács, un’”eresia” ortodossa, questa sarà presentata, nei prossimi mesi, in una serie di circa dodici puntate ancora una volta su Carmillaonline.


  1. Jacques Baynac, Kamo. L’uomo di Lenin. Una biografia, Casa editrice Valentino Bompiani & C., Milano 1974 (edizione originale francese 1972).  

  2. “Cominciamo a dire Lenin”, in Potere operaio, n.3, ottobre 1969.  

  3. E. Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024, p. 5.  

  4. Si veda: E. Cinnella, L’altro Marx. Una biografia, Della Porta Editori, Pisa- Cagliari 2014.  

  5. E. Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, pp. 180-181.  

  6. Ibidem, pp. 183-184.  

  7. Ivi, p. 184.  

]]>
É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 7 https://www.carmillaonline.com/2023/09/17/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-7/ Sun, 17 Sep 2023 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78432 di Emilio Quadrelli

Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit

Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più [...]]]> di Emilio Quadrelli

Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit

Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più alto del ciclo di accumulazione capitalista. Con ciò si pone una pietra tombale all’edulcorata visione gradualista e riformista la quale, nello sviluppo delle forze produttive capitaliste, intravvede in prima istanza un principio di civilizzazione per rimettere al centro quel lato cattivo della storia sul quale non poco si era soffermato Marx nella sua “Miseria della filosofia”. Del resto questo proletariato in pelle scura mostra non poche affinità con il proletariato locale che è andato a sedimentare la nuova composizione di classe, a ben vedere gli operai che vanno a posizionarsi intorno alla catena di montaggio sono soprattutto operai meridionali ossia prodotti diretti della colonia interna italiana 1.

Esattamente qui, contro tutte le retoriche risorgimentali care al movimento operaio ufficiale, si delinea un discorso storico–politico che non fa sconti sul tratto coloniale che sta alla base dell’unificazione italiana e che non poche ripercussioni finisce con l’avere sul presente. Molto realisticamente la monarchia sabauda è colta nella sua realtà ossia quella di una tra le monarchie più reazionarie in vena di conquiste e annessioni e non è secondario rilevare come, proprio da ambiti interni a “La classe”, prenderà forma una contro narrazione anche sul mito garibaldino il cui tratto conquistatore e coloniale sarà irrimediabilmente marchiato a fuoco riportando alla luce il massacro di Bronte2. Per altro verso sempre da ambiti interni o affini a “La classe” prenderà forma una rivisitazione storica sul brigantaggio meridionale come forma di resistenza al dominio coloniale della monarchia sabauda3.

La lettura che “La classe” dà del nuovo operaio deportato nelle metropoli industriali del nord è una lettura sostanzialmente coloniale, da qui la facile affinità con tutti quegli spezzoni e segmenti di classe operaia i quali, pur con storie diverse, respirano la medesima aria di famiglia. In ciò vi è una drastica e radicale rottura con tutta la narrazione socialdemocratica e riformista sullo sviluppo del capitalismo e sulle modalità dei suoi cicli di accumulazione4. Nella narrazione classica del movimento operaio ufficiale sullo sviluppo del capitalismo il colonialismo non è mai stato osservato come tratto essenziale dell’accumulazione. Le colonie sono sempre state considerate una appendice dello sviluppo capitalistico, sicuramente importanti per quanto concerne l’accaparramento di materie prime essenziali ma del tutto prive di interesse per quanto riguarda l’estrazione di plusvalore. Le colonie sono state considerate importanti per i materiali grezzi presenti ma non per come il capitalismo metteva a profitto il corpo dell’indigeno anzi, sotto questo aspetto, il colonialismo è spesso stato osservato come un doloroso ma necessario passaggio poiché, proprio grazie al colonialismo, i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere ai fasti della modernità. In sostanza si è finito per ignorare bellamente l’importanza che il colonialismo e il coevo modello coloniale hanno avuto per l’accumulazione capitalista.

“La classe” non solo si emancipa da queste pastoie, ma indica una lettura, che solo molti anni dopo diventerà moneta corrente, non poco innovativa a proposito dello sviluppo capitalista. L’attenzione che il giornale riversa verso il proletariato in pelle scura, le sue lotte e le sue forme organizzative ne sono una non secondaria esemplificazione. Prima di chiudere su questo aspetto pare importante rilevare come, proprio a partire da ciò, per “La classe” l’unità operaia è, in prima istanza, unità di quei settori operai i quali poco o nulla hanno da guadagnare nel rapporto con il capitalismo. Si evidenzia, cioè, come “La classe” non sia attratta dal mostro sacro dell’unità (indistinta) della classe ma focalizzi interesse e attenzione su determinati comparti operai. In Italia, proprio in virtù della colonia interna rappresentata dal Meridione, la spaccatura dentro la classe operaia non avrà tratti macroscopici ma, se volgiamo lo sguardo verso un paese come gli USA, è facile comprendere come questa contrapposizione dentro la classe assuma contorni di ben altra natura. Negli Stati Uniti la classe operaia bianca di ceppo anglosassone ha sempre giocato un ruolo avverso nei confronti sia dei neri, sia del proletariato immigrato identificandosi quasi integralmente con le politiche imperialiste del governo, di ciò l’appoggio alla guerra contro il Vietnam ne ha rappresentato qualcosa di più che un semplice esempio.

Veniamo ora a un altro tema che caratterizza il giornale: gli studenti e il rapporto con il movimento studentesco. Agli studenti il giornale dedica un certo spazio compiendo con ciò una non secondaria rottura con la tradizione operaista. Per l’operaismo che abbiamo definito classico e/o tradizionale gli studenti non rappresentavano alcun interesse. Considerati genericamente piccola borghesia potevano riscuotere un qualche interesse se, come singoli, decidevano di approdare alla militanza operaista, ma gli studenti in quanto tali erano considerati del tutto estranei e inutili alla lotta operaia. Ciò accade, ovviamente, prima del ’68 dopo di che, nulla sarà come prima.

Non lo sarà perché si modifica radicalmente l’analisi sulla composizione di classe della scuola e in particolare sulla figura del tecnico il quale, come più volte “La classe” riporta, è artefice nella fabbrica di lotte non secondarie, anche perché, nelle punte avanzate del capitalismo, ciò è soprattutto vero per quanto riguarda le grosse fabbriche del milanese dove la ristrutturazione capitalista poggia esattamente su una dilatazione e massificazione del tecnico il quale, dentro questo passaggio, perde velocemente il suo ruolo di comparto privilegiato per farsi classe operaia a tutto tondo. La scuola, attraverso l’inaugurazione della scuola di massa5, ha cambiato volto e si è adeguata alle istanze e alle esigenze del neocapitalismo.

La proletarizzazione del corpo studentesco è un dato di fatto che non può essere ignorato e su ciò “La classe” si spende non poco. Il legame operai-studenti ha ormai perso quel tratto ideologico in cui tendevano a rinchiuderlo tanto il riformismo quanto le varie anime dell’ortodossia comunista e che riduceva questi ultimi simili a una sorta di boy scout, proni a farsi missionari davanti alle fabbriche. Con ciò veniva anche meno quella funzione sociale che riformisti e ortodossi vari avevano prefigurato per gli studenti dentro i quartieri poiché, per “La classe”, questi non sono un supporto ideologico esterno agli operai ma parte dello stesso fronte di lotta. La loro proletarizzazione li rende del tutto interni o almeno affini alla lotta operaia benché nessuno si sogni di mettere in discussione la centralità e la direzione operaia. C’è un altro aspetto sul quale, però, vale la pena di soffermarsi: ossia le contaminazioni che il mondo operaio subisce dal e attraverso il mondo studentesco.

Abbiamo detto, parlando del maoismo, di quanto l’indicazione dello sparare sul quartier generale abbia fatto presa su questa tipologia operaia e di come l’antiautoritarismo sia un tratto indelebile della lotta operaia ma abbiamo anche detto come questa classe operaia si caratterizzi per il rifiuto del lavoro e per il volere tutto. È una battaglia di potere e di libertà che caratterizza questo soggetto operaio il quale ha nelle corde non il mito soviettista dell’operaio assunto a simulacro, ma semmai la sua negazione, sulla scia di Marx è la classe, non per sé ma contro di sé. Poteva una classe operaia simile rimanere immune dalle suggestioni libertarie del ’68 delle quali il movimento studentesco era stato l’alfiere? Poteva questa classe operaia tutta protesa a liberare il tempo dal lavoro per vivere, non venire in qualche modo attratta dagli stili di vita che il ’68 aveva inaugurato? Questa classe operaia ha rotto con la tradizione comunista a trecentosessanta gradi e non diversamente dagli studenti è alla ricerca di qualcosa d’altro.

Liberare il tempo dal lavoro significa sperimentare possibili rotture con l’alienazione della condizione operaia, rompere con gli schemi esistenziali entro i quali il rapporto sociale capitalista ha confinato gli operai. Si tratta, allora, di coniugare la lotta in fabbrica con l’avventura della vita; da lì, quindi, anche uno strappo generazionale con la famiglia e gli orizzonti quanto mai ristretti che le fanno da sfondo. Questo sarà ancora più vero per le donne, quelle operaie in particolare, le quali dentro quella stagione possono porre in atto una duplice liberazione: la lotta contro la schiavitù del lavoro salariato, ma anche la lotta contro il loro ruolo sociale. Per le donne, ancora più che per gli operai maschi, liberare il tempo dal lavoro significa rompere tutte le gabbie in cui non solo il lavoro salariato e il comando le ha imprigionate ma fare i conti con il patriarcato e tutte le sue derive. Per le donne la lotta significa iniziare a riappropriarsi di sé stesse, a esistere come soggetto autonomo, a parlare in prima persona a non essere più appendici di qualcosa, tutti temi, questi, che erano stati propri del ’68 che trovano non pochi consensi tra le donne in fabbrica6.

Sulle donne “La classe”, in realtà, si mostra ben poco attenta e se sulla razza e il colonialismo anticipa temi la cui attualità oggi è a dir poco dirompente, sul genere si mostra ben poco innovativa anche se non del tutto ignara e questo, a conti fatti, è forse il vero e proprio rimprovero che le può essere fatto. Con ciò chiudiamo la parentesi sull’astratto per tornare a calarci nella concretezza delle lotte e del dibattito che intorno a queste si va sviluppando. Arriviamo così a Corso Traiano e all’epilogo de “La classe” provando, al contempo, a gettare un corposo sguardo sul presente.

Il 3 luglio 19697 segna un passaggio decisivo per il movimento dell’autonomia operaia, quella che è stata chiamata la battaglia di Torino anticipa ciò che, di lì a poco, diventerà la normalità del conflitto operaio e studentesco e dà obiettivamente il la, alla anomalia italiana degli anni settanta. Corso Traiano è una svolta dalla quale non è possibile tornare indietro, una accelerazione che finirà con lo scompaginare la stessa “La classe” a riprova di come non si possano separare le questioni organizzative da quelle politiche e come le strutture formali possano vivere ed esistere solo se in grado di stare sul filo del tempo del partito storico. Corso Traiano conferma, ancora una volta, come la dialettica marxiana prassi/teoria/prassi sia la sola e unica stella polare alla quale affidarsi e come, fuori da ciò, vi sia solo sclerotizzazione burocratica, in altre parole corso Traiano mostra come Lenin avesse ancora una volta ragione. I fatti sono abbastanza noti, pertanto ci si limiterà a riportarli in maniera estremamente sintetica.

Il 3 luglio il sindacato ha indetto uno sciopero e una manifestazione contro il caro affitti e la questione abitativa mentre, da parte sua, “La classe” ha indetto una manifestazione per il pomeriggio indicando la porta 2 di Mirafiori come luogo del concentramento. Si tratta di una decisione che ha suscitato non poche perplessità anche all’interno dell’assemblea operai–studenti poiché, non pochi, considerano l’iniziativa prona all’avventurismo con possibili ricadute nefaste per il livello repressivo che sicuramente comporterà, con la conseguenza di un vero e proprio azzeramento di tutto il lavoro politico svolto dall’assemblea e dal giornale negli ultimi mesi. Una parte dell’assemblea obietta che un conto è la forza che si è in grado di esercitare dentro la e le fabbriche, ma ben altra cosa è riversare questa forza fuori dalla fabbrica; lì la partita cessa di essere focalizzata sul padrone e si sposta immediatamente sullo stato, lì il terreno in parte consolidato della violenza operaia in fabbrica va a misurarsi su un terreno in gran parte sconosciuto, il che potrebbe comportare una disfatta con conseguente annichilimento di tutto quel tessuto di avanguardie di fabbriche che un lavoro certosino aveva costruito nei mesi precedenti.

Si tratta di dubbi più che legittimi e sensati ma che, per altro verso, mostrano come, anche inconsciamente, in non pochi casi la struttura organizzata tenda a privilegiare la conservazione di sé stessa piuttosto che arrischiare l’incognita del salto politico. Se pensiamo, infatti, a come, in un contesto ben più drammatico, a ridosso dell’insurrezione sovietica, Lenin si trovò contro una buona fetta del partito bolscevico, diventa abbastanza evidente come la decisione sia sempre un momento drammatico, ben poco lineare e come, in aggiunta, sia sempre un grano di azzardo quello che finisce con l’accompagnarla. Siamo al momento dell’audacia, dell’audacia e ancora dell’audacia, il che, per forza di cose, non può fare affidamento su troppe certezze. Alla fine, soprattutto per la spinta proveniente dalla componente operaia che evidentemente aveva maggiormente il polso degli umori interni alle fabbriche, la decisione per la manifestazione autonoma è presa, davanti alla porta 2 di Mirafiori si deciderà il destino delle lotte operaie.

Il corteo non riuscirà mai a partire perché immediatamente caricato da polizia e carabinieri, ma la sorpresa arriva esattamente in quel momento poiché dopo un attimo di sbandamento il corteo si ricompatta e inizia a reagire, mentre pressoché in contemporanea, dal Lingotto e da altre fabbriche, approdano altri cortei operai verso la porta 2 di Mirafiori e stessa cosa fanno gli studenti. In brevissimo tempo gli scontri si allargano a macchia d’olio finendo con il coinvolgere non pochi quartieri operai tanto che la battaglia di Torino si protrarrà sino a notte inoltrata e troverà nel quartiere operaio di Nichelino il suo epicentro. Polizia e carabinieri sono in rotta, la classe operaia ha vinto, questo ridefinisce per intero i rapporti di forza tra le classi in città ma non solo, poiché quanto accade alla Fiat è qualcosa che ha ripercussioni immediate sui rapporti di forza generali finendo con il porre in crisi gli stessi assetti governativi. Tutto ciò obbliga anche a un ragionamento ex novo per quanto riguarda il terreno dell’organizzazione politica e la messa in campo di adeguate strutture militari in grado di farsi carico del livello di scontro che spontaneamente la lotta operaia ha posto all’ordine del giorno e, come la dinamica stessa della battaglia di Torino ha evidenziato, si pone il problema, non più rimandabile, del rapporto tra lotta di fabbrica e lotta dentro la metropoli. Una quantità di questioni che investono direttamente tutta l’esperienza portata avanti da “La classe”, una accelerazione che va ben oltre gli orizzonti che, prima di corso Traiano, questa aveva ipotizzato.

Ben prima di corso Traiano “La classe” si era attivata per cercare di far compiere un salto all’organizzazione autonoma operaia e per fine luglio aveva convocato a Torino un convegno dei comitati e delle avanguardie operaie, una operazione che aveva il duplice scopo di iniziare a tirare le somme di ciò che si era andato sedimentando in termini di lotte, esperienze, progettualità e dibattito dentro la sempre più diffusa area dell’autonomia operaia e, a partire da ciò, delineare i necessari passaggi politici organizzativi in grado di aggredire e affrontare le nuove scadenze a partire da quella decisiva dei contratti dell’imminente autunno. “La classe”, quindi, è pienamente cosciente che la sua funzione, almeno in quella forma, è giunta al termine e che occorre andare oltre quella pur fondamentale esperienza, in tutto questo, comunque, immagina di attivare questo passaggio in continuità con quanto posto a regime sino a quel momento, il convegno dovrebbe mirare esattamente a ciò ovvero chiudere l’esperienza de “La classe” e dalle sue ceneri far sorgere un soggetto politico capace di farsi carico complessivamente dell’organizzazione operaia. Le cose, però, andranno diversamente.

Le due anime che avevano convissuto dentro il giornale, adesso più di prima, acutizzano le loro differenze e in ciò la battaglia di Torino ha sicuramente giocato un ruolo non secondario. Come si è detto non vi era stata unanimità dentro al giornale sull’indire una manifestazione autonoma, una diversità che rimandava, per lo più, alle due posizioni presenti nel giornale. L’ala prettamente operaista, che di lì a poco darà vita a Potere Operaio, aveva mostrato le maggiori perplessità sulla manifestazione mentre l’ala che si costituirà in Lotta Continua era stata quella che maggiormente aveva spinto perché la manifestazione si facesse. In ciò emergono e in maniera neppure troppo sottile le differenze sul modello di organizzazione che le due componenti de “La classe” hanno a mente. Per i futuri militanti di Potere Operaio l’organizzazione è organizzazione di quadri operai con funzione di avanguardia e direzione delle lotte e, in piena coerenza con ciò, il problema dell’organizzazione operaia è strutturarsi in maniera tale da prendere la testa del movimento inoltre, per questi militanti, la centralità della fabbrica rimane pressoché assoluta, è lì, senza farsi distogliere da alcuna sirena di lotta metropolitana che va concentrato e focalizzato tutto il lavoro delle avanguardie operaie. In questo senso, pur con tutte le tare del caso, coloro che daranno vita a Potere Operaio si mostrano in più di un tratto, interni alla tradizione comunista.

Molto diversa l’impostazione che fa da sfondo ai militanti che daranno vita a Lotta Continua. Anche per loro il nodo dell’organizzazione è centrale ma tendono ad affrontarlo in maniera assai diversa dai primi. Per chi andrà a formare Lotta Continua, è la lotta e le sue forme che costruiscono l’organizzazione e proprio per questo l’organizzazione non deve porsi il problema di prendere la testa del movimento ma deve, invece, essere la testa del movimento. Due ipotesi che rimandano a idee e concezioni abbastanza diverse sul senso che assume l’autonomia operaia. Ciò che diventerà Lotta Continua avrà un ampio seguito operaio e alla FIAT potrà vantare a lungo una egemonia incontrastata, cosa che obiettivamente non si può dire di coloro che perseguono l’ipotesi di Potere Operaio nonostante l’area che si coagula intorno a Lotta Continua non sia per nulla fabbrichista ma, al contrario, fautrice di una socializzazione della lotta operaia nella la metropoli il che diventerà quanto mai esplicito poco tempo dopo, quando lancerà il programma “Prendiamoci la città”8.

Questa area non rinuncerà certo alla centralità operaia, anzi, e questo era già evidente all’interno dell’esperienza de “La classe”, ma allarga il suo raggio d’azione verso la complessità delle figure proletarie che animano la metropoli. Era stata quella a rompere con gli schemi rigidi del vecchio operaismo, in parte presenti anche nel nuovo, in merito agli studenti e al ruolo giocato da questi nei nuovi scenari del neocapitalismo; non per caso proprio questa area politica fu in grado di farsi egemone soprattutto tra gli studenti medi dei tecnici e dei professionali e in più, sempre quest’area, iniziò a lavorare, frutto di un non secondario radicamento all’interno dei quartieri operai e proletari, con il proletariato extra legale e prigioniero del resto, ancor prima che lo scontro in fabbrica si radicalizzi e vada in scena la battaglia di Torino, l’11 aprile proprio Torino aveva visto la battaglia delle Nuove, quando i detenuti si erano ribellati e avevano distrutto la prigione. Ben difficilmente, a partire da queste non secondarie differenze, le due ipotesi possono convivere e pensare, per di più, di compiere insieme quel salto qualitativo politico–organizzativo che corso Traiano ha reso quanto mai urgente.

Il Convegno, di fatto, non approda a nulla. Le due principali anime che stavano dentro a “La classe” tendono a polarizzare le loro differenze ma, con ogni probabilità, non si tratta solo e semplicemente di questo, bensì del fatto che tutto quello che “La classe” poteva dare, aveva dato e questo non è stato certo poco. Corso Traiano non era stato, come gli avvenimenti dell’autunno saranno lì a dimostrare, un fulmine al ciel sereno e neppure un falò tanto intenso quanto effimero, ma il corposo incipit di una nuova e durissima stagione di lotta. L’offensiva operaia non lascia spazi a interpretazioni di altro tipo, è il salto alla guerra. Dentro tale scenario “La classe” non poteva più svolgere il ruolo che, con non poco merito, aveva svolto nei pochi mesi della sua attività, un passaggio politico si mostrava tanto urgente quanto necessario e, con ogni probabilità e proprio in virtù di ciò, più che la nascita di una organizzazione monolitica a dover sbocciare erano cento fiori. Siamo di fronte a un passaggio sicuramente complessivo ma anche complesso, passaggio che ben difficilmente può essere perimetrato in un unico contenitore. Le due aree de “La classe” rimandano a questioni reali e per nulla effimere, l’aver ipotizzato e tentato strade affini ma diverse sembra essere stato qualcosa di obbligato e imposto da una situazione materialisticamente determinatasi, più che il frutto di cattivi ideologismi.

( 7continua)


  1. Cfr. A., Serafini, L’operaio multinazionale in Europa, Feltrinelli, Milano 1974.  

  2. Su questa vicenda si veda, P. Iaccio, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di scuola non hanno raccontato. Un film di Florestano Mancini, Liguori, Napoli 2002.  

  3. Tra l’immensa pubblicistica inerente a questo fenomeno si può vedere, F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1966. 

  4. Su questo aspetto si veda l’ottimo testo di S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Ombre Corte, Verona 2008.  

  5. Cfr. G. Decollanz, Storia della scuola e delle istituzioni educative. Dalla Legge Casati alla riforma Moratti, Edizioni Laterza, Roma–Bari 2005.  

  6. Su questa tematica si veda in particolare: E. Bellé, L’altra rivoluzione. Dal sessantotto al femminismo, Rosemberg & Sellier, Torino 2021.  

  7. D. Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di corso Traiano (Torino 3 luglio 1969), Edizioni BFS, Pisa 1997.  

  8. Al proposito si veda, «Lotta continua», Prendiamoci la città. II Convegno nazionale, Bologna 24 luglio, Anno III, N. 12, Milano 1971.  

]]>
Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente / 3 https://www.carmillaonline.com/2022/09/13/esclusione-sociale-e-capitalismo-globale-per-una-discussione-su-lotte-e-organizzazione-nel-presente-3/ Tue, 13 Sep 2022 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73698 di Emilio Quadrelli

Le armi della critica

Tutto ciò ha degli effetti non secondari e in tale scenario, per gli esclusi, non sembrano offrirsi molte soluzioni. Chi, nel grande gioco del capitalismo globale, si ritrova tra le mani una scala bucata può solo, se la sorte glielo consente, provare a cambiare tavolo di gioco e confidare in un colpo di fortuna mai ipotizzare la fuoriuscita dalla sua condizione in maniera collettiva. L’unica strategia sensatamente realistica diventa l’arte di arrangiarsi. Per restare nel panorama italiano ciò si riduce, tanto per fare qualche esempio, [...]]]> di Emilio Quadrelli

Le armi della critica

Tutto ciò ha degli effetti non secondari e in tale scenario, per gli esclusi, non sembrano offrirsi molte soluzioni. Chi, nel grande gioco del capitalismo globale, si ritrova tra le mani una scala bucata può solo, se la sorte glielo consente, provare a cambiare tavolo di gioco e confidare in un colpo di fortuna mai ipotizzare la fuoriuscita dalla sua condizione in maniera collettiva. L’unica strategia sensatamente realistica diventa l’arte di arrangiarsi. Per restare nel panorama italiano ciò si riduce, tanto per fare qualche esempio, a un invito al Grande fratello, entrare nell’entourage di Palazzo Grazioli o, magari dopo essere scampati alla morte in fabbrica, diventare parte dello show parlamentare. In tale contesto, entrare a far parte del grande spettacolo della politica, rappresenta una fortuna non diversa da una corposa vincita alla lotteria, un’occasione che, nella migliore delle ipotesi, nella vita può capitare una volta soltanto.

Queste le uniche e concrete strade perseguibili per i socialmente esclusi. Dentro le strettoie di questo passaggio altre vie non ve ne sono. Fuori dalla prospettiva della Storia sono Ruby e non Zohra1, Fedez e non Ali la Ponte2 a dettare i tempi e i modi dell’emancipazione. Ma che cosa caratterizza tutto ciò? Sostanzialmente una cosa: la dimensione puramente individuale, e quindi del tutto contingente, dell’esistenza. Fuori da un corpo e un “destino” storico e collettivo non vi sono alternative. Ora, al di là di tutte le retoriche che si possono utilizzare per indicare un destino collettivo, un solo passaggio rende realmente storico e collettivo un progetto: la conquista del potere politico e il farsi classe dominante3. Tutte le altre forme di esistenza collettiva, per loro natura, non possono che risultare effimere e prive di ricadute sostanziali.

È possibile essere catturati collettivamente dal pathos per la propria squadra del cuore, cadere in estasi collettivamente sotto le note di una sinfonia particolarmente cara o di un sound accattivante, si può praticare il “patriottismo di quartiere” o legarsi allo stile di vita di una gang condividendone oneri e onori ma tutto ciò, alla prova dei fatti, non emancipa di una virgola la condizione di fondo4. Solo il farsi classe storica consente di squarciare il velo alla prosaicità del presente. Solo il farsi classe dominante consente di guardare negli occhi il mondo senza perdersi nelle anguste, per l’intera vita, prospettive condominiali. Un intera arcata storica, nel bene e nel male, è stata informata da tale scenario.

I proletari, gli operai, i subalterni delle epoche che ci hanno precedute non percepivano se stessi come esclusi, marginali, socialmente delegittimati e via discorrendo ma parti di un tutto che, alla scala della storia, rivendicava una legittimità storica e politica oggettivamente determinata. Il comunismo e il potere operaio come tendenza storica non negoziabile era qualcosa che stava dentro la realtà delle cose. Contro questo, il potere imperialista, poteva solo, a ben vedere, giocare di rimessa conscio in qualche modo che, offensive tattiche a parte, sul piano strategico la sua non poteva che essere una posizione di ripiego e difesa. Il detto del vecchio Keynes: “Sui tempi lunghi siamo tutti morti”, rendeva in qualche modo esplicita la convinzione della borghesia di stare combattendo una battaglia di retroguardia, il cui fine non era altro che trascinare il più a lungo possibile lo stato di agonia.

In tale ottica l’affermazione: “L’imperialismo è una tigre di carta” era qualcosa di ben più che un modo per rincuorare gli effettivi di un Esercito rosso in via di ricostituzione bensì l’affermazione di una “certezza storica” che poggiava su fatti difficilmente contestabili. Se guardiamo all’intera storia del Novecento, e in particolare ai decenni Sessanta e Settanta, il senso di tale affermazione appare persino banale. Ma dietro a tutto ciò che cosa c’era? Un inguaribile ottimismo?, Un eccesso di alcool?, Una malcelata volontà di potenza?, oppure, più realisticamente, tutto ciò poggiava su un’idea – forza, quella della lotta per il comunismo, che aveva plasmato intere generazioni operaie e proletarie e che, con la vittoria dell’Ottobre, aveva posto, non più teoricamente ma praticamente, all’ordine del giorno la dimensione storica del proletariato?

Di ciò, non stupidamente, ne erano ampiamente consapevoli i quadri migliori delle varie borghesie imperialiste. La lotta contro lo spettro rosso del potere operaio e proletario diventa l’alfa e l’omega del comando capitalistico internazionale. Sotto questo aspetto, tanto per fare degli esempi concreti, la Guerra del Vietnam5 e la Guerra d’Algeria6 ne sono state la migliore cartina tornasole. Sotto la bandiera dell’anticomunismo tutte le forze imperialiste, pur se a diversi gradi, si sono ritrovate unite su quel campo di battaglia7.

Verrà da domandarsi che cosa, tutto ciò, abbia a che vedere con la presente questione dell’esclusione sociale. Perché questi continui richiami a una storia della quale, obiettivamente, si fa persino fatica a ritrovarne traccia tanto che, il solo parlarne, sembra accomunarci a quella massoneria dell’erudizione inutile della quale, la storia europea, vanta una corposa tradizione8? In realtà, nel contesto, ci troviamo di fronte a qualcosa di ben poco massonico, erudito e ancor meno inutile. In palio, infatti, vi è la questione del marxismo e del suo essere idea – forza. Che cosa occorre, andando al dunque, alle masse dei dannati delle metropoli contemporanee? Attraverso quali passaggi diventa possibile, sensato e realistico modificare i rapporti di forza attuali tra le classi? Partiamo, intanto, con il riconoscere che tutte le illusioni e gli abbagli coltivati, in primis dall’intellighenzia modernista della sinistra, hanno fatto repentinamente bancarotta e che, non per caso, si assiste a un ritorno a Marx. Allo stesso tempo la questione dell’organizzazione, non nelle sue derive effimere e plastificate, torna a essere oggetto di interesse e ragionamento politico. In qualche modo persino Lenin riprende ad albeggiare tra gli orizzonti dei movimenti antagonisti9.

“I fatti hanno la testa dura” e alla fine diventa difficile eluderli come se nulla fosse. Proprio dentro questa possibile renaissance occorre però non farsi prendere dagli eventi o dagli entusiasmi e usare sino in fondo le armi della critica evitando facili scorciatoie insieme alle inevitabili semplificazioni che queste si portano appresso. Occorre, questo il compito di chiunque si pensi come avanguardia, mettere il marxismo alla prova dei tempi evitando in tal modo di ridurlo a dogma e a vuoto esercizio accademico.

Detto ciò, torniamo al nostro tema. Una facile, ovvia e certamente sensata risposta alla condizione di classe contemporanea è quella che porta a identificare nella ri-costruzione dell’organizzazione di classe nella forma partito e nel “restauro” del marxismo le necessità primaria degli attuali dannati delle metropoli.. La risposta è corretta ma, per non cadere in un facile quanto inconcludente “organizzativismo” e dottrinarismo senza costrutto, occorre riempire di carne e sangue questo passaggio al fine di non trasformare la prima in semplice questione “tecnica”, la seconda in mera operazione “scolastica”. La carne e il sangue di ogni organizzazione proletaria è data solo e unicamente dalla prospettiva politica che è in grado di far vivere dentro le lotte. Ogni lotta parziale, ogni lotta settoriale, ogni piccolo conflitto metropolitano, ha senso se inserito in una prospettiva se ogni lotta, ricordando Lenin, è una “scuola di guerra”. Una guerra non indifferenziata e indistinta ma una guerra che, grazie alla sintesi del “politico” o, per essere maggiormente chiari, dell’elemento soggettivo è in grado di sedimentare organizzazione e, con questa, forza politica autonoma della classe10.

In assenza di una prospettiva storico – politica ossia di una dimensione che ponga, in via definitiva, la questione del potere politico e la sua conquista è impensabile che l’orizzonte delle masse possa forzare l’ordine dello stato di cose presenti. Una volta compiuto tale passaggio, almeno in apparenza, tutto sembrerebbe diventare persino banale e in virtù di ciò il semplice “restauro”del marxismo esserne, al contempo, corollario e premessa. Ma per condurre con efficienza ed efficacia un tale compito è necessario, per prima cosa, capire dentro quale scenario si sta agendo11.

Certo una ripresa di una certa “didattica di classe”, a fronte dello scempio teorico conosciuto negli ultimi venti, trenta anni è un’impresa di per sé meritoria ma sarebbe altrettanto ingenuo pensare che un tale passaggio, di per sé, possa presentarsi risolutivo. Si tratterebbe, in qualche modo, di ricadere in un’operazione “culturalista”12, magari tramite la riscoperta del non troppo felice intellettuale organico di gramsciana memoria13, attraverso la quale riuscire nuovamente a far quadrare il cerchio.

Una tentazione che oggi, in seguito ai reiterati fallimenti e disastri a cui è pervenuta l’insieme della sinistra, conosce una certa diffusione. Si tratta di un’operazione che, per quanto comprensibile, ha ben poco di marxista. Non è certo attraverso l’artifizio del mito che la teoria comunista, in quanto unità dialettica di teoria e prassi, può realisticamente assolvere ai compiti del presente. Non è guardando indietro, andando alla ricerca di una, per altro improbabile, età dell’oro che si rende un qualche servizio utile alla classe. Da sempre, e in ciò il “metodo leniniano” è in grado di raccontare ancora molto, lo scopo e la funzione del marxismo consiste nel porre l’organizzazione della classe, escludendo ogni volo pindarico dentro la “concretezza” del presente14.

Allora, per tornare al filo conduttore del nostro discorso, la questione dell’esclusione sociale può e deve essere compresa dentro lo scenario del presente avendo a mente i passaggi che hanno caratterizzato l’attuale fase imperialista. Se, come ormai anche gli ipovedenti sono in grado di osservare, per l’organizzazione statuale imperialista il problema di fondo consiste nell’escludere le masse ben poco sensato appare il riproporre modelli politici e organizzativi di un’epoca in cui, con tutte le contraddizioni che pure si portava appresso, il tema dell’inclusione politica e sociale dei subalterni rimaneva un obiettivo di non secondaria importanza per le stesse classi dominanti.

La vera sfida che oggi la teoria marxista deve affrontare è la formulazione di una soggettività in grado di misurarsi con gli scenari del presente. Affermare che la Storia non è finita e che le contraddizioni del modo di produzione capitalistico non si sono esaurite anzi sono sempre più macroscopiche e devastanti è un passaggio importante ma ancora insufficiente. Tutto ciò può portare a riaffermare, e non si tratta ovviamene di cosa da poco, dell’esistenza del partito storico del proletariato15 ma questa, se è la condizione al contempo preliminare e indispensabile per ogni possibilità di ragionamento su organizzazione e partito, è altresì lontana dal risolvere il problema poiché non è attraverso la semplice restaurazione di un corpo teorico classico che diventa possibile venire a capo delle sfide del presente. L’esergo, in realtà l’incipit, posto a fronte del testo ha ben poco di casuale e ancor meno di “rituale” o ossequioso. Il richiamo a quel fondamentale passaggio del Manifesto è posto perché obbliga a guardare avanti e ad avere il coraggio di leggere, per potere conseguentemente agire, le rotture alle quali, nel suo divenire, il modo di produzione capitalista impone.

(fine terza parte – continua)


  1. Zohra Drif, militante del FLN algerino, fece parte dei primi commando operativi femminili entrati in azione nel corso della “Battaglia d’Algeri”. Fu lei a compiere, il 30 settembre del 1956, l’attentato contro il Milk – Bar di place Bugeaud di Algeri uno dei più noti ritrovi della gioventù pieds – noirs. Fu catturata il 24 agosto 1957 insieme al responsabile del FLN di Algeri Yacef. Cfr. A. Horne, La Guerra d’Algeria, Rizzoli, Milano 2007  

  2. Ali – la – Pointe, militante del FLN algerino. Cresciuto tra i mondi dei marginali della casba di Algeri in carcere, a Barberousse, a stretto contatto con i militanti effellenisti imprigionati si politicizzò. Evaso nel corso di un trasferimento a un’altra prigione, tornò nella casba non più come marginale ma quadro politico – militare del FLN. La mattina del 28 dicembre 1956 portò a termine la sua prima missione militarmente rilevante uccidendo il sindaco di Algeri Amédée Froger. Cadde l’8 ottobre 1957 nella fase finale della “Battaglia d’Algeri” insieme a Hassiba Ben Bouali e al dodicenne “Petit Omar”. L’abitazione che serviva loro da rifugio e base operativa del FLN venne fatta saltare per aria dai paracadutisti del 1 R. E. P.. Con loro trovarono la morte altri 17 algerini le cui case, situate nelle immediate vicinanze del rifugio di Ali – la – Pointe, saltarono in aria insieme a questa. Cfr. A. Horne, La Guerra d’Algeria, cit.  

  3. Su questo aspetto decisivo della teoria marxista si veda V. I. Lenin, “Stato e rivoluzione”, in Id., Opere, Vol. 25, Editori Riuniti, Roma 1967.  

  4. Significativo, al proposito, sono l’insieme di retoriche sorte intorno alle subculture metropolitane e agli “stili di vita” a queste annesse come unico e legittimo orizzonte delle classi sociali subalterne. Per una discussione su questi temi, cfr. E. Quadrelli, “Il nodo di Gordio. Per una lettura politica della “questione stadi”.”, in AA. VV., Stadio Italia, cit.  

  5. Tra i molti testi che ricostruiscono questa vicenda si vedano, S. Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Rizzoli, Milano 1989; M. B. Young, Le guerre del Vietnam, Mondadori, Milano 2007.  

  6. Oltre al ricordato lavoro di Horne si può vedere, molto sintetico ma molto esplicativo, B. Stora, La guerra d’Algeria, Il Mulino, Bologna 2009.  

  7. Cfr. C. Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005  

  8. Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit.  

  9. Si veda ad esempio, G. Roggero, La misteriosa curva della retta di Lenin. Per una critica dello sviluppo del capitalismo oltre i beni comuni, La Casa Usher, Firenze 2011  

  10. Per una discussione su questi temi si veda, E. Quadrelli (a cura di), Lenin. Il pensiero strategico. Il partito, il combattimento, la rivoluzione, La Casa Usher, Firenze 2011.  

  11. Ciò che va sempre tenuto ben a mente è il contesto all’interno del quale si opera, Sotto tale aspetto il testo di V. I. Lenin, “Lo sviluppo del capitalismo in Russia”, Opere, Vol. 3, Editori Riuniti, Roma 1956 rimane una delle migliori esemplificazioni della metodologia marxista. È sulla base di questo lavoro analitico, che rompe il quadro concettuale del presente che lo circonda, che Lenin mette a punto le coordinate per la costruzione del partito operaio. Lenin può costruire il partito perché coglie esattamente il divenire storico e non si sclerotizza su un passato che, per quanto quantitativamente ancora consistente, appartiene già alla storia di ieri.  

  12. In poche parole non è pensabile di risolvere l’insieme dei problemi politici contemporanei facendo ricorso a dei semplici “corsi di formazione”. I “corsi di formazione”, di per sé, possono risultare esaustivi per i maestri ma non per i rivoluzionari di professione, ciò che va costantemente tenuto a mente è il rapporto dialettico tra teoria e prassi. Su questo aspetto rimane importante G. Lukács, “Che cos’è il marxismo ortodosso?”, in Id., Storia e coscienza di classe, cit.  

  13. Proprio intorno alla figura e alla funzione dell’intellettuale sembra delinearsi al meglio la distanza tra Gramsci, dove le reminescenze idealistiche hegeliane, per di più rimasticate da Croce, fuoriescono in continuazione e Lenin per il quale ogni figura sociale, quindi anche l’intellettuale, è centralizzato e diretto dall’agire di partito. Lenin, che non a caso, applicando appieno alla dimensione politica lo sviluppo del pensiero militare, modella il partito come “Quartiere generale” non concede agli intellettuali alcun status particolare. Riconosce, ma questo è vero e valido per ogni ambito sociale, le peculiarità e le particolarità che necessariamente questo si porta appresso ma, in quanto tale, tali peculiarità non diventano foriere di uno status particolare. Certo, il partito, in quanto organismo professionale, metterà a frutto al meglio le competenze di ciascuno e, in virtù di ciò, è assai probabile che l’intellettuale si occupi, per il partito, di alcune cose piuttosto che di altre ma tutto ciò, questo è il punto decisivo in Lenin, sempre subordinando tali attività alle necessità strategiche del partito. In Gramsci, al contrario, l’intellettuale, in quanto tale, è rivestito di un ruolo, e quindi di una autonomia rispetto al partito, che ricorda non poco le argomentazioni proprie della frazione menscevica. Per una critica serrata di queste ipotesi si veda, V. I. Lenin, “Che fare?”, in Id. Opere, Vol. 5, Editori Riuniti, Roma 1958  

  14. Cfr. E Quadrelli, (a cura di), Lenin, cit.  

  15. Con partito storico Marx, ad esempio negli scritti sulla Comune, K. Marx, “La guerra civile in Francia”, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti 1969, indica la formazione del proletariato in quanto classe storico-politica. Una sorta di “articolazione pratica” di quanto, sul piano concettuale, era stato cesellato nel lungo travaglio che porta Marx dall’idealismo hegeliano, passando per l’umanesimo di Feuerbach, alla messa a punto del materialismo storico e dialettico i cui presupposti sono ampiamente delineati in F. Engels, K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1971. Si tratta, cioè, dell’individuazione del proletariato come classe che, per la prima volta, nel divenire storico è in grado di far coincidere il suo interesse particolare con l’interesse generale. L’emancipazione del proletariato, quindi, coincide con l’emancipazione dell’umanità. Affermare il persistere del partito storico significa riconoscere che il senso della storia non è compiuto, atto importante ma che è ben lungi dall’offrire soluzioni alle questioni dei tempi le quali non possono che essere affrontate attraverso la messa in forma del partito formale. Glissare sulla questione del partito formale, confidando nell’esistenza del partito storico e della sua “oggettiva” potenza, significa ricadere nel più gretto movimentismo e spontaneismo. Con ogni probabilità, la teoria delle moltitudini, cfr. M. Hardt, A Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004, rappresenta la più sofisticata ed elaborata teoria contemporanea alla cui origine vi è la scissione radicale tra partito storico e partito formale. Riaffermare, nel presente, la necessità del partito formale, combattendo le diversificate posizioni liquidazioniste non è un vezzo di ortodossia ma uno dei compiti politici essenziali del movimento comunista.  

]]>
L’anno degli anniversari / 1961 – 2021: Origine e funzione della forma partito / 1 https://www.carmillaonline.com/2021/11/02/lanno-degli-anniversari-1961-2021-origine-e-funzione-della-forma-partito-1/ Tue, 02 Nov 2021 22:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68909 di Sandro Moiso

Apparentemente è cosa da poco, un testo comparso su «Il Programma comunista» n° 13 del 1961, e molti si chiederanno perché dedicargli un anniversario. Il testo in questione, redatto da Jacques Camatte, militante francese della Sinistra Comunista, di cui si narra fu lo stesso Amadeo Bordiga a insistere per la sua pubblicazione sull’organo quindicinale del Partito Comunista Internazionale potrebbe, però, rivelarsi ancora utile per l’attuale disordinato, carente e, talvolta, asfittico dibattito sulle forme organizzative che molti militanti antagonisti da tempo cercano di sviluppare o perseguire intorno alle odierne realtà [...]]]> di Sandro Moiso

Apparentemente è cosa da poco, un testo comparso su «Il Programma comunista» n° 13 del 1961, e molti si chiederanno perché dedicargli un anniversario. Il testo in questione, redatto da Jacques Camatte, militante francese della Sinistra Comunista, di cui si narra fu lo stesso Amadeo Bordiga a insistere per la sua pubblicazione sull’organo quindicinale del Partito Comunista Internazionale potrebbe, però, rivelarsi ancora utile per l’attuale disordinato, carente e, talvolta, asfittico dibattito sulle forme organizzative che molti militanti antagonisti da tempo cercano di sviluppare o perseguire intorno alle odierne realtà di lotta.

Si è ritenuto pertanto utile farne una sintesi commentata su queste pagine, pur tenendo conto della distanza temporale e di linguaggio che separa il presente dal tempo in cui Origine e funzione della forma partito fu concepito. La lettura che se ne darà non terrà conto dei riferimenti specifici alle controversie dell’epoca (sia sociali che interne al Partito Comunista Internazionale), né tanto meno ai numerosi riferimenti alle polemiche con il movimento anarchico dell’epoca in cui Marx scriveva e ancora di quella in cui il testo fu elaborato da Camatte.

Ma ora si aprano le danze, affermando fin da subito che l’ABC del partito rivoluzionario non inizia da Lenin.
Il testo, infatti, costringe il lettore a misurarsi con le formulazioni riguardanti il problema organizzativo espresse principalmente da Marx ed Engels nel corso della loro vita e della loro lunga militanza nelle file della lotta di classe per l’abolizione del modo di produzione vigente. Vita politica che vide la formazione (e lo scioglimento) della Lega dei Comunisti, dell’Associazione Internazionale dei lavoratori (meglio conosciuta come Prima Internazionale), della socialdemocrazia tedesca come primo partito politico nazionale dei lavoratori e gli albori della Seconda Internazionale oltre che il fondamentale contributo dato alla già citata Lega dei comunisti con la stesura del Manifesto del partito comunista.

Nessuna di queste associazioni e partiti assunse mai, per i due sodali, un valore assoluto e definitivo; anzi, lo si vedrà, entrambi rivendicarono la capacità di chiudere o di criticare duramente ognuna di quelle esperienze una volta che queste avevano fatto il loro tempo perché superate dalla realtà dei fatti o travolte da polemiche interne che non facevano altro che dimostrare la morta gora in cui, periodicamente, il movimento operaio sembrava, e sembra tutt’ora, destinato a precipitare.

In effetti, dalle pagine di Origine e funzione della forma partito, emerge una concezione del partito che divide lo stesso in partito storico e partito formale. Divisione che portò conseguenze non secondarie all’interno dello stesso Partito comunista internazionale di cui «Il Programma Comunista» era portavoce e che, ancora, nel 1966 portò l’estensore originario ad allontanarsi dallo stesso.

L’idea di partito storico definisce la continuità che lo strumento di lotta dei lavoratori e dei rivoluzionari deve mantenere con gli elementi di programma già maturati nel corso delle esperienze precedenti della lotta di classe e delle formulazioni che l’hanno accompagnata nel tempo, facendo tesoro sia delle vittorie e delle “scoperte” teoriche che hanno contribuito a sollevarla oltre i limiti del rivendicazionismo immediatista e del sindacalismo, che delle lezioni da trarre dalle sconfitte e dagli errori pratici e teorici del movimento di classe nel suo lungo e faticoso divenire storico. Non per nulla la Sinistra Comunista, la corrente internazionalista che stava alla base sia di «Il Programma Comunista» che della riflessione del comunista francese, avrebbe sempre parlato delle necessità di trarre i giusti insegnamenti dalle lezioni delle controrivoluzioni.

Il partito formale definisce invece la forma, la struttura, che l’organo di lotta dei rivoluzionari assume di volta in volta, a seconda delle situazioni storiche, politiche, sociali ed economiche che vedono svilupparsi con gradi diversi di intensità la lotta del proletariato contro il capitalismo per il suo definitivo superamento e la piena affermazione del programma rivoluzionario.

Nella premessa generale al testo si afferma:

La tesi centrale che vogliamo affermare ed illustrare è la seguente: Marx ha tratto i caratteri della forma Partito dalla descrizione della società comunista.
[…] La lotta dell’embrione di proletariato durante la grande Rivoluzione Francese aveva indotto alcuni rivoluzionari (Varlet, Leclerc, Roux, i cosiddetti Arrabbiati) a ritenere che la rivoluzione non si effettuasse che a vantaggio di una categoria di uomini e non fosse la liberatrice universale. Poi, ma sempre alla stessa epoca, gli Eguali rimisero in questione la possibilità per la rivoluzione di emancipare l’umanità, e ne proclamarono necessaria una nuova, che non fosse condotta in nome della Ragione: “Chi ha la forza – dice Babeuf – ha ragione“.
[…] Appunto dall’osservazione della lotta del proletariato nasce in Marx e in Engels l’idea che la soluzione illuministica non è la vera, la reale, nel momento stesso in cui essi vedono dove la nuova soluzione si trova – nella lotta della classe proletaria. Essi si rendono conto che il problema dell’emancipazione dell’umanità non può essere risolto teoricamente perché non lo si è posto praticamente, perché i borghesi ragionano in nome di un uomo astratto, nella cui categoria il proletariato non entra. La liberazione dell’uomo dev’essere vista sul terreno pratico, e si deve considerare l’uomo reale, cioè la specie umana […] Sensibile a tutte le lotte pratiche e teoriche, Marx era al corrente delle opere di lottatori come lui: Engels, Moses Hess, i socialisti francesi, ecc. È così che, infine, si compirà questa somma, questa integrazione storica: il marxismo teoria del proletariato, teoria della specie umana. Essa apparirà in tutta la sua vigoria in piena fase eruttiva di sviluppo della società umana, la rivoluzione del 1848, col Manifesto dei Comunisti.
[…] Il nostro lavoro d’oggi consiste nel cercar di spiegare come l’intuizione geniale divenne realtà nel programma comunista; come questo programma fu proposto all’umanità per l’intermediario del proletariato; come Marx ed Engels lottarono per farlo accettare dall’organizzazione proletaria (lettera di Marx a Bolte, 29 nov. 1871: “La storia dell’Internazionale è stata una lotta continua del Consiglio Generale contro…le sezioni nazionali”); come trionfò nel 1871 con la Comune di Parigi, a riprova della sua necessità assoluta. Tutto questo noi studieremo per precisare l’origine e la funzione della forma-partito.

Il comunismo non si realizzerà dunque come espressione del dominio di una sola e nuova classe, il proletariato, ma con la liberazione dell’intera specie dal giogo capitalista. Infatti:

Il carattere del proletariato è di essere “una classe della società borghese che non è una classe della società borghese, una classe che è la dissoluzione di tutte le classi, una sfera che possiede un carattere universale a causa delle sue sofferenze universali, e non rivendica nessun particolare diritto perché nessuna particolare ingiustizia gli è stata fatta, ma l’ingiustizia per antonomasia; una sfera che non può appellarsi a nessun titolo storico ma solo a un titolo umano […] Il proletariato non fonda la sua azione nella storia sul possesso di certi mezzi di produzione e quindi su una possibilità di liberazione parziale dell’uomo, ma sul non-possesso della natura umana, che esso vuole appropriarsi e in tal modo emancipare l’umanità (K.Marx, Critica della filosofia del diritto di Hegel). […] Così, la questione del divenire del proletariato è di sapere come saranno risolte le questioni delle classi, dello Stato, e dell’organizzazione della società futura. Inoltre, la borghesia tende a impedire il legame organico fra la classe e il suo programma, cerca di ridurla a una classe di questa società e quindi di farle abbandonare il suo programma. È qui che si colloca la questione del partito.

Sulle diverse interpretazioni della funzione dello Stato Marx esercita, con la solita chiarezza, una critica che non può lasciare adito a dubbi e ripensamenti in alcuna forma, affermando :

“Il suicidio è contro natura. Perciò lo Stato non può credere all’impotenza intrinseca della sua amministrazione, cioè di sé stesso. Può scorgere soltanto difetti formali, casuali, e tentare di porvi rimedio”. È qui definita in modo estremamente preciso la posizione degli stalinisti e dei vari democratici. Non contento di ciò, Marx schernisce i suoi avversari mostrandone l’impotenza: “Se tali modifiche sono infruttuose, ebbene, allora l’infermità sociale è un’imperfezione naturale indipendente dall’uomo, una legge divina, ovvero la volontà dei privati è troppo corrotta per corrispondere ai buoni intenti dell’amministrazione! E che tipi sono questi privati! Mormorano contro il governo ogni qualvolta esso limita la libertà, e pretendono dal governo che impedisca le conseguenze necessarie di tale libertà!”. […] Marx si beffa di queste illusioni mostrando che lo Stato è il potere organizzato di una classe dominante la società: “Infatti questa lacerazione, questa infamia, questa schiavitù della società civile sono il fondamento naturale su cui poggia lo Stato moderno, così come la società civile della schiavitù era il fondamento naturale dello Stato antico. L’esistenza dello Stato e l’esistenza della schiavitù sono inseparabili”. (Pariser Vorwärts, 7 agosto 1844: pubblicato in K.Marx, Un carteggio del 1843, Ed. Riuniti, Roma 1954).

E’ del 1844 il brano appena citato dagli autori nel paragrafo intitolato La natura dello Stato, ma in quello il moro di Treviri aveva già fatto definitivamente a pezzi qualsiasi ipotesi riformistica, stalinista o liberale (del tipo no green pass) che potesse contaminare in futuro il movimento proletario e rivoluzionario.

La miseria del proletario è di essere privato della sua natura umana. Questa critica supera il quadro ristretto di quella di Proudhon, che è un miserabilismo razionale e quindi un ragionare a vuoto sull’autentica miseria umana. I nostri stalinisti, con la loro teoria della miseria assoluta, sono i veri figli di Proudhon e di E. Sue. La rivendicazione del proletario si manifesta nella sua volontà di riappropriarsi della sua natura umana, e Marx definisce così il programma comunista: “L’essere umano (la natura umana) è la vera Gemeinwesen (comunità) umana“. Ciò significa che nella società comunista non esiste più lo Stato; il principio di autorità, quello di organizzazione e quello di coordinamento fra gli uomini, sono la Specie umana. È il ritorno al comunismo primitivo […] (in cui) l’individuo non era separato dalla specie. Stabilitasi la società di classe, la frattura fra i due termini si manifesta, e raggiunge il massimo dell’esistenza nel proletariato. È questa miseria che Marx esprime in tutta la sua universalità: “Come il disperato isolamento da essa (la natura umana, l’essere umano) è infinitamente più universale, insopportabile, pauroso, contraddittorio dell’isolamento dall’ordine politico esistente, così la soppressione di questo isolamento (programma comunista) e perfino una sua parziale riduzione, una rivolta contro questo isolamento (i proletari possono acquisire una coscienza di classe solo lottando e organizzandosi in partito) ha un’ampiezza infinita, così l’uomo è egli stesso infinitamente più che il cittadino dello Stato, e la vita umana infinitamente più che la vita politica […] Una rivolta industriale può essere parziale fin che si vuole; non perciò meno racchiude un’anima universale; la rivolta politica può essere universale fin che si vuole; non perciò meno essa cela sotto il suo aspetto più colossale uno spirito angusto”. […] E Marx prosegue: “Lo si è visto. Anche se si verifica in un solo distretto industriale, una rivoluzione sociale si colloca su un piano di totalità perché è una protesta dell’uomo contro la vita disumanizzata, perché parte dal punto di vista di ogni individuo reale, perché la Gemeinwesen (comunità, collettività) da cui esso si sforza di non essere più isolato, è la vera comunità dell’uomo, l’essere umano”. Il proletariato tende a contrapporre la sua Gemeinwesen, cioè l’essere umano, a quella del capitalista (Stato oppressore). Per giungere a realizzare tale opposizione reale, bisogna ch’egli si appropri questo essere, e non può farlo se non si organizza in partito, – partito che è appunto la rappresentazione di questo essere, la prefigurazione la cui vita è movimento per l’appropriazione di questo essere.

Motivo per cui:

Il proletariato deve conquistare il potere, ma per farlo non deve porsi sul piano dello Stato; non deve lottare per una forma di questo, che si pretenda più progressiva, contro un’altra, come quando lotta per una frazione della borghesia contro un’altra (per la democrazia contro il fascismo, ecc.). La sua azione deve essere esterna. Per fare la rivoluzione, il proletariato deve abolire l’opposizione fra individuo e specie, che è la contraddizione sulla quale lo Stato esistente poggia (finché vi sono individui, esiste il problema della loro organizzazione nella società, e quello del rapporto fra questa organizzazione e i veri bisogni della specie). Il proletariato non deve fare una rivoluzione dall’anima politica, perché questa “organizza… una parte dominante della società a spese della società”. E, prima di passare alla caratterizzazione della rivoluzione proletaria: “Ogni rivoluzione dissolve la vecchia società, in questo senso è sociale. Ogni rivoluzione rovescia il vecchio potere; in questo senso è politica”. La rivoluzione borghese è una rivoluzione sociale quando dissolve l’antica società; quando rovescia il vecchio potere è politica, ma afferma il suo: rivoluzione essenzialmente politica. Infatti, per erigere la sua organizzazione sociale, la borghesia doveva utilizzare un’organizzazione politica che doveva essere inseparabile da questa; perché? Perché i borghesi hanno fatto la rivoluzione per realizzare il tipo umano astratto: l’individuo isolato dalla natura e dalla specie; perché volevano liberare gli uomini dagli antichi vincoli feudali (dipendenza fra uomo e natura). Il problema era di definire quali sarebbero stati i legami fra gli uomini nuovi; perciò essi formularono i diritti dell’uomo, che furono realizzati solo quando la rivoluzione sfociò sul suo terreno pratico borghese, cioè quando perse la speranza di liberare effettivamente l’umanità (dopo aver schiacciato i moti dei sanculotti). Invece, per il marxismo l’uomo è la specie umana, l’uomo sociale che ha un legame umano con la specie e un legame umano con la natura (dominazione su questa). È evidente che lo Stato del proletariato non sarà un organismo speciale retto da regole ben definite, da un diritto qualunque, ma sarà l’Essere umano. “Il socialismo non si può realizzare senza rivoluzione. Esso ha bisogno di questo atto politico nella misura in cui ha bisogno di distruggere e dissolvere. Ma esso si scrolla di dosso il suo involucro politico non appena ha inizio la sua attività organizzativa, non appena persegue il suo proprio fine, non appena si rivela la sua anima”. È già qui espressa tutta la teoria del deperimento dello Stato. La rivoluzione compie un atto politico per finirla col vecchio mondo, ma, a partire da questo momento, si orienta verso l’instaurazione del regno dell’umanità sulla natura, dell’uomo sul pianeta; non ha più bisogno di una forma politica, poiché il suo problema non è di governare degli uomini; è la Specie, allora, che governa, domina, possiede.

Questo rende possibile all’autore e ai comunisti affermare che «per noi il capitalismo non esiste già più: esiste solo la società comunista». Ma come realizzare ciò che esiste già in potenza, il futuro che già agisce retroattivamente sul presente? Con quale strumento?

Il lavoro ulteriore di Marx consisterà nello studiare come ciò sia realizzabile. Passerà quindi a un’analisi precisa della società e fornirà le grandi linee della trasformazione socialista: proprietà della specie, distruzione del mercantilismo, ecc. Tutto ciò sarà precisato nel Manifesto, poi nello scritto della Comune e nell’Indirizzo Inaugurale dell’Internazionale (questione della distruzione dello Stato borghese e delle misure per limitare il “carrierismo”). Il partito rappresenta dunque la società futura. Non lo si può definire con regole burocratiche, ma col suo essere; e il suo essere è il suo programma: prefigurazione della società comunista della specie umana liberata e cosciente. Corollario: la rivoluzione non è un problema di forme di organizzazione. Essa dipende dal programma. Senonché è stato provato che la forma partito è la più atta a rappresentare il programma, a difenderlo. E qui le regole di organizzazione non sono prese a prestito dalla società borghese, ma derivano dalla visione della società futura.
[…] “Il proletariato proclama subito in modo chiaro il suo antagonismo con la società della proprietà privata. La rivolta slesiana comincia proprio là dove terminano le rivolte dei lavoratori francesi e inglesi, cioè con la coscienza d’essere il proletariato. L’azione stessa reca l’impronta di questa superiorità. Non vengono soltanto distrutte le macchine, queste rivali dell’operaio, ma anche i libri commerciali, i titoli di proprietà; e mentre tutti gli altri movimenti si volgevano essenzialmente contro il padrone di fabbrica, il nemico visibile, questo movimento si volge contemporaneamente contro il banchiere, il nemico nascosto.”
[…] La conoscenza non ci viene direttamente dai borghesi, come vorrebbero certuni: ci viene dalla lotta della nostra classe, non è una sfera particolare della nostra attività che assorbiamo passivamente dalla classe avversa; no, è qualcosa di vibrante e passionale, che il proletariato ha strappato al suo nemico di classe. Il giovane Marx aveva infinitamente ragione nel dire che le idee del comunismo, “che vincono la nostra intelligenza, che conquistano la nostra mentalità, alle quali la ragione ha legato la coscienza, sono delle catene delle quali non ci si può disfare, che non si possono strappare di dosso senza strappare il nostro stesso cuore; sono dei demoni che l’uomo non può vincere che sottomettendovisi”. […] Fin dall’inizio Marx mostra che il programma comunista non è il prodotto dell’individuo: la rivoluzione – diciamo noi – sarà anonima, o non sarà affatto.

Ma allora cos’è questo strumento collettivo che dovrebbe permettere a proletari e rivoluzionari di dirigere il percorso delle lotte nella direzione voluta, desiderata e già designata dal corso degli avvenimenti passati e futuri allo stesso tempo?

Il partito è un organo di previsione; se non è questo si discredita. Marx ad Engels, lettera del 18 febbraio 1865: “Come il partito borghese si è screditato e si è messo da sé nella pietosa situazione di oggi credendo fermamente che con ‘l’era nuova’ il governo gli fosse piovuto dal cielo per grazia del principe reggente, così il partito operaio si screditerà ancor di più immaginandosi che, grazie all’era bismarckiana o ad una qualsiasi era prussiana, per grazia del re, le allodole gli cadano in bocca bell’e arrosto. È assolutamente fuori dubbio che la fatale illusione di Lassalle di credere in un intervento socialista del governo prussiano sarà seguita da una delusione. La logica delle cose parlerà. Ma l’onore del partito operaio esige che esso respinga questi fantasmi prima che l’esperienza ne abbia mostrato l’inanità”. Perché? Ed ecco la caratteristica essenziale del proletariato: La classe operaia è rivoluzionaria, o non è nulla.

Ma è giusto domandarsi, a questo punto, come potrà avvenire la sua liberazione, insieme a quella della specie e la risposta contenuta in Origine e forma è inequivocabile:

mediante l’assalto rivoluzionario. E quale carattere avrà la rivoluzione? Sarà violenta.
Scrive Engels, già nel 1842, come inviato a Londra, alla Rheinische Zeitung, 10 dicembre 1842, sotto il titolo Le crisi interne: […] “In realtà, bastò una forza militare e poliziesca minima per tenere a bada le masse. A Manchester si sono visti migliaia di operai bloccati nelle piazze da quattro o cinque dragoni che ne impedivano l’accesso. La ‘rivoluzione pacifica’ aveva tutto paralizzato. Così, tutto finì in breve. Il vantaggio che tuttavia ne deriva per i non-possidenti rimane acquisito: la coscienza che una rivoluzione per via pacifica è impossibile e che solo una rivoluzione violenta delle odierne condizioni innaturali, un abbattimento radicale dell’aristocrazia nobile e industriale, può migliorare la situazione dei proletari.” Bisogna dunque educare le masse, per organizzare la rivoluzione? Ed ecco la risposta di Engels ne La Sacra Famiglia, cap. IV, II (nota marginale critica), nel 1844-45: “È vero che nel suo movimento economico la proprietà privata si avvia verso la sua dissoluzione, ma non lo fa che attraverso un’evoluzione indipendente da lei, inconscia, realizzantesi contro la sua volontà, prodotta dalla natura delle cose, unicamente perché essa genera il proletariato in quanto proletariato, la miseria consapevole della propria miseria intellettuale e fisica, la disumanizzazione che è cosciente della propria disumanizzazione e quindi si autosopprime. Il proletariato esegue la sentenza che la proprietà privata pronuncia contro sé stessa generando il proletariato, così come esegue la sentenza che il lavoro salariato pronuncia contro sé stesso generando la ricchezza altrui e la miseria propria. Quando il proletariato vincerà, non diventerà per questo la parte assoluta della società, perché vincerà solo in quanto sopprimerà sé stesso e il suo contrario, e allora tanto il proletariato quanto il suo contrario che la condiziona, la proprietà privata, saranno spariti.”
“Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato questo ruolo storico mondiale, non è, come pretende di credere la Critica Critica, perché considerino i proletari degli dei. È piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità, perfino dell’apparenza della umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tutte le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperioso – espressione pratica della necessità -; proprio perciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue stesse condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non invano il proletariato passa per la dura ma tonificante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato, s’immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere. Il suo fine e la sua azione storica gli sono irrevocabilmente prefissati nelle sue condizioni di vita, come nell’intera organizzazione della presente società borghese”.
Ne risulta che il proletariato non esiste se non quando è rivoluzionario, quando ha la sua anima, il suo programma, e oppone il suo Stato, cioè l’Essere umano, alla società borghese. Altrimenti si avvilisce e la sua anima è borghese, una cosa della società borghese; allora non ha più vita, perché la sua vita è la rivoluzione.

Il proletariato non è un mero dato sociologico, è un dato politico ma soltanto quando si rivolta e nella rivolta anche solo per un momento prende coscienza della sua condizione reale. Ogni umanitarismo non serve ad altro che ad allontanarlo da se stesso, dal suo proprio essere che non può essere altro che rivoluzionario oppure nulla. Già nel Manifesto del partito comunista:

Classe, programma, partito e rivoluzione, tutto ciò è precisato. La classe non agisce e quindi non esiste se non quando si costituisce in partito, che a sua volta si caratterizza mediante il programma (e questo ne è l’anima); il partito può realizzare la sua missione storica solo attraverso una rivoluzione. Marx ed Engels non si sono accontentati di una “intuizione”; hanno dimostrato la realtà del programma. Ogni volta che la questione della lotta rivoluzionaria non era la questione fondamentale della loro attività, essi si rivolsero ai loro “studi teorici”, cioè al compito di precisare il programma. Essi hanno scoperto la legge generale; hanno poi precisato le leggi particolari. Questi studi non erano un arricchimento, ma un rafforzamento del potenziale del partito, ed essi li condussero in contatto con la lotta proletaria (questione dello Stato e Comune di Parigi), precisando il tal modo la descrizione della società comunista e quindi anche i metodi per arrivarvi.[…] Prodotto della storia, il programma poteva nascere solo dalla lotta del proletariato. […] Si tratta ora di sapere come esso si è imposto, perché in determinati periodi il proletariato lo abbandona, e quali sono le condizioni perché lo ritrovi: il problema, dunque, della formazione del partito e della sua ricostruzione.

Proprio dagli scritti di Marx ed Engels è possibile trarre, a grandi linee, una storia dell’evoluzione delle varie forme partito e dei motivi del loro successo e della loro sconfitta:

La prima fase è la fase settaria. Si legge in Le pretese scissioni del 1872: “La prima fase nella lotta del proletariato contro la borghesia è contrassegnata dal movimento settario. Esso ha la sua ragion d’essere in un’epoca in cui il proletariato non è ancora abbastanza sviluppato per agire come classe. Pensatori individuali criticano gli antagonismi sociali e ne danno soluzioni fantastiche che la massa degli operai avrebbe solo da accettare, diffondere, mettere in pratica. […] Queste sette, lievito del movimento all’origine, gli sono di ostacolo non appena esso le supera; allora diventano reazionarie. […] Perché il programma potesse essere difeso da un’organizzazione, il movimento doveva aver superato lo stadio suddetto. Occorre a questo proposito considerare due punti:

1) Il legame fra organizzazione-partito e programma-partito

2) Quali sono le situazioni, quali i momenti favorevoli alla fondazione del partito.

Primo punto. Nella sua lettera a Freiligrath del 23-2-1860, Marx ha precisato questi elementi: “Osservo anzitutto: dopo che, su mia richiesta, la ‘Lega’ fu disciolta nel novembre 1852, io non ho appartenuto, né appartengo, ad alcuna organizzazione segreta o pubblica: dunque il Partito, nel senso del tutto effimero del termine, ha cessato di esistere per me da otto anni. Si tratta qui del Partito come raggruppamento di uomini, come organizzazione. E qui si colloca il secondo punto con la domanda: perché si scioglie questa organizzazione? Marx risponde con la spiegazione che si tratta di un periodo di rinculo, di una fase controrivoluzionaria. […] In questi periodi il partito si riduce ai soli compagni i quali hanno rifiutato in un modo o nell’altro la vittoria della classe avversa, che molti militanti teorizzano volendo fare ad ogni costo qualcosa per “uscire dalla situazione”. Per Marx ed Engels, la storia non è che una continua trasformazione della natura umana: […]“Si può, in mezzo ai rapporti e al commercio borghese, restare al di sopra della spazzatura? È solo in questo ambiente ch’essa è naturalmente al suo posto… L’onesta infamia o l’infame onestà della morale solvibile… non vale per me un soldo più dell’irresponsabile infamia della quale né le prime comunità cristiane, né il club dei Giacobini, né la stessa nostra vecchia Lega, non si sono potuti liberare completamente. Ma, in mezzo ai traffici borghesi, ci si abitua a perdere il senso della rispettabile infamia o dell’infame rispettabilità”. […] E nella stessa lettera Marx ricorda di aver risposto solo dopo un anno ai dirigenti della associazione comunista di New York che lo sollecitavano a riorganizzare la vecchia Lega, e di avere infine scritto loro che dal 1852 non era più in rapporto con nessuna associazione, “ed ero fermamente convinto che i miei lavori teorici servivano la classe lavoratrice più della mia entrata in associazioni che hanno fatto il loro tempo. Nella ‘Neue Zeit’ – aggiunge – sono stato ripetutamente attaccato a causa di questa ‘inattività'”. È questo ritiro dall’azione (che è volontà deliberata di rifiutare l’azione sul terreno borghese quando quella autonoma del proletariato non è possibile) che attirò su Marx le accuse di “inattività” di cui sopra, così come la Sinistra (Comunista) è stata ieri ed è oggi accusata di “inattività” perché si rifiutava e si rifiuta di lasciarsi attirare – in nome di un attivismo ad ogni costo – nel turbine della corruzione borghese.

Ma allora il partito può scomparire? Sì, per quanto riguarda quello formale ovvero il prodotto di una situazione storica, politica, sociale e insurrezionale data (e poi superata).

Ciò posto, Marx precisa che cos’è la vita del Partito: “La Lega, come la Società delle Stagioni di Parigi e cento altre società, non è stato se non un episodio nella storia del Partito, che nasce spontaneamente dal suolo della società moderna”. In altre parole, la formazione dell’organizzazione è un prodotto storico degli antagonismi di questa società: se la classe è stata battuta, se quindi la sua organizzazione ha perso il suo carattere rivoluzionario rigettando il suo programma, o se è stata distrutta nella lotta, l’organizzazione riapparirà spontaneamente; il partito ricompare quando i contrasti sociali sboccano nella sua esplosione sulla scena della storia. Ma il partito non è una nozione differenziale, una organizzazione la cui vita dipende dagli alti e bassi della lotta di classe. Ecco la sua nozione integrale: “Ho cercato di eliminare – conclude Marx a Freiligrath -il malinteso che mi farebbe intendere per ‘partito’ una Lega morta da anni o una redazione di giornale sciolta da dodici anni. Io intendo il termine ‘Partito’ nella sua larga accezione storica”, cioè come prefigurazione della società futura, dell’Uomo futuro, dell’Essere umano che è il vero Gemeinwesen dell’uomo. È l’attaccamento a questo Essere, che nei periodi di controrivoluzione sembra negato dalla storia (come oggi la rivoluzione sembra alla generalità un’utopia), è questo attaccamento che permette di resistere. La lotta per restare su questa posizione è la nostra “azione”. Alla seduta del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti del 15 sett. 1852 Marx aveva detto: […] “Voi potete anche conservare la grande massa dei membri della Lega. Quanto a sacrifici personali, io ne ho fatti quanti chiunque, ma per la classe, non per le persone; quanto all’entusiasmo, non ne occorre affatto per appartenere a un Partito che si crede che arriverà al governo. Mi son sempre infischiato dell’opinione momentanea del proletariato. Noi ci votiamo a un Partito che, proprio nel suo interesse, non deve ancora arrivare al potere”.

(Fine della prima parte) – continua

]]>