Paolo Landi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 16 Sep 2025 20:30:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Mutazioni e contrasti, contraddizioni e variazioni topico-ambientali nel cinema di Luis Buñuel https://www.carmillaonline.com/2024/07/21/mutazioni-e-contrasti-contraddizioni-e-variazioni-topico-ambientali-nel-cinema-di-luis-bunuel/ Sun, 21 Jul 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83476 di Paolo Lago Paolo Landi

Paolo Landi è autore della sezione A, e Paolo Lago della sezione B. Le due voci del testo convergono sugli stessi temi attraverso due metodi diversi, che vengono concepiti come elementi di un dialogo provvisto di una peculiare apertura.

A – I film di Buñuel lasciano emergere in modo ricorrente alcuni trapassi di ordine radicale; potremmo infatti dire che l’evento drastico della mutazione e il suo carattere di enigma mettano in gioco una cifra costante nelle opere del regista. E del resto, il surrealismo si basa proprio su questa risorsa, che mira alla congiunzione tra elementi in forte [...]]]> di Paolo Lago Paolo Landi

Paolo Landi è autore della sezione A, e Paolo Lago della sezione B. Le due voci del testo convergono sugli stessi temi attraverso due metodi diversi, che vengono concepiti come elementi di un dialogo provvisto di una peculiare apertura.

A – I film di Buñuel lasciano emergere in modo ricorrente alcuni trapassi di ordine radicale; potremmo infatti dire che l’evento drastico della mutazione e il suo carattere di enigma mettano in gioco una cifra costante nelle opere del regista. E del resto, il surrealismo si basa proprio su questa risorsa, che mira alla congiunzione tra elementi in forte contrasto, gettando la luce dell’astrazione sui versanti che vengono coinvolti. E accade allora che il gentiluomo severo e monumentale impersonato da A. Cuny ne La via lattea (La Voie lactée, 1969) figuri nei termini del Padreterno, mentre cammina lungo la strada che conduce a S. Jacopo di Compostella; e a tale proposito, egli non è il supporto di un discorso allegorico che giustifichi questa duplicità sulla base di un significato definito, ma vive della contraddizione dovuta all’arbitrio con il quale incarna se stesso come essere umano, e al contempo racchiude il mistero della prima persona della Trinità divina; e d’altra parte, questa persona è confortata dalla presenza delle altre persone del nucleo trinitario, amabilmente rappresentate con la stessa logica, la quale trova il proprio coronamento nel gioco di prestigio metafisico dovuto all’apparizione di una colomba, che circoscrive l’enigma alludendo allo Spirito Santo, al di là di ogni fondamento dovuto a un punto di vista esplicativo. E ancora, in un altro momento del film, un sacerdote è seduto accanto a una coppia che giace in una locanda, subito dopo lo vediamo dislocato con la stessa postura al di fuori della stanza, e dopo ancora appare nuovamente all’interno, con una replica della prima disposizione, in modo da sovrapporre due circostanze che vengono congiunte nella coscienza, al di là dell’idea di un transito che abbia giustificato questa alternanza, o del principio di una bilocazione miracolosa che oltrepassi i limiti della natura; al che, in analogia con il caso precedente, abbiamo un carattere di incongruenza, per cui qualcosa viene sradicato dalla propria condizione identica. Ciò posto, risulta chiaro come queste istanze contraddittorie, nonostante la mancanza di una forma allegorica, siano suscettibili di suggerire una serie di effetti di senso che sollecitano il pensiero riflettente; ma quest’ultimo deve lasciarsi guidare dall’ambiguità radicale delle circostanze illustrate, operando nei limiti di un rigore di fondo, che non è certo inferiore a quello di una torsione allegorica, e richiede di mantenersi entro le linee di direzione prescritte dal paradosso, afferrando la sua apertura di senso, senza fluttuare o vagare al di fuori di una visione del mondo ben definita.

Ma per illuminare tale visione, può essere utile tenere presente il fatto che nei film dell’autore una variante dei cambiamenti di status è fornita dalla mutazione attraversata da alcuni personaggi nel corso delle loro storie. E sotto tale profilo, possiamo considerare i casi di film come Viridiana (1961), Simon del deserto (Simón del desierto, 1964) ed Estasi di un delitto (Ensayo de un crimen, 1955). Nel primo di questi film la protagonista, a partire dalla sua condizione di benefattrice dei miserabili, finisce per consegnarsi all’imperio erotico di un partner che rappresenta la quintessenza del cinismo e in particolare dell’egoismo sociale; e così, alcuni momenti nei quali l’impresa della donna fallisce, e fanno risalire una turbolenza gravida di minaccia nel corso di un festino allestito dai miserabili, servono a preparare uno sbocco finale, che comunque racchiude un salto di qualità legato all’enigma della persona; e infatti, Buñuel esprime nel modo più radicale e dirompente il fondo contraddittorio del soggetto, in base al quale la sua disponibilità al Male a partire da una immersione nel Bene è forse dovuta alla mancanza di una natura stabile, che è suscettibile di procurare l’epifania sinistra di una specie di cambiamento d’identità; al che, in ultima analisi abbiamo un’identità di fondo più comprensiva e aperta di quella della superficie, che è suscettibile di queste parvenze contraddittorie, a loro volta in grado di esibire i risvolti drammatici più sorprendenti.

Per quanto riguarda poi Simon del deserto, abbiamo una parabola dello stesso genere, ma con la differenza che in questo caso la postazione del Bene è affidata alle risorse enigmatiche e ambigue del misticismo di uno stilita, il quale dopo una serie di tentazioni nel deserto che accompagnano la sua solitudine e lasciano affiorare le stigmate demoniche dell’Eros in agguato, si affida ad un epilogo vertiginosamente dislocato nel mondo contemporaneo, nel quale l’egoismo erotico che trionfa diventa emblema del sopravvento dovuto ad una spinta diabolica, nonché alla risoluzione blasfema dell’istanza mistica, e del suo orizzonte legato al principio della purificazione. E in questo caso, rispetto a Viridiana, possiamo dire che la mutazione presenta i seguenti caratteri: da un lato è predisposta in modo graduale, attraverso una serie di sintomi che attraversano la coscienza del personaggio in modo inquieto e con una cadenza che accumula i propri segnali; da un altro lato, la stessa posizione iniziale del soggetto risulta provvista di un fondamento ambiguo; e infine, gli accenni a tale ambiguità sono legati a una gradazione dei sintomi che conducono dal versante del Bene a quello del Male. Ma si deve osservare come la dominante mistica che investe il personaggio in questione venga esibita con uno spirito che contempla la sua direzione ambigua, da concepire come una sorta di Bene che forse è affetto sin dall’origine dalla istanza del Male, e non ha il carattere di trasparenza che avvolge l’impulso filantropico presente in Viridiana.

E infine, in Estasi di un delitto abbiamo l’itinerario di una conversione di segno opposto. E infatti, in questo caso si procede a partire dall’impulso maniacale rivolto a un crimine erotico che viene avvicinato a più riprese senza essere mai eseguito, e a seguito della confessione del protagonista – che guida peraltro la narrazione degli eventi -, abbiamo la prospettiva di una liberazione dal peso di questa ossessione, dovuta a un congedo con il quale il soggetto si consegna ad una esperienza amorosa che incarna l’unica azione riuscita di tutta la storia; e in questa circostanza, abbiamo l’unica azione nell’accezione compiuta della parola, che si dispone al di là del regime di interruzione e di sospensione fornito dai compimenti mancati. E possiamo dire che in questo film emerga una linea graduale, la quale non è provvista tanto dalla coscienza del personaggio – che si ribalta in modo manifesto ed esclusivo nella sorpresa finale -, quanto dalla fermentazione inconscia con cui i vari tentativi di omicidio che vengono messi in gioco conseguono un esito, il quale ogni volta si allontana in misura maggiore dall’obiettivo, dopo un inizio in cui il crimine viene avvicinato al punto da generare indirettamente la morte accidentale di una vittima. E d’altra parte, in questo film l’impronta vagamente ilare delle situazioni, l’accento paradossale con il quale viene presentato l’impulso omicida – che risulta alleggerito rispetto al peso di ogni rilievo realistico, ed è affidato a un’atmosfera improbabile -, e la nota estremamente leggera della risoluzione finale, introducono il fermento surreale dovuto a un senso di incongruenza, che comunica in termini onirici con le profondità dell’inconscio, senza consegnarsi alla norma di un realismo psicologico, e dei suoi risvolti esplicativi.

B – Alcuni significativi trapassi di ordine radicale sono altresì presenti anche in Bella di giorno (Belle de jour, 1967), le cui scene iniziali rappresentano il movimento di una elegante carrozza inserita in uno scorcio di campagna segnato da linee geometriche che si predispongono quasi ad offrire una fastosa scena teatrale. Il movimento della carrozza è solenne e scandito da uno spostamento lento ed austero che ricrea i fasti del passato nella contemporaneità degli anni Sessanta. Seguendo il suo solenne percorso – un sentiero che taglia l’inquadratura sulla quale scorrono i titoli di testa – la carrozza si avvicina lentamente e lo stesso lembo sonoro che si porta dietro (sonagliere e zoccoli dei cavalli) aumenta mentre il cocchio si avvicina. A cassetta si trovano due eleganti cocchieri e, seduti dietro, come due regnanti o comunque due nobili riecheggianti una Francia dei tempi di prima della Rivoluzione o del periodo della Restaurazione, vi sono Pierre (Jean Sorel) e Séverine (Catherine Deneuve). Successivamente, la carrozza si addentra in un bosco e, mentre essa si muove verso di noi, la stessa macchina da presa sembra correre incontro al veicolo per inquadrare dapprima i due cocchieri in un primo piano per poi focalizzarsi sulla coppia seduta dietro, i due innamorati che si giurano eterno amore. Questo scorcio iniziale, austero e maestoso, davvero non fa presagire quello che succederà fra pochi attimi: Séverine afferrata in modo violento dai cocchieri i quali, agli ordini di Pierre, legheranno la ragazza e, dopo averla fustigata, la violenteranno a turno. L’eleganza iconografica, allontanata in un passato che diviene quasi la reliquia di sé stesso, sfuma in una scena di violenza crudele e barbara: e se i cocchieri non sono quei servitori ineccepibili e fedeli che parevano all’inizio, e se Pierre non è il marito nobile e innamorato, così anche Séverine sta iniziando a volteggiare sul baratro delle proprie inclinazioni che la condurranno a frequentare come prostituta una casa di piacere. L’intera sequenza iniziale trascolora poi in una forma di pensiero di Séverine, che si trova nella sua elegante camera da letto insieme a Pierre. Non era realtà, ma era solo un pensiero ‘rumoroso’ della ragazza, tanto rumoroso che se ne accorgerà lo stesso Pierre il quale le domanda: “A che stai pensando Séverine?”. Viene in mente anche il pensiero rumoroso di Jean (Laurent Terzieff) ne La via lattea, quando il rumore degli spari della fucilazione di un papa, da lui immaginata, si sente anche nell’ambientazione perbenista e piccolo-borghese della recita delle allieve di una scuola cattolica. Se le sequenze relative all’elegante carrozza non rappresentano in realtà ciò che sembrano, concludendosi in una dimensione opposta, è anche vero che da una scena di violenza gratuita e di sadismo si passa ad una, invece, in cui Séverine si trova in una situazione di quiete domestica borghese e pacata. D’altra parte, la stessa conclusione de L’âge d’or (1930) racchiude in sé due opposti apparentemente inconciliabili: scopriamo infatti che Gesù Cristo e il duca de Blangis (il protagonista delle Centoventi giornate di Sodoma del Marchese de Sade) non sono altro che la stessa persona.

Un personaggio che, nel film, possiede un duplice aspetto è Henri Husson, interpretato da Michel Piccoli: elegante e ricco borghese, appare in realtà un erotomane spinto da istinti bassi e triviali. Memorabile è, a questo proposito, la scena in cui egli cerca di baciare Séverine in pubblico all’interno di un esclusivo circolo del tennis. Sarà Henri a scatenare in Séverine il desiderio di addentrarsi nei meandri di un universo estraneo alla sua classe sociale, un limbo oscuro per il quale ella prova contemporaneamente attrazione e repulsione. Nel momento in cui, per la prima volta, la ragazza si reca presso la casa di Madame Anaïs, ricompaiono le linee geometriche già incontrate all’inizio (la strada, i filari di alberi, il movimento della carrozza e la rigidità degli eleganti cocchieri) sotto la forma, adesso, di sfondi urbani, grigi palazzi del centro di Parigi nei cui interstizi si cela il baratro dell’eros. Séverine è completamente incapsulata all’interno dello sfondo di cemento come appare anche intrappolata nelle varie ambientazioni cui la costringono la sua condizione di alto-borghese: nelle strade del centro, nell’abitacolo di un elegante taxi, nelle stanze del suo appartamento lussuoso che si affaccia su un boulevard. Di esso, vediamo dapprima l’esterno, le finestre e la sua altera e antica ridondanza che, chissà, forse verrà violata e dissacrata da una pietra tirata dalla strada durante una rivoluzione ancora di là da venire al momento dell’ambientazione del film, una protesta che si allargherà per le strade della capitale francese nella primavera del 1968. Come ci mostra Bernardo Bertolucci in The Dreamers – I sognatori (The Dreamers, 2003) -, i vetri delle eleganti finestre dei palazzi borghesi, sottile membrana che separa l’interno dall’esterno, verranno facilmente rotti dai segni della protesta, che irrompe perfino negli angoli più intimi e privati.

In Bella di giorno, d’altra parte, lo scivolamento nel contrario è presente anche nelle figure dei frequentatori della casa di appuntamenti di Madame Anaïs: sono tutti eleganti personaggi borghesi, uomini d’affari, professionisti, professori, medici e, incontrandoli per strada, nessuno potrebbe immaginare le perversioni cui si lasciano andare nello spazio intimo e segreto della casa. Quest’ultima si configura come una sorta di “eterotopia”, uno spazio ‘altro’ totalmente separato dal normale contesto quotidiano, secondo una definizione di Michel Foucault. È lo spazio dove avvengono trapassi di ordine radicale che sarebbero altresì sconosciuti per le geometriche vie di Parigi segnate da rigide e fredde architetture. È lo spazio dell’alterità e del contrario che emerge allo scoperto, come nella dimora borghese di Il fantasma della libertà (Le fantôme de la liberté, 1974), dove i ricchi proprietari defecano in sala da pranzo; del resto, l’emergenza del trapasso di ordine radicale, in questo film, è presente anche nella partita a poker tra frati o nelle sequenze relative alla scolaresca di gendarmi che si comportano come monelli. Il cinema di Buñuel, utilizzando sistemi di codificazione di matrice surrealista, offre quindi un sovvertimento radicale della norma e della percezione del mondo reale da parte dello spettatore.

Tornando a La via lattea si può pensare come una figura ambigua e portatrice di tale sovvertimento sia il personaggio del demone che compare dopo l’incidente automobilistico, cui assistono i due personaggi diretti a Santiago di Compostella. Nel momento in cui Jean augura la morte al guidatore della elegante Citroën che non si ferma per dargli un passaggio, e dopo che l’auto è sbandata e si è schiantata contro un albero, compare un personaggio demonico che si caratterizza apparentemente come un angelo, vestito di bianco, ma che in realtà si configura come un ambiguo demone infernale. Il personaggio è interpretato da Pierre Clementi, un attore che nel cinema di quegli anni interpreta sovente figure che rimandano ad un’idea di sovvertimento dell’ordine costituito: basti pensare al personaggio di Giacobbe, che possiede un suo inquietante doppio, in Partner (1968) di Bernardo Bertolucci, all’antropofago di Porcile (1969) di Pier Paolo Pasolini o al misterioso messia di I cannibali (1970) di Liliana Cavani. Il personaggio di La via lattea emerge da plumbei lembi infernali e compare nel sedile posteriore dell’auto che corre lungo una linea geometrica, incorniciata dagli alberi, come il percorso effettuato dalla carrozza all’inizio di Bella di giorno. Ma il percorso geometrico e rettilineo cela un sovvertimento inaudito: ciò che è angelico è anche infernale, ciò che appare un limbo d’amore – come la scena in carrozza, iconograficamente perfetta – è in realtà un limbo che prelude all’inferno. Fuori dalla linea geometrica si pongono i due personaggi protagonisti del film: veri sovvertitori, veri picari della modernità che con il loro vagabondaggio, con il loro spostamento nomadico aprono orizzonti di rovesciamenti, di regole rovesciate e di un ordine annientato. Il culmine del loro pellegrinaggio a Santiago non sarà un’adorazione divina ma l’unione con due prostitute, come se il sovvertimento eterotopico della casa di Madame Anaïs si fosse esteso a un intero vacuo orizzonte borghese pronto per essere scardinato e riscritto.

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Il registro barocco e l’istanza ascetica nell’ultimo libro di Marina Petrillo https://www.carmillaonline.com/2024/03/24/il-registro-barocco-e-listanza-ascetica-nellultimo-libro-di-marina-petrillo/ Sun, 24 Mar 2024 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81823 di Paolo Landi

Marina Petrillo, Indice di immortalità, Prometheus, Milano 2023, pp. 128, euro 18,00.

L’approccio filosofico-letterario di Marina Petrillo richiede in primo luogo di rendere conto dei procedimenti direttamente più visibili dell’opera. Sotto questo profilo, si deve tenere presente che il testo adotta la risorsa del prosimetro; e in questo modo, la dimensione nella quale il libro si inserisce, racchiudendo sia l’istanza filosofico-speculativa che quella lirico-letteraria, mette in gioco un requisito adeguato, che adempie l’esigenza di lasciare emergere un tessuto logico-categoriale articolato e complesso, e di rappresentare in modo costante l’impulso poetico che avvolge questo tessuto, e motiva gli ingredienti [...]]]> di Paolo Landi

Marina Petrillo, Indice di immortalità, Prometheus, Milano 2023, pp. 128, euro 18,00.

L’approccio filosofico-letterario di Marina Petrillo richiede in primo luogo di rendere conto dei procedimenti direttamente più visibili dell’opera. Sotto questo profilo, si deve tenere presente che il testo adotta la risorsa del prosimetro; e in questo modo, la dimensione nella quale il libro si inserisce, racchiudendo sia l’istanza filosofico-speculativa che quella lirico-letteraria, mette in gioco un requisito adeguato, che adempie l’esigenza di lasciare emergere un tessuto logico-categoriale articolato e complesso, e di rappresentare in modo costante l’impulso poetico che avvolge questo tessuto, e motiva gli ingredienti filosofici. E accade allora che le componenti in prosa rendano possibile l’immissione di una serie di nuclei concettuali, i quali richiedono il tipo di espansione e di movimento che solo la prosa può contenere; ma al contempo, questi nuclei vengono tracciati attraverso quella disposizione lirica che pervade il loro tessuto nel modo più capillare; e d’altra parte, i versi alternati alla prosa custodiscono il peso dovuto alla componente logico-categoriale, che è propria delle inflessioni speculative. E su queste basi abbiamo gli esiti seguenti: da un lato una prosa che lievita sotto il profilo lirico, e si inclina sul versante della poesia; da un altro lato, una sorta di poesia sottoposta al gravame dell’ambito concettuale, che pertanto converge in qualche misura nei confronti della prosa. Ma quest’ultimo aspetto non toglie che si tratti di poesia autentica, che contiene comunque un indice musicale; e così, abbiamo una sorta di poesia frenata, e scandita secondo un registro uniforme che si rifiuta alle onde melodiche, e sembra quasi mimare, insieme alla prosa, una movenza atonale.

Stabilito questo, si tratta di  vedere se siamo davanti a una sorta di poema stratificato in sezioni che si susseguono come ondate, secondo una linea di progressione, oppure davanti a una raccolta esibita secondo criteri di ordinamento che mimano un punto di vista unitario. Certamente l’inizio e la chiusa mettono in gioco una sorta di simmetria: si procede a partire dal “cosmo che non agita alcun gesto” e dal “silenzioso assioma balbettato” (p. 39), e si conclude con una sorta di lavacro, nel quale l’immagine del Puer accompagna con la sua evanescenza il culmine di una “Sempiterna rappresentazione di idiomi ri-volti all’Omnieteronimo, anima del potenziale creante”, per aprire lo scorcio di uno “svanire nel tepido mattino”, dove un “sogno divaricante i piani di realtà” (p. 112) rimanda infine al gioco della scrittura (“Gioco Trasformante di uno scritto impenetrabile”) (p. 113), a cospetto del quale il Puer “si stanca. Si rigira e cade, ridendo”; e in questa congiuntura per un verso dobbiamo affacciarci sul bianco della pagina ormai svuotata dopo l”excipit’ segnato in caratteri maiuscoli, e per un altro verso siamo proiettati verso l’inizio, che appunto incarna il gioco della scrittura. Ma il maggiore interesse è dovuto all’arco di una specie di antitesi sfolgorante, secondo la quale infine si raccoglie il massimo di quanto può essere assunto – che a sua volta abbraccia i poli opposti ma convergenti del “maschile-femminile, della “pianta-pietra” e della “sillaba-silenzio” -, per dissolverlo nel riposo di una visione che dismette la sua apertura, nel segno della innocenza che tutto consacra e assegna alla propria disposizione e al proprio luogo di origine, in una sorta di limbo beato che capovolge o sovverte l’idea della morte in un sogno di eternità – e al contempo rinvia all’operoso lavoro di una scrittura che può essere attraversata in una istanza ulteriore, e forse può essere custodita e sigillata attraverso il gioco di un movimento perpetuo. D’altra parte, questo rapporto simmetrico tra l’inizio e la fine non è sufficiente per stabilire una linea di sviluppo unitaria, che possa circoscrivere o designare una sorta di poema, rappresentato o inciso nella sua dimensione globale. E infatti, la tessitura magmatica del testo – che si evidenzia attraverso la comparazione con le esigenze dettate da un punto di vista rivolto all’orizzonte di un’opera unica – viene in qualche modo dichiarata, se appunto si dice che “Nascerà un’opera da questo silenzio e lava sarà, su animo lieve” (p. 39). Ma a questo punto, si deve chiarire che nella accezione più ampia, è un’opera unica anche quella che corrisponde nel modo più radicale ai canoni dell’apertura – che a loro volta in una certa misura sono ineludibili per ogni risultato estetico-artistico -; infatti, anche in questi casi sono riconoscibili una linea di sviluppo e un piano di coesistenza, che sono diversi da quelli richiesti secondo il criterio della silloge o della raccolta; e d’altra parte, risulta evidente come l’apertura peculiare di questo testo sia dovuta al fatto che si colloca su una specie di piano intermedio tra quello dell’opera unica e quello della riunione di una serie di opere che sono annodate mediante uno stesso ingrediente di ispirazione – od uno stesso impulso creativo. E ancora, a complicare il quadro, interviene il fatto per cui la dimensione unitaria e la questione dell’apertura sono messe a tema da questo scritto; ed è così che questa lava “Andrà a sconfiggersi tra piccoli anfratti e uscite secondarie”, e “Scaverà un letto di pietra solcando in battito lo spazio del non detto”; e parimenti, tornando al finale, si deve osservare come il Puer, iniziando il Gioco Trasformante dello scritto impenetrabile, tracci “una linea di demarcazione tra gli impossibili”. Ma questa apertura non si affida al tratto evanescente e irresponsabile di una espulsione dall’ambito del rigore, che solo rende possibile in prima istanza ogni forma di comprensione; infatti, l’autrice si spinge sino alla richiesta della maggiore coerenza che sia compatibile con lo spazio libero della coscienza – o se vogliamo, con l’istanza dovuta al singolo, e al punto di vista relativo alla sua possibilità di evocazione e di creazione. E riguardo a questo non vi sono dubbi, se consideriamo le seguenti parole: “Non sempre fragili, regnamo nell’interiore mondo. Ogni gesto risuona in armonia universale e nel grande affresco unico, si determinano legami, relazioni interagenti con il Tutto. Così il Tempo diviene quel Tutto. Spazio indescritto, delicata ma implacabile scissura nell’Eterno. E l’Eterno È, per sua stessa estensione. Presenza di cui non è dato sapere, se non nella mente di Colui che È” (p. 111). D’altra parte, la saldatura tra l’esigenza di mettere in gioco le parvenze antinomiche del reale e quella di stabilire una dimensione unitaria e assoluta, è assolta dai grandi maestri degli esercizi filosofico-speculativi che sono attraversati dal misticismo; e in questo modo, il richiamo alla dimensione filosofica più elevata che sia conciliabile con questo testo emerge nel fuori-testo dopo l’explicit, con il rimando a Dionigi Areopagita, e al gioco dei suoi paradossi, che ruotano attorno al rapporto tra conoscibile e inconoscibile – e all’inversione dei loro domini, che tuttavia, come osserva Francesco Solitario nella sua introduzione, si limita ad una disposizione allusiva, rivolta all’essere positivo riposto dietro le negazioni del nostro pensiero, ed alla sua luce avvolta dalla caligine che deve essere attraversata, per situarsi nel luogo di massima vicinanza possibile nei confronti dell’assoluto.

Ma per entrare adesso nel merito della posizione assunta da questa opera – nei limiti in cui possiamo parlare di un punto di vista che venga sostenuto, entro un contesto che ha una inconfondibile impronta poetica, la quale avvolge e giustifica le risonanze filosofiche -, occorre considerare ancora la lirica iniziale. In essa il “Silenzioso assioma” che pervade il cosmo e funge da cardine è congiunto al “tacito rullio del pensiero” il quale “intercetta la spiraliforme eclissi della parola”; al che, siamo di fronte a una dimensione indicibile, che può venire adombrata soltanto entro il dominio di una discordanza essenziale tra il pensiero e la parola medesima; infatti, a questo proposito il pensiero può esprimere la parola soltanto nel suo ritrarsi; o ancora, in un certo senso il pensiero rimane padrone, se appunto contempla o avverte questo gioco di ritrazione; e al contempo la parola, nel mentre che sfugge, irradia le spirali che emergono dalla sua fuga. E questa immagine non è dovuta soltanto alla necessità letteraria di dare un corpo alle proprie visioni, anche laddove puntano all’invisibile – o se vogliamo, all’evento sotteso che rende visibile l’evidenza dovuta al corpo sonoro e semantico della parola che si ritrae -; infatti, soltanto se la parola emette le risonanze che emergono dalla propria linea di fuga, è possibile che abbiano luogo la filosofia, la letteratura, la poesia, e in ultima analisi la stessa vita della coscienza. E queste risonanze, nel loro gioco spiraliforme, sembrano preannunciare il registro barocco di questo scritto – che in ultima analisi sembra mimare la traboccante ricchezza dovuta all’ordito del cosmo. Ma la tessitura barocca di questa opera letteraria – che già si evidenzia nel solco dell’incertezza inerente al suo status, ovvero al suo tratto sospeso tra il molteplice della raccolta e l’uno indicato dall’orizzonte dell’opera singola -, viene coniugata alla disposizione mistica e ascetica che attraversa nel modo più capillare la messe dei suoi risvolti; diciamo dunque – in un senso  elevato – che gli ingredienti barocchi di questo lavoro sono dovuti sia alla linea incerta del suo profilo globale, sia alla ricchezza delle immagini convocate – che abbracciano in modo spasmodico l’architettura del cosmo -, sia alla disposizione grandiosa di un tema così comprensivo, sia alla divaricazione tra il dono di questa ricchezza e il rimando a un momento ascetico il quale  richiama alla sua dissolvenza. E sotto questo profilo, si deve sottolineare come la linea del disaccordo tra questi due versanti metta in gioco quel tratto molteplice – e quindi barocco, a motivo della divaricazione medesima, e dell’estro giocato dal suo spettacolo -, che è fornito dal palpito sotteso di un’espansione e di una contrazione felicemente annodate tra loro. Così, un esempio della irruzione del punto di vista ascetico nel fasto barocco delle immagini convocate, può essere dato da questo scorcio di prosa: “Soli accecanti e luminescenze remote. Tardivi ricordi. Non essere più ciò che si è stati. Un buco nero, feroce, possiede l’ombra in anoressia del sentire. Digiuno. Grazia. Il raggio evocato giunge dal fasto, in necrologio della forma prossima al silenzio” (p. 58). E inoltre, è opportuno indicare i versi che seguono subito dopo: “Tutti i mondi si completano a vicenda. / Il raggio divino scende nelle coscienze a illuminare / le vette dello spirito. / Siamo nell’assente dormiveglia / sino a quando, toccati dalla tragedia, / non cediamo il campo all’indicibile / Lì ogni cosa tace e dal vuoto nasce / la costola dell’Assoluto Presente. / Inquietudine volge a paradosso / ogni gesto torna a lenta consapevolezza. / Si può morire nell’istante / Si muore nell’istante agognato perché inesistente / In nullità si procede, buio nel buio / per giungere all’assoluto”. Riguardo alla prosa, dobbiamo allora osservare quello che segue: in primo luogo risulta evidente una serie incalzante di percezioni e visioni, che si dipanano nella consueta calma alla quale è sottesa la turbolenza di un movimento intestino tenuto sotto controllo dall’ambito di un rigore sospeso tra l’istanza della prosa e quella del movimento lirico; in secondo luogo, emerge un procedimento di sottrazione o di negazione, nel quale l’accecamento, la condizione remota, l’impronta tardiva, il non essere più rispetto all’essere stati, l’oscurità del buco concepito come una specie di calco interiore di una voragine cosmica e l’anoressia del sentire mettono in gioco un accumulo barocco di negazioni, che sfocia in una immagine della Grazia, la quale ribalta lo spettacolo di un sacrificio – o addirittura di un martirio – nel dono improvviso ma fermo dell’assoluto; e ancora, al di là della Grazia, per sua concessione si distende il raggio evocato dal “fasto” relativo ai presupposti di questo gioco di privazioni – e in particolare, si potrebbe dire, inerente ai “soli accecanti” e alle “luminescenze remote”, e degradando ai “Tardivi ricordi” -; e infine, abbiamo il “necrologio della forma prossima del silenzio”. E accade allora che il silenzio suggelli la sottrazione, e al contempo confermi il plenum dovuto all’istanza dell’assoluto e della sua concessione; ed è attraverso questo passaggio finale che la valenza ascetica  si sovrappone allo strato barocco delle visioni; ma nello stesso tempo, sia il risalto plastico dovuto alle stesse negazioni, sia l’irruzione del raggio, sia la mole grandiosa del silenzio mantengono a loro modo l’istanza che precede, mentre l’ascesi riveste il sostrato delle immagini conclusive, e non rinnega il volume esorbitante delle visioni. Per quanto riguarda invece i versi, innanzitutto abbiamo l’ampiezza visionaria della totalità dei mondi che si completano – che a suo modo e con una cadenza molto diversa può ricordare alcune illuminazioni paniche di Pessoa -, in secondo luogo abbiamo ancora la presenza del raggio, questa volta esplicitamente divino, e accompagnato dalle immagini sontuose che riguardano le coscienze e le vette dello spirito, riverberando la suggestione panica, e inoltre abbiamo la fase calante della tragedia che apre all’indicibile – e nello stesso tempo si allinea alla impronta sconfinata dello scenario, sia pure attraverso un’istanza di negazione -; e procedendo, sulla base di una discesa che rimane scolpita nel suo risalto, e sulla base del paradosso instaurato sul solco delle tradizioni mistiche, che racchiude comunque un massimo di consistenza –  dovuto al volto dell’assoluto, il quale si cela e al contempo si annuncia –, emerge il regno dell’indicibile; ma poi, in un moto di risalita entra nel gioco l’”Assoluto presente”,  che risulta commisto al vuoto dal quale nasce, e al contempo funge da luogo di origine di quanto sussiste nel proprio insieme. E avanzando ancora, si definisce un movimento di ascesa rivolto all’assoluto; e tuttavia questo guadagno è sottoposto al giogo dell’esistenza, e al vano tormento della sua fuga nel tempo: “Si muore nell’istante agognato perché inesistente / In nullità si procede, buio nel buio / per giungere all’assoluto”. L’istante agognato perché inesistente rimanda ad uno scenario speculativo, sfuggendo a ogni richiamo erudito, nel modo più originario e autentico della poesia; ed è in questo istante che possiamo cogliere l’effetto di sottrazione più doloroso; e il movimento di istante in istante che volge verso l’assoluto racchiude l’impronta ascetica più definita – per cui abbiamo il punto di vista mistico, legato alle evidenze drammatiche della rinuncia. E ancora, nel caso di questi versi si definisce la dimensione  dell’umano e del suo limite, che è legata alla “lenta consapevolezza” insita in ogni gesto, e addirittura alla “nullità” del nostro procedere; e questo esito stabilisce uno scarto ben definito rispetto al finale della prosa, che contiene  il riverbero barocco  del raggio, del fasto,  del necrologio e della “forma prossima al silenzio”.

Stabilito questo, si può osservare che la congiuntura di una mescolanza tra l’istanza barocca e la dimensione ascetica – riguardo alla quale, sia sotto il profilo delle risorse espressive che sotto quello degli orizzonti tematici, prevale la prima di queste componenti, secondo una linea formale che si distingue nel modo maggiore rispetto, ad esempio, a un importo ascetico nel cinema come quello di Robert Bresson – mette in gioco un singolare equilibrio, che non può essere riscontrato in uno dei massimi vertici della scultura, come è quello impresso nelle opere del Bernini. Infatti, se consideriamo complessi come quelli dedicati alla Beata Ludovica Albertoni o a Santa Maria Teresa d’Avila, osserviamo il gioco prorompente di una torsione voluttuosa, che attraversa gli eventi ultimativi dell’estasi o della morte  – o di un loro sfolgorante scambio di senso -, mediante le volute contorte che predicano l’esuberanza delle vesti, del marmo, e delle figure straziate dal loro beato tormento e sottoposte a un dolce martirio al cospetto dall’invisibile; e in questi complessi non abbiamo in alcuna maniera l’istanza di sottrazione dovuta al punto di vista ascetico, e la linea di quella purezza che emerge nel lievito dell’ascesi risulta come travolta dall’impeto sensuale, dalla ricchezza dei suoi risvolti e da un macerazione che assorbe la morte oppure il contatto con il Divino nel segno di una eccedenza la quale dischiude, nel proprio fondo, l’esuberanza dovuta a un impulso vitale. E invece, nel libro di Marina Petrillo il risvolto barocco che ne attraversa la voce implacata e il timbro sofferto viene contenuto da un punto di vista metafisico e religioso a suo modo soave e quasi devoto – laddove la devozione non è delineata nei termini di un’angustia di fondo, e nemmeno di un punto di vista confessionale che sia professato nel testo, ma in quelli di un gesto di remissione, che non viene contaminato attraverso il gioco dei sensi, e il suo accento materico.

Ma infine, occorre osservare qualcosa riguardo allo sfondo più strettamente filosofico di questo volume. Il libro non ha la pretesa che può essere avanzata da un saggio teoretico, e a partire da questo presupposto i riferimenti o i rimandi devono essere concepiti dal punto di vista lirico-letterario, o devono essere assunti nei termini di una movenza a carattere evocativo. Così, il richiamo a Dionigi Areopagita risulta la strada maestra, che è in grado di illuminare gli scorci che invece rimandano ad altre figure. E a tale proposito, possiamo considerare una menzione fugace di Gilles Deleuze e di Carmelo Bene – che vengono come assorbiti nella temperie ludica di un delirio (cfr. p. 91). Da questo punto di vista, innanzitutto, per quanto riguarda la figura del Puer, Francesco Solitario rimanda a Carl Gustav Jung piuttosto che al filosofo, il quale si richiama sotto un altro profilo a questa figura; e il rimando risulta opportuno, perché la dottrina junghiana degli archetipi e la sua inflessione vagamente platonica si collocano su un versante contrapposto a quello dell’intento distruttivo di Deleuze – il quale, a differenza di questa dottrina, presenta dei tratti incompatibili con il senso espresso da un pervasivo rimando al principio immortale -; e potremmo dire che il pensiero di questo filosofo sia avverso nel modo più pronunciato a tale rimando. Ma è anche vero che gli approdi paradossali dei punti di vista mistici ed ascetici sono suscettibili di una serie di risonanze  disparate; ed è infatti nel gioco del paradosso secondo cui il massimo di affermazione può essere avvicinato soltanto attraverso la negazione, che è possibile stabilire un incontro fortuito con un pensiero il quale intende abolire questo orizzonte finale, ma affida ad esso una serie di suggestioni che possono essere consumate sotto il profilo di una inversione del loro senso di origine. E per quanto riguarda Carmelo Bene, il discorso risulta analogo; ma a questo proposito, possiamo sottolineare quello che segue. Il teatro, il cinema e soprattutto l’esercizio vocale di Carmelo Bene sono elementi che vengono piegati al punto di vista di un predominio assoluto del significante rispetto al significato o al senso – laddove l’autore di queste intraprese rifiuta non solo il gioco di superficie di ogni significato a carattere positivo, ma anche la dimensione profonda del senso medesimo, che invece è l’alimento e il fermento più sostanziale di questo Indice di immortalità. Ed anzi, potremmo dire che gli strali polemici e devastanti di Bene sono proprio rivolti alla dimensione del senso profondo; laddove, tuttavia, per ironia della sorte, questo gioco di opposizione è temperato dal fatto secondo cui lo scavo dentro i cunicoli vocali della phonè – o del nostro risuono -, nel momento nel quale assorbe una serie di referenti che rendono possibile il gioco attraverso il dominio del loro senso stravolto, acuisce i riverberi di una inedita significazione, che porta con sé, insieme alle scorie verbali ed alla loro resa impellente, quella penombra del senso nella cui sottrazione compiuta potremmo avere soltanto il decesso, privato appunto nel modo più assurdo di quanto intendiamo alludendo alla morte. E sembra che un libro come quello adesso in esame, con la sua singolare ricchezza, sia in grado di presentire l’istanza di una profonda significazione – e quindi di un senso -, quali ingredienti suscettibili di essere ritrovati, in quanto tali – e con una forma e una sostanza diverse che li rivestono -, attraverso il gioco che Bene ha disposto nei suoi scenari; e si deve osservare che tutto questo, del resto, non attenua l’impronta disperata dell’autore, ma la rende possibile. Ma a tale proposito, non è indispensabile condividere il pathos cosmico-religioso di Marina Petrillo, che nei suoi modi, al di là del proprio orizzonte, in ultima analisi offre il suo contributo a chiunque è disposto a mettere fuori gioco le derive più deboli e i risvolti inautentici di punti di vista contemporanei, che sono provvisti comunque del dono di una creazione – il  che non comporta alcuna riserva critica sulla resa artistica di Carmelo Bene, ma riguarda l’implicazione inerente al rapporto tra le sue dichiarazioni di poetica, e una serie di tratti speculativi che appartengono al mondo odierno. 

 

   

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Il cinema del corpo e della coscienza https://www.carmillaonline.com/2017/06/24/il-cinema-del-corpo-e-della-coscienza/ Fri, 23 Jun 2017 22:25:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39035 di Paolo Lago

Paolo Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, Clinamen, Firenze, 2017, pp. 134, € 17, 50

«“Datemi dunque un corpo”: è la formula del capovolgimento filosofico. Il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita» Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2

Il recente, interessante saggio di Paolo Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, uscito per Clinamen, offre un [...]]]> di Paolo Lago

Paolo Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, Clinamen, Firenze, 2017, pp. 134, € 17, 50

«“Datemi dunque un corpo”: è la formula del capovolgimento filosofico. Il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita»
Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2

Il recente, interessante saggio di Paolo Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, uscito per Clinamen, offre un peculiare e inedito sguardo filosofico sul cinema di Pasolini, svolto per mezzo di un’indagine che sulla pagina assume le fascinose movenze di una scrittura avvolgente e sinuosa. Tra l’altro, si deve sottolineare che si tratta di un volume critico che appare esclusivamente incentrato sull’opera di Pasolini, tralasciando del tutto qualsiasi implicazione di carattere biografico (caratteristica positiva sempre più rara nella saggistica dedicata a questo autore). Landi (che, nei suoi precedenti saggi, ha elaborato un punto di vista fenomenologico improntato a una forma di realismo critico) parte dall’assunto che il cinema, secondo una dichiarazione dello stesso Pasolini, può essere concepito nei termini di un’esperienza filosofica. Così, infatti, il regista afferma in una dichiarazione rilasciata a «Filmcritica» nel 1967: «Il cinema non è solo un’esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica». Perciò, nel cinema di Pasolini, al procedimento estetico-artistico è sotteso un solido ordine filosofico, che l’autore indaga per mezzo di una speculazione che ha alla sua base una personale adozione di alcuni elementi della concezione di Husserl. Nell’Introduzione al suo suggestivo volume, Paolo Landi precisa che la sfera del soggetto concerne l’ambito della coscienza e quello del corpo, mentre la dimensione del mondo «riguarda l’ambiente al quale tali elementi sono coordinati» (p. 11).

Se in un film come Teorema (1968) i connotati antropologici di un universo borghese vengono rivestiti di significato sociale, politico ed esistenziale, e su di essi si staglia la morsa violenta di una inesorabile chiusura, rappresa nel destino che investe i protagonisti, Il vangelo secondo Matteo (1964) si colloca su un versante opposto. In esso, una pienezza d’essere e un’avvolgente apertura sono delineate nella stessa figura del Cristo, «assoluto protagonista, la cui figura sovrana confina appunto con l’assoluto che è proprio del monoteismo cristiano» (p. 15). Un ulteriore versante cinematografico è poi offerto, nell’analisi messa a punto da Landi, dai film ispirati alla tragedia antica: in Edipo re (1967) e in Medea (1969) «le reliquie e le effigi della tragedia antica […] emergono come espressioni di un mondo arcaico o di una temperie classica remota e ai confini dell’arcaismo; e in essi abbiamo una sorta di dimensione intermedia fra il rigore della chiusura che si registra in Teorema, e l’ipoteca del gesto liberatorio che viene tracciata nel lirismo del Vangelo» (ibid.).

Quello di Pasolini, secondo Landi, è «un cinema del corpo e della coscienza» (p. 40). Esso assume una pregnante dimensione ‘corporea’ in virtù dell’uso della macchina da presa a mano, procedimento spesso utilizzato dal regista. Ad esempio, una significativa dimensione del corpo emerge nelle immagini, riprese da una macchina a mano che vibra e pulsa insieme ad esse (come vibra e pulsa il corpo dello stesso regista), che in Edipo re mostrano la lotta del protagonista con il re-padre e la sua scorta: i corpi sembrano in contatto con le energie della terra, «stabilendo un legame con i convulsi che un tempo ha animato l’uomo delle caverne» (p. 41) e con una dimensione ferina. Nello stesso film, la dimensione del corpo emerge anche nel momento in cui l’oracolo formula la sua profezia «per mezzo di una voce che sembra estratta dai più profondi recessi del sottosuolo» (ibid.). La dimensione della coscienza emerge invece nel momento in cui Edipo, dopo aver ricevuto il vaticinio sul suo destino, per evitare l’orrore dell’unione con la madre e dell’uccisione del padre, «ruota rispetto a se stesso, in modo da non cogliere la direzione che intraprenderà in seguito» (p. 42).

In Accattone (1961), invece, la dimensione della coscienza avverte una vera e propria estraniazione rispetto alle dinamiche storico-civili, mentre il protagonista è abbandonato nel limbo di una emarginazione che si srotola lungo le strade delle borgate in significative movenze di carattere picaresco.

Nel cinema di Pasolini assume poi un particolare rilievo la parola. Nel Vangelo si staglia alta la parola della predicazione del Cristo, intesa come Logos evangelico. Essa è quasi l’articolazione sonora della coscienza del personaggio, un’appendice del corpo che assume i contorni netti e scanditi di un verbo che, improvvisamente, si è fatto ‘carne’. La voce del protagonista è perciò la rappresentazione fonica di quella liberazione e di quella apertura che aleggiano sulle immagini del film. Insieme alla parola è inoltre di importanza fondamentale il silenzio. In Teorema il silenzio incombe sui personaggi borghesi come l’oscuro sovvertimento erotico condotto dal demonico Ospite, e sempre il silenzio scandisce «la crisi senza ritorno dell’io avvinto alla propria condanna» (p. 60).

Se la dimensione del soggetto è legata alla coscienza e al corpo dei personaggi, quella del mondo può essere concepita come lo spazio nel quale si colloca l’esistenza di quegli stessi personaggi. Nel prologo e nell’epilogo di Edipo re il mondo è rappresentato dagli scorci paesaggistici del Nord Italia nei quali si sviluppa un’apertura e una forza vitale data dalle immagini delle fronde degli alberi. Anche nel prologo di Medea emerge in modo significativo la dimensione del mondo, per mezzo delle immagini vellutate che mostrano il Centauro e Giasone bambino immersi nella natura – solcata dalla parola mitica del Centauro – la quale assume poi, nell’ottica pasoliniana, una dimensione sacrale e antinaturalistica.

Il saggio di Paolo Landi offre poi dei momenti di analisi comparata con altri registi: Ėjzenštejn, De Oliveira e, nell’ambito del modello della tragedia, Robert Bresson e Lars von Trier. In Mamma Roma (1962) la componente tragica accompagna l’esistenza del protagonista del film, la quale si dipana nelle forme di un’epica «primordiale» dei diseredati e degli sbandati entro lo spazio occludente di una terribile impotenza ad agire, la quale condurrà il personaggio all’orrore della prigionia sul letto di contenzione. L’egoismo malvagio dell’essere umano che infierisce su una vittima innocente fino ad assumere risvolti tragici si può riscontrare anche in Au hasard Balthasar (1966) di Bresson: l’asino protagonista, in un vortice picaresco di avventure, è precipitato nel chiuso orizzonte di un mondo che ne determina le atroci sofferenze. L’autore del saggio individua inoltre alcune somiglianze tra Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996) di von Trier e Edipo re. Nel film di von Trier, una giovane donna cerca di trattenere presso di sé il marito costretto alla lontananza dalle necessità del lavoro; il suo oggetto d’amore viene poi ricondotto presso di sé al prezzo letale di un incidente il quale, dopo un periodo di infermità, porta il marito alla morte. Edipo, invece, per mezzo della volontaria perdita di orientamento, vorrebbe allontanarsi il più possibile dalle circostanze della profezia mentre invece si spinge proprio nel centro della consumazione della propria tragedia. Allora, conclude Landi: «Ciò posto, si deve ribadire che in entrambe le circostanze, accade appunto che il personaggio impegnato nell’intrapresa incorra nell’esito di mettere in gioco quello che intende rimuovere, con le stesse movenze che dovrebbero conseguire l’obiettivo contrario» (p. 110).

La dimensione del «mondo» assume inoltre una dinamica simile in Teorema e in Porcile (1969): in entrambi i film abbiamo lo spazio dell’ordine ‘geometrico’ di una villa che entra in contrapposizione con quello ‘magmatico’ e ‘ferino’ delle pendici del vulcano. Se nel primo film quest’ultimo appare a tratti come la prefigurazione di un inquietante omen che si svela alla fine, uno spazio percorso dal corpo nella dimensione dirompente della nudità, in Porcile l’ambiente ‘corporeo’ delle pendici dell’Etna è un vero e proprio mondo narrativo che si alterna con quello ‘borghese’ della villa di Godesberg. In entrambi gli spazi le sembianze dell’arte e dell’armonia, offerte dalle immagini patinate degli ambienti borghesi, entrano in sinergia con l’immagine oscura e magmatica del vulcano, anch’essa non immune da suggestioni di bellezza e armonia.

L’interessante saggio di Paolo Landi si conclude con un’analisi dei tipi d’immagine dei vari film: in essi, infatti, le immagini stesse sono fruibili dallo spettatore come espressioni di carattere estetico-artistico. Se in Accattone e Mamma Roma è presente un importante afflato epico e tragico che fa agire i personaggi nel contesto della strada e della periferia come all’interno di tragedie antiche in abiti contemporanei, in Uccellacci e uccellini (1966) il viaggio lungo la strada assume un preponderante significato simbolico. Lo sfondo teatrale appare quindi prevalente nei film ispirati al mondo antico, uno sfondo sul quale alta si staglia una parola oracolare ed oscura. In Teorema, poi, l’aspetto speculativo del cinema di Pasolini raggiunge il suo apice: ed è forse qui che il cinema del corpo e della coscienza trova la sua più compiuta e inesorabile espressione.

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