Paolo Gobetti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 22 Oct 2025 20:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il reale delle/nelle immagini. Leggere Kracauer nell’era digitale https://www.carmillaonline.com/2024/11/05/il-reale-delle-nelle-immagini-leggere-kracauer-nellera-digitale/ Tue, 05 Nov 2024 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85147 di Gioacchino Toni

Leonardo Quaresima, La realtà, esiste? Leggere Kracauer nell’era digitale, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 114, € 12,00

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, tra gli studiosi di cinema si è palesato un rinnovato interesse per l’opera, soprattutto “pre-americana”, di Siegfried Kracauer (1889-1966), sociologo, teorico del cinema e scrittore tedesco, naturalizzato statunitense, che ha indagato i fenomeni culturali propri della società moderna focalizzandosi sul cinema. A confermare la ripresa di interesse nei confronti di Kracauer, è la ripubblicazione in Italia, nel 2022, dopo due decenni di oblio, del suo Teoria del Cinema. La redenzione della realtà fisica (Cue [...]]]> di Gioacchino Toni

Leonardo Quaresima, La realtà, esiste? Leggere Kracauer nell’era digitale, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 114, € 12,00

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, tra gli studiosi di cinema si è palesato un rinnovato interesse per l’opera, soprattutto “pre-americana”, di Siegfried Kracauer (1889-1966), sociologo, teorico del cinema e scrittore tedesco, naturalizzato statunitense, che ha indagato i fenomeni culturali propri della società moderna focalizzandosi sul cinema. A confermare la ripresa di interesse nei confronti di Kracauer, è la ripubblicazione in Italia, nel 2022, dopo due decenni di oblio, del suo Teoria del Cinema. La redenzione della realtà fisica (Cue Press, 2022), tradotto da Paolo Gobetti e curato da Leonardo Quaresima, testo uscito originariamente in lingua inglese nel 1960 e pubblicato per la prima volta in italiano da Il Saggiatore nel 1962.

È in tale contesto di rinnovato interesse per lo studioso tedesco che Leonardo Quaresima, con il suo La realtà, esiste? Leggere Kracauer nell’era digitale (Mimesis, 2024), si propone di esaminarne il “saggio dimenticato” – o, forse, sarebbe meglio dire frettolosamente “rimosso” – rapportandolo con la produzione degli anni Venti ed in particolare con un suo scritto sulla fotografia del 1927 contenuto nella raccolta Das Ornament der Masse (1962), anche questa recentemente ripubblicata in lingua italiana (La massa come ornamento, Cue Press, 2023) con traduzione di Maria Giovanna Amirante Pappalardo e Prefazione di Emiliano Morreale.

La prima pubblicazione in Italia di Theory of film. The redemption of physical reality, agli inizi degli anni Sessanta, era corredata da un’ampia introduzione di Guido Aristarco che ne metteva dapprima in risalto analogie con la concezione zavattiniana del cinema per poi estendere l’idea di realismo che ravvisava nel testo del tedesco alla produzione cinematografica allora contemporanea e alla nozione di “cinema d’autore” in auge all’epoca.

A differenza di quanto era accaduto per il volume From Caligari to Hitler. A psychological history of the German film (1947), a livello internazionale, soprattutto nei paesi anglosassoni, Theory of film è stato considerato un testo incapace di relazionarsi con con il dibattito culturale e teorico e con le nouvelles vagues del periodo. Anche in Germania, a partire dalla rivista “Filmkritik”, l’accoglienza è stata negativa sia sul versante della critica che dei cineasti.

Un’importante tappa del lavoro di storicizzazione dell’opera di Kracauer, ricorda Quaresima, si deve alla grande mostra del Deutsches Literaturarchiv di Marbach am Neckar organizzata nel corso del centenario della nascita dello studioso tedesco, iniziativa che ha contribuito allo studio dell’opera di Kracauer da parte di nuove generazioni di studiosi. A Miriam Hansen, ad esempio, si devono importanti approfondimenti circa il rapporto tra Teoria del cinema e l’attività critica e saggistica di Kracauer nel periodo weimariano.

Kracauer sembra ammettere il cinema narrativo soltanto fino a quando questo asseconda le proprietà ontologiche del mezzo, finché è capace di restituire un’illusione della realtà, mentre a proposito del cinema documentario palesa una posizione decisamente articolata e complessa, tanto che a proposito dei “film di fatti” ragiona sul loro non esplorare l’intera realtà fisica. Kracauer, come André Bazin (Qu’est-ce que le cinéma, 1958), propone una lettura ontologica del cinema, convinto che in ciò risieda la sua “natura specifica” derivata “dalle qualità fotografiche” presenti in esso. Il rapporto con la realtà resta per il tedesco il fondamento della specificità della fotografia e del cinema.

Riprendendo gli studi di Claudia Krebs (Sur le roman «Ginster», ou de Siegfried Kracauer, 2001), Quaresima sottolinea l’importanza dei romanzi di Kracauer Ginster (1928) e Georg (1934) per la genesi del suo saggio sul cinema. In ambito letterario Kracauer opta per l’anonimato, cosa per lui consueta negli anni weimariani, inoltre non manca di riprendere l’esperienza espressionista pur criticandola per l’eccesso di soggettività. Ad essa riconosce però il merito di aver fatto della città un oggetto poetico, non a caso in Theory of film l’esperienza della città assume notevole importanza.

«Nel 1960, nel pieno del trionfo della nozione d’autore e della nozione di stile, inteso, quest’ultimo, come espressione della presenza e operatività del primo, Teoria del cinema propone un impianto che non è fondato sulla nozione d’autore, e non è fondato sulla nozione di stile. Di qui le valutazioni di anacronismo» (p. 46). Contestualizzato il rifiuto di allora, Quaresima riflette su come si possa guardare al testo di Kracauer oggi, quando ormai ad essere andata in crisi è quella stessa radicale nozione di autore (proposta, tra gli altri, da Roland Barthes) che, allora, condannava all’oblio lo scritto del tedesco.

Teoria del cinema non è un saggio sulla nozione di realismo in generale […], ma una teoria materialista del cinema. La formulazione non avviene a partire da una disputa ideologica, e un ruolo decisivo non è neppure giocato dalla concezione ontologica del nuovo mezzo: parte dalla individuazione di un residuo duro, grezzo, non addomesticabile dai sistemi di produzione e rappresentazione, un nocciolo che resiste, sopravvive loro e possiede una “vitalità”, una capacità di significazione ed espressione, inesauribile. (Che neppure il moderno universo digitale e virtuale, aggiungo, sembra in grado di ammansire e vanificare). Tanto meno risulta addomesticabile da ogni pretesa di rifunzionalizzazione e riordino in chiave estetica. […] “Un ‘buon film’ non dovrebbe aspirare all’autonomia di un’opera d’arte, ma ‘contenere errori, come la vita, come la gente’” [scrive, riprendendo Federico Fellini, Kracauer in Teoria del cinema]. (Un’esperienza di realtà aumentata senza errori, mi permetto ancora di aggiungere, si limiterebbe a farci entrare in un universo, il più affascinante, il più coinvolgente, ma non in quello della vita) (p. 78).

Dunque, al di là del piano storiografico, di una sistematizzazione delle “teorie classiche” sul cinema, cosa ha ancora da dirci oggi Teoria del cinema, in un contesto di digitalizzazione delle immagini? Per rispondere a questo interrogativo Quaresima parte dalle riflessioni più avanzate circa lo sviluppo e la teorizzazione del cinema moderno, al culmine dell’era analogica nel momento in cui ci si è trovati a fare i conti con la svolta digitale e con la dissoluzione dell’aura di cui godeva nella lunga stagione della cinefilia. Jean-Louis Comolli ha sottolineato come il digitale, con la sua perfezione offra una “falsa trasparenza assoluta”, in cui “la materia si dissolve nei numeri” proponendosi ai soggetti in maniera individuale.

Tra i cineasti che hanno messo in risalto la fine del cinema così come lo si è conosciuto nell’era analogica, Quaresima cita, come esempi, David Lynch (“Il cosiddetto film che si guarda in un telefonino è semplicemente un alieno”), Peter Greenaway (il cinema è morto “quando il telecomando è stato introdotto in salotto”) e Jean-Luc Godard – autori che hanno saputo evitare di rifugiarsi nella nostalgia confrontandosi con le possibilità offerte dal digitale – o lo stesso Chris Marker (“In televisione vediamo l’ombra di un film, il rimpianto di un film, la nostalgia e l’eco di un film, ma mai un film”), mentre tra gli studiosi, oltre a Comolli, fa riferimento a Raymond Bellour (“Il cinema è dappertutto, compresa l’arte contemporanea, ma non è cinema” ed a Jacques Aumont (“Ogni presentazione di film che mi lascia libero di interrompere o di modulare questa esperienza non è cinematografica”).

Tra coloro che hanno interpretato in altro modo la svolta digitale Quaresima ricorda Philippe Dubois: oggi “il cinema è più vivo che mai, più sfaccettato, più intenso, più onnipresente di quanto non lo sia mai stato”; “Qualunque immagine in movimento, qualunque sia la sua forma è parte integrante del medium cinema”; “La pellicola non è più il criterio, né la sala, né l’unico schermo, né la proiezione, e neppure gli spettatori. Oui, c’est du cinéma. Un cinema dai mille luoghi. Cinema al di fuori della ‘Legge’. Selvaggio, deregolato, proliferante ben altro che in via di scomparire”; “la pellicola scompare, ma il cinema persiste, perché la supremazia dell’immagine e dei processi digitali di post-produzione non hanno inciso in modo significativo sulle regole narrative tipiche del film di finzione.”

André Gaudreault e Philippe Marion (La Fin du cinéma. La résilience d’un media à l’ère du numérique, 2023) guardano invece al digitale come ad una sorta di ennesima rinascita del cinema «coincidente con una nuova ricerca di identità, ma che tuttavia, nella intermedialità e integratività che la caratterizza, comporta un “ritorno alla porosità, al pot-pourri, alla ibridazione, alla fertilizzazione incrociata, di cui il medium è intriso nella sua prima nascita”» (p. 88). David Norman Rodowick (The Virtual Life of Film, 2007) vede in Theory of film di Kracauer uno egli ultimi grandi lavori della “teoria classica” del cinema che si può proiettare al futuro più che al passato.

Quaresima riprende la questione dell’indexicalità, su cui si fondano tanto la fotografia quanto il cinema, che con la svolta digitale sembra venir meno. Dalla registrazione della realtà si passerebbe alla sua ricostruzione, il legame con il referente tenderebbe a dissolversi in favore di quello che (nell’introduzione di Theory of film di Kracauer) Miriam Hansen definisce il “regno della simulazione”. «Fiumi di inchiostro sono stati versati su questa nuova, artificiale, sintetica, qualità dell’immagine elettronica» (p. 89), ma Quaresima si dice convinto che tale certezza circa la perdita del legame con il referente possa essere messa in discussione, come del resto hanno fatto, tra gli altri, Mary Ann Doane (The Emergence of Cinematic Time: Modernity, Contingency, the Archive, 2002), Temenuga Trifonova (Archiving Time in the Post-Modern Condition, 2011), Marc Furstenau e Martin Lefebvre (Digital Editing and Montage. The Vanishing Celluloid and beyond, 2002).

Indipendentemente dai processi di generazione, resta il fatto che il visibile dell’immagine digitale è quanto di più realistico sia oggi possibile. «Presenta universi implicitamente (perché ricostruiti numericamente), e anche esplicitamente, fantastici, ma ce li sottopone alla percezione come universi coerenti, dettagliati, dalla evidenza fisica, costruiti per produrre gli stessi effetti percettivi di un’immagine reale (nella sua riproduzione fotografica, diciamo)» (p. 90). Dunque, scrive Quaresima, «Il digitale trasforma il fantastico in realtà “materiale”. Anche in una prospettiva essenzialista, se facciamo riferimento al modo di esistenza percettivo delle immagini in questione, restano in vigore tutte le qualità del film analogico» (p. 90).

Lutz Koepenick (In Kracauer’s Shadow: Physical Reality and the Digital Afterlife of the Photographic Image, 2012) sottolinea come la svolta digitale non comprometta affatto l’attualità della teoria fotografica proposta da Kracauer e, scrive Quaresima, contesta «l’idea di una “rottura con l’indexicalità” dell’immagine digitale, facendo riferimento al ruolo della luce che colpisce la superficie sensibile, all’inclusione del corpo del fotografo, e a una valutazione delle manipolazioni, rese possibile dal software, non diverse da quelle realizzabili nella camera oscura» (p. 90).

Certo, le immagini digitali possono falsificare il reale, come del resto poteva fare, ed ha fatto, la fotografia convenzionale, “ma nel momento in cui falsificano il reale, inventando nature alternative e allontanando gli osservatori da vedute preconcette, anche le immagini digitali fanno riferimento a nient’altro che la nostra fondamentale aspirazione a forme indeterminate di esperienza percettiva e corporea, aspirazione a ciò che è materiale e sensibile – e lo fanno in maniera forse più forte di quanto mai avesse fatto l’immagine analogica” (Lutz Koepenick, In Kracauer’s Shadow, cit.). Se è pur vero che la fotografia digitale “disintegra il corpo della realtà in reti di pixel”, continua Koepenick, “tuttavia i pixel non sono solo codici astratti o rappresentazioni immateriali di set di numeri. Essi, a loro volta, hanno un corpo, e in questo modo sono legati proprio alla realtà che evocano. Occorre partire dalla presa d’atto che le immagini fotografiche, digitali o no, portano con sé una certa promessa di tocco e contatto fisico, e segretamente contestano la totale dematerializzazione della natura e l’inquadramento scientifico della realtà fisica”

Nell’ultima parte del volume, Quaresima si sofferma sul significato che si può attribuire al termine “redenzione” presente nel sottotitolo (The redemption of physical reality) di Theory of film di Kracauer. In prima battuta si potrebbe affermare che «il cinema redime la realtà fisica, cioè permette alla realtà di manifestarsi attraverso la macchina da presa, realtà altrimenti come annebbiata, offuscata» (p. 94). Insomma, analogamente a quando riteneva Walter Benjamin (L’opera d‘arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica), anche Kracauer sembrerebbe pensare alla capacità del film di svelare aspetti della realtà altrimenti preclusi agli occhi; su ciò Quaresima riporta, come esempi, gli studi di Graeme Gilloch (Siegfried Kracauer. Our Companion in Misfortune, 2015) e Gertrud Koch (Siegfried Kracauer. Zur Einführung, 1996).

Theory of film è stato anche inteso come precursore della “filosofia del cinema” e nello specifico del tema della “redenzione”, riferimenti diretti, secondo Drehli Robnik (Among Other Things – a Miraculous Realist, 2012), si possono individuare in Gilles Deleuze (L’Image-temps, 1985) e Jacques Rancière (La Fable cinématographique, 2006). Quaresima evidenzia come in Kracauer il processo di redenzione della realtà fisica sembri derivare da presupposti teologico-messianici, dal desiderio di riscattare l’esistenza materiale dall’astrazione provocata dal processo di razionalizzazione del mondo.

Che Teoria del cinema non sia un testo semplicistico, come a lungo e diffusamente è stato ritenuto, risulta evidente soprattutto nella lettura dell’Epilogo e, scrive Quaresima, non lo è a maggior ragione in un periodo come quello contemporaneo

in cui l’immagine in movimento regna sovrana, e ben al di là dell’ambito della comunicazione e dell’“intrattenimento”, sorta di iconosfera che avvolge e permea la nostra esistenza. Il cinema, ciò che dell’immagine in movimento conserva la vitalità e la operatività del cinema, quello che “sì, è cinema”, esercita pienamente e trionfalmente la stessa funzione di redenzione della realtà. Nel continuum visivo, un’installazione ci tocca nel profondo, una serie ci turba e mette in discussione, un videoclip fa scattare una scintilla, un film (ne esistono ancora, certo, anche se per lo più fuori dal dispositivo classico – sullo schienale del sedile di un treno o di un aereo, quotidianamente dai nostri dispositivi “intelligenti”); un film investe il nostro inconscio ottico, un’esperienza di realtà virtuale ci fa entrare in vibrazione, fa scattare le nostre risposte psicofisiche, ci riporta a contatto con ciò che l’immagine digitale ha tutt’altro che archiviato in un’epoca ormai passata. Quella “cosa”, quelle “cose” possiamo chiamarle “realtà fisica”. Le immagini salvano ciò che ci circonda e la nostra esistenza. La redenzione è una riattribuzione di parola. Redimere la realtà significa riportarla a una esistenza non funzionale, non simbolica, ma “letterale”, “materiale” (p. 101).

Ci si è chiesti se, dopo una tragedia come quella dei campi di sterminio nazisti, esista ancora il cinema, se cioè il cinema possa far “aprire gli occhi” consentendo di guardare l’orrore e di redimerlo dall’invisibilità. Kracauer non segue il convincimento di Bazin che riteneva la morte irrappresentabile sullo schermo ma, conclude Quaresima, «Che si propenda per la linea Bazin o per quella dello studioso tedesco, è qui, anche, che si misura la possibile attualità di Kracauer, la capacità o meno del suo pensiero di interagire, in profondità e fruttuosamente, con l’universo attuale delle immagini in movimento» (p. 107).


Il reale delle/nelle immagini – serie completa

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Breve storia del cinema militante https://www.carmillaonline.com/2023/11/17/breve-storia-del-cinema-militante/ Fri, 17 Nov 2023 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79688 di Gioacchino Toni

«La storia del cinema militante è legata alla storia dei movimenti di opposizione. Dalla sua rinascita lenta (dagli inizi degli anni Sessanta alla sua fioritura nel 1968), ha riguardato, in Italia come altrove, la nuova sinistra e non la sinistra tradizionale». Così scrive Goffredo Fofi, Breve storia del cinema militante (elèuthera 2023), sottolineando come la storia del cinema militante coincida in buona parte con quella intensa “stagione dei movimenti” che ha abbracciato gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.

Se fino al ’68 in Francia e in Italia si hanno opere documentarie a carattere politico-sociale derivate dalla tradizione [...]]]> di Gioacchino Toni

«La storia del cinema militante è legata alla storia dei movimenti di opposizione. Dalla sua rinascita lenta (dagli inizi degli anni Sessanta alla sua fioritura nel 1968), ha riguardato, in Italia come altrove, la nuova sinistra e non la sinistra tradizionale». Così scrive Goffredo Fofi, Breve storia del cinema militante (elèuthera 2023), sottolineando come la storia del cinema militante coincida in buona parte con quella intensa “stagione dei movimenti” che ha abbracciato gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.

Se fino al ’68 in Francia e in Italia si hanno opere documentarie a carattere politico-sociale derivate dalla tradizione del Fronte Popolare, della Resistenza o di matrice neorealista, esiste anche «un passato del cinema militante legato ai grandi momenti di riscossa proletaria e all’emergere dei conflitti di classe in modi più radicali». Si pensi, ad esempio, alle sperimentazioni sovietiche e weimariane che hanno saputo riprendere i linguaggi dei movimenti di avanguardia. L’abbandono della vena avanguardista operata dal cinema ha comportato una sorta di “ritorno all’ordine” che lo ha visto normalizzare i suoi canoni linguistici e attenuare la sua spinta eversiva.

Una rottura che, sostiene Fofi, nella stagione dei movimenti è stata addirittura approfondita dal cinema militante salvo poche eccezioni come i francesi Jean-Luc Godard e Chris Marker, l’argentino Fernando Solanas, lo statunitense Emile de Antonio che hanno saputo fare i conti con la presenza dei mezzi di comunicazione di massa che si sono sviluppati in Germania, in Unione Sovietica e negli Stati Uniti nel corso degli anni Trenta come strumenti privilegiati della manipolazione del consenso.

Quali che siano le soluzioni cui questi registi cercano di rifarsi (rifiuto o uso rovesciato dei linguaggi dei massmedia), è con i loro linguaggi e non con quelli delle minoranze artistiche rivoluzionarie (sia pure solo nelle forme) che essi perlopiù si confrontano. Più in generale, si può affermare che se di influenze definibili come “d’avanguardia” si può trattare per il miglior cinema militante dei nostri anni, esse vengono dal cinema stesso (le nouvelles vagues; il cinema-verità; il documentario televisivo; nel caso francese anche Alain Resnais).

Oltre a ricordare che vi è stato anche un cinema militante di destra – si pensi al ricorso al linguaggio cinematografico fascista, nazista e da parte del regime di Vichy in Francia –, Fofi invita a prendere atto di come dal punto di vista formale si riscontrino evidenti analogie nelle cinematografie votate all’indottrinamento al di là dei contenuti e dei messaggi di segno diverso. Linguaggi che intendono «indottrinare e non spiegare, commuovere e non far ragionare, esaltare ma non far riflettere» si ritrovano tanto in opere smaccatamente propagandiste quanto di descrizione e polemica sociale.

Sul versante italiano, tra i pochi esempi che nel corso degli anni Sessanta hanno anticipato le produzioni cinematografiche più strettamente militanti sorte attorno al ’68, Fofi ricorda Scioperi a Torino (1962) di Paolo e Carla Gobetti, con commento di Franco Fortini, ove si documenta lo sciopero alla Lancia, un episodio che contribuirà a dare il via a un nuovo e radicale ciclo di lotte operaie in Italia.

In ambito francese il cinema militante sorto attorno al ’68 può contare su di una scena cinematografica molto vitale e innovativa già a partire dalla fine degli anni Cinquanta e contraddistinta non solo dalla nouvelle vague dei “Cahiers du cinéma” con registi come Jean-Luc Godard, François Truffaut, Claude Chabrol, Jacques Rivette, Éric Rohmer, ma anche dalle opere di autori come Alain Resnais, Chris Marker, Agnès Varda, Alain Robbe-Grillet e Marguerite Duras.

l festival di Cannes e di Pesaro del 1968 si rivelano momenti di acceso dibattito a proposito del significato da attribuire al cinema che si vuole militante e delle forme con cui dovrebbe essere realizzato. Se in Francia il cinema militante trova le sue strade in esperienze come quelle dei cinétracts, i “film-volantino”, e nel ricorso al 16 mm per riprendere le lotte, in Italia nascono esperienze come quella del Collettivo Cinema Militante (CCM) vicino alla nuova sinistra o del gruppo dell’ANAC e dei cinegiornali liberi, attorno rispettivamente a Francesco Maselli e a Cesare Zavattini, più legati al PCI. Parallelamente a tali esperienze, intellettuali e autori come Marco Bellocchio, Lou Castel, Mario Schifano e Francesco Leonetti si prestano a supportare l’attività di qualche neonato gruppo politico realizzando però «operazioni agiografiche, colorate alla moda cinese» che, secondo Fofi, «è gran bene dimenticare» .

Il cinema militante italiano perde di autonomia prima ancora di riuscire ad affermare una sua fisionomia. La sua funzione, passata e presente, sembra essere stata soltanto quella di aver costituito un enorme archivio delle lotte di quegli anni, che aspetta ancora chi sappia utilizzarlo in grandi operazioni di sintesi, lasciando per il momento che a saccheggiarlo sia la tv. Manifestazioni, scontri, interviste; manifestazioni, scontri, interviste… Il cinema militante italiano non contiene molto d’altro, né è riuscito a filmare manifestazioni e scontri e interviste in modo diverso da quello della tv. Quando ha tentato l’inchiesta (con alcuni film di fabbrica) non è mai riuscito ad andare oltre la superficie del medio giornalismo televisivo.

In ambito francese, la diversa matrice culturale e l’esperienza cinematografica dei suoi autori, tra cui spiccano Marker e Godard, ha invece, sostiene Fofi, permesso modalità di cinema militante decisamente più interessanti. Tra le esperienze più importanti tese anche a sperimentazioni linguistiche l’autore cita quelle del godardiano “Dziga Vertov” di ispirazione “filocinese”, del markeriano “SLON” (Service de Lancement des OEuvres Nouvelles), divenuto nel 1974 ISKRA, (Image, Son, Kinescope et Réalisations Audiovisuelles), più aperto nei confronti dei sindacati e della sinistra tradizionale, del “Medvedkin”, anche in questo caso ispirato da Marker, composto da operai di Besançon attorno a Pol Cèbe e del “Dynadia” legato al Partito comunista francese.

Il cinema militante, sostiene Fofi, ha avuto senso ove, pur magari formandosi attorno a un autore centrale, ha saputo essere collettivo mantenendo una sua autonomia di ricerca rispetto ai partiti e ai partitini al di là delle vicinanze ed ove ha saputo stabilire un rapporto con i suoi destinatari rivolgendosi non solo ai “già convinti”.

Potrebbero essere definiti “militanti”, o almeno avevano l’intenzione di esserlo, anche diversi film di Werner Herzog, Pedro Pinho, Emir Kusturica, Michael Moore, opere di finzione di finzione di Paul Schrader, Scott Z. Burns, Galder Gaztelu-Urrutia e Spike Lee, o film di inchiesta di Alex Gibney, Charles Ferguson, Steven Bognar, Julia Reichert, Joshua Oppenheimer, Rithy Panh, Alice Rohrwacher, Pietro Marcello, Stefano Savona, Gianfranco Pannone e Francesco Munzi.

L’ultima parte del volume si concentra su alcuni esempi di cinema militante: Dziga Vertov; Miseria dell’immaginario e necessità dell’inchiesta; Per un cinema impietoso; Il Vietnam di Chris Marker; Solanas, Getino e il cinema didattico; Frederick Wiseman; Robert Kramer; La Woodstock di Michael Wadleigh; Ettore Scola; Bellocchio & Co.; Jean-Luc Godard.

Tra contraddizioni, ternativi maldestri o addomesticati, linguaggi troppo accondiscendenti o sperimentazioni a volte fine a sé stesse, legami sinceri o “alla moda” con movimenti di lotta, il cinema militante ha una sua storia importante che vale la pena indagare, criticare e supportare anche in vista dell’oggi e del domani.

Fermo sull’idea che ai film che si vogliono politici occorre dare un giudizio politico, Fofi ha ricostruito la storia del cinema militante con spirito altrettanto militante: «Lunga vita al cinema militante! In tutte le sue forme e se mosso da finalità che non possiamo chiamare altro che “libertarie” e “socialiste”».

 

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Il dovere di non collaborare https://www.carmillaonline.com/2017/05/06/dovere-non-collaborare/ Fri, 05 May 2017 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37782 di Fabrizio Salmoni

Polito non collaborare Pietro Polito, Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza, con Prefazione di Paolo Borgna, Ed. Seb 27, 2017, pp.184, € 15

Ho letto con grande commozione questo lavoro di riflessione di Pietro Polito (che io chiamo affettuosamente “vice-Bobbio” perché ha assistito il filosofo torinese nei suoi ultimi anni curandone il trasferimento dell’archivio personale al Centro Studi Piero Gobetti di cui è attualmente direttore) poiché coinvolge un numero di persone che ho avuto la fortuna di conoscere o frequentare fin dagli anni della mia infanzia e adolescenza. Oltre a una in [...]]]> di Fabrizio Salmoni

Polito non collaborare Pietro Polito, Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza, con Prefazione di Paolo Borgna, Ed. Seb 27, 2017, pp.184, € 15

Ho letto con grande commozione questo lavoro di riflessione di Pietro Polito (che io chiamo affettuosamente “vice-Bobbio” perché ha assistito il filosofo torinese nei suoi ultimi anni curandone il trasferimento dell’archivio personale al Centro Studi Piero Gobetti di cui è attualmente direttore) poiché coinvolge un numero di persone che ho avuto la fortuna di conoscere o frequentare fin dagli anni della mia infanzia e adolescenza. Oltre a una in particolare, Bianca Guidetti Serra che era mia madre. Mi riferisco soprattutto alla famiglia Gobetti con cui sono cresciuto e che considero la mia seconda famiglia “storica”. Bobbio, Antonicelli, Galante Garrone come anche Giorgio Agosti, Massimo Mila e tanti altri sono state presenze costanti nell’ambiente partigiano in cui mi sono formato, persone che, senza neanche accorgermene, ho ammirato e amato perché erano un tutt’uno con la mia famiglia, di fatto una famiglia “estesa”.

Da loro ho saputo e capito precocemente cos’erano stati il fascismo e la Resistenza, da loro ho assorbito anche indirettamente idee, principi, ragionamenti, comportamenti. Quanto io sia stato capace di interpretarli non so dirlo, ma so che un libro come questo, pur nella sua ardita impostazione, ne celebra in qualche misura pensiero e azione. E ci fa sentire la loro mancanza come figure-guida da prendere a esempio e riferimento nella confusione dominante dell’oggi, sempre più difficile da interpretare e da vivere con coerenza.

Dico ardita impostazione per l’intento di stabilire, a partire dal solido retroterra teorico di Piero Gobetti e di Bobbio, un collegamento omogeneo tra partigiani combattenti, partigiani-intellettuali e importanti teorici della nonviolenza come Capitini, Dolci, don Milani, Caffi, Guido Calogero. Se un filo diretto ideale appare innegabile sul tema dell’ antifascismo e del generico anti-autoritarismo riesce tuttavia difficile pensare uniti nello stesso afflato per esempio un Paolo Gobetti e un Pasolini, che pure furono contemporanei. Questo paradosso, poiché è tale, ve lo assicuro, suggerirebbe piuttosto due piani separati magari parzialmente sovrapposti su cui distribuire i prescelti invece che su una linea di continuità che Polito, da antifascista-intellettuale-nonviolento, sembra indicare sin dal sottotitolo

Per il profano il primo punto di distinzione non può essere che la valutazione sulle scelte: combattere o non collaborare. Ebbero o avrebbero potuto avere lo stesso peso nello stesso contesto storico in funzione della vittoria? Certamente il combattere e il non collaborare furono complementari ma senza la scelta della lotta armata l’esito sarebbe stato lo stesso? Persino Capitini che scelse di non combattere per dissenso sul metodo, sembra dire di no ammettendo a posteriori “l’idea assolutamente immatura” e dichiarandosi sconfitto non ovviamente sul piano morale, ma sul piano pratico, per non aver saputo costruire una forza di gruppi nonviolenti.

Un secondo elemento cruciale, inevitabile per una postuma discussione sulla consistenza delle scelte è la politica, nella sua magmatica complessità, che purtuttavia si assunse il compito di organizzare e dirigere la lotta armata. Gli storici sanno quanto travagliato fu il processo che portò all’unificazione della condotta della guerra di Liberazione nel Corpo Volontari della Libertà e alla formazione del Cln. Quale contributo diede o avrebbe potuto dare a tale processo l’idealismo nonviolento?
Come conciliare due piani teorici di pari dignità quando sugli enunciati irrompono la politica e “il male” che, nelle sue versioni religiosa e laica, esiste e opera nel mondo, tra gli umani? Un male che si chiama Potere con le pulsioni e le articolazioni che esso sa creare.

Non è certo mio compito né è mia capacità sviscerare la quantità di argomenti e la ricchezza di spunti di dibattito che Polito, tramite i suoi protagonisti, solleva. Mi sento di dire che le motivazioni delle due scuole, dei due tavoli teorici sono talvolta sovrapponibili: il “Fare ugualmente il possibile” di Capitini è simile al “Anche le piccole cose servono” di Bianca Guidetti Serra come anche il peso da entrambi attribuiti alla prevalenza dei “principi da non perdere” (quante volte mi sono sentito dire “E’ una questione di principio”! anche su cose che reputavo “piccole”. Io sbuffavo, poi si rideva), cosa che valeva più che mai per gli azionisti, ma l’impressione è che la differenza stia nella pratica e negli obiettivi. Una pratica che per i nonviolenti trae prevalentemente ispirazione dal sentire religioso e si propone di “formare l’uomo” in funzione democratica e anti-autoritaria mentre per i partigiani si basa sul realismo, sul contingente, anche sulla ribellione morale, ma in fin dei conti sullo scopo di battere il fascismo per creare una nazione diversa, per un progetto collettivo. Si sente la mancanza tra i nonviolenti di una significativa analisi della società, delle classi, degli interessi di classe.

Non che i ponti tra le due anime non ci siano: Guido Calogero è il “filosofo del dialogo” che sostiene “la volontà di difendere i diritti quando siano minacciati” e secondo il quale “la nonviolenza non può mai erigersi ad assoluta regola di condotta”; anche per Andrea Caffi la violenza delle rivoluzioni liberatrici ha una funzione positiva perché “esse sono il risultato della convergenza fra le aspirazioni maturate in vasti strati del popolo e le idee elaborate in seno alla società” salvo poi mettere in guardia dalla convergenza della “violenza rivoluzionaria” sul binario della “violenza reazionaria”; e Lorenzo Milani pur conducendo una critica serrata della guerra sostiene che l’unica “guerra giusta” è stata la guerra partigiana, ma intanto con la sua critica del sistema politico “vecchio e anchilosato” contribuisce (suo malgrado?) ad alimentare la ribellione studentesca degli anni 1968-69.

Non è dato conoscere il pensiero di un Paolo Gobetti o di un Giorgio Agosti sulle scelte o sul contributo dei nonviolenti nei momenti decisivi, ma possiamo fare riferimento alle parole di Ada Gobetti che pure si offre al dibattito con Capitini fin dal 1947, e per la quale la parola “pace” deve probabilmente venire interpretata nell’accezione delle posizioni comuniste in contrapposizione alla politica atlantica dei suoi anni, che non può che concludere che “non sempre alla violenza si può rispondere con la nonviolenza”.

Polito mette poi sul piatto della discussione la morale, l’umanità dei partigiani combattenti, la loro fondamentale riluttanza alla violenza gratuita: tutti quelli rivisitati hanno lasciato in qualche forma la testimonianza della loro diversità morale rispetto alla controparte senza però abdicare alla dura necessità di uccidere. E senza cedere d’altra parte alla seduzione delle armi anche per le generazioni future: il Giolitti (Antonio), comandante partigiano, nel febbraio 1945 si preoccupava già della prossima generazione e suggeriva di “rifare l’educazione dei giovani… a partire dai bambini tenendoli al riparo dai giocattoli e dalle immagini di guerra”. Non fu dunque un caso che da piccolo mi siano state sempre negate armi-giocattolo.

Anche Bobbio interviene sul tema violenza/nonviolenza e illustra nitidamente i limiti della nonviolenza che “rischia di rendere un servizio ai violenti…Il paradosso della nonviolenza è che incoraggia la violenza dei violenti…il rinunciare alla forza in certi casi non significa mettere la forza fuori gioco ma unicamente favorire la forza del prepotente”.

E nella dialettica delle argomentazioni si recupera l’importanza della discussione sull’apatia, sull’indifferenza, questioni che oggi più che mai sono sotto gli occhi di tutti coloro che fanno qualche tipo di attività politica o sociale. L’apatia dei tanti prima e dopo l’8 settembre a cui fece in qualche misura da contrasto la non collaborazione di altrettanti. Fu già Piero Gobetti a parlarne da quel piccolo punto di osservazione che era la redazione del suo giornale: “Non può essere morale chi è indifferente…L’apatia è negazione di umanità, abbassamento di se stessi, assenza di idealità”. L’apatia è il nemico del prima e del dopo perché si coniuga con la desistenza della memoria, intesa come “oblio dei valori, della coscienza, della ragione”, rimarcata da Calamandrei, e da Ada Gobetti che la associa alle facili abitudini, agli interessi di parte, ai pregiudizi.

Il passo più ardito in tutto questo contesto è la collocazione della figura di Pasolini. Polito lo definisce esponente di una resistenza intellettuale e gli attribuisce di fatto uguale dignità agli altri protagonisti del libro. Impresa ardua a mio avviso perché si incaglia nelle tante contraddizioni del personaggio: “antropologicamente comunista “ o “reazionario”, “critico inesorabile del tecno-fascismo” o solo “anti-autoritario” o “incollocabile” o “rappresentante ostinato della singolarità” cioè forse solo anticonformista. Io, che non l’ho mai studiato a fondo, lo ricordo come un populista ante litteram nel suo schierarsi con i poliziotti “figli del popolo” e contro il popolo di studenti e operai bastonati dai “figli del popolo” nei primi anni della rivolta anti-sistema; lo ricordo come un intellettuale confuso che lancia strali in ogni direzione in anni in cui l’anticonformismo gli regalava lo spazio per farlo.

L’intervista riportata da Polito ne è involontariamente evidenza. Sfido molti anche con più lauree a cogliervi un chiaro senso. Difficile metterlo in equilibrata relazione con partigiani combattenti, con esponenti della nonviolenza militante, con Bobbio e Gobetti.
E con i loro insegnamenti che da tempi non sospetti riescono a parlarci dell’oggi. Sentite questi: “In ogni regime totalitario il parlamento è in realtà un ‘teatro dei burattini’, come un burattinaio il governo tira i fili e le marionette hanno solo il compito di battere le mani” (Massimo Mila); “Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco” (Piero Gobetti) e i mali della politica da cui Bobbio ci metteva in guardia sin dal 1985: “la questione morale, il potere invisibile, il prevalere della rappresentanza degli interessi sulla rappresentanza politica…l’occupazione del potere da parte dei partiti…”.

Paradossalmente, dopo lunghe stagioni di storia italiana del dopoguerra segnate da contrasti politici e violenze (ascrivibili in prevalente misura allo Stato e al Potere), l’attualità sembra segnalare una propensione per le forme di lotta nonviolente, ma l’utilizzo diffuso che ne fa la protesta popolare (dalla Val Susa al Nord Dakota) ne tradisce l’insufficienza a conseguire gli obiettivi, la subordinazione a stati di debolezza e denuncia la militarizzazione delle società cosiddette democratiche. A maggior ragione, sembra riduttivo il Capitini che dice “Resistere significa non accettare il mondo cosi com’è”. Forse un po’ poco per il mondo che stiamo vivendo.
Se è vero che i libri sono cibo per i pensieri, questo lavoro di Polito offre ampia materia di riflessione sulle forme di opposizione in relazione alle fasi politiche e agli imperativi individuali che le determinano. Il titolo poco “commerciale” ne denuncia la destinazione a un pubblico di lettori che non frequentano il salotto televisivo di Paola Perego, ma c’è da augurarsi che quelli in grado di affrontare argomenti di qualche peso siano ancora un buon numero.

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