Panzieri – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Contraddizioni in seno al populismo https://www.carmillaonline.com/2019/06/25/contraddizioni-in-seno-al-populismo/ Mon, 24 Jun 2019 22:02:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53224 di Fabio Ciabatti

Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli e Loris Caruso (a cura di), Popolo chi?, Ediesse, Roma 2019, pp. 214, € 13,39

Dagli anni ’80 del secolo scorso le classi popolari sono scomparse dal discorso pubblico mainstream come soggetto autonomo, capace di parlare con una propria voce. Eppure, come ogni rimosso, il popolo riemerge come fantasma cui attribuire tutti i mali del presente: l’elezione di Trump, la vittoria della Brexit, l’affermazione elettorale di Lega, la crescita del razzismo e chi più ne ha più ne metta. “Popolo sei ‘na monnezza!” verrebbe da dire [...]]]> di Fabio Ciabatti

Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli e Loris Caruso (a cura di), Popolo chi?, Ediesse, Roma 2019, pp. 214, € 13,39

Dagli anni ’80 del secolo scorso le classi popolari sono scomparse dal discorso pubblico mainstream come soggetto autonomo, capace di parlare con una propria voce. Eppure, come ogni rimosso, il popolo riemerge come fantasma cui attribuire tutti i mali del presente: l’elezione di Trump, la vittoria della Brexit, l’affermazione elettorale di Lega, la crescita del razzismo e chi più ne ha più ne metta. “Popolo sei ‘na monnezza!” verrebbe da dire insieme all’ingenuo fraticello interpretato da Alberto Sordi nel film Nell’anno del Signore.
Ma è proprio così? Gli autori del libro Popolo chi? sostengono che si tratta di una rappresentazione decisamente unilaterale. E lo fanno dopo aver ascoltato la voce di quelle classi popolari in nome delle quali molti si sentono autorizzati a sproloquiare. Il testo, curato da Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli e Loris Caruso, rappresenta il risultato di una ricerca basata su 60 interviste in profondità realizzate in quartieri e aree popolari di Milano, Firenze, Roma e Cosenza. Secondo gli autori non esiste un popolo pronto a consegnarsi nelle mani del populismo di destra. Piuttosto, il quadro che emerge viene riassunto con una parola: “contraddizione”. Vediamo brevemente perché.

L’inchiesta rimarca l’importanza della sfera lavorativa nella vita delle persone. “Sfruttato, precarizzato o intermittente, il lavoro (e la sua mancanza) costituisce una parte centrale nella realtà quotidiana di tutti gli intervistati, rappresentando … la fonte principale della loro sofferenza”.1 Di fronte a questa situazione, però, prevale la rassegnazione e la paura. Non si pensa che un’azione collettiva possa cambiarla. La maggioranza delle persone, infatti, non vive questi problemi come immediatamente sociali o, in senso lato, politici. Le sofferenze esperite nel luogo di lavoro sono considerate come mali privati sconnessi dal vissuto e dalle sofferenze delle altre persone che condividono le stesse condizioni. In breve il lavoro è centrale, ma non produce identità sociale e mobilitazione.
Ma dovendo pensare ad un conflitto chi dovrebbe essere la vera controparte? Chi comanda davvero, secondo gli intervistati, non sono i politici, ma i grandi imprenditori, i banchieri e i finanzieri. Eppure nei loro confronti non vengono pronunciate parole di disapprovazione. La condanna, se non un vero e proprio disgusto, viene riservato alla classe politica anche se essa viene considerata alla dipendenze del vero potere, l’élite economico-finanziaria.
L’ostilità nei confronti dei politici si accompagna però a un atteggiamento di delega nei confronti dei partiti. In altri termini non si pensa a un impegno diretto nella politica, ma si vorrebbe che le organizzazioni politiche (e anche quelle sindacali) tornassero ad avere un profilo alto, adeguato alla propria funzione pubblica. Come interpretare questo nuovo profilo? Anche qui abbiamo risposte contraddittorie, alle volte anche dalla stessa persona. Da una parte, si vorrebbero proposte forti che identifichino e differenzino tra loro le forze politiche attraverso una polarizzazione netta e chiara, dall’altra si chiede ai partiti di superare litigi e contrasti inutili, di lavorare insieme in nome del bene comune.
In materia economica, la ricerca riscontra spesso un atteggiamento favorevole alla competizione (contro le cricche, i favoritismi, le raccomandazioni, le posizioni di privilegio acquisito, ecc.), al mercato, alla possibilità di scelta del consumatore, al fare impresa e soprattutto alla meritocrazia, vissuta come un principio che può dare le giuste opportunità a chi non parte da posizioni di privilegio. Nello stesso tempo, però, c’è una voglia sotterranea di liberarsi dalla centralità del denaro che costringe a una vita piena di stress e priva di tempo per gli affetti. In considerazione di questa contraddizione non compare un discorso con elementi di anticapitalismo, ma emerge con molta forza una richiesta di maggiore presenza dello Stato. Praticamente nessuno crede al fatto che la privatizzazione dei servizi pubblici abbia un effetto benefico. Su questi temi gli autori parlano di un “senso comune progressista”.

E veniamo al tema forse più caldo, il razzismo. Inutile nascondersi che l’immigrazione viene considerata come uno dei maggiori problemi. Ma la cosa che balza agli occhi dei ricercatori è che l’esperienza diretta degli intervistati, i rapporti effettivi che intercorrono con gli immigrati sono generalmente descritti con toni positivi. I giudizi negativi, che nondimeno emergono, non sembrano sgorgare da fatti vissuti in prima persona, ma sembrano riecheggiare discorsi altrui, assorbiti attraverso i media tradizionali e i social media.
Ma attenzione, questi discorsi non possono essere considerati come mero frutto di un preconcetto ideologico. L’ostilità nei confronti dei migranti nasce da preoccupazioni strettamente utilitaristiche, materiali: la paura della loro concorrenza nel mercato del lavoro e nell’accesso ai servizi pubblici. Non c’è un pregiudizio etnico-culturale. L’identità nazionale degli intervistati, non a caso, è alquanto debole. Le caratteristiche negative attribuite ai migranti sono praticamente le stesse che sono imputate agli italiani. La diffidenza prevale anche nei confronti dei propri connazionali. Ciò non toglie che proprio la mancanza di un senso comune d’identità, di un sentimento condiviso di appartenenza possa rappresentare il brodo di cultura per l’emersione di pulsioni compensatorie di stampo autoritario e xenofobo.

Se questo è il quadro generale che emerge dalla ricerca, sottolineano gli autori, l’analisi sociale non si può fermare a rilevare la contraddizione. Deve saper dire quale dei due poli che la costituiscono risulti dominante, quale sia maggiormente in grado di orientare l’agire sociale. Oggi senz’altro prevale il lato regressivo. Se prendiamo la questione dell’immigrazione, la destra nelle sue diverse sfaccettature, ha costruito un discorso semplice e apparentemente razionale che fa appello a timori di natura strettamente materiale. Il suo presupposto, rafforzato dalla lunga crisi, è l’inevitabile scarsità delle risorse a disposizione, l’intangibilità dell’attuale distribuzione della ricchezza che penalizza le classi popolari. Il discorso della destra, si potrebbe dire, ha un carattere performativo, non nel senso di inventare una realtà prima inesistente con il solo atto di nominarla, ma nel senso di offuscare, nella percezione comune, un lato della contraddizione a tutto favore dell’altro che in questo modo viene rafforzato.
La sinistra moderata, non volendo intaccare il presupposto di questo discorso perché legata a doppio filo con gli interessi del capitale, è destinata a rimanere incapace di incidere sul senso comune. Non a caso, rileva la ricerca, “tutta la sinistra è sostanzialmente assente dalla vita e dalla coscienza degli intervistati. … I termini usati in riferimento a quest’area politica sono: scomparsa, sbiadita, introvabile, compromessa, subalterna”.2 E, attenzione, tutta la sinistra è sostanzialmente identificata con il Partito Democratico, perché ciò che esiste alla sua sinistra non risulta pervenuto alla percezione comune o è considerato corresponsabile di tutte le recenti scelte di governo del principale partito di centro-sinistra.

Rilevare delle contraddizioni significa tratteggiare un quadro che non è statico ed è, almeno potenzialmente, suscettibile di cambiamenti positivi, di rotture fruttuose. Ma in quale senso occorre lavorare politicamente? In alcuni passaggi del libro emergono indicazioni che vanno nella direzione della ricostruzione, da sinistra, di organizzazioni di massa e di una rappresentanza politico-istituzionale, certamente da adeguare ai tempi correnti. I lati positivi delle contraddizioni rilevate nella ricerca sembrano indicare che uno spazio in questo senso esiste. Viene però da chiedersi perché mai chi ha provato a lavorare in questa direzione in Italia abbia miseramente fallito. Possibile che si tratti solo di pochezza del personale politico? Se poi allarghiamo lo sguardo all’Europa vediamo che quei soggetti che sembravano aver intrapreso questa strada con successo o hanno subito un fragoroso tracollo (Syriza in Grecia) o si sono impantanati (Podemos in Spagna).
Per venire a capo di queste questioni occorrerebbe partire da quella che un tempo si chiamava analisi di fase. Se pensiamo che la crisi attuale non abbia caratteri meramente congiunturali, ma che le si possa attribuire un connotato in qualche modo “epocale” (anche senza pensare a un crollo del capitalismo più o meno prossimo), gli scenari politici che si aprono necessitano di maggiore radicalità. Più che fare leva su uno dei due poli delle contraddizioni più volte richiamate occorrerebbe allora puntare a rimuovere l’elemento che, a mio parere, rende possibile l’oscillazione tra gli opposti: la passività delle classi popolari, il loro atteggiamento delegante. Per innescare questa attivazione, hanno ragione gli autori, “è necessario che specifici attori e organizzazioni la promuovano in modo finalizzato, contribuendo a definire un problema o una condizione come rilevanti e a costituire un’«area di uguaglianza» in cui possano svilupparsi rapporti di solidarietà tra pari”.3 In assenza di ciò forte è il rischio che la rabbia per la propria condizione orienti verso la “competizione orizzontale ciò che potrebbe essere conflitto verticale, [verso la] lamentazione rancorosa ciò che potrebbe essere polarizzazione di classe”.4
I prerequisiti di un’azione politica efficace nella fase attuale non finiscono qua. Gli autori sostengono che le classi popolari, disorientate e impaurite di fronte alla “sensazione che «tutto stia cambiando» o stia per cambiare”, non sono “ostili a discorsi politici che provino nuovamente a interpretare il mondo”.5 Per questo bisogna avere un disegno di società, a patto che si sappia mettere insieme “pragmatismo e capacità di agire sul simbolico”.6 E, in particolare, bisogna “reinventare una lingua (politica) per parlare di ciò che le persone vivono e sono nei luoghi di lavoro e nel processo lavorativo. Su questo, nessuna riscoperta di lingue morte sarà efficace”.7
Certo, tutto ciò non esclude a priori forme di rappresentanza politica, anche istituzionale, ammesso che si riesca a limitare la sua inerziale tendenza a costituirsi come corpo separato, dotato di suoi autonomi interessi. Ma il punto vero rimane la scelta delle priorità della fase. Rilevata una frattura fra popolo e élite economico politica bisogna puntare a colmare questo gap riproponendo una qualche forma di compromesso sociale o occorre piuttosto favorire il rafforzamento di un senso di autonomia e di alterità delle classi popolari nei confronti dello stato e delle istituzioni, recuperando una delle caratteristiche fondamentali del movimento operaio delle origini?

Quale che sia la risposta, ricominciare a fare inchiesta è fondamentale soprattutto quando essa ci aiuta, come nel caso del libro qui presentato, a ribaltare luoghi comuni ideologicamente fuorvianti e politicamente paralizzanti. Senza però dimenticare che, in questo caso, stiamo pur sempre parlando di un’inchiesta, per così dire, a freddo. Molti anni fa Raniero Panzieri ci ricordava l’importanza di quella che chiamava l’inchiesta “a caldo”, fatta cioè in situazione di forte conflitto. In questi momenti, sosteneva il padre dell’operaismo, è possibile studiare “in che maniera cambia il sistema di valori che l’operaio esprime in periodi normali, quali valori si sostituiscono con consapevolezza di alternativa, quali scompaiono in quei momenti, perché ci sono dei valori che l’operaio possiede in periodi normali e che non possiede più in periodi di conflitto di classe e viceversa”.8 In questi momenti caldi ciò che sembrava poco prima impossibile e fantasioso può apparire come qualcosa di semplice e naturale.


  1. Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli e Loris Caruso (a cura di), Popolo chi?, Ediesse, Roma 2019, p. 79. 

  2. Ibidem, p. 48. 

  3. Ibidem, p. 28. 

  4. Ibidem, p. 216. 

  5. Ibidem, p. 209. 

  6. Ibidem, p. 210. 

  7. Ibidem, p. 211. 

  8. Raniero Panzieri, “Uso socialista dell’inchiesta operaia”, in La ripresa del marxismo leninismo in Italia, Nuove Edizioni Operaie, Roma 1997, p. 322. 

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Memorie dall’Osteria Melotti. A dieci anni dalla scomparsa di Marco https://www.carmillaonline.com/2018/09/29/memorie-dallosteria-melotti-a-dieci-anni-dalla-scomparsa-di-marco/ Fri, 28 Sep 2018 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48886 di Fabio Ciabatti

Mi perdoneranno le masse operaie e contadine se in questo articolo si parlerà anche di me. Ma questo è un omaggio personale ad un compagno, e soprattutto a un amico, scomparso dieci anni fa all’improvviso in un giorno di settembre, subito dopo essersi fatto una delle sue proverbiali e fragorose risate. Un omaggio così personale che ci finisco dentro pure io. Marco Melotti si affacciò alla politica nel ’68, quando era poco più che ventenne, partecipando all’occupazione della facoltà di Lettere della Sapienza di Roma e poi ai gruppi di [...]]]> di Fabio Ciabatti

Mi perdoneranno le masse operaie e contadine se in questo articolo si parlerà anche di me. Ma questo è un omaggio personale ad un compagno, e soprattutto a un amico, scomparso dieci anni fa all’improvviso in un giorno di settembre, subito dopo essersi fatto una delle sue proverbiali e fragorose risate. Un omaggio così personale che ci finisco dentro pure io. Marco Melotti si affacciò alla politica nel ’68, quando era poco più che ventenne, partecipando all’occupazione della facoltà di Lettere della Sapienza di Roma e poi ai gruppi di studenti e operai che tentarono di avviare nella capitale interventi nelle fabbriche in alternativa alle organizzazioni sindacali riconosciute. Attraversò poi l’esperienza dei “gruppi”, su posizioni eterodosse se non apertamente critiche. Nel ’77 divenne, suo malgrado, una figura di riferimento del movimento romano. Le prime assemblee all’università le aveva infatti passate facendo casino insieme agli indiani metropolitani. Poi aveva visto alla presidenza di quelle assemblee chi, pochi anni prima, l’aveva espulso da Avanguardia operaia per deviazioni piccolo borghesi. Marco raccontava che scattò in lui una molla, quella che gli consentì di prendersi la sua rivincita (ebbene sì, aveva una memoria da elefante), ma soprattutto di immergersi completamente nelle mobilitazioni, fino alla fase finale in cui cercò di mantenere dritta la barra del movimento mentre rimaneva schiacciato tra la feroce repressione dello Stato e l’avventurismo della lotta armata. Senza mai aderire a nessuna struttura organizzata, fu dunque tra i più attivi nelle assemblee della facoltà di Lettere occupata e poi tra gli animatori della “commissione fabbriche e quartieri”, costituita all’università dopo la fine dell’occupazione. Dalla commissione nacque poi il giornale Filo rosso di cui Marco fu il principale responsabile. Probabilmente fu tra i primi a prendere atto con lucidità che un’intera fase storica si era conclusa, come testimonia uno degli articoli di cui andava più fiero, “Tecnica di una sconfitta”, dedicato, quasi in diretta, all’amara vicenda dell’occupazione della Fiat di Mirafiori nel 1980. Venne poi l’attraversamento del deserto degli anni ‘80 con i vari tentativi di preservare sedimenti di soggettività politica e di memoria di quel soggetto collettivo che proprio ai cancelli della Fiat nell’’80 aveva visto sancita la sua definitiva sconfitta, grazie anche all’attiva complicità di Pci e sindacato (proprio al nefasto ruolo svolto dalle organizzazioni storiche del movimento operaio si riferiva il titolo del citato articolo). In questa logica ha continuato a confrontarsi attivamente con le principali esperienze di mobilitazione e intervento sociale e politico, come la nascita del sindacalismo di base e il movimento della Pantera nel 1990. Parallelamente ha proseguito nell’attività di intervento culturale militante, iniziata a metà degli anni ’70, che lo ha portato a organizzare e prendere parte a convegni e seminari (tra i risultati, il volume, da lui curato, Macchine e utopie, edito da Dedalo nel 1986) e a collaborare con diverse riviste della sinistra rivoluzionaria, Primo maggio, Collegamenti wobbly, Quaderni del NO e Incompatibili.

Marco non volle mai essere un politico di professione e neanche un membro in servizio permanente di quello che definiva “ceto politico di movimento”. L’intensità del suo impegno seguiva l’andamento carsico dei movimenti. Ma al momento giusto c’era sempre. Per il resto amava troppo la vita per consumarla appresso ad accanite battaglie politiche quando la posta in gioco era un piatto di lenticchie. Preferiva cazzeggiare con gli amici, soddisfare il suo insaziabile appetito (non a caso dagli amici era variamente appellato Ciccio, Palla, Pallina e via arrotondando), correre in macchina (al volante era un vero criminale). E soprattutto la sua attività preferita era quella di seduttore seriale, con la quale si riscattava gioiosamente dalle sue gambette poliomielitiche. Tra i suoi amici, quelli veri, il suo handicap era un oggetto di frequenti frizzi e lazzi su cui lui si faceva grasse risate. Amava ripetere che potevano pure chiamarlo diversamente abile, ma lui sempre zoppo rimaneva. Non lo diceva, però, con il risentimento di chi sentiva di aver perso qualcosa di irrecuperabile, ma con la consapevolezza che fare i conti con la sua fisicità lo aveva reso quello che era, caratterialmente più forte della maggior parte di quelli che si divertiva a chiamare “normodotati” (termine cui spesso seguiva la qualifica “del cazzo”). La necessità di guardarsi dentro lo aveva reso capace di una comprensione umana profonda, decisamente fuori dal comune, e di una straordinaria attitudine all’accoglienza, emotivamente calda. E per questo finiva per raccogliere intorno a sé una varia umanità che spesso zoppicava più di lui, psicologicamente parlando, e che lui aiutava a camminare. Persino Bombo, il suo bulldog, era un tipo un po’ problematico, tanto che veniva amorevolmente imboccato da Marco.

Settembre 2018, l’ultima riunione plenaria dell’Osteria Melotti nella sua sede storica prima del trasloco.

Anche così, animali a parte, si era popolata l’Osteria Melotti: una banda variegata e bizzarra che attraversava a tutte le ore, anche in sua assenza, la sua casa di Roma, per molti anni un porto di mare a metà tra la sede politica e il circolo amicale. Con il tempo la prima funzione venne sempre più relegata in secondo piano. La cerchia più stretta dell’Osteria era tenuta al pagamento di un contributo mensile per il “materiale di consumo”, una quota poco più che simbolica, almeno per i più, perché si trattava di una imposta progressiva in base al reddito dell’accolito (i pagamenti furono sospesi quando Marco ereditò dalla vecchia e poco amata mamma). Il brand dell’Osteria era ufficializzato da un ex libris con cui Marco marchiava i volumi della sua fornitissima biblioteca. Volumi che accumulava compulsivamente (insieme a dischi e cd) e che prestava solo dopo la registrazione, su un apposito quadernetto, del nome del mutuatario e della data di uscita del libro (non sai quanti non ne sono tornati indietro, diceva ogni volta, quasi a scusarsi). Marco, però, non era sempre un cioccolatino. Era una persona capace di grandi durezze. Le rotture con amici e compagni non sono state poche. E normalmente erano definitive, con tanto di ukase di espulsione dall’Osteria. Poteva poi essere un gran caccacazzi. Proprio per quella sua incredibile capacità di scandaglio psicologico non te ne faceva passare liscia una. E poteva essere davvero martellante. Ne so qualcosa.

Ho conosciuto Marco nel 1995 quando mi stavo per laureare. Avevo partecipato al movimento della Pantera, continuato a fare politica all’università e partecipato alla stagione politica dei centri sociali. Nel frattempo avevo studiato con impegno Marx interpretato anche alla luce dell’operaismo di Panzieri. La mia produzione teorico-politica era iniziata polemizzando con gli epigoni del post-operaismo di Toni Negri & C., cosa che mi avvicinò da subito a Marco che, con quell’area politico-intellettuale, aveva un conto aperto da molto più tempo di me. Attraverso Marco ho avuto accesso ad un ricchissimo repertorio di stimoli politico-teorici e di memorie di movimento. Le due cose indissolubilmente intrecciate. A Marco piaceva molto raccontare e raccontarsi, magari durante lunghe serate in cui non ti mollava anche se tu cadevi dal sonno o attraverso interminabili telefonate quando tu eri al lavoro e non potevi tirare la conversazione troppo per le lunghe.
Insomma, ho conosciuto Marco quando dovevo ancora decidere cosa fare da grande. Senza di lui oggi sarei probabilmente una persona diversa. Almeno un po’. Ciò nonostante il nostro primo incontro, quantomeno a suo dire, rischiò di essere anche l’ultimo. Per molto tempo, infatti, rimproverò a Lodi, la sua compagna di una vita, di aver preparato una cena troppo frugale per me e il compagno con cui ero andato a trovarlo. Ma come, arrivano i giovani e gli facciamo fare la fame. Questi non tornano più! Ovviamente la cosa io la venni a sapere un po’ di tempo dopo, mentre, all’epoca del fattaccio, della presunta scarsità del cibo non mi ero minimamente accorto. Un po’ di tempo fa sono stato a cena da Lodi. Mi ha raccontato di aver sognato Marco che ancora la rimproverava per quella cena troppo scarsa. Lodi, l’ho rassicurata, se lo sogni di nuovo digli che questa volta la cena era buonissima e, soprattutto, abbondante.
Superato il rischio di una prematura interruzione del nostro rapporto, ho iniziato a collaborare con Marco in quella che è stata la sua ultima grande impresa editoriale: Vis-à-vis. Quaderni per l’autonomia di classe. La rivista era nata a Bologna, grazie all’iniziativa dei compagni di via Avesella che a un certo punto lo avevano coinvolto in un convegno sul ’77. Di lì a qualche tempo Marco divenne l’animatore principale e l’informale caporedattore della rivista di cui uscirono in tutto 8 tomi (sempre più voluminosi e con caratteri sempre più piccoli da quando era intervenuto Marco), l’ultimo nel 2000. Seguì nel 2001 una breve pubblicazione monotematica che, nelle intenzioni, doveva essere la prima di una serie, denominata “i Karletti”, maggiormente adatta, rispetto ai volumi formato mattone della rivista, all’intervento nel movimento nato a Seattle. Il primo numero fu anche l’ultimo. Il titolo del fascicolo, Dalla morte della politica alla politica della morte, non deve aver portato molta fortuna. In quel lasso di tempo ho scritto molte cose a quattro mani con Marco. E quando dico a quattro mani intendo proprio che scrivevamo insieme, uno accanto all’altro nel corso di interminabili serate. Per Marco era una prassi abituale, ma non per me. Lui aveva uno stile spiraliforme che tornava e ritornava sulle stesse questioni, in un processo di avvicinamento graduale alle conclusioni, punteggiando l’argomentazione con un’infinità di spunti polemici. Molto anni ’70. Io avevo invece una modalità argomentativa che tendeva ad andare dritto al punto. Nascevano così lunghi duelli sulla scelta di una frase o addirittura di una parola. In genere vinceva lui, per sfinimento. Il mio ovviamente. Finito il nostro lavoro, arrivava talvolta la revisione di Lodi che si concretizzava, tra l’altro, nel tentativo di decimazione della ridondante falange di aggettivi cui Marco, però, risultava ogni volta particolarmente affezionato. Iniziava un’altra battaglia, in cui io spalleggiavo Lodi, che si concludeva con perdite inferiori a quelle inizialmente previste dalla nostra amichevole ma severa editor. Ricordo un unico caso in cui le cose filarono lisce e il testo risultò breve, essenziale, a tratti immaginifico. Probabilmente non è un caso che lo abbiamo scritto passata la mezzanotte, dopo che ero tornato da una cena di compleanno, sensibilmente obnubilato dall’alcol. Si trattava di un comunicato firmato Vis-à-vis (il primo di una lunga serie che seguì all’interruzione della pubblicazione della rivista) dal titolo “Seattle 1999: il baco o la talpa?”. Iniziò così la sua ultima grande battaglia politica con la partecipazione, appassionata ma critica verso le posizioni egemoni, al cosiddetto “movimento dei movimenti”, nato appunto a Seattle per contestare la globalizzazione capitalistica e proseguito con le mobilitazioni contro la guerra. I suoi crescenti problemi di mobilità limitarono la sua attività alla tessitura di una fitta rete di contatti, ordita attraverso numerosissime telefonate ed e-mail. “Karletto” era l’inconfondibile nome utente che compariva nel suo indirizzo di posta elettronica.

Quella definizione, “movimento dei movimenti”, non gli era mai piaciuta. Per Marco il movimento era uno, oppure non era tale. Perché per lui il termine movimento, se utilizzato in senso concettualmente forte, era praticamente sinonimo di soggetto collettivo rivoluzionario. Con questa espressione intendeva un insieme multiforme di attori sociali in grado di raggiungere l’unità, senza annullare la sua molteplicità, facendo perno sulla soggettività di un segmento di una determinata composizione di classe, capace, per la sua posizione all’interno del processo produttivo, di sostenere una conflittualità permanente e di esercitare un potere di veto nei confronti della valorizzazione capitalistica. Il paradigma, storicamente determinato, era costituito dall’operaio massa, analizzato sulla base delle suggestioni provenienti dall’operaismo di Panzieri (particolare rilievo dava all’inchiesta a caldo, cioè quella effettuata in prossimità di un evento conflittuale) e dal concetto di “gruppo in fusione”, proveniente dal Sartre della Critica della ragione dialettica. I soggetti sociali, soprattutto quando agivano come movimento nel senso sopra richiamato, erano secondo lui capaci di espressione autonoma e non avevano perciò bisogno di una coscienza o di una avanguardia esterne, del partito, per dare corpo a un progetto unitario di superamento dello stato di cose presenti. I comunisti, per Marco, dovevano sciogliersi nel soggetto collettivo rivoluzionario, quando esso si manifestava. I movimenti hanno però un andamento carsico e quando il soggetto collettivo si inabissa i comunisti non possono sostituirsi ad esso, ma possono soltanto “abbreviare le doglie del parto” di un nuovo soggetto, tessendo il filo rosso della memoria e sostenendo fattivamente la residua conflittualità di classe. In questo senso per Marco era fondamentale la “critica della politica” del giovane Marx (Althusser, con la sua rottura epistemologica tra il vecchio e il giovane Marx, non l’aveva mai digerito) attraverso la quale era possibile cogliere i meccanismi intrinsecamente alienanti della rappresentanza politica che portano all’espropriazione della libera capacità decisionale dei soggetti sociali. Il “cielo della politica” era per Marco il regno dell’astrazione, della separazione dai concreti rapporti sociali di produzione in cui la carica antagonistica della classe poteva trovare al massimo una mediazione al ribasso con gli interessi del suo irriducibile antagonista storico, il capitale. Era questa una lezione che aveva imparato sul campo, attraverso la critica pratica del ‘68 e del ‘77. Ma era anche una convinzione consolidata attraverso la frequentazione teorica dei numerosi rivoli della tradizione eretica del comunismo, tra cui spiccava senz’altro Maximilien Rubel con il suo Marx critico del marxismo. Un Marx libertario, anarchico, antigiacobino e per questo antileninista ante litteram. Lo spirito libertario non era però l’unica caratteristica che faceva di Marco un marxista atipico rispetto ai cliché di una certa ortodossia comunista. Infatti, sebbene ritenesse necessario partire dalle ristrutturazioni tecnologico-produttive per indagare le mutazioni della soggettività di classe, ciò per lui non significava che dalla composizione tecnica di classe si potesse dedurre automaticamente la sua composizione politica. Per questo diveniva necessario studiare la sfera dell’immaginario collettivo, una tematica che lo aveva portato ai confini del pensiero negativo per scandagliare l’importanza politica del lato pulsionale, irrazionale, emotivo dell’umano. Il tutto veniva interpretato attraverso la chiave di lettura offerta dall’“utopia concreta” di Bloch; attraverso, cioè, quella tensione umana a trascendere lo stato di cose presenti che affonda le sue radici non nelle fantasticherie individuali, ma nell’esperienza collettiva delle contraddizioni del presente e nella percezione comune delle effettive possibilità di liberazione che da queste contraddizioni scaturiscono.

Utilizzando le categorie blochiane, nei contributi politici e teorici di Marco la “corrente calda” e la “corrente fredda” del marxismo non rimanevano separate, ma tendevano ad amalgamarsi in una miscela talvolta instabile, non di rado esplosiva, quasi sempre originale. Eppure lui non si riteneva un intellettuale. Di sé stesso diceva che, da un punto di vista intellettuale, era un “abborracciato”. Raccontava di aver sempre cercato il suo Marx, per potersi limitare, come Engels, al ruolo di “secondo violino”. Purtroppo la sua ricerca non aveva dato l’esito sperato ed era stato costretto a impegnarsi più di quanto avrebbe voluto nell’elaborazione teorica (sospetto che in tutto questo discorso ci fosse anche una identificazione umana con il godereccio Engels maggiore di quella che gli riuscisse con il maniacale e a tratti monacale Marx). Anche grazie a questa sua infruttuosa ricerca mi è capitato di incontrarlo. Nei miei confronti credo abbia nutrito qualche aspettativa di troppo. Great Expectations a parte, penso che quell’insieme di percorsi politico-teorici che ho brevemente sintetizzato facciano irrevocabilmente parte del mio bagaglio intellettuale. Lungo alcune delle strade tracciate da Marco, per quanto a modo mio, credo di aver fatto qualche passo in avanti. E sono convinto di non essere stato l’unico. Perché sono veramente tante le persone che Marco ha incontrato, rincoglionito di chiacchere, raccolto con il cucchiaino, illuminato, sedotto, accolto, affrontato a brutto muso, stimolato, aiutato a formarsi umanamente, politicamente e intellettualmente. Ben scavato vecchio Karletto!

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A proposito di Franco Fortini https://www.carmillaonline.com/2015/01/07/proposito-franco-fortini/ Tue, 06 Jan 2015 23:31:40 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19879 Operaismo, traduzione e luoghi fortiniani. Un’intervista con Luca Lenzini

di Alberto Prunetti

220px-Franco_FortiniA.P. Quando, ormai più di venti anni fa, sono arrivato a Siena per studiare all’università, Franco Fortini era morto da poco. Negli anni Ottanta, terminato il suo incarico di docenza, Fortini tornava ogni anno nella città toscana almeno per un seminario. Pur non avendolo mai incrociato di persona, la sua immagine mi è subito diventata familiare perché in certo modo gli passavo davanti ogni giorno, entrando nei locali della biblioteca di Lettere nei pressi di Porta Romana: qua risiede infatti l’archivio Fortini e una gigantografia del poeta presiede l’entrata della biblioteca. [...]]]> Operaismo, traduzione e luoghi fortiniani. Un’intervista con Luca Lenzini

di Alberto Prunetti

220px-Franco_FortiniA.P. Quando, ormai più di venti anni fa, sono arrivato a Siena per studiare all’università, Franco Fortini era morto da poco. Negli anni Ottanta, terminato il suo incarico di docenza, Fortini tornava ogni anno nella città toscana almeno per un seminario. Pur non avendolo mai incrociato di persona, la sua immagine mi è subito diventata familiare perché in certo modo gli passavo davanti ogni giorno, entrando nei locali della biblioteca di Lettere nei pressi di Porta Romana: qua risiede infatti l’archivio Fortini e una gigantografia del poeta presiede l’entrata della biblioteca. Quella foto è ancora lì, nonostante negli anni si siano succedute le voci di un possibile spostamento della biblioteca di Lettere in locali più angusti. Resiste la biblioteca, resistono la fotografia di Fortini, l’archivio Franco Fortini e Luca Lenzini, che è il direttore della biblioteca e dell’archivio e il curatore dell’opera poetica fortiniana, appena raccolta in un paperback di 858 pagine dalla Mondadori (Tutte le poesie 1935 – 1994).

Colgo così l’occasione per porre alcune domande a Luca Lenzini. Vorrei partire dall’operaismo di Fortini. Siena è stata un luogo importante per una certa visione critica e militante del marxismo. A Siena insegnavano importanti critici marxisti, c’erano alcuni dei redattori di Officina, aveva un incarico di docenza Mario Tronti. Fuori da Siena, Fortini è stato coinvolto in altre frequentazioni operaiste, come il rapporto con Panzieri e i «Quaderni rossi». Ti chiederei allora di provare a collegare Fortini, nella vita o nell’opera, come preferisci tu, a due realtà spesso non coincidenti tra loro: gli intellettuali operaisti, che spesso erano persone in carne e ossa, frequentati da Fortini, e gli operai, che troviamo talvolta rappresentati in alcune sue poesie, e che lui probabilmente frequentò nell’esperienza aziendale di Ivrea. E qui penso ai versi di “A un’operaia milanese”, alla poesia “L’officina”, o al “Sonetto dei sette cinesi”, che però sta ne L’ospite ingrato. Insomma, Luca, ti chiederei in primo luogo di parlarci dei rapporti di Fortini con gli operai e gli operaisti.

Luca Lenzini: Per rispondere a questa domanda, mi sembra vada messo in evidenza, prima, il fatto che quando Fortini si forma, l’orizzonte della “lotta di classe”, quale si definisce nella tradizione marxista e nei partiti che ad essa si richiamavano, in sostanza era estraneo alla sua cultura. Gli anni fiorentini, anche quelli dell’università, nonostante l’antifascismo che gli derivava dal padre e dal contesto delle frequentazioni, erano segnati piuttosto da idealismo e spiritualismo; lui stesso ha parlato persino di estetismo. È quando affronta il servizio militare e poi la guerra, l’esilio in Svizzera e il breve periodo con i partigiani dell’Ossola, che per Fortini cambia la prospettiva. Dunque l’importanza della classe operaia nel quadro di una prospettiva rivoluzionaria è una conquista, un’acquisizione che passa sì attraverso letture di capitale importanza (quelle, in primo luogo, compiute in Svizzera tra il ’43 e il ’45), ma anche attraverso il vissuto, cioè attraverso l’incontro con i ceti popolari, con i profughi d’Europa, nell’esercito, nelle città devastate dalla guerra, e nell’esperienza della Liberazione dal Fascismo, ovvero dentro un reale processo di emancipazione. Questa premessa da una parte vale per segnare la distanza di Fortini dall’elemento “dottrinario”, da una visione precostituita, che invece ha caratterizzato un ampio ambito della sinistra, ma anche per sottolineare che proprio in quanto inerente al percorso esistenziale, tale acquisizione segna un discrimine nella storia di Fortini intellettuale e scrittore. Di qui anche il significato, il “peso specifico” delle poesie che tu citi.

L’incontro con Panzieri e gli intellettuali che gravitavano intorno a «Quaderni rossi» appartiene ad una fase di molto successiva a quella appena delineata (cioè il periodo della guerra e della Liberazione). Esaurita la fase del “Politecnico”, finiti i “dieci inverni” del dopoguerra, dopo l’Ungheria, Fortini ha lasciato il Partito Socialista e cerca interlocutori tra i più giovani, sganciati dagli ambienti intellettuali della sinistra ufficiale e della “società letteraria”. L’importanza di Panzieri per Fortini, al di là dei dissensi e delle diverse posizioni su questo o quell’aspetto della società del tempo, è espressa a chiare lettere nella prosa in morte dell’Ospite ingrato e nelle poesie di Questo muro e Paesaggio con serpente; si tratta di una figura decisiva (di anticipatore, di apertura al futuro) in quanto lo stesso Panzieri si muoveva, con straordinaria lucidità, fuori dalle formazioni politiche tradizionali, sia sindacali sia partitiche, in una prospettiva che poneva i più raffinati strumenti della cultura critica al servizio dell’analisi diretta del lavoro nel mondo del neocapitalismo, in un tornante storico decisivo (oggi si vede anche meglio). Del gruppo allora attivo e in generale per quegli anni, oltre a Panzieri, la personalità più prossima a Fortini fu in primo luogo Edoarda Masi, e poi Sergio Bologna; non direi altrettanto per Mario Tronti o Asor Rosa. Ma ripeto, quel che conta di quel momento è la prospettiva “dal basso”, a contatto con i fenomeni in atto nella società, quale fu propria dell’esperienza di «Quaderni Rossi», e che in qualche modo si ricollega sul piano storico all’esperienza dei “consigli” e a Brecht, anticipando temi e nodi critici poi assunti dal Sessantotto (per intendersi). Di queste esperienze, è vero, nella Facoltà di Lettere di Siena c’era una traccia precisa, e soprattutto un modo di vivere la cultura che adesso è impensabile, a dir poco.

Ma a questa  sintesi molto brutale e parziale, aggiungerei due punti su cui riflettere.

Se la centralità della classe operaia è un dato incontestabile nel quadro culturale ora accennato, bisogna altresì rammentare un passaggio di Verifica dei poteri in cui Fortini osserva: «… se il proletariato industriale è stato, per una età, la coscienza del mondo, non è certo debba esserlo necessariamente oggi, né che lo siano altri ceti o classi, fuor di quella classe che tuttavia si definisce dal grado di diniego di essenza cui le altri classi la sottopongono.» (corsivo del testo). Sono parole scritte nel 1963 e dicono molto, mi sembra, di quale sia stato l’atteggiamento di Fortini al riguardo; e dicono anche quanto egli possa essere, ancora oggi, una voce indispensabile per il nostro presente.

L’altra osservazione è di diverso ordine e di tipo, se vuoi, aneddotico. Ha raccontato una volta Goffredo Fofi che uno dei compagni di «Quaderni Rossi», non ricordo ora quale, chiese un giorno a Panzieri, con qualche insofferenza, perché desse tanto ascolto a Fortini, che era in fin dei conti un poeta. Panzieri allora prese tra i suoi libri la Vita di Marx di Franz Mehring, e lesse il passaggio in cui si parla dei rapporti tra Marx e Heine. Si tratta del capitolo sull’Esilio a Parigi e vi si dice come per Marx i poeti non potessero essere misurati «con la misura degli uomini comuni e anche non comuni», e inoltre che egli vedeva in Heine non solo il poeta «ma anche il lottatore» e uno spirito libero, per questo capace di intendere i «più profondi nessi della vita storica». Non saprei dirti per quali poeti di oggi vadano bene queste parole, ma per Fortini davvero non avrei dubbi. E Panzieri aveva ben visto.

A.P.: L’altro punto che ti chiederei di affrontare brevemente, anche se merita pagine e pagine, è quella del lavoro di Fortini come traduttore. Quella di Fortini non è certo la traduzione del traduttore condannato all’invisibilità, è una traduzione d’autore. In certo modo è anche una posizione privilegiata, perché Fortini si può permettere di diventare interprete senza paura di incrociare la bacchetta o la penna blu di una “segretarietta secca” bianciardiana o di un moderno editor. Oppure forse anche lui ha avuto delle grane, come traduttore, nella macchina editoriale? Altro punto eccezionale secondo me è scrivere sull’impalcatura di un altro autore che ti fa ombra o ti dà luce… spesso capita di leggere un autore che diventa così importante da spostarti quasi sul suo spartito musicale… E’ successo anche a Fortini, traducendo Brecht?

Luca Lenzini: Se guardiamo all’insieme del lavoro di Fortini traduttore, non si può non rimanere impressionati. Contando solo le traduzioni in volume, si hanno una cinquantina di titoli, con nomi che vanno da Flaubert a Proust, da Eluard a Brecht, Kafka, Queneau, Goethe, Simone Weil. Si tratta cioè di autori di primissimo piano, non solo del Novecento. Che le sue siano poi  traduzioni “d’autore”, questo è senz’altro vero; anche se non va trascurata l’importanza che quel lavoro poteva avere sul piano economico, per quanto limitata: i libri di saggi o le poesie non gli assicuravano certo introiti di rilievo. Si spiegano così certi titoli inaspettati, come per esempio Einstein. Un’altra cosa da non dimenticare è poi l’aiuto costante che ebbe dalla moglie Ruth Leiser, svizzera di lingua madre tedesca (ma conosceva anche il russo), donna intelligentissima, tanto sensibile quanto generosa, e del tutto priva di snobismi. Le versioni da Brecht costituiscono da sole un capitolo a parte della cultura italiana novecentesca; per non parlare del Faust di Goethe, al cui lavoro contribuì in modo decisivo il nostro germanista più grande (in tutti i sensi), Cesare Cases. Quindi nel suo caso non parlerei di “segretarie” (che ci saranno anche state), ma della fattiva presenza di Ruth, invece, e di collaborazioni di altissimo livello.

Quanto al rapporto con alcuni degli autori citati, è certo che Brecht prima, Goethe poi (ma in una certa fase anche Eluard) ebbero un influsso significativo sulla sua scrittura poetica, e non solo in senso stilistico ma anche come posizione rispetto al mondo circostante. E a partire da questa considerazione, mi preme osservare che il lavoro del traduttore, del critico e del poeta sono strettamente correlati tra loro: c’è un dare e ricevere continuativo, un trapasso dalla pratica linguistica – con l’annesso uso della memoria poetica, in Fortini straordinaria – alla riflessione critica, dalla dimensione sperimentale a quella  teorica. Ora, non solo alcuni saggi dedicati al tema della traduzione poetica ebbero una funzione innovativa molto importante nel quadro della critica, ma la sua attenzione ai poeti-traduttori all’interno della produzione novecentesca ha aperto la strada a tutto un “genere” di studi, oggi persino inflazionato ma all’epoca trattato in modo marginale o molto settoriale. Ebbene, se non si ha presente questo scambio fecondissimo, radicato in una cultura dialogante e di apertura a tutto campo, s’intende poco o nulla di Fortini traduttore e dello specialissimo ruolo che la traduzione ha nella sua opera.

A.P.: Infine, dato che immagino tu abbia frequentato Fortini nei suoi anni di docenza a Siena, vorrei chiederti di parlare dei luoghi fortiniani a Siena. Siena è una città che assomiglia a un labirinto a forma di y: per muoversi a Siena bisogna continuamente darsi dei punti di ancoraggio, la logica del cardo e del decumano qui non funziona. I miei luoghi a lungo sono stati quelli di Pantaneto e via Roma, il giardino di Lettere, la trattoria dello Gnudo ai Pispini, e poi l’ospedale delle Scotte, per ragioni belle e brutte. Potrei fissare altre coordinate, ovviamente, ma qui non si parla di me: il mio è solo un esempio illustrativo per chiederti quali sono, a tua memoria, i luoghi fortiniani di Siena. I luoghi dove lui abitava, passeggiava, lavorava, scriveva, leggeva…

Fortini e Siena: è un tema che è stato ben trattato da un caro amico senese di Fortini, Carlo Fini, in uno scritto apparso su «Trasparenze», la rivista di Giorgio Devoto, nel 2000, tema di recente ripreso da Valentina Tinacci in una monografia su Fortini docente. Del resto lui stesso, in una lezione magistrale tenuta nel 1989 in quella che al tempo si chiamava “Scuola di lingua e cultura italiana per stranieri”, ebbe a parlare del proprio rapporto con la città, dandone un ritratto molto personale, ricco di notazioni storiche e non solo storiche. Certo Siena non è più la stessa, rispetto a quella conosciuta e descritta da Fortini, per esempio quando parlava del «rappresentante di farmaceutici all’ultimo piano dell’albergo Toscana, l’ultimo spettatore di cineclub di ritorno a casa picchiando i tacchi sul selciato e l’oste bisunto sull’ultimo conto della sua giornata tra fiaschi e salumi», i quali «possono credere davvero di sentir passare in aria, volanti, i diavoli che sulle tavole della Pinacoteca straziano i santi e duellano con gli angeli.» Ma credo molto abbia contato, per lui, una prima scoperta di Siena fatta in gioventù, quando girava per chiese e musei al tempo in cui era studente, alla cerca dei pittori amati e studiati. C’è una prosa molto bella pubblicata nel ’45 in cui descrive quell’esperienza, legata a un amore giovanile  – mi viene da citare in materia un poeta che Fortini ebbe caro, Sereni, quando scrive (di Barcellona): «solo un amore che si fosse acceso in noi da quelle parti ci avrebbe immessi con tanta forza dentro una città e ne avrebbe dilatato i contorni»… – , con una Piazza del Mercato piena di buoi e cavalli e la città invernale «spolpata come una reliquia dal freddo e dal tramontano.»

Parlando dei luoghi, bisognerebbe dire – oltre al già citato albergo Toscana – soprattutto di Fieravecchia, che tu giustamente rammenti. Ma qui il discorso sarebbe lungo e temo di scivolare troppo nell’autobiografico, per cui oltre a rinviare ai lavori di Fini e Tinacci mi limiterò a ricordare un passo dell’intervista di Paolo Jachia (Leggere e scrivere, 1993) in cui Fortini parla dei «seminari senesi, in certe serate di gran silenzio, la campagna nera oltre le vetrate della facoltà, tra gli studenti, ragionando insieme sui nessi sottili di un’ottava o di un inno, l’improvviso luccichío di fosforo sulla pagina, che annulla secoli e fa sorridere la cerchia degli attenti.»

Importanti furono anche i soggiorni alla Certosa di Maggiano: c’è un paesaggio con Siena sullo sfondo, disegnato da quei luoghi, che ha un corrispettivo in un brano di Ricordo di Firenze (1982), in Insistenze («Dalla mia finestra senese vedo un orto fratino ben zappettato, un muretto di cotto che pare cinese, colombe e tortore tra nespolo, pesco e limone. Poi un largo pendio di vigna netta e di ulivi, sul crinale della poggiata le case in fila, e più oltre lo stendardo delle mura, da Porta Romana a Porta Pispini.») – e quanto a trattorie, naturalmente Le Logge, per gli ultimi anni: c’è al riguardo un sonetto divertito e divertente, dedicato a Gianni Brunelli, la cui prima strofa recita: «Figlio della città che fu del giglio / e vecchio ormai lombardo – voce e vena / cercai quaggiù, gli anni fuggendo, Siena / tu, stretta noce, tartuca, gheriglio…» Per il resto, credo che – come documentano anche foto e carte dell’archivio – quanto a “coordinate”, un luogo essenziale delle permanenze fortiniane a Siena, ricco di stimoli intellettuali e fecondo anche sul piano editoriale, fu proprio la casa di Carlo Fini in via della Galluzza, dove insieme a Maria Luisa Meoni , ad Attilio Lolini e sua moglie Loredana Montomoli, Romano Luperini e tanti altri amici e colleghi Fortini poteva non solo improvvisare versi e imitazioni, ma progettare libri e trovare solidarietà e conforto nei suoi «inverni di guarnigione», quegli inverni che per tanti suoi studenti e amici furono un momento decisivo della propria esistenza, in quella forse troppo «stretta noce» ma che allora sapeva almeno guardare oltre se stessa.

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