Pantere Nere – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Black Panther Party tra storia e mito https://www.carmillaonline.com/2019/05/28/black-panther-party-tra-storia-e-mito/ Tue, 28 May 2019 21:30:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52551 di Gioacchino Toni

Paolo Bertella Farnetti, Pantere Nere. Storia e mito del Black Panther Party, Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 306, € 24,00

Dopo essere stato pubblicato originariamente da ShaKe nel 1995 (seconda ediz. 2006), torna in libreria, per Mimesis, il libro Pantere Nere. Storia e mito del Black Panther Party di Paolo Bertella Farnetti, storico formatosi nell’ambito dell’esperienza di “storia sul campo” della rivista «Primo Maggio», studioso di storia sociale degli Stati Uniti nel Novecento ed in particolare della “black question”, attualmente impegnato nell’ambito della Public History e nel progetto Returning and Sharing [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo Bertella Farnetti, Pantere Nere. Storia e mito del Black Panther Party, Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 306, € 24,00

Dopo essere stato pubblicato originariamente da ShaKe nel 1995 (seconda ediz. 2006), torna in libreria, per Mimesis, il libro Pantere Nere. Storia e mito del Black Panther Party di Paolo Bertella Farnetti, storico formatosi nell’ambito dell’esperienza di “storia sul campo” della rivista «Primo Maggio», studioso di storia sociale degli Stati Uniti nel Novecento ed in particolare della “black question”, attualmente impegnato nell’ambito della Public History e nel progetto Returning and Sharing Memory, per il recupero e la condivisione delle fonti, soprattutto private, della storia del colonialismo italiano.

Nonostante l’esperienza del Pantere Nere afroamericane – «la più grande minaccia alla sicurezza interna degli Stati Uniti», secondo quanto affermato nel 1969 dall’allora direttore dell’FBI J. Edgar Hoover – abbia, per certi versi, mantenuto nel tempo un certo interesse mediatico, fino ad anni recenti non sono stati molti gli studi scientifici ad essa dedicati; tra questi vi è certamente il voluminoso libro di Paolo Bertella Farnetti che, nell’attuale edizione, presenta alcuni aggiornamenti rispetto alla prima uscita.

I primi dieci capitoli del volume ricostruiscono la storia dell’organizzazione indagandone: le radici (Dai diritti civili al Black Power), le origini (Un’organizzazione per i “fratelli di strada”), l’iniziazione (Da Oakland a Sacramento), l’affermazione (L’influenza di Eldrige Cleaver), la struttura (Organizzazione nazionale e quadri), l’assedio (L’attacco dello stato contro le Pantere), tre casi di repressione (Los Angeles, New York e Chicago), la resistenza (Contraddizioni con il movimento), la crisi (L’attacco finale contro le Pantere) e l’epilogo (Dalla scissione al tramonto). A questi si aggiungono poi un undicesimo capitolo, dedicato ad una riflessione sulla memoria a proposito dell’organizzazione afroamericana, ed una sezione con alcuni aggiornamenti, una cronologia (1965-1989) ed una preziosa bibliografia scelta.

Come più volte sottolineato nel volume, al fine di comprendere la parabola del Black Panther Party occorre fare i conti, oltre che con gli errori interni all’organizzazione, anche con la sconfitta dell’intero movimento entro cui le Pantere avevano avuto un ruolo di primo piano. La portata della sconfitta di cui si sta parlando è efficacemente  resa dalle riflessioni della Pantera David Hilliard che, all’uscita di prigione, si scopre catapultato in un contesto totalmente trasformato durante la sua detenzione.

«Ho uno shock culturale mentre vado in giro. Per le strade non c’è più traccia di politica. Prima della mia andata in prigione la politica era una presenza costante del paesaggio. Non potevo percorrere un isolato senza incontrare qualcuno che vendeva un giornale o distribuiva un volantino che annunciava un raduno o una manifestazione; in più, naturalmente, Telegraph Avenue e l’area intorno a Barkeley erano un’ebollizione continua di ribellioni studentesche e di scontri di piazza fra poliziotti e manifestanti. Ora l’azione principale nelle strade è rappresentata da droga e prostituzione […] Quel genere di ragazzi – asiatici, bianchi, neri, latinoamericani – che quattro o cinque anni fa cantavano “Free Huey!” e “potere al popolo!” ora esibiscono i loro corpi senza pudore o spacciano agli angoli di strada. Oakland non è più la città delle Pantere, ma una “città aperta” del divertimento, un posto dove si viene da fuori per procurarsi donne o droghe. Anche la base economica della città è cambiata. L’Oakland della mia giovinezza era una città di lavoratori, gente che ci dava dentro dalle nove alle cinque. Ora la comunità sembra sempre più devastata» (p. 207).1

La lunga rimozione dell’esperienza delle Pantere Nere è figlia della scissione avvenuta nel 1971 e della sua successiva involuzione, fenomeni che però non possono che essere collocati all’interno di un generale declino del dibattito politico statunitense. «La sconfitta complessiva del movimento nato negli anni Sessanta, è stata particolarmente dura per la componente afroamericana. […] La massiccia introduzione di droga – soprattutto il devastante crack – nella comunità nera, nell’indifferenza, se non compiacenza, delle autorità, ha trasformato i ghetti in “terre di nessuno” dove l’attività criminale e l’appartenenza a una gang rimane l’unica forma di ascesa sociale e di riconoscimento, e la violenza dei neri contro neri ha raggiunto livelli intollerabili. Il “problema nero” è stato abbandonato a se stesso, al suo autocontrollo distruttivo, da una società americana sorda e insicura che ha rinchiuso i neri poveri fra le mura invisibili del ghetto e quelle, tangibili, delle prigioni» (p.216).

Quando anche le Pantere hanno conquistato qualche riga nei libri di storia americana, queste, scrive Bertella Farnetti, finiscono per essere ricordate come un esempio di estremismo degli anni Sessanta statunitensi da collocarsi in un’epoca “di eccessi” del tutto irripetibile fuori da quel contesto. «Il fatto che le condizioni sociali e politiche che hanno prodotto il Black Panther Party si siano mantenute e probabilmente ingigantite non sembra, apparentemente, turbare le autorità. La loro vittoria appare totale e la retorica violenta delle Pantere sembra sopravvivere solo nella “tradizione orale” del gangsta rap, un messaggio musicale muscolare e osceno, ma innocuo» (p. 208).

Negli anni più recenti qualche segnale di riscoperta della storia del BPP da parte della comunità nera c’è stato; è come se nel corso del lungo periodo di silenzio politico intercorso tra la dissoluzione del movimento ed oggi, vi fosse stato «uno strisciante ma significativo processo di riappropriazione della memoria di un’epoca che li ha visti protagonisti» (p. 209). Si pensi a quanto la figura di Malcom X sia stata recentemente affrontata dall’editoria e dal cinema.

«Come dice Cornel West, uno degli intellettuali neri più lucidi, l’eredità del movimento nero degli anni Sessanta continua ancora a perseguitare gli afroamericani ed è un nodo che va risolto, sia nei suoi aspetti positivi sia in quelli negativi. Da qui è necessario ripartire, perché nella storia afroamericana “gli anni Sessanta furono testimoni dell’indimenticabile comparsa delle masse nere sulla scena storica, da cui peraltro furono presto trascinate via – uccise, mutilate, messe in riga, imprigionate o comprate”» (p. 209).2

Con l’uccisione di Huey P. Newton da parte di uno spacciatore di crack nel ghetto di West Oakland nel 1989 e la fine dell’epopea reaganiana, il dibattito sull’esperienza e sull’eredità delle Pantere si è improvvisamente riaperto, soprattutto sulla “stampa bianca”, in un botta e risposta tra denigratori e difensori della controversa figura del leader del BPP. A rinverdire il ricordo delle Pantere hanno sicuramente contribuito la breve esperienza del People’s Organized Response, organizzazione messa in piedi da alcuni ex militanti dopo la scomparsa di Newton, e la messa in circolazione, per quanto a diffusione limitata, di due diverse pubblicazioni: «The Commemorator», che con i suoi 54 numeri cessa le pubblicazioni nel 2012, e «The Black Panther», durato soltanto dal 1991 al 1993. Un ruolo importante nella circolazione dei materiali vecchi e nuovi sulle Pantere è svolto, oltre che da siti in internet, dalla casa editrice Black Classic Press di Baltimora, fondata dall’ex Pantera Paul Coates.

Negli anni Novanta sono state pubblicate diverse autobiografie di ex militanti del BPP, tra queste lo studioso segnala quella di David Hilliard, dirigente della “vecchia guardia”, e quella di Elaine Brown, leader post scissione. Nonostante siano contraddistinte da omissioni difensive e da diversi errori nelle ricostruzioni degli avvenimenti, si tratta di testimonianze decisamente utili alla ricostruzione del percorso politico della struttura afroamericana e a contrastare le letture tese esplicitamente alla criminalizzazione dell’intera esperienza del BPP. Importanti contributi alla riscoperta delle Pantere sono stati sicuramente anche il film Panther (1995) diretto da Mario Van Peebles e scritto dal padre Melvin e la campagna mondiale in favore dell’ex Pantera Mumia Abu-Jamal, condannato a morte con l’accusa di aver ucciso un poliziotto nel 1982.

In apertura del nuovo millennio diversi storici e ricercatori hanno iniziato a collocare l’esperienza del BPP nel contesto storico in cui si è data e, nel giro di poco tempo, si sono accumulati parecchi studi finalmente basati su fonti solide e ricerche negli archivi e se, sottolinea Bertella Farnetti, «le Pantere sono finalmente state prese sul serio dagli storici, il loro mito, la loro presenza sottotraccia nella cultura africanoamericana non ha mai smesso di esistere per arrivare a esplodere in varie forme in concomitanza con la celebrazione dei 50 anni dalla fondazione del partito. La riapertura recente di un fronte di lotta per la liberazione nera e l’emergere di nuove organizzazioni militanti come reazione alla brutalità della polizia nei confronti della popolazione nera, un tema strategico e un obiettivo che il BPP voleva attuare immediatamente, sono diventati l’occasione per un confronto e un bilancio sull’eredità politica delle Pantere» (227) . Tra le questioni oggi indagate in maniera più approfondita occorre sicuramente segnalare quella relativa al ruolo delle donne all’interno del BPP alla luce delle critiche di maschilismo mosse al partito dal femminismo allora nascente.

Venendo ad anni più recenti, lo studioso ricorda come durante la finale del Super Bowl del 2016, nella sua performance, l’icona della pop music Beyoncé ed il suo corpo di ballo, si siano presentati sulla scena con un abbigliamento chiaramente ispirato alla storica divisa delle Pantere suscitando un certo scalpore. La settimana dopo la performance di Beyoncé le televisioni statunitensi hanno mandato in onda The Black Panthers: Vanguard of the Revolution (2015) di Stanley Nelson, documentario che ricostruisce la storia del BPP attraverso fotografie e filmati, spesso rari, con numerose interviste a vecchi militanti.
«La storia delle Pantere Nere viene celebrata e il loro messaggio politico dispiegato – e unito alle lotte recenti – facendo giustizia delle precedenti narrazioni mediatiche che le presentavano come un gruppo d’odio e anti bianco, o come una banda di puri e semplici gangster nascosti dentro un fumo rivoluzionario. La repressione istituzionale e di Cointelpro [Counter Intelligence Program – programma di infiltrazione e controspionaggio interno dell’FBI attivo formalmente tra il 1956 e il 1971] viene analizzata, mentre i filmati documentano la partecipazione di massa alle attività del partito e il successo delle loro iniziative a favore della comunità. Alle Pantere viene restituita la dignità di soggetto politico americano in una rappresentazione che sintetizza la potenza mitografica dei giovani e affascinanti rivoluzionari neri e la ricerca storica» (pp. 250-251). Il documentario ha ottenuto un grande successo di pubblico ma non ha mancato di attirarsi critiche sia per aver omesso episodi poco gloriosi della storia del BPP che, a detta di alcuni vecchi militanti, per aver svilito la portata rivoluzionaria delle Pantere a causa di una ricostruzione storica eccessivamente semplificata.

Se per certi versi la storia del BPP è riuscita ad uscire dalla rimozione collettiva, resta il fatto che la strada da compiere per una comprensione del fenomeno al di là del mito e della demonizzazione è ancora lunga. Secondo Paolo Bertella Farnetti «l’eredità e la memoria del Partito della Pantera Nera dipende dalla capacità degli afroamericani di riappropriarsi del proprio passato, con le sue conquiste, i suoi errori e le sue sconfitte; ma soprattutto dipendono dalla capacità di utilizzare questo passato nel cammino verso la liberazione, altrimenti la memoria diventa soltanto imbalsamazione. La storia del BPP è solo un tassello dell’esperienza degli afroamericani, ma è centrale a un periodo che ha affrontato tutti i nodi problematici della loro pressione: quei nodi, quel periodo, sono un passaggio obbligato per la comunità nera» (p. 216).


  1. In  David Hilliard e Lewis Cole, This Side of Glory. The Autobiography of David Hilliard and the Story of the Black Panther Party, Scarecrow Press, Metuchen, N.J., 1976, p. 384 

  2. In Bruno Cartosio, a cura di, Senza Illusioni. I neri degli Stati Uniti dagli anni Sessanta alla rivolta di Los Angeles, ShaKe, Milano, 1995, p. 53 

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“Ci sono ancora persone sobrie nella Riserva” https://www.carmillaonline.com/2018/05/15/ci-sono-ancora-persone-sobrie-nella-riserva/ Tue, 15 May 2018 21:12:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45498 di Giacomo Marchetti

Il silenzio, dicono, è la voce della complicità Ma il silenzio è impossibile. Il silenzio urla. Il silenzio è un messaggio, così come fare nulla è un’azione (Leonard Peltier)

Land è un film sulla condizione dei nativi nord-americani oggi, girato dal quarantenne regista anglo-iraniano: Bebak Jalali. Originario di un paese al confine tra l’Iran e il Turkmenistan, dedica a questa terra periferica e di confine, uno dei suoi primi lungometraggi, “Frontier Blues”, del 2009. E la vita “di confine” e “ai margini” è al centro anche di questa narrazione filmica. La pellicola è una co-produzione, anche italiana, [...]]]> di Giacomo Marchetti


Il silenzio, dicono, è la voce della complicità
Ma il silenzio è impossibile.
Il silenzio urla.
Il silenzio è un messaggio,
così come fare nulla è un’azione

(Leonard Peltier)

Land è un film sulla condizione dei nativi nord-americani oggi, girato dal quarantenne regista anglo-iraniano: Bebak Jalali.
Originario di un paese al confine tra l’Iran e il Turkmenistan, dedica a questa terra periferica e di confine, uno dei suoi primi lungometraggi, “Frontier Blues”, del 2009.
E la vita “di confine” e “ai margini” è al centro anche di questa narrazione filmica.
La pellicola è una co-produzione, anche italiana, che nasce da un progetto del Torino Film Lab, selezionata per la sezione Panorama della Berlinale di quest’anno, svoltasi alcuni mesi fa.
“La terra” nella finzione filmica è una riserva indiana chiamata “Prairie Wolf”, ma nella realtà del set è un territorio di confine tra USA e Messico: Tijuana, a qualche km da quel muro che divide “artificialmente” gli States dal Messico
Un confine che è stato al centro della propaganda politica elettorale presidenziale di Orange Man, attuale inquilino della Casa Bianca.
Una cesura che non ha nulla di naturale, quella tra USA e Messico, ma è il prodotto storico di un esproprio compiuto dagli Stati Uniti a metà dell’Ottocento in una delle prime guerre di conquista che ne caratterizzeranno la storia, così come nulla di “naturale” ha l’attuale situazione dei nativi americani in cui l’inizio del loro Olocausto coincide con l’approdo di padri pellegrini sul Mayflower nelle coste orientali del continente Nord-Americano a Cape Cod l’11 novembre del 1620.

Buona parte del territorio del sud degli Stati Uniti è infatti il risultato di una “guerra di rapina”, recentemente rievocata da un bel romanzo di Pino Cacucci: Quelli del san Patrizio in cui si narra le vicende dei disertori, per la maggior parte di origine irlandese, che passarono dalla parte dei messicani, formando un battaglione d’artiglieria nominato appunto San Patrizio al comando di John Riley, uno dei primi fulgidi esempi di “traditori di razza” della storia popolare nord-americana.

La linea di confine, “il dentro” e il “fuori”, la costruzione dell’identità, sono al centro della riflessione filmica, così come anche il tema del “traditore” – in questo caso traditrice – di razza, un ruolo – quest’ultimo – riservato nella pellicola ad una teenager bianca scevra dei pregiudizi della propria famiglia sui nativi americani, curiosa di conoscere la Storia, anzi le storie, di un popolo che vive ridotto alla condizione di reietto.
I nativi sono ancora odiati dai parenti della giovane che non provano alcun rispetto per “gli indiani” ma di cui hanno ancora timore.
I nativi costituiscono ancora una delle maggiori fonti di ricchezza attraverso la vendita di alcolici, business che oltre a lucrare sull’esistenza dei “pellerossa” contribuisce alla loro “anestetizzazione” sociale, rendendoli dipendenti dall’alcol (e quindi da chi lo vende) e incapaci di difendersi dai propri carnefici.
L’alcol ha svolto, e svolge, per i nativi americani la stessa funzione della diffusione massiccia di droghe nei ghetti delle città metropolitane nei confronti degli afro-americani: “la guerra chimica” denunciata ai suoi tempi della Pantere Nere.

Per citare la strofa di un verso di una famosa poetessa chicano-americana Gloria Anzaldua: to survive the Borderlands / you must live sin fronteras / to be a crossroads…
Il regista sembra ispirarsi proprio a questa strofa e stimolato da un servizio, apparso sul Guardian, si reca – per produrre il film – due volte in Nord America, visita una trentina di riserve e compie la selezione degli attori attraverso un casting aperto tra i nativi americani, persone che hanno quindi vissuto sulla propria pelle quella condizione che vuole far emergere, rendendo il film una sorta di docu-fiction in stile iper-realista.

Siamo in uno dei tanti territori rimasti ai margini dello sviluppo economico americano, dopo esserne stato al centro, qui si tratta di quella frontiera mobile un tempo fondamentale per l’espansionismo statunitense, ma la condizione di esistenza potrebbe essere la stessa, mutando di paesaggio e di composizione “etnica”: la periferia di Detroit, un tempo Motorcity, un villaggio ex-minerario nei Monti Appalachi, un quartiere di New Orleans colpito dall’uragano Katrina, in una tante città della rust belt: umanità di scarto in qualsiasi di questi contesti…

È la storia di una famiglia di nativi americani che vive nella riserva, e che passa gran parte della sua esistenza fuori dal territorio nativo stesso: un fratello, Ray, ex alcolista e diabetico lavora con il figlio in un allevamento di bovini mentre un altro combatte nell’Air Force degli Stati Uniti in missione in Afghanistan, un altro, Wes, passa la sua giornata in uno store fuori dalla riserva a bere birra (l’alcol è vietato nella riserva) con la madre – cattolica praticante ma tutt’altro che remissiva e perno del nucleo familiare – che lo porta in macchina quando inizia la sua giornata e lo va a prendere al calar del sole, mentre un terzo, che sembra godere di una certa agiatezza, si dedica al contrabbando di alcol nella riserva e non vive nella casa familiare.
La narrazione filmica si svolge quasi esclusivamente dentro le mura domestiche della famiglia nella riserva, dentro e nelle vicinanze del negozio che vende prevalentemente alcolici, nell’allevamento di bovini e lungo le strade polverose che collegano questi punti.
La riserva è una specie di non-luogo, solcato raramente da chi non ci vive ed è raro che qualcuno l’attraversi per raggiungere “un’altra meta”: non è mai un approdo, se non per chi ci vive come fosse un quartiere dormitorio in cui l’autorità poliziesca è svolta dalla tribe police, il cui unico compito sembra essere quello di verificare la presenza di alcolici sulle persone che ritornano alla Riserva.

Fuori dall’esercizio commerciale la telecamera si adagia sui nativi che passano il proprio tempo a bere, ridotti ad uno stato larvale, mentre sulle pareti un murale raffigurante il prigioniero nativo americano Leonard Peltier, e alcune scritte murali come “native proud” non potrebbero dare un senso di maggior contrasto tra una storia fatta di resistenza e volontà di riscatto ed un presente di marginalità e rassegnazione, a cui nel corso del film i protagonisti reagiscono trasformando una narrazione distopica nel suo contrario.

Gli eredi dei cowboys, non sembrano essere meno aggressivi dei loro predecessori e la tensione è palpabile in ogni scambio verbale tra i membri della famiglia che gestisce lo store, tranne la già ricordata teenager (l’unica che si interessa del co-protagonista alcolizzato), e la famiglia di nativi americani: la linea di separazione tra le due comunità deve essere netta e invalicabile, l’ostilità reciproca il metro del loro relazionarsi, non ha caso alla ragazza viene impedito di frequentare Wes.
La linea del colore, per citare W.E.Du Bois è ancora una discriminante e demolisce le retoriche obamiane della società statunitense come post-razziale.
In questo tempo, fuori e dentro, la riserva il tempo sembra essersi fermato.
Sanno che con i fumi dell’alcol Wes, perde i suoi filtri, e riporta a galla la storia, anche recente, di sopraffazione che la giovane non deve ascoltare: ma è proprio dalla comprensione di ciò che è attraverso ciò che è stato che la ragazza diviene complice indiretta della reazione dei nativi americani, provando probabilmente quello stesso senso di identificazione che le prime abolizioniste provavano nella condizione degli afro-americani di fronte al potere degli WASP, come ci ricorda Angela Davis in un libro recentemente ri-tradotto e ri-pubblicato: Donne, razza e classe.

L’unica attività di svago sembra essere il combattimento tra galli, che la crudeltà umana piega alla sua etica di scontro mortale cingendo con una lama metallica affilata ricurva una zampa del volatile.
Il combattimento tra questi animali, che è una sequenza centrale di Land, è una metafora di questa lotta mortale tra discendenti dei coloni e quelli dei nativi su una terra arida, sullo sfondo di uno sviluppo che concede solo le briciole in quella terra di nessuno alla componente bianca e che continua quel rapporto di dominio iniziato con la “Conquista del West”.

Il motore filmico è la notizia dell’uccisione del fratello in missione in Afghanistan, e le vicende si svolgono lungo il tempo d’attesa della possibilità di riavere il corpo del defunto per celebrare il rito funebre.
La “locandina” del film riprende un frame della pellicola nella scena al confine tra il territorio degli Stati Uniti e quello della riserva, con la bara coperta dalla bandiera statunitense e cattura lo sguardo d’odio del padre verso la cassa da morto in cui un vi è il corpo senza vita del figlio.

I parenti di Floyd e gli abitanti della riserva attendono la salma, sostituendo la bandiera a stelle a strisce e il picchetto d’onore dell’aeronautica: uno dei dialoghi più intensi del film è quello della nonna e del padre con l’ufficiale dell’Air force che ha il compito di occuparsi del figlio morto.
Floyd è morto “per il proprio Paese” secondo l’ufficiale, mentre per la sua famiglia quello era solo il suo lavoro, saranno loro a seppellirlo e non i militari nonostante la prassi esiga il contrario.
I nativi americani sono tra coloro che sono destinati essere la “carne da cannone” per le imprese belliche dell’Impero americano, ed il mestiere delle armi è una delle poche possibilità, insieme al crimine, di emancipazione economica per le “minoranze razziali” statunitensi.

La cerimonia funebre è dilatata nel tempo a causa dell’inchiesta che deve rilevare i motivi del decesso, e se il militare si è attenuto al regolamento, il che permetterebbe di godere alla famiglia di una cifra pari a 100.000 di dollari di risarcimento come militare ucciso in combattimento, rispetto ad una decima parte che gli spetterebbe comunque come soldato in missione.
La voce dell’ufficiale sfuma in questa scena che si svolge nell’ufficio della base militare dell’aeronautica, mentre elenca i vari benefits di cui ha diritto comunque la famiglia a causa del decesso (tra cui l’accesso a cure mediche gratuite…).

Nel tempo dell’attesa l’aggressione fisica gratuita da parte dei figli dei gestori dello store nei confronti del fratello etilista è l’altro motore filmico che fa schizzare la tensione tra gli eredi dei cowboys e quello dei guerrieri “indiani”. L’attesa della vendetta e della possibile reazione a questa in un contesto in cui non c’è alcuna autorità legittima che tuteli l’incolumità dei cittadini e ne punisca i trasgressori proiettano la vicenda in un continuum storico in cui la violenza era e rimane il rapporto sociale tra questi raggruppamenti umani che si tratti dello stupro travestito da prostituzione, o del linciaggio vero e proprio come strumento per imporre con il terrore il proprio dominio se minacciato.

Ed è significativo che la violenza che si consuma su Wes da parte dei due giovani avviene a causa della sua insistenza nel volergli ricordare un linciaggio di due “cacciatori indiani” avvenuto in passato recente di cui loro padre dovrebbe serbare ricordo, cioè esserne probabilmente il responsabile e non è difficile supporre si tratti proprio dell’uccisione del padre di Wes, di cui non si parla mai esplicitamente nel film.

L’equilibrio dato dall’impunità della sopraffazione si rompe e se ne stabilisce un altro in cui la possibilità di rispondere agli attacchi perpetrati nei confronti dei nativi americani non solo vendica un torto subito, ma stabilisce un precedente: ci sono ancora persone sobrie nella riserva risponde la madre zittendo la gestrice dell’attività commerciale che gli paventa rappresaglie per la giusta punizione inflitta ai suoi figli per ciò che hanno fatto a Wes.
Ed anche il figlio etilista, può farcela, se aiutato a disintossicarsi…

E in questa riaffermazione di sé e della propria storia di resistenza, che le parole dell’ex leader dell’American Indian Movement, Leonard Peltier, citate all’inizio della recensione ritrovano la loro forza vitale.
Peltier ha scontato ingiustamente 40 anni di carcere e ora settantenne è chiuso dietro le sbarre di una prigione, per avere difeso armi in pugno la propria comunità dagli assalti alla riserva di Pine Ridge, sfuggita alla dinamiche “interne” di perpetuazione della dominazione dello Zio Tom.
La poesia citata si conclude con queste strofe: Voi siete le vostre azioni / voi siete il risultato delle vostre azioni / diventate il vostro messaggio / Voi siete il messaggio.

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The Roof is on Fire: l’America della nuova coscienza “nera” https://www.carmillaonline.com/2018/01/16/the-roof-is-fire-lamerica-della-nuova-coscienza-nera/ Mon, 15 Jan 2018 23:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42724 di Giacomo Marchetti

Angie Thomas, The Hate U Give. Il coraggio della verità, traduzione di Stefano Bortolussi, Giunti 2017, pp.416, euro 14,00

«Perché ascolti sempre questa musica preistorica?» Domanda Starr, la protagonista sedicenne a Khalil, mentre la riporta a casa dopo averlo incontrato casualmente ad una festa terminata con una sparatoria tra gang rivali. La musica preistorica è quella di Tupac Shakur, rapper afro-americano figlio della militante del Partito delle Pantere Nere Afeni Shakur e icona dell’Hip Hop degli anni Novanta. Il romanzo prende il nome proprio da un acronimo usato dal [...]]]> di Giacomo Marchetti

Angie Thomas, The Hate U Give. Il coraggio della verità, traduzione di Stefano Bortolussi, Giunti 2017, pp.416, euro 14,00

«Perché ascolti sempre questa musica preistorica?»
Domanda Starr, la protagonista sedicenne a Khalil, mentre la riporta a casa dopo averlo incontrato casualmente ad una festa terminata con una sparatoria tra gang rivali.
La musica preistorica è quella di Tupac Shakur, rapper afro-americano figlio della militante del Partito delle Pantere Nere Afeni Shakur e icona dell’Hip Hop degli anni Novanta.
Il romanzo prende il nome proprio da un acronimo usato dal musicista che acquista nei suoi versi un significato particolare.
Thug Life, traducibile in “vita da teppista” diviene: The Hate U Give Little Infants Fucks Everybody.
E così Khalil spiega l’acronimo: «nel senso che quello che la società ci vomita addosso da piccoli le si rivolta contro quando ci incazziamo».
Tupac, per Khalil, era la verità.
Lo diverrà anche per Starr, cessando di essere solo, musica “dei vecchi tempi”.

Khalil, cresciuto insieme alla protagonista è costretto a farla, la vita da teppista, con una situazione familiare alle spalle piuttosto problematica a causa della madre che non riesce ad uscire dalla tossicodipendenza, ed una nonna anziana e malata.
Starr vive nello stesso quartiere di Khalil, ma studia in una scuola lontano dal suo abitato, in cui è una delle poche teen-ager afro-americane; suo padre, ex membro di una gang – come a sua volta sua padre – è stato in carcere ed ora gestisce un piccolo spaccio alimentare nel quartiere regalato dal vecchio proprietario – unico a dargli un lavoro uscito di prigione – ; la madre lavora come infermiera professionale.

Starr ha un fratello più grande che il padre ha avuto da una relazione extra-coniugale con la “donna” di King, capo-banda della gang di quartiere, i King Lords, a cui il padre era “affiliato”, e un fratellino più piccolo Sekani…
Starr, ha visto uccidere da una “pallottola vagante” la sua migliore amica Natasha alcuni anni prima, senza che fosse fatta luce su quell’omicidio.
Nella finzione letteraria così come nella realtà, le vite degli afro-americani uccisi in conflitti a fuoco non conta, sia che a sparare sia un agente di polizia sia che l’omicidio avvenga in altre circostanze.

Quella notte, Khalil e Starr verranno fermati dalla polizia che ucciderà Khalil durante il fermo nonostante fosse disarmato e non avesse dato adito ad alcun comportamento “sospetto”.
Sarà la presunta aggressività verbale di Khalil e il possesso di una spazzola nella portiera dell’auto, confusa per una pistola, a far premere il grilletto all’agente secondo il suo “alibi”.
Il vero motivo è che Khalil è un giovane afro-americano…

La vita di Starr viene stravolta una seconda volta, e forse l’unica cosa che la salva dall’essere la seconda vittima della violenza poliziesca quella notte – l’autore dell’omicidio non smette di puntarle la pistola addosso anche dopo aver ucciso Khalil – è il preciso decalogo che i suoi genitori le hanno imposto dall’età di dodici anni sul comportamento da tenere in caso di fermo.
Le parole del padre, Starr, le ha stampate in testa, quando sente la sirena e lo specchietto retrovisore dell’auto su cui viaggiano si colorano d’azzurro.
Devi fare tutto quello ti dicono di fare […]Tieni le mani bene in vista. Non fare movimenti bruschi. Parla solo se interpellata.
Le ha insegnato il padre, e così si comporta, “salvandosi”.

Da allora, vive un perenne conflitto interiore, che risolve decidendo di non tacere di fronte alla morte dell’amico, di non rimuoverla per dimenticare in fretta.
Non vuole convivere silenziosamente con i propri rimorsi di coscienza che si alternano agli incubi che popolano le sue notti.
The Hate U Give è “un romanzo di formazione” e il lettore viene proiettato nel mondo di una sedicenne afro-americana nel suo mutevole rapporto con il mondo e con se stessa nella sua vita di tutti i giorni, ma che tiene testa a tutti, genitori compresi.
Ai poliziotti che la interrogano e che le chiedono:
«Puoi dirci cos’è successo la sera dell’incidente?»
Starr risponde a bruciapelo:
«Intende la sera che è stato ucciso».

Una vita quotidiana fatta anche di amore viscerale per le Jordan (i vari tipi di calzature indossati da Air Mike) e per il Basket, i “cibi spazzatura”, l’irrompere improvviso della sessualità, un rapporto organico e strutturante con i social – che divengono strumenti della sua battaglia e non solo semplici passatempi – e personaggi dello spettacolo della cultura mainstream con cui idealmente tal volta si confronta, come Willie il principe di Bel Air della fortunata serie televisiva.

La sua vita si svolge dentro più di un conflitto e “tra conflitti”, basti pensare che suo zio Carlos, il fratello della madre, importante sostituto del padre durante i suoi anni di detenzione, è un poliziotto nato e cresciuto in quartiere ma trasferitosi poi nel sobborgo bianco della scuola che frequenta.
Suo zio, non rinuncia a “proteggere” la nipote anche recidendo quella “solidarietà di corpo” che è il collante della polizia in casi come questi, e prendendosi in carico un altro giovane afro-americano a cui la gang a cui era affiliato vorrebbe “fare la pelle”.

Starr sceglie di contribuire al sabotaggio della macchina del fango montata contro Khalil che viene rappresentato dai media come un criminale tout court, ed indaga direttamente sulla strada intrapresa dal suo coetaneo accusato di essere uno spacciatore appartenente ad una banda, scoprendo i motivi reali della sua scelta “extra-legale”. Decide di diffondere attraverso i social, insieme agli altri, un’ immagine dell’amico più consona alla realtà rispetto a quella stereotipata dei media mainstream, facendo divenire virale la percezione della comunità degli affetti attorno a Khalil.
Una ricerca travagliata, perché la costringe a fare i conti per ciò che provava veramente per Khalil, a far riemergere i ricordi di un passato che aveva dovuto rimuovere a causa della morte di Natasha e del “trio” che formavano insieme a lui: momenti di felicità infantile che fanno l’effetto di un pugno alla bocca dello stomaco a causa della tragica scomparsa degli amici.

Starr fornisce elementi concreti per smontare la tesi che utilizza l’inversione tra vittima e carnefice tesa a deresponsabilizzare l’agente per la morte di Khalil, affinché non si proceda giuridicamente contro di lui.
La protagonista affronta la spensierata crudeltà del pregiudizio razziale che anche una delle sue migliori amiche, Hailey, esercita su di lei, ridefinendo un universo relazionale più maturo e cosciente con un’altra sua amica asiatico-americana.
Ingaggia un confronto serrato con il suo ragazzo Chriss, figlio di una famiglia agiata che vive nel sobborgo bianco della scuola che frequenta.

Ciò che ha vissuto Starr “politicizza” le sue relazioni, in un rapporto dialettico di incontro/scontro fondato su basi nuove. Così, alla fine, Starr è un vettore di crescita di Chriss, che decide di partecipare organicamente alle proteste degli afro-americani – unico bianco in un quartiere nero in rivolta – e in maniera non meno impegnativa sceglie di affrontare il padre e lo zio di Starr che non vedevano di buon occhio il fidanzamento della figlia con un bianco, ma che alla fine si rassegnano all’evidenza che il ragazzo abbia “le palle”.
Chriss, è un “traditore di razza” disposto a mettere in discussione i suoi pregiudizi razziali inconsapevoli, in un percorso che lo porta a annullare anche il suo “machismo”, l’opposto positivo di Hailey e dei suoi tanti coetanei pronti a sfruttare la morte dello “spacciatore” Khalil solo per perdere un giorno di scuola.
Williamson, il nome della scuola che frequenta, e Garden Heitghts, il quartiere-ghetto dove vive, «sono due mondi completamente diversi» che la protagonista aveva precedentemente deciso di tenere separati, ma l’esistenza e le relazioni in questi due “universi paralleli” si intrecceranno dissolvendo le divisioni artificiali e facendo comunicare tra loro i compartimenti stagni dell’esistenza precedente.
Ma se si dissolvono nella scelta di vita di Starr, i muri della segregazione secondo la linea di colore rimangono alti per le due comunità.

Anche il rapporto con il quartiere si modifica nel corso degli eventi, una relazione complessa dove gli elementi di una irrinunciabile familiarità con le relazioni di mutuo appoggio storicamente intessute dai suoi abitanti, si alternano ad uno spazio fisico disseminato da pericoli.
Rischi dovuti allo scontro tra le gang, dove anche andare a fare due tiri in un campo di basket in un parco all’aperto in un territorio conteso può riservare “spiacevoli sorprese”.
Un quartiere dominato da un circolo vizioso che costringe gli ultimi della scala sociale – per poter emergere o più comunemente per sopravvivere – all’affiliazione ad una banda che ha come propria ragione d’esistenza lo spaccio di droga che falcidia le vite delle persone a causa della loro tossicodipendenza, della guerra per lo spaccio e delle massiccia presenza della polizia “giustificata” dalla “guerra alla droga” stessa.
Questa è una dinamica magistralmente inquadrata dalla serie televisiva dell’HBO: The Wire, affresco di una città, “nera” e “povera” come Baltimora, che ritroviamo nel libro della Thomas…

Lo spettro dell’insurrezione urbana, il riot, attraversa tutto il romanzo, e prende concretamente forma in due momenti separati aventi come apice “i disordini” che provoca la decisione della giuria di non incriminare il poliziotto che ha ucciso Khalil, nonostante la coraggiosa testimonianza di Starr di fronte al Gran Giurì e alla sua altrettanto temeraria, e non scevra di conseguenze, scelta precedente di comparire in una seguitissima trasmissione televisiva.
Il quartiere diventa teatro di una violenza contraddittoria che investe obiettivi “legittimi” della rabbia popolare: un’auto della polizia e il negozio dei pegni, come attività commerciali la cui scomparsa desertificherebbe ancora maggiormente il tessuto urbano e la condizione stessa degli “insorti”, aspetti che riecheggiano i temi sviluppati da Spike Lee in “Fai la cosa giusta”.

Riprendiamo le parole di Tupac: quello che la società ci vomita addosso da piccoli le si rivolta contro quando ci incazziamo.
Questa è la cifra del romanzo, se alle nuove generazioni afro-americane viene fatto bere “il latte marcio” del suprematismo bianco nel mix letale di quartieri degradati, violenza poliziesca, “carcerizzazione” e guerra tra bande come orizzonte di vita, il precipitato politico di questo non può che essere la ribellione.

Che sia lo scatto di coscienza di una sedicenne, la solidarietà tra subalterni della stessa comunità o il riot che brucia l’illusione di una società post-razziale in un quartiere dove la polizia si comporta come forza d’occupazione, la matrice resta la stessa.
Tupac è il medium, anche a livello di storia familiare, tra ciò che è stato storicamente il movimento di liberazione degli afro-americani – di cui il romanzo è pieno zeppo di riferimenti grazie alla figura del padre ed è rappresentato all’oggi dalla figura dell’avvocato-attivista che aiuta Starr nella sua battaglia.

Così come le rivolte nei ghetti afro-americani segnarono il passo a fine anni ‘60, decretando la fine dell’illusione integrazionista del movimento per i diritti civili sotto la leadership di Martin Luther King e aprendo la strada ad una “nuova” radicalizzazione degli afro-americani, così le proteste scaturite dall’uccisione di afro-americani da parte della polizia ha fatto maturare una nuova coscienza nera “organizzata” – di cui #BlackLivesMatter è l’esempio maggiormente conosciuto – facendo cambiare pagine alla società colorblindness narrata dall’industria culturale di Obama.
Questo romanzo, da cui è stato tratto un film per la regia di G.Tillman Jr., ne è un esempio potente, incalzante nella scrittura, serrato nei dialoghi, come le rime di un brano hip hop, mondo da cui l’autrice – che vive da sempre a Jackson, nel Mississippi – proviene.

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