PAN – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’ultimo narcos: epopea e segreti del Chapo Guzmán https://www.carmillaonline.com/2016/01/30/lultimo-narcos-epopea-e-segreti-del-chapo-guzman/ Fri, 29 Jan 2016 23:00:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28358 di Fabrizio Lorusso

chapo pensoso[La narrazione viaggia su cinque capitoli, intervallati da alcuni video e foto. Si può pure saltare da uno all’altro in caso di necessità. Indice: 1. Il Cartello  2. Ayotzinapa  3. La terza cattura  4. Estradizione?  5. Triangolo: Kate del Castillo, Sean Penn e “El Chapo” Guzmán]

“A cosa starà pensando El Chapo?” Questa semplice domanda, contenuta in un tweet del giornalista messicano Diego Enrique Osorno diventa virale la sera dell’8 gennaio. Sono passate poche ore dalla cattura, la terza, del narcotrafficante [...]]]> di Fabrizio Lorusso

chapo pensoso[La narrazione viaggia su cinque capitoli, intervallati da alcuni video e foto. Si può pure saltare da uno all’altro in caso di necessità. Indice: 1. Il Cartello  2. Ayotzinapa  3. La terza cattura  4. Estradizione?  5. Triangolo: Kate del Castillo, Sean Penn e “El Chapo” Guzmán]

“A cosa starà pensando El Chapo?” Questa semplice domanda, contenuta in un tweet del giornalista messicano Diego Enrique Osorno diventa virale la sera dell’8 gennaio. Sono passate poche ore dalla cattura, la terza, del narcotrafficante più ricercato al mondo, Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, capo dell’organizzazione criminale di Sinaloa. Più conosciuto ormai per il suo alias, “El Chapo”, ossia il tozzo o tarchiato, il capo rinchiuso è diventato un numero: prigioniero 3870 del penitenziario di massima sicurezza El Altiplano, prima La Palma. Nel tweet di Osorno è incorporata una delle foto diffuse dalla stampa dopo l’arresto. Guzmán sta seduto al suo posto vicino al finestrino, in canotta, con lo sguardo perso nel vuoto e la testa reclinata sul vetro. Pensoso, con un suo scagnozzo affianco, e provato dopo un risveglio di sparatorie e fuggifuggi. Il cartello di Sinaloa, conosciuto anche come del Pacifico o Federazione, è l’organizzazione criminale più potente del continente americano e probabilmente del mondo. Muove la gran parte dell’eroina, della cocaina, della marijuana e delle droghe sintetiche negli Stati Uniti e ha espanso le sue attività illegali nel pregiato mercato europeo, in Asia e in Oceania, dove i prezzi degli stupefacenti crescono ancora promettendo lauti guadagni. Il cartello di Sinaloa la fa da padrone nella spartizione di una torta globale psicotropica stimata tra i 300 e i 400 miliardi di dollari. E’ forte a New York come a Buenos Aires ed è presente in ogni grande città tra queste due. Al di là del tradizionale business delle droghe, i cartelli messicani hanno diversificato le loro attività delinquenziali orizzontalmente, cioè si dedicano al contrabbando di metalli preziosi e petrolio, al commercio di armi e alla tratta di persone, al traffico di migranti, all’estorsione, al sequestro di persona, al riciclaggio, e a un’altra dozzina di tipologie criminali.

Capitolo 1. Il Cartello

winslow cartelLe aree degli affari mafiosi non dipendono da una sola persona ma da reti, franchigie, gruppi, bande, strutture, organizzazioni, connivenze e associazioni che tendono a persistere: morto un Papa, cioè un boss, o smantellato uno degli anelli della catena, se ne fanno altri o altri già ne esistono, mentre i flussi globali di merci e servizi seguono il loro corso. In seguito all’arresto di un capo o allo smantellamento del grosso delle sue reti, possono avvenire scissioni o ristrutturazioni all’interno dell’organizzazione. Alcuni gruppi, clan o famiglie provano a “lavorare in proprio” o si specializzano in uno o più business criminali su cui avevano acquisito un vantaggio competitivo.

Circolano queste ipotesi circa le possibili future evoluzioni del cartello di Sinaloa che, sia ora sia nel precedente periodo di incarceramento del Chapo (febbraio 2014-luglio 2015), ha continuato a funzionare “normalmente” vista la solidità dei suoi affari e delle sue ramificazioni. E grazie anche ad altre leadership consolidate: c’è Ismael “El Mayo” Zambada, suo figlio “El Vicentillo”, attualmente neutralizzato e in carcere negli USA, i figli di Joaquín Guzmán o vecchie glorie come Rafael Caro Quintero che, nel silenzio, potrebbe essere tornato in attività dopo la sua liberazione nel 2013. E infine c’è anche “El Azul”, Juan José Esparragoza Moreno, capo storico dato per morto nel giugno 2014 ma che pare possa essere redivivo secondo varie fonti.

Infine, come sostiene lo scrittore noir americano Don Winslow, autore dei bellissimi Il potere del cane (2005) e Il cartello (2015), c’è e lì resta il Cartello, inteso non solo come l’organizzazione criminale, ma anche come tutto quello che ci sta intorno e la fa funzionare, ossia gli apparati dello stato, le polizie e i politici implicati nel contrabbando di stupefacenti o nella protezione di tali illeciti commerci (ascolta qui un’interessante intervista del giornalista di RSI Daniel Bilenko allo scrittore).

Missione compiuta? E Gisela Mota, la sindaca ammazzata?

gisela mota“Missione compiuta: ce l’abbiamo. Voglio informare i messicani che Joaquín Guzmán Loera è stato arrestato”. Arriva alle 12:19 PM – 8 Jan 2016 il cinguettio di @EPN, account twitter del presidente del Messico Enrique Peña Nieto. Per lui e il suo esecutivo è un momento di rivincita e festeggiamenti, mentre le voci critiche parlano di una “finzione compiuta”, alludendo alle incoerenze nelle narrazioni che si susseguono ora dopo ora, alle filtrazioni premeditate di informazioni e dettagli, secondo un copione occulto, e infine alla pomposità dello spettacolo presidenziale riprodotto dalle TV.

Tra l’altro la ricattura del boss arrivava proprio in un momento delicatissimo, con un timing e una precisione impressionanti. Il 2 gennaio, infatti, veniva uccisa Gisela Mota, neosindaca di Temixco, vicino a Cuernavaca, nella regione del Morelos, da un commando armato di presunti narcos del gruppo dei Los Rojos. Questi, come i tristemente famosi Guerreros Unidos, sono una cellula scissionista dell’ex potente cartello dei fratelli Beltrán Leyva, a loro volta fuoriusciti da quello di Sinaloa nel 2009.

La notizia del crudele assassinio, perpetrato nella casa della giovane funzionaria nel secondo giorno del suo mandato di fronte ai suoi familiari, ha fatto il giro del mondo, mettendo nei guai il governo e il presidente, giusto nel mese in cui si preparava la sfilata nella vetrina del World Economic Forum. In terra azteca sono un centinaio i presidenti municipali, come sono chiamati i sindaci nei comuni, ammazzati negli ultimi dieci anni. Gisela non s’era piegata ai dettami della delinquenza organizzata della zona, sempre più confusa e infiltrata nelle polizie locali e statali. Graco Ramírez, governatore del Morelos, ha approfittato del femminicidio mafioso per assumere pieni poteri sulle polizie dei comuni, il che di per sé non risolve le gravi disfunzioni di questi corpi corrotti, putrefatti. Di fatto gli osservatori più attenti, tra cui il poeta attivista Javier Sicilia, attribuiscono proprio all’incapacità e ai contuberni del governo statale la deriva violenta degli ultimi cinque anni. Si protegge il crimine organizzato, i suoi affari e i loro complici nella funzione pubblica, ma non si tutelano gli amministratori e i politici onesti che sono minacciati.

Quando in Italia e in Colombia la violenza crebbe sproporzionatamente fino a toccare il cuore del mondo politico e dell’élite, lo scossone cominciò a smuovere l’opinione di coloro che vivevano nel e del sistema politico-mafioso e della classe dirigente nel suo complesso. Il dilemma era diventato: o noi, o loro. E quindi arrivarono misure d’emergenza e maxiprocessi. E’ la spiegazione del paradosso che hanno vissuto questi paesi a detta dell’accademico Edgardo Buscaglia. In Messico, invece, gli assassini politici a tutti i livelli non hanno provocato nessuna reazione complessiva e decisa del sistema e nel sistema, per cui la violenza pare inarrestabile.

chapo entrevistaEcco che allora prendere il Chapo diventa strategico, vitale, di fronte all’opinione pubblica mondiale. Le critiche per l’insicurezza e l’indignazione per l’ennesimo crimine di stampo mafioso vengono smorzate e, almeno momentaneamente, dimenticate dinnanzi allo show del jefe de jefes che viene scortato nell’aeroporto Benito Juárez della capitale. L’intervista dell’attore Sean Penn al Chapo, che esce sulla rivista Rolling Stone il 9 gennaio, e la persecuzione contro lo stesso Penn e l’intermediaria dell’incontro, Kate del Castillo, fungeranno da distrazione massiva per tutto gennaio e oltre, mentre la memoria di Gisela Mota e delle altre vittime della narcoviolenza e del narco-stato solo viene difesa da parenti, movimenti sociali e media indipendenti.

Il 22 febbraio del 2014 il capo sinaloense era stato imprigionato, ma il 12 luglio di un anno dopo era riuscito a fuggire clamorosamente dal carcere di “massima sicurezza” El Altiplano, nei pressi della capitale, grazie a un tunnel di un chilometro e mezzo scavato sotto la prigione. Fu uno sberleffo per i responsabili della sicurezza e specialmente per il governo che dal momento del suo insediamento, nel dicembre 2012, ha provato a costruire di fronte al mondo l’immagine di un Paese sicuro e moderno, pronto ad accogliere investimenti e capitali offrendo le garanzie di un vero stato di diritto e d’una economia dinamica. Che poi in soldoni non si traduce in sicurezza sul lavoro, diritti, certezza della legge e responsabilità sociale, come il discorso ufficiale ambiguamente prova a comunicare, ma in una forza lavoro sottopagata, ricattabile e “ben disciplinata”, in vantaggi fiscali enormi per le multinazionali, nella privatizzazione di educazione, salute e beni comuni e infine nell’apertura allo sfruttamento delle risorse naturali, in primis quelle minerarie ed energetiche.

Capitolo 2. Ayotzinapa

Di lì a poco, il 26 settembre, la “notte di Iguala” avrebbe nuovamente e definitivamente stravolto i sogni di gloria dell’esecutivo, rivelando le trame della narco-politica e della narco-polizia, così come la volontà di governo e procura di sotterrare il caso, occultare responsabilità e adulterare le indagini. Ma ormai non si poteva più lasciare all’oscuro il grosso dell’opinione pubblica nazionale e internazionale e i genitori dei 43 ragazzi, sostenuti da un solido e indignato movimento di protesta, sono diventati subito una spina nel fianco, ancor più di quanto non lo fosse stata la fuga del boss più ricercato e ricco del mondo (leggi qui gli articoli su Iguala-Ayotzinapa).

Tanto in là s’è spinta la brama di manipolare, prima, e chiudere, poi, il caso, oltreché di zittire le proteste e le voci discordanti, che è stata creata una confusa “verità storica”, sbandierata messianicamente come “buona e giusta” dall’ex procuratore Jesús Murillo Karam. Era invece fallace e menzognera, un insulto. L’effetto boomerang è stato dirompente e il movimento di sostegno ai genitori di Ayotzinapa e alle vittime di sparizione forzata, tra cui si contano migliaia di centroamericani, oltre che 30mila messicani, s’è internazionalizzato e rinforzato, malgrado le continue denigrazioni mediatiche e la repressione fisica di attivisti e giornalisti.

Gli studenti restano desaparecidos, cioè in un limbo burocratico e ontologico tra la vita e la morte, introvabili, per cui campeggiano i loro volti e i loro nomi, giganti di dignità e lotta, per le strade e le piazze, come a simboleggiare e denunciare le infinite impotenze e corruzioni strutturali dei diversi apparati statali coinvolti nei delitti commessi contro di loro. Il rischio che venga riconosciuto internazionalmente il crimine di lesa umanità per il caso Iguala-Ayotzinapa è alto e concreto e il presidente, che è capo supremo delle forze armate, ne dovrebbe rispondere direttamente. I pochi “punti d’immagine” che gli restano sarebbero immediatamente seppelliti in una delle tante fosse comuni dell’oblio, colme di ossa e segreti di stato, di cui per lungo tempo s’è voluta negare financo l’esistenza. Ma prima di tornare al Chapo…

Ayotzi 2016Breve aggiornamento

Al termina di una carovana che ha portati in 15 stati della repubblica messicana, il 26 gennaio 2015, a 16 mesi dalla sparizione dei loro figli, i genitori di Ayotzinapa e i movimenti solidali hanno marciato per le strade di Città del Messico e hanno chiamato i collettivi all’estero a realizzare una giornata globale di protesta. La rivista Proceso ha pubblicato un reportage che mostra come vi sia del materiale audiovisuale importantissimo per il caso che è estato lasciato fuori dalle indagini ufficiali e come nella notte del 26 settembre 2014 il C4 (Centro di Controllo, Comando, Comunicazione e Computer) di Iguala fosse controllato da militari. Stiamo parlando del più importante snodo per il commercio di oppiacei ed eroina del continente americano. Iguala e i vertici del “pentagono dell’oppio” messicano nello stato del Guerrero sono vigilati da distaccamenti militari, ben informati circa i flussi che vi transitano. Le forze armate sono state protette dal governo durante le indagini e sono blindatissime per cui non è possibile interrogare nessuno dei militari che erano presenti durante i massacri e le desapariciones della notte di Iguala. Nel video occultato dalle autorità si nota chiaramente il passaggio di un convoglio composto da varie auto della polizia e, tra queste, vi sono altri veicoli che potrebbero essere “ufficiali” e avere a bordo funzionari pubblici. Viene quindi confermata la natura organizzata e complessa dell’operazione contro gli studenti sopravvissuti, le vittime e i desaparecidos di Ayotzinapa. Il 5 e 6 febbraio si svolgerà il Primo Incontro Nazionale dell’Indignazione, convocato dai genitori di Ayotzinapa e dai gruppi solidali, per articolare un fronte nazionale di lotta comune.

 

Capitolo 3. La terza cattura

chapo capturado“Burla e sfida”, furono le parole usate da Peña dopo la fuga di luglio. La sua credibilità cadde in picchiata, il mito del narcos Guzmán si consolidava. Invece la sera di venerdì 8, in attesa di una risalita negli indici di gradimento, il presidente appare raggiante di fronte alle telecamere. Declama sorridente la riacquisita solidità di quelle stesse istituzioni che, pochi mesi prima, s’erano mostrate porose e corrotte nel custodire e lasciar scappare il jefe de jefes. Certo, adesso i complimenti veri vanno alla Marina, probabilmente l’apparato meno corrotto e più efficiente nel Messico della narcoguerra, ma vengono profusi altresì elogi e complimenti a tutte le istituzioni e in generale a presunti miglioramenti nello stato di diritto.

Peña s’è vantato dei 98 arresti compiuti dei 122 “obiettivi criminali” prioritari nel Paese. L’opinione pubblica invece si chiede come mai i mercati delle droghe illecite siano fiorenti come mai prima e la violenza di omicidi, sparizioni forzate e sequestri di persona non dia cenni di cedimento. La guerra alle droghe, così com’è stata concepita sin dai tempi di Nixon negli anni ’70, è una sfida persa in partenza. Ciononostante il trionfalismo di Osorio Chong, il ministro degli interni, è imperturbabile: “Oggi il cartello di Sinaloa è totalmente un altro”. “Gli Zetas e il Jalisco Nueva Generación sono polverizzati”, ha chiosato al quotidiano La Jornada provando a ridisegnare a modo suo la mappa del crimine organizzato in Messico. Nel 2015 gli omicidi dolosi hanno superato la cifra di 18mila, in crescita rispetto ai due anni precedenti in cui c’era stato un calo. I desaparecidos sono ufficialmente quasi 27mila, ma Ong e associazioni della società civile ne contano oltre 30mila. L’Ufficio delle Dogane e il Controllo di Frontiera statunitense (CBP, in inglese) in un rapporto del 2010 spiegava che la cattura dei narco-boss non colpisce la dinamica del narcotraffico che, al contrario, vive e si rinnova anche grazie al ricambio dei vertici.

La procuratrice generale della repubblica, Arely Gómez, ha annunciato il ritorno di Guzmán nello stesso reclusorio in cui si trovava prima della fuga, El Altiplano. Ci resterà almeno un anno, mentre s’attendono i risultati dei processi di estradizione negli USA e i vari ricorsi che i suoi avvocati stanno già inoltrando a ripetizione. L’operazione di cattura della Marina messicana è durata alcune ore e il bilancio finale è di un militare ferito, cinque presunti delinquenti uccisi e sei arresti. El Chapo, raggiunto dai marines in una delle sue case-nascondiglio (casa de seguridad, in spagnolo) a Los Mochis, città costiera dello stato del Sinaloa, s’è inizialmente addentrato nei condotti delle fognature per poi riemergere da un tombino nel bel mezzo di un viale e rubare un’automobile. Non era un copione nuovo. Lo accompagnava Orso Iván Gastélum Cruz, alias “El Cholo”, sicario al suo servizio. Con il mezzo sono riusciti ad allontanarsi prima di essere fermati dalla polizia federale. Dapprima i due hanno cercato di corrompere i poliziotti, senza successo. Poi, una volta ammanettati, sono stati condotti in un motel dove i marines li hanno chiusi in una stanza e fotografati in attesa dei rinforzi.

Anche El Cholo è un personaggio interessante, di certo non un novellino: era già stato preso il marzo scorso a Guamúchil, in Sinaloa, e nel 2008 era evaso dal carcere di Culiacán. Il 24 novembre 2012 la reginetta di bellezza Miss Sinaloa venne crivellata durante uno scontro a fuoco tra i pistoleri di Gastélum e l’esercito. Restano ignote le ragioni per cui, dopo l’arresto solo pochi mesi fa, già si trovasse di nuovo in libertà e operativo affianco al suo mentore. La città de Los Mochis, una delle più prospere del Nordovest messicano, vive dal 2009 l’incubo della violenza scatenata dalla scissione tra il cartello di Sinaloa e quello dei fratelli Beltrán Leyva, ormai decadente a livello nazionale ma forte e presente in città. La cattura del Chapo minaccia di far esplodere reazioni a catena che rischiano di mettere a ferro e fuoco l’intera zona.

Trofeo e narco-capitali

MLOS MOCHIS, SINALOA, 08ENERO2016.- En un operetivo realizado por la Marina Armada de México durante la madrugada, fue recaptrado Joaquín "El Chapo" Guzman Lorea. FOTO: ESPECIAL /CUARTOSCURO.COMFOTO: Cuartoscuro ESPECIAL /CUARTOSCURO.COM

Gli USA vogliono El Chapo e ne hanno chiesto l’estradizione il 25 giugno scorso, poco prima della sua fuga. Non se lo sono portati via subito dopo l’arresto per via dello zelo e prontezza dei suoi avvocati che si sono dati da fare sin da prima della cattura. E’ ricercato in sei corti statunitensi per reati di crimine organizzato, traffico di droga, riciclaggio e omicidio, tra gli altri.

Guzmán e Zambada, quest’ultimo ancora a piede libero, sono accusati di 21 reati e le procure sperano di recuperare capitali stimati tra i 4 e i 14 miliardi di dollari, in buona parte ricavati dal traffico di una quantità di cocaina che va da 127 a 465 tonnellate tra il 1999 e il 2014. In Messico un altro grande interrogativo riguarda proprio i patrimoni dei capi estradati. Il rischio di perderli è altissimo, dato che non vengono sequestrati a tempo debito, e dunque la beffa per una società violentata dalla narcoguerra e poi espropriata dei proventi del traffico illecito diventa doppia. La rivista Forbes stimava il patrimonio del Chapo in un miliardo di dollari, chi, o quale governo, riuscirà mai a recuperarne anche solo una quota?

Molti capitali sono già nei circuiti legali, ma non vengono né tracciati né, in caso, sequestrati. Men che meno si riutilizzano socialmente in beneficio delle comunità colpite dalla violenza. E’ il paradiso dell’impunità imprenditorial-criminale, finanziaria e del riciclaggio. Decine di imprese legalmente costituite, anche se legate all’organizzazione criminale, funzionano coll’annuenza o le sovvenzioni dello stato e non sono sottoposte a auditing tributario. L’esperto Edgardo Buscaglia, autore di un libro sul riciclaggio del denaro sporco, sostiene che “non si mette mano al patrimonio del cartello di Sinaloa perché la stessa classe politica ha paura di farlo visto che ci sarebbero ripercussioni sul finanziamento delle campagne elettorali”. Inoltre, sul tema dell’estradizione, Buscaglia ritiene che sarebbe l’ammissione del collasso dello stato messicano e che “se succede, nel processo giudiziario il PM americano si concentrerà sui delitti commessi negli USA e non coinvolgerà la classe politica messicana […] cioè coinvolgerà alcuni imprenditori messicani e statunitensi ma non la classe politica nel suo insieme”.

chapo sierra esconditeContro la brama statunitense di mettere le mani sul loro cliente gli avvocati del boss difendono coi cosiddetti “amparos”, strumenti legali del diritto messicano che bloccano temporaneamente i processi per tutelare i diritti dell’accusato. Dunque ci potrebbero volere mesi o anni, sempre che la volontà politica del capo dell’esecutivo si orienti per l’estradizione. La PGR, Procura Generale della Repubblica, vi s’era opposta nel 2014, ma ora ha cambiato opinione, così come l’esecutivo di Peña che comunica posizioni possibiliste. E d’altronde è una scelta quasi obbligata, dopo quanto è successo. “Non ci sono prigioni adatte al Chapo in Messico”, ha sentenziato a ragione il giornalista e specialista di criminalità organizzata Ricardo Ravelo. “La notizia dell’arresto è stata una sorpresa all’inizio perché nessuno credeva che lo stessero cercando dopo la sua fuga che, a detta di molti dentro e fuori dal Messico, era stata quasi pattuita”, ha spiegato a caldo dopo l’arresto al sito Aristegui Noticias. “Più che un colpo della Marina, sembra che ci sia stato un errore di logistica del team di Guzmán”, ha aggiunto.

Tra burocrazie e ritardi, oltre ai dovuti passaggi legali, El Chapo avrà il tempo per provare a fuggire di nuovo trovando spiragli nelle maglie del sistema penale e carcerario. Oppure per negoziare con calma un accordo con gli Stati Uniti da un posizione di forza, magari in seguito a una ammissione di colpa e al pagamento di una multa milionaria. Ci sta lavorando su la sua squadra di difensori: erano ben sette nel 2014, ma ora ne sono stati ratificati solo due. D’altronde un’estradizione fast track violerebbe i diritti del boss e sarebbe l’ammissione dell’impotenza di una lunga serie di istituzioni messicane, ossia il contrario di quanto ha cercato d’affermare il governo dopo la sua cattura.

A cosa starà pensando El Chapo? Era la domanda iniziale. Di certo l’elaborazione di un nuovo piano di fuga è un’ipotesi plausibile, nonostante i notevoli mezzi messi in campo per la sicurezza della cella e dell’intero penitenziario: un centinaio di federali all’esterno e trentacinque custodi all’interno, cinque filtri di controllo e due elicotteri all’esterno e persino un mastino (con la museruola) all’interno. Il boss sinaloense, almeno per il momento, non gode più delle prerogative che aveva in prigione nel 2014, cioè le visite intime di sua moglie, la ventiseienne Emma Coronel, la televisione con casse acustiche e non con le cuffie e incontri più lunghi del normale coi suoi avvocati-messaggeri. In alcune occasioni aveva anche ricevuto visite di una deputata dello stato del Sinaloa, Lucero Guadalupe Sánchez, del partito conservatore Acción Nacional, la quale s’era introdotta con documenti falsi e, secondo le versioni giornalistiche dei fatti, aveva una relazione sentimentale con El Chapo.

Capitolo 4. Estradizione?

chapo pena nietoCi sono motivi validi contro l’estradizione. Da una parte il governo cerca di difendere almeno una qualche parvenza di autonomia e sovranità nella sua relazione col Paese vicino, dall’altra esiste il rischio concreto che un capo storico come Guzmán possa trasformarsi in collaboratore di giustizia negli USA e rivelare le complicità nel mondo politico e imprenditoriale che gli hanno permesso di evadere due volte e di creare un’organizzazione criminale tra le più potenti del mondo, presente in 59 paesi. In questo caso si scoperchierebbe un vaso di Pandora che potrebbe provocare un collasso del sistema politico messicano, oppure, vista la capacità di persistenza dell’élite al potere, solo qualche rimpasto e giustificazione da sotterrare col sostegno dei mass media “amici” alla prima occasione. El Chapo potrebbe testimoniare addirittura contro alcuni membri della sua stessa organizzazione, ormai usciti dalle sue grazie, in cambio di sconti di pena e altri benefici. Si vedrà, ma intanto c’è ancora tempo prima che la giustizia americana e la messicana seguano il loro corso. C’è tempo anche per digerire la massa di opinioni e dichiarazioni che nei cinque continenti cercano di spiegare questo arresto e le complesse evoluzioni della “guerra alle droghe”.

La fuga del trafficante sinaloense nel luglio 2015 aveva provocato un problema di stato, comparabile solo alla crisi di legittimità provocata dal caso dei 43 studenti di Ayotzinapa e dalla conseguente emersione delle trame della narco-politica. Quindi, così come era successo con la “versione storica” delle autorità sui 43, la cattura del Chapo viene ora esibita come un successo, un trofeo, ma potrebbe trasformarsi in un nuovo incubo per l’intera classe politica e generare un effetto domino dalle conseguenze imprevedibili. Inoltre per l’evasione dell’anno scorso sono sotto processo solo pesci piccoli dell’amministrazione del carcere e quel gravissimo scandalo sta rientrando senza grossi scossoni.

ESTRADIZIONE BOSS MESSICOLa logica e gli argomenti del governo messicano in tema di estradizione dei baroni della droga sono state storicamente erratiche e poco incomprensibili: il leader del cartello del Golfo è stato inviato negli USA, ma un suo successore, Eduardo Costilla “El Coss”, è rimasto in Messico; quando era possibile farlo, Guzmán Loera non è stato estradato, mentre il figlio e il fratello de “El Mayo” Zambada sì (vedi infografica di Insight Crime). Un caso clamoroso è quello del ex capo del cartello di Guadalajara Rafael Caro Quintero, coinvolto nell’omicidio dell’agente americano della DEA (Drug Enforcement Administration) Enrique Camarena nel 1985, poi condannato e imprigionato, il quale è stato liberato “per motivi tecnici” da una corte messicana nel 2013. Ora è latitante. Lo stupore e l’indignazione statunitensi raggiunsero l’apice dopo la sua scarcerazione. Ad ogni modo la decisione sull’estradizione resta squisitamente politica, tecnicamente nelle mani del Ministero degli Esteri, e per adesso El Chapo è considerato “estradabile”.

Bio e un po’ di storia

Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, comunità La Tuna, città di Badiraguato, stato di Sinaloa, 4 aprile 1957. Figlio di Consuelo ed Emilio, copia di contadini, genitori di undici figli, otto maschi e tre femmine, cresciuti in povertà e senza possibilità di studiare oltre le scuole elementari in una casa dal tetto di lamiera. Una storia abbastanza comune nel Messico rurale.

Dopo anni d’esperienze come coltivatore di amapola o papavero da oppio durante l’adolescenza, il “padrino” del mitico cartello di Guadalajara degli anni ottanta, Miguel Ángel Félix Gallardo, prende il giovane Guzmán Loera al suo servizio e questi si fa le ossa nella principale organizzazione per il contrabbando di stupefacenti nel Paese. Tra il 1985 e il 1989 i principali capi dell’organizzazione vengono arrestati e comincia la lotta per la successione.

Chapo Guzman FUGAS infografica TeleSurIl Padrino stabilisce dalla prigione una spartizione dei territorio tra le varie famiglie e gruppi, anche se poi gli equilibri non reggono. Guzmán si allea con Ismael “El Mayo” Zambada e nasce il Cártel de Sinaloa o Pacífico. I fratelli Arellano Félix fondano l’organizzazione di Tijuana e Amado Carrillo si stabilisce a Ciudad Juárez. Carrillo decide di modificare i suoi tratti somatici e si reca in una clinica privata di Città del Messico. E’ il 1997. I medici “sbagliano” la dose di anestetici e lo uccidono. La pagheranno cara e moriranno tutti ammazzati. Negli anni Novanta Amado Carrillo era riuscito a dominare la scena del narcotraffico ed era noto come “Il Signore dei Cieli”. In Messico l’omonima serie di successo è arrivata alla quarta stagione. Nel 1993, durante una sparatoria tra sicari del Chapo Guzmán e pistoleri degli Arellano Félix, viene ucciso il cardinale Juan Jesús Posadas Ocampo a Guadalajara. Guzmán è accusato dell’omicidio e viene arrestato in Guatemala prima di essere spedito in Messico, nelle prigioni di Almoloya e Puente Grande, in Jalisco. Qui, paradossalmente, riesce a rafforzare i suoi affari e nel 2001 evade nascondendosi in un carrello della lavanderia.

I dettagli di questa evasione sono ormai un cocktail di storia e leggenda, ma il fatto certo è che da quell’anno Sinaloa inizia la scalata al potere criminale globale. Tra il 30% e il 50% della coca in entrata negli USA passa dalle sue mani. I colombiani, dopo l’intensificazione dei blocchi navali statunitensi nei Caraibi negli anni ’80, la morte del capo del cartello di Medellín, Pablo Escobar, nel 1993 e l’avvio del Plan Colombia, a direzione statunitense, nel 2002, sono progressivamente soppiantati dai messicani. Nel 2000 in Messico vince il PAN, partito di destra che promette grossi cambiamenti, dopo oltre settant’anni di egemonia del populista PRI. Il fiammante presidente Vicente Fox s’insedia nel dicembre di quell’anno. Il suo successore, Felipe Calderón, anche lui del PAN, governa dal 2006 al 2012 e lancia un’offensiva militare contro i baroni della droga conosciuta come “narcoguerra”. Almeno 100.000 morti in sei anni e decine di migliaia di desaparecidos sono le eredità di quella strategia che, però, non è stata modificata sostanzialente fino ad oggi.

Nel frattempo le droghe sperimentano un boom nei mercati “sviluppati” ed “emergenti”, la globalizzazione e l’impennata del commercio interessa anche loro. El Chapo entra nella classifica di Forbes tra gli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio stimato di un miliardo di dollari. Gli anni del PAN sono gli anni in cui Sinaloa diventa “il Cartello”, grazie alle connivenze e alla partecipazione delle istituzioni a tutti i livelli. Nel 2012 il PRI torna al potere e il presidente Peña mantiene i soldati per le strade, continua a ricevere i fondi USA dell’Iniziativa Merida, in diminuzione e criticati ormai anche dal congresso americano, e solo cambia il suo discorso, improntato alla modernizzazione e alle riforme. Le armi made in USA inondano e invadono il Paese. I giornalisti e gli attivisti vengono perseguitati senza tregua, il numero dei desaparecidos cresce a dismisura, la società viene limitata nelle sue possibilità d’espressione, nell’esercizio delle libertà e della democrazia ed è preda della morsa tra autorità inefficienti o corrotte e criminalità organizzata. Due facce della stessa medaglia, frequentemente confuse tra loro o indistinguibili.

Capitolo 5. Triangolo: Kate del Castillo, Sean Penn e “El Chapo” Guzmán

Chapo-Guzmán-y-Sean-Penn1A poche ore dall’arresto di Guzmán la procuratrice Arely Gómez ha dichiarato che l’intenzione del capo di girare un film autobiografico e proprio i suoi contatti con attori e produttori avevano permesso alle autorità di trovarlo, anche se le indagini duravano comunque da sei mesi. Su tutta la vicenda ad oggi restano più domande che risposte.

Il 2 ottobre 2015 l’attore Sean Penn e l’attrice Kate del Castillo, che ha stabilito il contatto tramite gli avvocati del capo, hanno fatto visita a Joaquín Guzmán Loera in una delle sue proprietà sperdute nella sierra tra il Durango e il Sinaloa e hanno passato la serata con lui, con le sue guardie del corpo e i suoi figli. Tequila e tacos a volontà. E anche qualche chiacchiera, giustamente.

Nel gennaio 2012 del Castillo pubblicò un tweet che diventò virale e polemico perché l’attrice affermava, provocatoriamente, di avere più fiducia nel Chapo Guzmán che nel governo messicano. Pare che il boss, che presumibilmente ha avuto diciotto figli con sette mogli e amanti diverse, sia avvezzo ai messaggini di testo e alle donne, quando è in libertà e quando è recluso. Inoltre l’idea del film lo stimolava. Kate del Castillo comunicava con lui servendosi del sistema di messaggeria BBM Black Berry e di lettere manoscritte. Solo a lei, come persona ritenuta di fiducia, El Chapo avrebbe rivelato e concesso i diritti sulla sceneggiatura. Anche per questo è stata fissata una visita in un luogo segreto e alcuni produttori di Hollywood, informati da del Castillo, hanno deciso di contattare Sean Penn che ha accettato di accompagnare la messicana nel viaggio nella sierra occidentale e ha proposto al narcos di realizzare un’intervista.

Però il video di 17 minuti spedito dal Chapo a Kate del Castillo non è stato registrato quella sera ma nelle settimane seguenti. Si tratta di un documento interessante anche se rappresenta più che altro una confessione, un messaggio di Guzmán al mondo, e non una vera e propria intervista in cui il giornalista ha la possibilità di controbattere. D’altronde, per come è stata fatta, non ce n’era il modo. Il testo finale è dovuto passare dall’approvazione del Chapo prima della pubblicazione. In questo senso sono piovute critiche a Rolling Stone e all’autore, accusato di aver costruito l’apologia di un delinquente responsabile di migliaia di morti. Penn ha definito El Chapo “prima di tutto un business man, che ricorre alla violenza quando lo considera vantaggioso per se stesso o i suoi interessi commerciali”.

Una visione forse romantica, anche se un po’ di verità c’è. Stiamo parlando di un impresario e commerciante, ma anche di un capo mafioso corresponsabile di mattanze e atrocità, malgrado l’affabilità e semplicità teatrali che ha sfoggiato nel video e durante la visita degli attori. Grazie ad essi ha potuto lanciare al mondo messaggi importanti, comunicare il suo potere come trafficante e burlarsi in diretta delle “solide istituzioni” propagandate da Peña Nieto. Il tempismo è stato eccellente: il giorno dopo l’arresto è uscita l’intervista, come a voler dare una sberla al governo e a comunicare che il capo resta il capo anche in prigione.

Sean Penn ha accusato le autorità messicane di mettere in pericolo la sua vita. Infatti, la procura ha sostenuto che l’intervista è stata un elemento decisivo per poterlo riacciuffare. Comunque la sua intenzione era quella d’accendere i riflettori su una giusta causa, cioè la denuncia dell’ipocrisia della guerra alle droghe, per cui i morti restano a sud mentre gli stupefacenti e i narco-capitali e le sostanze vanno a nord, e sul ruolo che gli Stati Uniti hanno in essa. In qualche modo c’è riuscito, nonostante le critiche e le speculazioni che immediatamente hanno ricoperto lui e Kate del Castillo. La strategia dei mass media s’è concentrata dunque sui personaggi, sulle frasi dei governanti, sull’etica giornalistica, sui messaggini tra Kate e Guzmán e i suoi legali e su vari dettagli morbosi, ma non sul nucleo del problema e sulle responsabilità a monte dell’ondata di violenza e corruzione che sta distruggendo la società e l’economia messicana.

Rivelazioni, film e depistaggi

chapo kate del castilloEl Chapo voleva eternizzarsi con un film, prodotto da Kate del Castillo e soci, che raccontasse la sua vita e che potesse offrire una visione diversa da quella cristallizzata nei libri, nelle inchieste, negli articoli, nei miti e nelle cronache. Per questo motivo aveva contattato tramite i suoi legali l’attrice messicana, di recente naturalizzata statunitense, che era nota al capo e al grande pubblico per il ruolo da protagonista nella serie La Reina del Sur (La Regina del Sud). Del resto da anni i suoi avvocati fanno da intermediari anche con vari potenziali ghost writer per far scrivere la sua biografia che dovrebbe intitolarsi “El Ahijado”, il figlioccio.

Nella video-intervista El Chapo ha senza dubbio rotto una tradizione, quella dei capi-mafia che mai dichiarano d’essere dei trafficanti, ma si definiscono invece imprenditori o semplici lavoratori e negano ogni vincolo con la delinquenza fino alla fine. “Traffico più eroina, metanfetamine, cocaina e marijuana di chiunque altro al mondo, ho una flotta di sottomarini, aerei, camion e autobotti”, ha dichiarato invece il sinaloense. E poi ha aggiunto, perentorio: “Il giorno in cui io non ci sarò più, non cambierà niente [nei traffici]”. Infine ha ammesso: “Son più di vent’anni che non consumo droghe” e “le droghe distruggono”.

chapo triangulo doradoIl reportage dell’attore, intitolato “El Chapo parla”, ha fatto sorgere dubbi sostanziali sul governo messicano dato che vi si descrive il momento in cui le auto su cui viaggiavano Penn e Kate del Catillo vengono fermate da un posto di blocco dell’esercito. Alcuni soldati riconoscono Alfredo, uno dei figli del Chapo, e lo lasciano passare non senza nascondere un certo imbarazzo. Il testo su Rolling Stone narra di come gli aeroplani del cartello di Sinaloa, a disposizione del gruppo, riescono a rendersi invisibili ai radar di terra e, inoltre, conferma che l’organizzazione criminale è puntualmente informata quando l’esercito esegue perlustrazioni aeree a grandi altezze che possono scoprire i loro movimenti.

Non si tratta di informazioni nuove, ma l’impatto sull’immagine dell’esecutivo è stato dirompente e imbarazzante, così come lo è stato il fatto stesso che un incontro di questo genere si sia potuto realizzare. In qualche modo le affermazioni di diversi funzionari subito dopo l’intervista hanno preannunciato la “vendetta”, cioè il ciclone mediatico e accusatorio contro Sean Penn e, in particolare, contro la sua compagna di viaggio nel ranch del Chapo.

L’attrice è oggetto di continui attacchi che mettono in pericolo persino la sua vita. La procura ha fatto in modo che venissero alla luce informazioni e comunicazioni provate contro di lei secondo un piano-montaggio orchestrato per sviare l’attenzione e colpevolizzare l’attrice. La giornalista Lydia Cacho su Proceso ha parlato di una “persecuzione di stato” che fa sospettare vi siano molti altri segreti inenarrabili dietro a tutta la vicenda e che la “logica della comunicazione politica istituzionale non solo si focalizza sulla spettacolarizzazione del caso, ma anche sulla violazione della legge”. E conclude: “L’impero di Guzmán non esisterebbe senza la connivenza delle autorità federali”. Altro che messaggini e chat. Tutti si chiedono piuttosto dove sono i soldi del Chapo e chi se li intascherà.

La polemica delle alte autorità messicane, gli inviti a comparire delle procure messicane e americane per Penn e del Castillo e l’attacco mediatico contro di loro risponde alla volontà di voler sotterrare i particolari vergognosi di questa storia per lo stato messicano: la prima fuga del narcos grazie alla corruzione di funzionari e politici, la rete intoccata delle imprese legate al cartello, la corruzione nelle forze armate, le menzogne raccontate per tappare la cloaca della narco-politica, l’omicidio di una giovane sindachessa in un territorio fuori controllo e l’impossibilità di offrire spiegazioni per il crimine di stato di Iguala contro gli studenti di Ayotzinapa e per gli altri 26mila desaparecidos. Ecco le vere questioni aperte.

]]>
NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei Cartelli della Droga https://www.carmillaonline.com/2015/06/03/narcoguerra-cronache-dal-messico-dei-cartelli-della-droga/ Tue, 02 Jun 2015 22:46:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23057 di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può [...]]]> di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può tranquillamente attraversarne migliaia di chilometri senza mai percepire un clima di violenza sanguinaria. Eppure… esiste anche l’altro Messico, quello che Fabrizio Lorusso sviscera nei suoi reportage, nei suoi approfondimenti giornalistici, nei racconti di vita quotidiana. E lo fa con esemplare giornalismo narrativo, che attualmente è l’unica fonte di informazione attendibile, non essendo schiava di una gabbia ristretta di “battute” né di censure, o meglio di autocensure, perché tutti, quando scriviamo per una certa testata, abbiamo in mente che questa ha un preciso proprietario e quindi certi limiti ce li mettiamo da soli, prima ancora che vengano imposti. Ovviamente, il giornalismo narrativo non può che trovare spazio in un libro, che poi faticherà non poco a trovare uno spazio nell’editoria. Oppure – come è il caso di alcuni di questi scritti – lo spazio se lo prendono su internet, l’universo che ci illude di essere liberi di esprimere qualsiasi opinione: peccato che, siamo sinceri, finiamo per leggerci l’un l’altro, cioè tra quanti una certa sensibilità già ce l’hanno, senza scalfire la cosiddetta “informazione di massa”, che altro non è se non disinformazione massificata.

Esiste, dunque, anche l’altro Messico, dei corpi appesi ai cavalcavia, delle teste mozzate e infilate sui pali, dell’orrore che ormai viene acriticamente ascritto ai “narcos” quando nessuno capisce più se siano effettivamente i ben armati e ben entrenados Zetas (in maggioranza ex militari di reparti speciali e mercenari centro e sudamericani con master in centri di addestramento di Usa e Israele), o se si tratti di squadroni della morte, milizie di latifondisti, regolamenti di conti d’ogni sorta, ed eliminazione spiccia di oppositori sociali.

E questa è anche la mia schizofrenia, perché…

Il Messico è dove torno ogni anno per qualche mese e dove vorrei concludere i miei giorni, e se, dopo averci vissuto per anni tanto tempo fa, continuo questo incessante andirivieni, forse è per un inconfessabile timore dell’abitudine: ovunque vivi per troppo tempo, finisci per vederne solo i difetti e non più i pregi. Io vado e vengo perché, come un vampiro, continuo a succhiarne gli aspetti migliori. Troppo comodo, lo so. Ma è così. Amo talmente il Messico, da impedirmi di trasformarlo in una consuetudine, in una routine quotidiana che ne assopirebbe le emozioni: è un po’ come con le droghe, l’assuefazione ti priva di rinnovare la sensazione inebriante della prima volta. Meglio rinnovare la crisi di astinenza – chiamiamola struggente nostalgia – che assuefarsi, svilendo quel miscuglio di energie rinnovate e sensazioni ineguagliabili che mi dà ogni volta che ci torno. Se non tornassi ma rimanessi per “sempre”, temo che l’abitudine spegnerebbe tutto.

Odoya Bandiera messicana coca proiettiliE chiarisco: la semplificazione di “pregi e difetti” è improponibile, proprio perché semplifica l’immane complessità della situazione. Difetti: non si può relegare a questo vocabolo l’orrore dei morti ammazzati. Pregi: quei milioni di messicani che in ogni istante ti dimostrano quanto siano diversi dall’orrore, con la loro sensibilità, creatività, ribellione, resistenza… dignità. La cronaca, purtroppo, privilegia gli orribili e trascura i dignitosi.

Leggendo i coraggiosi scritti di Fabrizio Lorusso (coraggiosi per il semplice e spietato fatto che lui, lì, ci vive e si espone alle eventuali conseguenze) riconosco me stesso come ero trent’anni fa: lodevole donchisciotte che, penna – o tastiera – in resta, affronta i mulini a vento dei todopoderosos di sempre, di ieri e di oggi… E in fin dei conti, oggi, mi appare come un’illusione, il tentativo di informare gli altri sulla realtà, perché la sensazione è che tutti (be’, quasi tutti) se ne freghino, della realtà. Quindi, è un’utopia. Ma cosa saremmo, senza illusioni e utopie?

Nada más que amibas. Saremmo parassiti intestinali, tanto per restare sul campo messicano. Miserabili parassiti assuefatti a una realtà ingiusta e insopportabile. È per questo, che abbiamo bisogno di illusioni e utopie. Persino dell’illusione che, scrivendo, informando, potremmo rendere meno feroce e nefasto questo mondo in cui viviamo. Che è anche l’unico che abbiamo.

Petizione del collettivo Paris-Ayotzinapa: “NO alla presenza del presidente messicano Enrique Peña Nieto alle celebrazioni del 14 luglio 2015” – LINK Firma

Prossime presentazioni a Milano: 13 giugno Libreria Les mots e 16 giugno Macao

Leggi l’introduzione del libro: QUI – Risvolto/Riassunto del libro+Bio: QUI 

Pagina NarcoGuerra: QUI – Scarica PDF Indice + Intro + Prologo del libro: QUI

]]>
Michoacán: organizzazione indigena e difesa del territorio in Messico https://www.carmillaonline.com/2015/03/11/michoacan-organizzazione-indigena-e-difesa-del-territorio-in-messico/ Tue, 10 Mar 2015 23:00:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21217 di Martina Oliviero

Michoacán México Martina Oliviero (5)È passato un anno dalla riappropriazione dei territori appartenenti alla comunità nahua di Santa María Ostula, situata all’interno del municipio di Aquila, nella zona costiera dello stato di Michoacán, Messico. Nel febbraio del 2014, infatti, grazie al ritorno di un piccolo gruppo di persone che erano state obbligate a lasciare la propria terra natale, e grazie alla decisione di queste ultime di organizzarsi per poter rientrare in possesso delle terre che il crimine organizzato aveva loro strappato, ha avuto inizio la riconquista della comunità [...]]]> di Martina Oliviero

Michoacán México Martina Oliviero (5)È passato un anno dalla riappropriazione dei territori appartenenti alla comunità nahua di Santa María Ostula, situata all’interno del municipio di Aquila, nella zona costiera dello stato di Michoacán, Messico. Nel febbraio del 2014, infatti, grazie al ritorno di un piccolo gruppo di persone che erano state obbligate a lasciare la propria terra natale, e grazie alla decisione di queste ultime di organizzarsi per poter rientrare in possesso delle terre che il crimine organizzato aveva loro strappato, ha avuto inizio la riconquista della comunità di Ostula e dei piccoli villaggi che la circondano, come La Ticla e Xayacalan. Questi stessi territori, in realtà, vennero recuperati nel giugno del 2009, ma è solamente da un anno che si può parlare di “autonomia” ed “autogestione” delle zone in questione. Negli anni ’60 la parte della comunità chiamata Xayacalan, ovvero l’incantevole territorio costiero estremamente ricco e fertile che si estende ad ovest di Ostula, venne sottratta con l’inganno ai territori comunitari e venduto a sei privati.

Il narco-cartello dei Templarios e le risorse

Nel 2009, a seguito del Comunicato per il Diritto all’Autodifesa emanato dal Congreso Naciónal Indigena (CNI), durante la sua venticinquesima Assemblea Nazionale, e del Manifesto di Ostula, firmato dalle comunità indigene di differenti stati della Repubblica Messicana, ebbe inizio la riconquista di Xayacalan. Il 26 giugno 2009 i suoi territori tornarono ad essere ejidos, termine che indica la proprietà comunitaria del terreno, prevista dalla Costituzione Messicana. Venne dato il via alla costruzione di una cinquantina di abitazioni, assegnate a famiglie di Ostula, ed in breve tempo circa duecento persone s’instaurarono presso Xayacalan. Ma gli anni che seguirono furono tutt’altro che sereni per la comunità. A partire dal 2010, in particolare, il cartello dei Templari, ovvero l’organizzazione criminale che attualmente controlla gran parte dello stato di Michoacán, tentò di imporre il proprio dominio sulla zona, estendendo l’immenso potere di cui già godeva in altre aree vicine.

Michoacán México Martina Oliviero (1)I Cavalieri Templari nacquero nel 2009 a seguito della scissione avvenuta all’interno del cartello che precedentemente governava la zona, ovvero la Familia Michoacana. A partire da questo momento la creazione di gruppi paramilitari e l’aperta collaborazione con il Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), cioè il partito che ha governato per oltre settant’anni il Paese e che dal 2012 è tornato al potere, nonché con tutti i maggiori partiti istituzionali, spianarono il cammino da un lato all’organizzazione di narcotrafficanti e dall’altro al partito stesso, che riuscì a riappropriarsi del governo di uno stato storicamente legato al Partito della Rivoluzione Democratica (PRD).

Il Michoacán è uno stato estremamente fertile e grazie alla presenza di zone montuose e pianeggianti, di climi temperati e tropicali si presta alle più svariate produzioni agricole. È inoltre un territorio ricco anche dal punto di vista della produzione di legname e delle risorse minerarie. Si tratta, in particolare, di giacimenti di ferro, argento, zinco e oro che da anni attirano centinaia di investitori e sfruttatori stranieri nonché le attenzioni del crimine organizzato della zona. Circa il 23% del ferro estratto nell’intera Repubblica proviene da questi giacimenti e le concessioni minerarie sono in continua e spaventosa crescita. Non risulta difficile intuire gli immensi interessi economici che ruotano attorno a tutto ciò e comprendere quindi il tentativo dei Templari di allungare le mani sul municipio di Ostula e sulla strategica zona costiera limitrofa. Quest’ultima, in particolare, rappresenta uno snodo nevralgico per il trasporto di stupefacenti già dagli anni ’90.

Michoacán México Martina Oliviero (2)Santa María Ostula: la comunità assediata si organizza

I successivi quattro anni vennero ripetutamente macchiati dal sangue innocente dei membri della comunità di Santa María Ostula, colpendo, senza distinzione, adulti e bambini. Ben trentadue persone, in gran parte leader della comunità, persero la vita in questo breve lasso di tempo; di altre sei non si hanno notizie. Le torture e gli omicidi commessi rimasero per anni impuniti, data la spudorata indifferenza con cui i vari apparati statali reagirono. Molti furono obbligati a lasciare le proprie case e a trasferirsi in altre zone della Repubblica per poter garantire sicurezza alle proprie famiglie, per sfuggire alle imposizioni del crimine organizzato e per non essere più costretti a vivere in un clima di terrore, in cui non è facile distinguere gli amici dai nemici ed in cui lo stesso vicino di casa poteva, da un momento all’altro, trasformarsi nel proprio assassino. Ostula si trasforma in breve tempo in un covo di Templari e solamente cinque famiglie continuano a vivere presso Xayacalan.

Ma nel febbraio del 2014, grazie anche alla graduale crescita di altre organizzazioni per l’autodifesa dei territori e alla nascita di diversi gruppi di polizia comunitaria in altre zone dello stato di Michoacán, alcuni esiliati decidono di far ritorno alle proprie terre e di organizzarsi per riconquistare ciò che spettava loro. Michoacán México Martina Oliviero (6)Grazie all’aiuto e alla collaborazione delle forze di autodefensa dei vicini municipi di Coalcomán, Cohuayana e Chinicuila, riuscirono a riappropriarsi di Ostula e delle aree costiere, quali Xayacalan e La Ticla.  In breve tempo vennero pubblicamente individuati ed allontanati coloro che avevano collaborato con il crimine organizzato e partecipato ai delitti: il 29 novembre 2014 l’Assemblea Comunale Permanente di Santa María Ostula divulgò una lettera in cui comparivano i nomi completi di chi aveva preso parte all’organizzazione dei Templari e ai crimini da questi commessi. A seguito di questa identificazione, i soggetti vennero cacciati con la forza ed ebbe inizio il lungo e tortuoso processo di riorganizzazione della comunità.

È la prima volta che i Templari si trovano a dover affrontare una situazione di questo tipo: un fronte forte e compatto non disposto a compromessi, bensì pronto alla lotta. In quest’ultimo anno la comunità ha lavorato duro per riconquistare la propria normalità, la propria routine. Si tratta di un percorso lungo e difficile, che tutt’ora attraversa una fase estremamente delicata e sensibile: la completa riorganizzazione di un sistema sociale e politico non è cosa da poco. Lentamente le famiglie hanno fatto ritorno a Xayacalan e attualmente sono circa trecentoventi le persone che la abitano.

Michoacán México Martina Oliviero (4)Le loro vite si dividono tra il tentativo di ricominciare, tra la quotidianità che l’agricoltura richiede e la protezione armata delle terre duramente riconquistate. Alle forze di polizia comunitaria di ogni villaggio appartenente alla comunità spetta, inoltre, la responsabilità di coprire un turno di ventiquattro ore presso il posto di blocco recentemente istituito proprio all’ingresso di Xayacalan, ovvero dove ha inizio il territorio comunitario, sino alla completa rotazione tra i vari centri abitati. Lo scopo della creazione di questo check-point è controllare gli spostamenti attraverso l’area comunitaria e garantirne la sicurezza. Sono frequenti le perquisizioni agli automezzi che lo attraversano, ma il tutto viene svolto nella maniera più rispettosa possibile, diversamente da ciò che accade nei vicini posti di blocco presidiati da esercito e polizia federale in cui la sensazione di insicurezza e pericolo imminente sono costanti.

Inevitabilmente le armi hanno giocato e tutt’ora svolgono un ruolo importante, in quanto unico mezzo di difesa diretta contro un’organizzazione criminale equipaggiata militarmente e che gode dell’appoggio di paramilitari e forze armate regolarmente riconosciute. Anche nell’ultimo anno non sono mancati gli episodi di violenza delle forze nemiche contro gli abitanti delle zone liberate: il 14 dicembre 2014 un gruppo di Templari, apertamente appoggiato dal PRI, e collegato all’omicidio di Don Trino, leader comunitario che venne torturato e ucciso il 6 dicembre 2011, organizzò un’imboscata contro il comandante della polizia comunitaria di Ostula, Semeí Verdía, con l’intento di eliminarlo. Fortunatamente colpirono il furgone sbagliato e, nel rendersi conto dell’errore, decisero di risparmiare la vita ai malcapitati.

La lucha va a seguir

Michoacán México Martina Oliviero (3)Nonostante i molti obiettivi raggiunti il cammino verso una normalità è ancora lungo. Per celebrare questo primo anno di riconquista dei territori, il 22 febbraio 2015 la comunità ha deciso di riunirsi presso il centro di Ostula. Dopo un primo ritrovo presso l’auditorium, accompagnato da un breve discorso introduttivo e da un pranzetto realizzato grazie alla collaborazione dei partecipanti, i membri delle forze di autodifesa e della polizia comunitaria, assieme agli abitanti provenienti dai diversi villaggi della comunità e alle forze comunitarie appartenenti ad altri municipi, giunte per i festeggiamenti, si sono diretti in processione verso la chiesa di Ostula per assistere alla celebrazione delle messa.

Tutto sembrava andare per il verso giusto. L’entusiasmo e l’orgoglio generale erano palpabili. Ma in un mondo in cui niente è bianco o nero ed in cui la corruzione dilaga, l’attenzione dei soliti approfittatori viene continuamente richiamata, a maggior ragione in momenti di delicata incertezza come questo. In Messico, come nella maggior parte dei paesi del mondo, i grandi partiti istituzionali, da sempre, applicano il “divide et impera” come regola fondamentale ed è proprio nelle situazioni di seppur minima instabilità che questi individuano l’occasione dalla quale è possibile trarre vantaggio.

La “sorpresa”

Michoacán México Martina Oliviero (4)La serenità con cui il tutto si stava svolgendo viene improvvisamente interrotta dall’arrivo di furgoni dell’esercito, della polizia federale e della forza di sicurezza pubblica di Tancitaro, un controverso gruppo armato nato come forza paramilitare ma attualmente riconosciuto dal governo messicano. Questi mezzi, carichi di individui con tanto di passamontagna, non sono altro che la scorta che accompagna le automobili su cui viaggia Luisa María Calderón Hinojosa, detta Cocoa, ex-deputata ed ex-senatrice del Partito di Azione Nazionale (PAN, di destra), candidata governatrice alle prossime elezioni federali e sorella dell’ex-presidente della Repubblica Felipe Calderón, ovvero l’ideatore della cosiddetta “guerra al narco” che ebbe inizio nel 2006 e le cui conseguenze furono ben diverse e decisamente più drammatiche di quanto inizialmente propagandato.

La gran parte dei partecipanti all’evento assolutamente non si aspettava quest’ospite a sorpresa e quando quest’ultima viene invitata sul palco dell’auditorium per prendere la parola alcuni presenti decidono di non salire su quello stesso palco e di lasciare la sala, rifiutando qualunque contatto con la politica istituzionale. Ma se María Calderón si trova lì, in quel momento, è perché le è stato permesso arrivarci, perché qualche membro della comunità le ha aperto la strada verso questo mondo che tutti pensavano non volesse avere niente a che fare con le solite facce corrotte. Il tutto si conclude in un clima ben diverso da quello con cui l’evento aveva avuto inizio, tra la perplessità di molti e la rabbia di altri.

Immagino non sia facile mantenere una rigida coerenza in casi come questo, in cui gli interessi in gioco sono molti e l’insicurezza e la violenza hanno spesso la meglio. Ma nella comunità di Ostula centinaia di persone hanno lottato duramente, per anni, perdendo lungo il cammino amici e parenti, e l’atteggiamento collettivo che fino ad ora era stato mantenuto penso dovrebbe tradursi nel rispetto di chi ha sacrificato tanto. Gli eventi recenti non significano la vanificazione di ogni sforzo né la vittoria della corruzione. Si tratta però di qualcosa che può portare a cambi radicali all’interno di Santa María Ostula e nel futuro della comunità.

]]>
Il #Messico e #Ayotzinapa gridano: #43ConVidaYa ! https://www.carmillaonline.com/2014/10/21/messico-ayotzinapa-gridano-43convidaya/ Mon, 20 Oct 2014 22:00:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18208 di Fabrizio Lorusso

Ayotzinapa donde estanLe mobilitazioni in tutto il mondo non si sono più fermate da quando la notizia della strage e la desaparición degli studenti di Ayotzinapa, commessa a Iguala, nello stato messicano del Guerrero, dal narco-apparato di polizia e mafie nella notte del 26 settembre, ha cominciato a circolare. Mentre il governo messicano parla di “persone assenti” e cerca di evitare il termine “desaparecido”, cioè persona scomparsa con la connivenza dell’autorità e in modo forzato, su twitter l’hashtag #43ConVidaYa diventa trending topic mondiale e la [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Ayotzinapa donde estanLe mobilitazioni in tutto il mondo non si sono più fermate da quando la notizia della strage e la desaparición degli studenti di Ayotzinapa, commessa a Iguala, nello stato messicano del Guerrero, dal narco-apparato di polizia e mafie nella notte del 26 settembre, ha cominciato a circolare. Mentre il governo messicano parla di “persone assenti” e cerca di evitare il termine “desaparecido”, cioè persona scomparsa con la connivenza dell’autorità e in modo forzato, su twitter l’hashtag #43ConVidaYa diventa trending topic mondiale e la fosse comuni si moltiplicano nella zona intorno a Iguala man mano che procedono le ricerche. ¡Estado asesino! ¡Vivos se los llevaron, vivos los queremos!, dicono i cartelli che da oltre due settimane tappezzano le università e le strade del Messico per chiedere al governo la “restituzione con vita” dei 43 studenti scomparsi durante il massacro di Iguala (link vicende Ayotzinapa). “Il governo è corrotto, simulatore, ed è diventato una vera minaccia per il suo popolo, questo non è un fatto isolato, al posto di stare dalla nostra parte e cercare la giustizia, il governo s’è trasformato in una minaccia”, ha denunciato il 20 ottobre, Padre Alejandro Solalinde, attivista per i diritti umani e dei migranti, premio nazionale per i diritti umani nel 2012 e fondatore della casa per migranti “Hermanos en el camino” nello stato del Oaxaca.

Gli apparati di stato, la narco-polizia, il sindaco, il governatore e il sistema nel suo insieme, fino al livello del governo federale, si sono uniti per creare il terrore come strumento autoritario di controllo sociale. Non li vogliono e non li possono trovare? Potrebbe essere una strategia deliberata. Sono alcune ipotesi, sempre più concrete, che si dibattono in Messico. Nel frattempo la procura sostiene che i 28 corpi ritrovati nelle fosse comuni due settimane fa non sono quelli dei normalisti desaparecidos, ma i periti argentini indipendenti non hanno ancora concluso le loro indagini e sembrano essere gli unici che hanno la fiducia della gente. Né la procura né la Commissione Nazionale dei Diritti Umani godono della minima legittimità per condurre le indagini in modo credibile. Il sospetto di una manipolazione politica dei risultati è troppo forte.

Ayotzinapa apoyo_normalistas_ayotzinapa_-1“Hanno sparato agli studenti come fossero membri di un esercito… Tra morti, vivi e feriti se ne sono portati via 43 e li hanno fatti camminare prima di metterli in alcune fosse comuni”, ha dichiarato. “Lo stato messicano vuole frammentare le responsabilità come se non avesse lui la responsabilità, quasi a voler negare che è lo stesso stato che ha sparato contro gli studenti, che li ha portati via e li ha consegnati alla criminalità organizzata ed è un crimine di lesa umanità questo, perché è stato commesso per mezzo di corporazioni che dovrebbero essere al servizio della gente, che non facciano credere alla gente che loro sono vivi e ,se non sono morti, che li presentino, ma che non illudano le famiglie, solo pensano ai voti e a chi vincerà le elezioni dell’anno prossimo nel Guerrero”, ha spiegato Solalinde.

Le reazioni e le proteste

Nella capitale e in decine di altre città del paese si sono moltiplicate le iniziative per Ayotzinapa, con manifestazioni e picchetti di fronte alla procura che si sono accompagnate a due giornate di sciopero, occupazione o sospensione delle attività votate dagli studenti in decine di scuole superiori e università come la UNAM (Università Nazionale Autonoma del Messico), UACM (la Autonoma Città del Messico), UAM (la Autonoma Metropolitana), IPN (Politecnico), Iberoamericana. Sabato 18 migliaia di studenti sono scesi per le strade a manifestare in almeno sette stati.

Crisóforo Díaz, portavoce della Unión de Pueblos y Organizaciones del Estado de Guerrero (UPOEG), ha dichiarato che il suo gruppo ha trovato sei fosse mercoledì scorso, il 15 ottobre, piene di ossa, anche se la procura non s’è ancora mossa per verificarne il contenuto. Nei primi giorni dopo la mattanza le fosse trovate grazie alle dichiarazioni dei primi poliziotti e dei narcos arrestati furono cinque, con dentro 28 cadaveri calcinati. Ma nessuno di questi appartiene agli studenti scomparsi di Ayotzinapa e ci si chiedi quindi quante altre mattanze siano state commesse e sapientemente occultate fino ad oggi intorno a Iguala. Il 9 ottobre furono rinvenute altre quattro tombe clandestine con resti umani per cui in totale sono 15, ma c’è chi ha calcolato fino a una ventina di fosse in totale. Ma se i resti non sono degli studenti, allora di chi sono? Quanti macabri ritrovamenti, narco-scandali politici e vittime della violenza può tollerare una società? Per ora non ci sono risposte, solo misteri e omissioni.

Ayotzinapa Fosas-clandestinas-IgualaL’ex assessore regionale all’istruzione del Guerrero, Pioquinto Damián Huato, ha denunciato in un programma radio il governatore, Ángel Aguirre, di avergli chiesto, quando era governatore ad interim dello stato tra il 1996 e il 1999, di accusare formalmente i normalisti di Ayotzinapa di essere dei guerriglieri, “visto l’odio che questi aveva contro di loro”. In quell’epoca Aguirre fungeva da governatore, supplente di Rubén Figueroa Alcocer, che era stato allontanato dal suo incarico dopo la mattanza di Aguas Blancas del 28 giugno 1995, quando 17 contadini furono fucilati dalla polizia.

Il 15 ottobre s’è formata ad Ayotzinapa la Asamblea Nacional Popular, costituita da 53 organizzazioni sociali e studentesche del paese, e ha annunciato azioni di protesta, occupazioni di municipi e autostrade per esigere il ritrovamento in vita dei 43 studenti scomparsi, giustizia per le sei vittime della mattanza, un giudizio politico e la rimozione del governatore del Guerrero Ángel Aguirre Rivero, del sindaco latitante, José Luis Abarca Velázquez, e di sua moglie María de los Ángeles Pineda, e infine una punizione per i responsabili del massacro.

L’idea è bloccare lo stato del Guerrero e il paese con azioni di resistenza in modo da creare le condizioni per poter chiedere la revoca dei poteri del governo statale, una specie di commissariamento prima di nuove elezioni, per via dei nessi tra le autorità e la delinquenza organizzata. S’è unita alle richieste dell’Asamblea anche la Coordinadora Estatal de Trabajadores de la Educación de Guerrero (CETEG), il sindacato dissidente degli insegnanti delle scuole pubbliche. Con un video i guerriglieri dell’ERPI (Esercito Rivoluzionario del Popolo Insorto), particolarmente attivo nel Guerrero, ha annunciato la creazione di una “brigata” per fare giustizia e combattere il narcotraffico nella regione

Nel week end del 18 e 19 ottobre un migliaio di studenti di 69 università del paese si è riunito nell’auditorio occupato Che Guevera della facoltà di filosofia e lettere della Universidad Nacional Autónoma de México (UUNAM). Questa “Seconda Assemblea Interuniversitaria” ha votato uno sciopero generale di 48 ore e una serie di attività di protesta per chiedere chiarimenti sull’omicidio di tre studenti della scuola normale di Ayotzinapa e la scomparsa di 43 di loro. Il 22 ottobre, “Giornata di azione globale per Ayotzinapa”, e il 23 le attività universitarie saranno bloccate e verranno realizzati dei blocchi stradali e manifestazioni nelle strade di tutto il paese. E’ stata convocata una nuova assemblea venerdì 24 ottobre nella facoltà di scienze della UNAM per discutere su un futuro incontro degli studenti in difesa dell’istruzione pubblica e contro la violenza di stato, per chiedere l’abrogazione della riforma educativa, una delle controverse riforme strutturali del presidente Peña Nieto, e un aumento delle risorse per l’istruzione.

Ayotzinapa unam templeteLa denuncia di Raul Vera e Padre Solalinde

Raul Vera, vescovo di Saltillo, e Human Rights Watch hanno denunciato che da tempo la Procura Generale della Repubblica era a conoscenza del coinvolgimento del sindaco di Iguala, José Luis Abarca, nell’omicidio di tre attivisti della sua regione, ma che la procura non agì di conseguenza: il 30 maggio 2013 il sindaco, utilizzando sgherri della criminalità organizzata, sequestrò otto militanti che avevano formato il collettivo Unidad Popular (UP) di Iguala, proprio com’è successo il 26-27 settembre con la cattura e molto probabile uccisione degli studenti normalisti di Ayotzinapa.

Uno degli attivisti sopravvissuti della UP, Nicolás  Mendoza Villa, ha testimoniato di fronte a un notaio, visto che della polizia non ci si può fidare, di essere stato portato in un campo fuori città dove il sindaco avrebbe giustiziato Arturo Hernández Cardona dopo averlo deriso. La stessa denuncia era stata lanciata da René Bejarano, dirigente del PRD (Partido de la Revolución Democrática) e, secondo Bejarano, presa sottogamba dal procuratore Jesús Murillo Karam. Mendoza Villa, nel mese di marzo del 2014, ha di nuovo dichiarato le circostanze del crimine presso la procura dello stato del Guerrero, una volta che gli era stata garantita protezione. Ciononostante Mendoza ha dovuto abbandonare la zona definitivamente in seguito alle minacce ricevute da lui e dalla sua famiglia.

Padre Alejandro Solalinde ha spiegato ai mass media che, secondo alcuni testimoni diretti della strage di Iguala, i 43 studenti di Ayotzinapa sono stati assassinati e alcuni di essi sono stati bruciati vivi. Alcuni erano feriti e gli hanno buttato addosso la benzina, altri invece sono stati gettati nella legna ardente. Solalinde s’è detto pronto a collaborare con la procura dato che ha raccolto negli ultimi giorni le testimonianze dirette di alcune persone presenti al rogo.

“Se non sono morti, come risulta dall’informazione che ho ricevuto, allora che presentino questi ragazzi in vita e che ci dicano perché li hanno fatti sparire”, ha dichiarato questo Padre sessantanovenne che in Messico è un riferimento importante non solo nella lotta per i diritti dei migranti centroamericani ma anche per la sua lotta contro gli abusi della delinquenza organizzata e delle autorità per cui ha ricevuto varie minacce di morte e ha dovuto nascondersi in più occasioni. “Il governatore sapeva in che affari era implicato il sindaco e conosce la sposa del sindaco, lui stesso ha dichiarato che conosceva questi vincoli e anche lui sa come sono stati ammazzati quei ragazzi”, ha precisato.

Ayotzinapa ipn-760x300Infatti, Solalinde avanza dubbi sul fatto che il governo del Guerrero darà la giusta importanza al caso e denuncia le manipolazioni politiche ed elettorali del governativo PRI che cerca di riconquistare il potere in uno stato governato dall’opposizione. “Ho più fiducia nella polizia comunitaria, loro sanno molte cose e ne stanno scoprendo sempre di più, per cui coltivo la speranza che saranno loro a trovarli”. Ha anche parlato delle condizioni in cui studiano e vivono gli alunni delle scuole normali per maestri di Ayotzinapa: “Bisogna entrare a un internato di quelli per rendersi conto che sono immersi nella miseria, che non hanno nessun tipo di comfort per se stessi, non hanno nulla”.

Il numero degli arresti cresce, supera quota 50. Le fosse clandestine scoperte sono una ventina, ma i 43 desaparecidos restano tali, così come rimangono  latitanti il sindaco di Iguala, José Luis Abarca, e sua moglie. “Questi giovani sono molto politicizzati, perché hanno una coscienza dal basso, sono contestatari e arrivano ad essere critici della gestione della cosa pubblica”, ha sottolineato il Padre, ribadendo il concetto che non si tratta di un massacro come tanti altri, ma di un accanimento dai risvolti politici: “Non è casuale quanto è successo con i normalisti, è una evidente linea di repressione che è stata applicata anche da altre parti”.

Nel programma mattutino del 20 ottobre con la giornalista Aristegui Alejandro Solalinde ha ribadito il contenuto delle narrazioni che ha raccolto sulla strage di Iguala. Negli ultimi giorni il Padre ha ricevuto ancora più informazioni da persone della zona legate a corporazioni di polizia, anche di quelle conniventi con le mafie. “Alcuni di questi sono stati bruciati vivi, altri erano già morti o feriti, gli è stata gettata della legna per farli ardere meglio e, secondo le ultime testimonianze più recenti, sarebbero morti tutti: questo si configura come un’azione di stato”.

“Io non ho cercato nessuno dei testimoni e della gente della regione, loro mi hanno cercato in più occasioni e abbiamo potuto parlare semplicemente e in spazi discreti e privati, la gente ha paura, ma racconta comunque, la novità di ieri è che hanno confermato quanto avevo detto ma purtroppo oggi si parla di tutti e 43 gli studenti che sarebbero morti, le persone stanno processando la questione e piano piano ne parlano, dunque questi ragazzi, i cui corpi sono calcinati, potrebbero rimanere sempre ‘desaparecidos’ perché che corpi potremo ritrovare se sono stati bruciati tutti?”. Solalinde spera di cuore che le rivelazioni che gli hanno confidato siano false, che gli alunni di Ayotzianapa siano vivi e le testimonianze siano imprecise, sbagliate, ma oggi ne parlerà presso la procura generale della repubblica.

Ayotzinapa violenciafosacomunOgni tanto il Parlamento Europeo se ne accorge

Un gruppo di 16 deputati dell’Euro-Parlamento ha chiesto la sospensione dell’Accordo Globale tra il Messico e la UE fino a che non sarà possibile ricostruire la fiducia nelle autorità messicane, particolarmente in tema di diritti umani. Infatti, negli accordi commerciali internazionali, generalmente, s’includono, spesso per pura formalità, delle “clausole democratiche” e di rispetto dei diritti umani o, con una dicitura riduzionista, delle “garanzie individuali”. Sono articoli dei trattati che possono essere utilizzati se il momento politico lo permette e se le istituzioni, quelle europee in questo caso, si mostrano disposte ad agire contro un paese terzo che non le rispetta. Recentemente s’è costituito un gruppo parlamentario di pressione per i fatti di Iguala e la strage degli studenti di Ayotzinapa: giovedì 23 ottobre si terrà un dibattito “urgente” nel parlamento europeo. E’ un fatto importante, anche se, fondamentalmente, conferma che denunce di questo tipo sorgono quando esiste un caso mediaticamente rilevante, politicamente conveniente e socialmente “sensibile”.

Infatti, sono centinaia i casi simili a quello di Iguala che negli ultimi dieci anni, o più, sono stati ripetutamente ignorati. Ed è statisticamente congruente con un paese come il Messico che tristemente vanta oltre 100mila morti in 6-7 anni, 250 fosse comuni piene di cadaveri ritrovate solo negli ultimi 2 anni e circa 27mila desaparecidos dall’inizio della guerra ai cartelli del narcotraffico, lanciata dall’ex presidente Felipe Calderón nel dicembre 2006. La mattanza dei ragazzi di Iguala comunque è particolarmente importante perché non è un semplice esempio della violenza crudele e spietata di questi anni di narcoguerra messicana, ma è la più grande strage di studenti mai commessa dopo il massacro di Tlatelolco del 2 ottobre 1968, quando l’esercito uccise oltre 300 manifestanti de movimento studentesco a Città del Messico.

In questo senso la strage dei normalisti e di altri cittadini del Guerrero, così come il sequestro e desaparición di 43 studenti della stessa scuola di Ayotzinapa, commesse nella notte del 26 e 27 settembre scorso dalla polizia locale al soldo dei narcos e da membri del cartello Guerreros Unidos, con la piena connivenza delle autorità locali e la partecipazione-omissione di quelle statali e federali, è allo stesso tempo emblematica, in quanto terribilmente “normale” in una parte  consistente del territorio messicano da anni fuori controllo, ed “eccezionale”, perché accade proprio nel contesto di un autunno caldo di mobilitazioni studentesche all’Istituto Politecnico Nazionale (IPN) di Città del Messico, da quasi un mese occupato dagli studenti, e si rivolge contro la dissidenza sociale e i giovani in lotta secondo un canovaccio repressivo ben noto.

Ayotzinapa cartel unam1Nel parlamento UE il PPE (Partito Popolare Europeo) e la APS&D (Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici), che è associata all’internazionale socialista di cui fanno parte il PRI (Partido Revolucionario Institucional), partito di governo in Messico, e il PRD, che governa lo stato del Guerrero e il comune di Iguala, si sono sganciati dalla risoluzione che invece hanno approvato gli altri 5 gruppi. Secondo quanto richiesto dagli europarlamentari, questo dibattito, tardivo e congiunturale seppur definito come “urgente”, dovrebbe arrivare a formalizzare alcune richieste al governo messicano: l’arresto di tutti i responsabili e la fine dell’impunità imperante nel paese per riottenere la fiducia perduta.

Dichiarazioni piuttosto blande, considerando la situazione messicana. Se si rispettasse alla lettera il vincolo di ristabilire rapporti commerciali con un paese solo quando questo “riconquista la fiducia” o riesce a cambiare sostanzialmente la situazione dei diritti umani al suo interno, allora per il Messico (ma non solo, chiaramente) i trattati dovrebbero essere stati sospesi molti anni or sono e sepolti sotto una montagna di denunce dell’ONU, della Corte Interamericana dei Diritti Umani e centinaia di ONG. Anzi, la UE, se fosse coerente, potrebbe autosospendersi oppure cancellerebbe trattati e alleanze anche con gli Stati Uniti che coi diritti umani non vanno molto d’accordo.

Deviazioni mediatiche

In un comunicato il presidente Enrique Peña Nieto ha promesso la fine dell’impunità e il castigo dei responsabili come fosse un cittadino normale o un rappresentante di una ONG, non come un capo di stato. Nel suo discorso possiamo leggere un tentativo di strumentalizzare la strage e di ergersi a “giustiziere” di terze parti coinvolte, come se il suo partito, il PRI, fosse l’eccezione, come se le cause profonde del malessere nazionale e della violenza fossero da ricercare altrove e non nella condotta degli apparati statali in quanto tali e nella disastrosa politica di sicurezza degli ultimi governi del PAN e, ancora prima, negli anni ‘90, del PRI. Certamente esiste una responsabilità anche del PRD, in particolare nel Guerrero in cui governa, oppure nel più povero e abbandonato degli stati, il Chiapas, dove l’ex governatore perredista Juan Sabines ha amministrato la regione come un signore feudale dal 2007 al 2012. Ma una sottile o diretta strumentalizzazione politica del caso Ayotzinapa in funzione anti-PRD serve solo da distrazione di massa, non a risolvere i problemi storici del paese.

Ayotzinapa SeattleLa stessa funzione ha compiuto la riproduzione ossessiva della notizia delle contestazioni e l’aggressione ricevuta alla fine della manifestazione dell’8 ottobre a Città del Messico dal leader storico e fondatore del PRD, Cuauthemoc Cárdenas, e dal giornalista e accademico Adolfo Gilly che lo accompagnava. Gilly ha ricevuto una sassata e Cárdenas è stato fischiato pesantemente e varie persone si sono frapposte per sventare un’aggressione fisica diretta contro di lui. I media messicani hanno insistito molto sull’episodio, tanto che il giorno dopo tante persone si ricordavano solo di quello e avevano dimenticato i motivi della protesta. Nonostante le contestazioni, il Partito ha ribadito la sua fiducia ad Ángel Aguirre e l’assemblea plenaria del Consiglio Nazionale ha optato per non chiedere le dimissioni al governatore del Guerrero.

I media americani come il Washington Post, il New York Times, l’Economist, il Sunday Mirror, le radio e le TV hanno preso a coprire massicciamente i fatti di Iguala e Guerrero mentre per un paio d’anni avevano deciso di appiattirsi sulla retorica di Peña e smorzare i toni sulle questioni di sicurezza. Dal Mexico Moment al Mexico Murder, titola il Washington Post. La “luna di miele” pare finita e i giornali, dopo il “risveglio”, denunciano la mancanza di rispetto della legge e delle minime condizioni di sicurezza in Messico, smontano la propaganda ufficiale attraverso le immagini delle fosse comuni che spuntano in ogni dove, drammatiche e imbarazzanti.

Responsabilità e narcos

Nei media messicani l’attacco contro un leader della sinistra parlamentare nazionale ha consolidato nell’opinione pubblica l’idea che, in fondo, i responsabili principali della strage siano il PRD, il governatore del Guerrero, Ángel Aguirre, e il sindaco latitante di Iguala, José Luis Abarca, membri di quel partito, mentre si tralasciano le responsabilità e le connivenze di altri personaggi e istituzioni: la polizia federale e l’esercito, che non sono intervenuti tempestivamente per impedire la mattanza e, anzi, hanno lasciato fare; la Procura Generale della Repubblica che, come alcuni esponenti del PRD, era al corrente della situazione criminosa e della narco-politica a Iguala, nel Guerrero così come negli altri stati della repubblica; il governo federale che da una parte implementa una politica di “mano dura” contro la delinquenza organizzata, arrestando capi importanti, ma anche molto mediatici, come Joaquín Guzmán, Hector Beltrán Leyva, el H, o Vicente “Le Vice-Roi” Carrillo Fuentes, ma dall’altra perpetra e rinforza il patto d’impunità e connivenza con le mafie, non è capace di controllare il traffico di droga, armi e persone lungo la frontiera con gli USA e non agisce per debilitare il muscolo finanziario dei cartelli.

Ayotzinapa argentinaIl fatto che “El H” a Queretaro, città in cui è stato catturato, fosse conosciuto per i suoi affari leciti, per le sue aziende legali, per le sue capacità imprenditoriali e si fosse costruito una fama nel business milieu locale e nazionale, è illuminante: la lotta contro i cartelli non s’è spostata dal lato militare a quello economico e gli affari dei narcos vanno a gonfie vele nonostante gli arresti dei principali boss, presto rimpiazzati, perché il mercato continua a domandare i prodotti e i servizi che questi offrono e il riciclaggio non viene frenato, anzi, genera indotto e risorse per l’economia legale.

Nei messaggi del presidente non viene mai messa in discussione la strategia globale e interna contro il narcotraffico, non si menzionano mai gli approcci pragmatici al tema della legalizzazione o regolazione dei mercati (produzione, distribuzione, vendita) delle droghe, né si fanno passi indietro rispetto alle politiche di militarizzazione del territorio e decapitazione dei cartelli dettate dall’esperienza (e dalle pressioni) statunitensi applicata all’America Latina.

Se negli USA la mano dura contro le mafie, specialmente contro cosa nostra, la cattura dei boss e la frammentazione delle strutture criminali ha funzionato in passato, grazie alla tenuta della struttura istituzionale nazionale e locale, in Colombia o in Messico si vive una realtà totalmente differente: come dimostra il caso Iguala-Ayotzinapa l’azione di schegge impazzite risultate dalla frammentazione di alcuni cartelli, in collusione con le autorità, ha mostrato la scarsa attenzione del governo verso il controllo del territorio e dei comuni, delle realtà locali e regionali che sono sfuggite di mano e che pagano il conto della narcoguerra.

Nel Guerrero ci sono 9 narco-fazioni, una costellazione criminale nata dalla disgregazione del cartello dei Beltrán Leyva di cui i Guerreros Unidos, autori della strage contro i normalisti di Ayotzinappa, fanno parte. Se i cartelli hanno una struttura solida, come nel caso di quello di Sinaloa, la fase di sbandamento a livello locale e la ricomposizione in seguito alla cattura o uccisione di un capo di una plaza, di un territorio/mercato definito, o anche di un boss di livello superiore durano relativamente poco.

Ayotzinapa veladaNel caso di organizzazioni decadenti, già debilitate dalle autorità o dai rivali, o in alcuni territori dove la situazione è più incerta per la pressione concorrenziale mafiosa, esiste una tendenza alla frammentazione e la morte di un boss può provocare la disgregazione e la nascita di gruppi autonomi, oltre all’inasprimento della violenza che questo processo e un’eventuale successiva ricomposizione o sparizione totale di questi gruppi possono comportare. La distruzione e la conseguente ricomposizione di gruppi criminali a livello locale, unite ai problemi strutturali del precario stato di diritto, della corruzione politica e dell’impunità, sono stati i detonatori di una violenza crescente che è andata normalizzandosi, posizionandosi su livelli sempre più elevati e pericolosi per la tenuta stessa dello stato messicano per cui si parla in alcuni casi o regioni di stato fallito e addirittura di narco stato, cioè uno stato catturato da poteri e settori criminali.

Un Messico pacificato?

Quando parlo di normalizzazione alludo alla strategia governativa che vuole imporre altri temi nell’agenda e nella comunicazione di massa e che cerca di minimizzare la violenza e la continuazione della narcoguerra militare in questo sessennio di Peña Nieto (2012-2018), ma anche alla sua assimilazione passiva da parte dell’opinione pubblica interna ed estera, come se il problema non esistesse più o fosse sotto controllo: non è così e, malgrado la lenta, e in parte fisiologica, discesa del tasso di omicidi globale nel paese, sia queste cifre che le morti legate alla guerra al narcotraffico restano altissime e, secondo il trend attuale,  potrebbero far salire il numero degli assassinii per la narco-violenza durante l’amministrazione di Peña ben oltre il record del suo predecessore che, a seconda delle fonti, oscilla tra gli 80mila e i 100mila. Anche il numero dei desaparecidos, difficile da calcolare e oggetto costante di dispute mediatiche e politiche acerrime tra enti, ONG, istituzioni governative più o meno libere, procure e ministeri, continua a preoccupare e comunque s’aggira intorno ai 4000 all’anno.

Di fronte a questo panorama Agustín Castrens, il governatore della Banca del Messico, imperturbabile, difende l’indifendibile e annuncia che gli investimenti esteri diretti, ossessione morbosa dei responsabili della politica economica in Messico, non diminuiranno per colpa del massacro di Iguala e della sua risonanza mediatica internazionale: il castello di carte del governo, costruito faticosamente grazie al sostegno della diplomazia messicana e dei media di tutto il mondo, comincia ad andare in fiamme e ad essere interrato nella fossa comune delle promesse e delle chimere. Il progetto modernizzatore di Peña Nieto, in verità poco moderno e innovativo rispetto a quello dei suoi predecessori, rischia d’incagliarsi a soli due anni dal suo lancio in pompa magna avallato dal Patto per il Messico, la grande coalition (a la mexicaine) di partiti (PRD, PRI, PAN) che ha votato le numerose modifiche costituzionali necessarie per approvare le riforme strutturali dell’economia, del lavoro, dell’educazione, del settore energetico, delle telecomunicazioni e del fisco negli ultimi mesi.

Ayotzinapa brasilPare, però, che all’opinione pubblica mondiale e agli investitori il loro contenuto non importi, basta che non si parli più della violenza, che si presenti il paese come un paradiso turistico dove i lavoratori hanno sempre il sombrero e il sorriso stampato sulla faccia (come negli spot, pagati con le tasse dei contribuenti, che invadono copiosi i palinsesti di radio e TV), dove ci siano facilitazioni di ogni tipo per gli affari e il libero mercato, dove il costo del lavoro sia basso, competitivo con quello cinese, per intenderci, e la flessibilità estrema un diritto aziendale, dove si liberalizzi ogni settore strategico e si zittiscano i sindacati, annichiliti manu militari o via decreto (come lo SME, sindacato messicano degli elettricisti, o la CNTE, Coordinadora Nacional Trabajadores de la Educación)  oppure asserviti dal sistema neo-corporativo del PRI  al governo (come la SNTE, Sindicato Nacional Trabajadores de la Educación, o il Sindacato della parastatale petrolifera PEMEX). Insomma i diritti umani si misurano in dollari ed euro. La narrativa ufficiale (s)vende la manodopera e le risorse al miglior offerente, purché le statistiche mostrino miglioramenti e non s’esaurisca il Mexico’s Moment vaticinato dalla rivista Time solo qualche mese fa.

Suicidi

Il 14 ottobre uno dei capi dei narcos dei Guerreros Unidos, Benjamín Mondragón, alias El Benjamón El Tío, si è suicidato per evitare la sua cattura da parte della Polizia Federale a Jiutepec, nello stato del Morelos, confinante col Guerrero. Il 17 ottobre il capo supremo del cartello Guerreros Unidos, Sidronio Casarrubias Salgado, è stato arrestato. Rimangono in prigione i 22 poliziotti di Iguala catturati poco dopo la strage, altri 27 arrestati negli ultimi giorni e 17 membri del cartello, accusati di delinquenza organizzata, sequestro di persona e omicidio. Sindronio, alias El Chino, ha parlato della strage come di una situazione “casuale” che lui non ha ordinato ma alla quale non s’è opposto.

Ayotzinapa 43La velocità di certe catture e le forze impiegate nella “caccia all’uomo” sono proporzionali all’impatto mediatico globale dei fatti di Iguala: 3500 soldati, 300 militari della marina, 62 periti e 900 poliziotti federali sono accorsi nella zona del massacro in fretta e furia per cercare di tappare una falla enorme, aperta durante decenni dalla corruzione delle autorità in combutta coi narcos, dalla quale continua a scorrere sangue attraverso le decine di fosse comuni che vengono ritrovate quasi ogni giorno e sono ormai più di 20 solo a Iguala. Ma che ne sarà delle altre fazioni, una volta smantellata la struttura dei Guerreros Unidos? Chi impedirà altre stragi di studenti? Non si sa. Intanto il territorio di 12 comuni nel Guerrero e di uno nell’Estado de México, una regione-cintura intorno alla capitale, è stato occupato dalle forze armate per “garantire la sicurezza”.

Nei primi 19 mesi di governo il presidente della repubblica e il suo entourage hanno volutamente tralasciato il tema dell’insicurezza e della narcoguerra per proporre al mondo l’immagine di un paese riformista che, tramite patti politici stabili e negoziazioni con le parti sociali, riusciva a fare “riforme trasformatrici”, sempre e comunque. Insomma, un paese in pace, ideale per gli investimenti stranieri e avviato a uno sviluppo armonico. Ma i morti e il tema della sicurezza riemergono periodicamente, instancabili, e ora la società civile nazionale e internazionale s’è risvegliata per evidenziarlo.

]]>
La strage degli studenti in Messico: Narco-Stato e Narco-Politica https://www.carmillaonline.com/2014/10/10/la-strage-degli-studenti-in-messico-narco-stato-e-narco-politica/ Thu, 09 Oct 2014 22:00:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18018 di Fabrizio Lorusso

Marcha Ayotzinapa 8 oct 179 (Small)Il Messico si sta trasformando in un’immensa fossa comune. Dal dicembre 2012, mese d’inizio del periodo presidenziale di Enrique Peña Nieto, a oggi ne sono state trovate 246, a cui pochi giorni fa se ne sono aggiunte altre sei. Sono le fosse clandestine della città di Iguala, nello stato meridionale del Guerrero. Tra sabato 4 ottobre e domenica 5 l’esercito, che ha cordonato la zona, ne ha estratto 28 cadaveri: irriconoscibili, bruciati, calcinati, abbandonati. E’ probabile che si tratti dei corpi [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Marcha Ayotzinapa 8 oct 179 (Small)Il Messico si sta trasformando in un’immensa fossa comune. Dal dicembre 2012, mese d’inizio del periodo presidenziale di Enrique Peña Nieto, a oggi ne sono state trovate 246, a cui pochi giorni fa se ne sono aggiunte altre sei. Sono le fosse clandestine della città di Iguala, nello stato meridionale del Guerrero. Tra sabato 4 ottobre e domenica 5 l’esercito, che ha cordonato la zona, ne ha estratto 28 cadaveri: irriconoscibili, bruciati, calcinati, abbandonati. E’ probabile che si tratti dei corpi interrati di decine di studenti della scuola normale di Ayotzinapa, comune che si trova a circa 120 km da Iguala. Infatti, dal fine settimana precedente, 43 normalisti risultano ufficialmente desaparecidos. “Desaparecido” non significa semplicemente scomparso o irreperibile, significa che c’è di mezzo lo stato.

Vuol dire che l’autorità, connivente con bande criminali o gruppi paramilitari, per omissione o per partecipazione attiva, è coinvolta nel sequestro di persone e nella loro eliminazione. Niente più tracce, i desaparecidos non possono essere dichiarati ufficialmente morti, ma, di fatto, non esistono più. I familiari li cercano, chiedono giustizia alle stesse autorità che li hanno fatti sparire. Oppure si rivolgono ai mass media e a istituzioni che in Messico sono sempre più spesso una farsa, una facciata che nasconde altri interessi e altre logiche, occulte e delinquenziali. E nelle conferenze stampa, senza paura, dicono: “Non è stata la criminalità organizzata, ma lo stato messicano”.

La strage di #Iguala #Ayotzinapa

Marcha Ayotzinapa 8 oct 149 (Small)La sera di venerdì 26 settembre un gruppo di giovani alunni della scuola normale di Ayotzinapa si dirige a Iguala per botear, cioè racimolare soldi. Hanno tutti tra i 17 e i 20 anni. Vogliono raccogliere fondi per partecipare al tradizionale corteo del 2 ottobre a Città del Messico in ricordo della strage  di stato del 1968, quando l’esercito uccise oltre 300 studenti e manifestanti in Plaza Tlatelolco. I normalisti decidono di occupare tre autobus. I conducenti li lasciano fare, ci sono abituati. Sono le sette e mezza, fa buio. Fuori dall’autostazione, però, ad attenderli c’è un commando armato di poliziotti. Fanno fuoco senza preavviso. Sparano per uccidere, non solo per intimidire. Hanno l’uniforme della polizia del comune di Iguala e sono gli uomini del sindaco José Luis Abarca Velázquez e del direttore della polizia locale Felipe Flores, entrambi latitanti da più di una settimana. Ma i pistoleri poliziotti non restano soli a lungo, presto sono raggiunti da un manipolo di altri energumeni in tenuta antisommossa. Il fuoco delle armi cessa per un po’, ma l’attacco è stato brutale, indignante e irrazionale.

La persecuzione continua. Partono altri spari. Muoiono tre studenti, altri 25 restano feriti, uno in stato di morte cerebrale. Per salvarsi bisogna nascondersi, buttarsi sotto gli autobus. Non muoverti, se no gli sbirri ti seccano. Alcuni cercano di scappare, scendono dai bus, il formicaio esplode nell’oscurità. Gli uomini in divisa caricano decine di studenti sulle loro camionette e li portano via. Pare che l’esercito, la polizia federale e quella statale abbiano scelto di non intervenire. Lasciar stare.

Intanto sopraggiungono altri soggetti con armi di alto calibro, narcotrafficanti del cartello dei Guerreros Unidos, una delle tante sigle che descrivono il terrore della narcoguerra e la decomposizione del corpo sociale in molte regioni del paese. Non contenti, i poliziotti, in combutta con i narcos, si spostano fuori città, pattugliano la strada statale che collega Ayotzinapa a Iguala e fermano un pullman di una squadra di calcio locale, los avispones. Assaltano anche quello, pensando che sia il mezzo su cui gli studenti stanno facendo ritorno a casa. Bisogna sparare, bersagliare senza tregua. E ora sono in tanti, narcos e narco-poliziotti, insieme, probabilmente per ordine de “El Chucky”, un boss locale, e del sindaco Abarca.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 234 (Small)Ammazzano un calciatore degli avispones, un ragazzo di quattordici anni che si chiamava David Josué García Evangelista. I proiettili volano ovunque, sono schegge di follia e forano la carrozzeria di un taxi che, sventurato, stava passando di lì. Perdono la vita sia il conducente dell’auto sia una passeggera, la signora Blanca Montiel. Il caso, la mala suerte si fa muerte. Poche ore dopo in città compare il cadavere dello studente Julio Cesar Mondragón, martoriato. Gli hanno scorticato completamente la faccia e gli hanno tolto gli occhi, secondo l’usanza dei narcos. La macabra immagine, anche se repulsiva, diventa virale nelle reti sociali. E si diffondono globalmente anche le testimonianze dirette dell’orrore che stanno rendendo i sopravvissuti.

Le reazioni alla mattanza

Dopo il week end del massacro a Iguala i compagni della normale di Ayotzinapa e i familiari delle vittime e dei desaparecidos si organizzano, reclamano, tornano sul luogo della strage e indicono una manifestazione nazionale per l’8 ottobre a Città del Messico per chiedere le dimissioni del governatore statale, Ángel Aguirre, la “restituzione con vita” dei desaparecidos e giustizia per le vittime della mattanza.

Cresce la pressione mediatica e popolare per ottenere giustizia. Arrivano i primi arresti. 22 poliziotti al soldo delle mafie locali e 8 narcotrafficanti sono imprigionati e la Procura Generale della Repubblica comincia a occuparsi del caso. Alcuni degli arrestati confessano i crimini commessi e parlano di almeno 17 studenti rapiti e giustiziati. Indicano la posizione esatta di tre fosse clandestine in cui sarebbero stati interrati. L’esercito e la gendarmeria commissariano l’intera regione e blindano le fosse comuni che non sono tre, sono sei. La morte si moltiplica. I corpi recuperati sono 28, non 17. I desaparecidos, però, sono 43.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 020 (Small)I numeri non tornano. I familiari non si fidano, chiedono l’invio di medici forensi argentini, specialisti imparziali e qualificati. Ci vorrà tempo per avere certezze, se mai ce ne saranno. I risultati dell’esame del DNA tarderanno ad arrivare almeno due settimane. Nel frattempo, il 7 ottobre, seicento agenti delle polizie comunitarie della regione della Costa Chica, appartenenti alla UPOEG (Unione dei Popoli Organizzati dello Stato del Guerrero), hanno fatto il loro ingresso a Iguala per cercare “vivi o morti” e “casa per casa” i 43 studenti scomparsi. Altri gruppi della polizia comunitaria di Tixla, autonoma rispetto alle autorità statali, hanno scritto su twitter: “Con la nostra attività di sicurezza stiamo proteggendo la Normale di #Ayotzinapa“.

Dov’è finito il sindaco del PRD (Partido de la Revolución Democrática, di centro-sinistra) José Luis Abarca? E sua moglie, anche lei irreperibile? E cosa fa il governatore dello stato, il “progressista”, anche lui del PRD, Ángel Aguirre? Pare che lui conoscesse molto bene la situazione già da tempo. Il loro partito ha scelto di espellere il sindaco e sostenere il governatore per non perdere quote di potere in quella regione. Abarca ha chiesto 30 giorni di permesso e poi è sparito. Ora è ricercato dalla giustizia e vituperato dall’opinione pubblica nazionale. Aguirre, che non ha potuto impedire la strage né ha bloccato la concessione permesso richiesto dal sindaco prima di scappare, cerca di difendere l’indifendibile e, per ora, non presenta le sue dimissioni. Anzi, scambia abbracci e si fa la foto con Carlos Navarrete, nuovo segretario generale del PRD eletto domenica 5 ottobre.

Narco-Politica

La gravità della situazione è palese, anche perché è nota da anni e non s’è fatto nulla per denunciarla ed evitare la sua degenerazione violenta. José Luis Abarca, sindaco di Iguala al soldo dei narco-cartelli, ha un passato inquietante alle spalle, ma è riuscito comunque a diventare primo cittadino e a piazzare sua moglie, María Pineda, come capo delle politiche sociali municipali, cioè dell’ufficio del DIF (Desarrollo Integral de la Familia), e prossima candidata sindaco. Il giorno della strage la signora Pineda doveva presentare la relazione dei lavori svolti come funzionaria pubblica e, temendo un’eventuale incursione dei normalisti nell’evento, avrebbe richiesto al marito di “mettere in sicurezza” la zona.

Abarca avrebbe quindi lanciato l’operazione contro gli studenti con la collaborazione piena del capo della polizia municipale, suo cugino Felipe Flores. Costui era già noto per aver “clonato” pattuglie della polizia col fine di realizzare “lavoretti speciali” e per i suoi abusi d’autorità. La moglie del sindaco è sorella di Jorge Alberto e Mario Pineda Villa, noti anche come “El borrado” e “El MP”, due operatori del cartello dei Beltrán Leyva morti assassinati. Salomón Pineda, un altro fratello, sta con i Guerreros Unidos dal giugno 2013. In uno degli stati più poveri del Messico, Abarca e consorte prendono, tra stipendi e compensazioni, 20mila euro al mese che pesano direttamente sulle casse comunali.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 175 (Small)“Mi concederò il piacere di ammazzarti”, avrebbe detto nel 2013 il sindaco Abarca ad Arturo Hernández Cardona, della Unidad Popular di Guerrero, prima di ucciderlo, secondo quanto racconta un testimone di questo delitto per cui Abarca non è stato condannato, ma che è depositato in un fascicolo giudiziale.

Il 30 maggio 2013 otto persone scomparvero a Iguala. Erano attivisti, membri della Unidad Popular, un gruppo politico vicino al PRD. Tre di loro sono stati ritrovati, morti, in fosse comuni. La camionetta su cui viaggiavano venne rinvenuta nel deposito comunale degli autoveicoli di Iguala. Human Rights Watch, Amnesty Internacional e l’Ufficio a Washington per gli Affari Latinoamericani chiesero invano alle autorità federali di chiarire il caso, essendoci il fondato sospetto di un’implicazione delle autorità locali. Cinque attivisti sono tuttora desaparecidos.

I sicari con l’uniforme della polizia e quelli in borghese lavorano per lo stesso cartello, quello dei Guerreros Unidos che è in lotta con Los Rojos per il controllo degli accessi alla tierra caliente, la zona calda tra lo costa e la sierra in cui prosperano le coltivazioni di marijuana e fioriscono i papaveri da oppio, che qui si chiamano amapola o adormidera. Le bande rivali sono nate dalla scissione dell’organizzazione dei fratelli Beltrán Leyva, ormai agonizzante. Il 2 ottobre, mentre 50mila persone sfilavano per le strade della capitale per non far sbiadire la memoria di una strage, a Queretaro veniva arrestato l’ultimo dei fratelli latitanti, Hector Beltrán Leyva, alias “El H”, un altro figlio delle montagne dello stato del Sinaloa. “El H” era diventato un imprenditore rispettato. Originario della Corleone messicana, la famigerata Badiraguato, e antico alleato dell’ex jefe de jefes, Joaquín “El Chapo” Guzmán, che sta in prigione dal febbraio scorso, s’era costruito una reputazione rispettabile, onorata. Ma già da tempo il gruppo dei Beltrán s’era diviso in cellule cancerogene e impazzite secondo il cosiddetto effetto cucaracha: scarafaggi in fuga, un esodo di massa per non essere calpestati.

Ed eccoli qui che giustiziano studenti insieme ai poliziotti che, a loro volta, aspirano a posizioni migliori all’interno dell’organizzazione criminale, sempre più confusa con quella statale, e s’occupano della compravendita di protezione e di droga. L’eroina tira di più in questo periodo e Iguala è una porta d’accesso importante, una plaza di snodo. L’eroina bianca del Guerrero è un prodotto che non ha niente da invidiare, per qualità e purezza, a quella proveniente dall’Afghanistan. Anche per questo la regione è la più violenta del Messico da un anno e mezzo a questa parte e ha spodestato in testa alla classifica della morte altri stati in disfacimento come il Michoacan, il Tamaulipas, Sonora, il Sinaloa, Chihuahua, l’Estado de México e Veracruz.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 292 (Small)I responsabili del massacro di Iguala

I poliziotti detenuti accusano Francisco Salgado, uno dei loro capi, finito anche lui in manette, di avere ordinato loro di intercettare gli studenti fuori dalla stazione degli autobus. Invece l’ordine di sequestrarli e assassinarli sarebbe arrivato dal boss mafioso El Chucky. Chucky, come il personaggio del film horror “La bambola assassina” di Tom Holland. Il procuratore di Guerrero, Iñaki Blanco, ritiene che il principale responsabile della mattanza e della desaparición dei 43 normalisti sia il sindaco Abarca che “è venuto meno al suo dovere, oltre ad aver commesso vari illeciti”. Il procuratore parla solo di “omissioni”, promuoverà accuse per “violazioni alle garanzie della popolazione” e la revocazione della sua immunità, ma dal suo discorso non si capisce chi sarebbero tutti i responsabili né come saranno identificati e processati.

Chi ha ordinato ai (narco)poliziotti di fermare i normalisti e di sparare? Com’è possibile che il sindaco e il capo della polizia e delle forze di sicurezza locali, Felipe Flores, siano riusciti a fuggire? Perché i due, ma anche l’esercito e le forze federali, hanno lasciato gli studenti alla mercé della violenza? Perché la polizia prende ordini dai narcos e, anzi, fa parte del cartello dei Guerreros Unidos? Com’è possibile che tutto questo sia tragicamente così normale in Messico? Come mai nessuno l’ha impedito, se già da anni si era a conoscenza della situazione?

Infatti, ci sono prove del fatto che, almeno dal 2013, il governo federale e il PRD hanno chiuso entrambi gli occhi di fronte all’evidenza: José Luis Abarca e sua moglie María Pineda avevano chiari vincoli col narcotraffico e con la morte di un militante come Arturo Hernández Cardona. Ma già dal 2009, quando il presidente era Felipe Calderón, del conservatore Partido Acción Nacional (PAN), la Procura Generale della Repubblica aveva reso pubbliche la relazioni della signora Pineda e dei suoi fratelli con il cartello dei Beltrán Leyva. La polizia di Iguala era in mano ai narcos e sono tantissime le realtà locali in Messico ove predomina questa situazione.

L’esperto internazionale di sicurezza e narcotraffico, il prof. Edgardo Buscaglia, ha parlato di Peña Nieto e di Calderón come figure simili tra loro, come coordinatori del patto d’impunità e della perdita di controllo politico nazionale: “Sono cambiate le facce, ma hanno lo stesso ruolo”.  Perciò, ha segnalato l’accademico, bisogna cominciare dal presidente per trovare i responsabili. Mentre la comunità internazionale “fa come se non stesse accadendo nulla”, nel paese “il denaro zittisce le coscienze collettive” e, secondo Buscaglia, “il sistema giungerà a una crisi e ci sarà una sollevazione sociale in cui si fermerà il paese e soprattutto il sistema economico”.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 129 (Small)Le scuole normali messicane

Resta il fato che sparuti gruppi di studenti, seppur combattivi, di un’istituzione rurale non sono pericolosi trafficanti né rappresentano minacce sistemiche. Perché annichilarli? Forse la storia ci aiuta a ipotizzare delle risposte. Le scuole normali messicane, nate negli anni ’20 e impulsate dal presidente Lázaro Cárdenas negli anni ’30 come baluardi del progetto di educación socialista per il popolo e le zone rurali del paese, sono considerate oggi dalla classe politica tecnocratica come un pericoloso e anacronistico retaggio del passato. Un’appendice inutile da estirpare per entrare appieno nella globalizzazione.

Di fatto i governi neoliberali, dai presidenti Miguel de la Madrid (1982-1988) e Carlos Salinas (1988-1994) in poi, hanno costantemente attaccato e minacciato la sopravvivenza del sistema scolastico delle normali che, ciononostante, ha saputo resistere. La funzione sociale di questi centri educativi è sempre stata fondamentale perché è consistita nell’istruire le classi sociali più deboli e sfruttate, specialmente i contadini e gli abitanti delle campagne, affinché potessero difendersi dai soprusi dei latifondisti e dei politici locali, secondo un chiaro progetto politico-educativo di emancipazione e ribellione allo status quo. L’alfabetizzazione della popolazione rurale e la formazione di maestri coscienti socialmente sembra essersi trasformata in un’anomalia per tanti settori benpensanti, politici e metropolitani.

Anche per questo gli studenti delle normali, in quanto portatori di modelli di lotta e di formazione antitetici rispetto a quelli delle élite locali e nazionali e dei cacicchi della narco-agricoltura e della narco-politica, sono già stati vittime in passato della barbarie e della repressione. Nel dicembre 2011 la polizia ne uccise due proprio di Ayotzinapa durante lo sgombero di un blocco stradale e di una manifestazione. Una violenza smisurata venne impiegata dalla Polizia Federale nel 2007 per reprimere gli alunni di quella stessa cittadina che avevano bloccato il passaggio in un casello della turistica Autostrada del Sole tra Acapulco e Città del Messico. Nel 2008 i loro compagni della normale di Tiripetío, nel Michoacán, furono trattati come membri di pericolose gang e, in seguito a una giornata di proteste e scontri con la polizia, 133 di loro finirono in manette.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 008 (Small)Tradizione stragista

La criminalizzazione dei normalisti va inquadrata anche nel più esteso processo di criminalizzazione della protesta sociale che incalza con l’approvazione di misure repressive, come la “Ley Bala”, che prevede l’uso delle armi in alcuni casi nei cortei da parte della polizia, con l’inasprimento delle pene per delitti contro la proprietà privata e l’ampliamento surreale delle fattispecie legate ai reati di terrorismo e di attacco alla pace pubblica. Tutti contenitori pronti per fabbricare colpevoli e delitti fast track. Il caso di Mario González, studente attivista arrestato ingiustamente il 2 ottobre 2013 e condannato, senza prove e con un processo ridicolo, a 5 anni e 9 mesi di reclusione, sta lì a ricordarcelo.

Ma la “tradizione stragista” e di omissioni dello stato messicano è purtroppo molto più lunga e persistente. Basti ricordare alcuni nomi e alcune date, solo pochi esempi tra centinaia che si potrebbero menzionare: 2 ottobre 1968, Tlatelolco; 11 giugno 1971, “Los halcones”; anni ’70 e ‘80, guerra sucia; 1995, Aguas Blancas, Guerrero; 1997, Acteal, Chiapas; 2006, Atenco y Oaxaca; 2008 y 2014, Tlatlaya; 2010 e 2011, i due massacri di migranti a San Fernando, Tamaulipas; 2014, caracol zapatista de La Realidad, Chiapas; 2014, Iguala; 2006-2014, NarcoGuerra, 100mila morti, 27mila desaparecidos…

La OAS (Organization of American States), Human Rights Watch, la ONU, la CIDH (Corte Interamericana dei Diritti Umani) si sono unite al coro internazionale di voci critiche contro il governo messicano. La notizia delle fosse comuni e della mattanza di Iguala sta cominciando a circolare nei media di tutto il mondo e si erge a simbolo dell’inettitudine, dell’impunità e della corruzione. In pochi giorni è crollata la propaganda ufficiale che presentava un paese pacificato e sulla via dello sviluppo indefinito.

“Estamos moviendo a México”

Marcha Ayotzinapa 8 oct 225 (Small)Gli spot governativi presentano un Messico che si muove, che sta sconfiggendo i narcos e che, grazie alla panacea delle “riforme strutturali”, in primis quella energetica, ma anche quelle della scuola, del lavoro, della giustizia e delle telecomunicazioni, si starebbe avviando a entrare nel club delle nazioni che contano: una retorica, quella delle riforme necessarie e provvidenziali, che suona molto familiare anche in Europa e in Italia e che, in terra azteca, copia pedantemente quella dei presidenti degli anni ottanta e novanta, in particolare di Carlos Salinas de Gortari. Dopo la firma del NAFTA (Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord) con USA e Canada, Salinas preconizzava l’ingresso del Messico nel cosiddetto primo mondo. Invece alla fine del suo mandato nel 1994 l’insurrezione dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) in Chiapas, l’effetto Tequila, la svalutazione, indici di povertà insultanti e la fine dell’egemonia politica del PRI (Partido Revolucionario Institucional, al potere durante 71 anni nel Novecento) attendevano al bivio il nuovo presidente, Ernesto Zedillo (1994-2000).

Oggi Peña Nieto, anche lui del PRI, dopo aver approvato le riforme costituzionali e della legislazione secondaria in fretta e furia, cerca di vendere il paese agli investitori stranieri, mostrando al mondo come pregi gli aspetti più laceranti del sottosviluppo: precarietà e flessibilità del lavoro; salari da fame per una manodopera mediamente qualificata, non sindacalizzata e ricattabile; movimenti sociali anestetizzati; un welfare non universale, discriminante e carente; riforme educative dequalificanti per professori e alunni ma “efficientiste”; stato di diritto “flessibile”, cioè accondiscendente con i forti e spietato coi deboli.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 276 (Small)Il presidente annuncia lo sforzo del Messico per consolidare l’Alleanza del Pacifico, un’area commerciale sul modello del NAFTA per i paesi americani affacciati sull’Oceano Pacifico, e la prossima partecipazione di personale militare e civile alle “missioni di pace dell’ONU” come quella ad Haiti, la missione dei caschi blu chiamata MINUSTAH, che pochi onori e tante grane ha portato al paese caraibico e agli eserciti latinoamericani, per esempio il brasiliano, l’uruguaiano e il venezuelano, che vi partecipano attivamente.

Questa politica da “potenza regionale”, però, deve fare i conti con la cruda realtà. L’inserto Semanal del quotidiano La Jornada del 5 ottobre ha pubblicato un box con un piccolo promemoria: dal dicembre 2012 al gennaio 2014 ci sono stati 23.640 morti legati al narco-conflitto interno, 1700 esecuzioni al mese, con Guerrero che registra, da solo, un saldo di 2.457 assassinii, secondo quanto  riferisce la rivista Zeta in base all’analisi dei dati ufficiali. Nel 2011 Fidel López García, consulente dell’ONU intervistato dalla rivista Proceso (28/XI/2011), aveva parlato di un milione e seicentomila persone obbligate a lasciare la loro regione d’origine per via della guerra. Anche per questo il Messico rischia di trasformarsi in un’immensa fossa comune (e impune).

Ayo foto corteo lungoPost Scriptum. Il corteo.

“¿Por qué, por qué, por qué nos asesinan? ¡26 de septiembre, no se olvida!” (“Perché, perché, perché ci assassinano? Il 26 settembre non si dimentica”).  E’ stato il grido di oltre 60 piazze del Messico e decine in tutto il mondo nel pomeriggio dell’8 ottobre 2014.

“Gli studenti sono vittime di omicidi extragiudiziari, si sequestrano e si fanno sparire non solo studenti ma anche attivisti sociali e quelli che vanno contro il governo […] è una presa in giro verso il nostro dolore, non sappiamo perché fanno questo teatrino politico”. Così ha espresso la sua rabbia Omar García, compagno degli studenti uccisi, in conferenza stampa. L’esercito, che nei tartassanti spot governativi viene ritratto come un’istituzione integra, fatta di salvatori della patria e protettori dei più deboli, ha vessato gli studenti di Ayotzinapa che portavano con loro un compagno ferito:

“Ci hanno accusato di essere entrati in case private, gli abbiamo chiesto di aiutare uno dei nostri compagni e i militari han detto che ce l’eravamo cercata. Lo abbiamo portato noi all’ospedale generale ed è stato lì a dissanguarsi per due ore. L’esercito stava a guardare e non ci hanno aiutato”, continua Omar. “Il governo statale sapeva quello che stavamo facendo, non eravamo in attività di protesta ma accademiche ed è dagli anni ’50 che occupiamo gli autobus e la polizia se li viene riprendere, ma non deve aggredirci a mitragliate”.

Il normalista ha infine parlato del governatore Aguirre: “Il nostro governatore ha ammazzato 13 dirigenti di Guerrero e due compagni nostri nel 2011 e per nostra disgrazia questi sono rimasti nell’oblio. La Commissione Nazionale dei Diritti Umani, cha aveva emesso un monito, non ha più seguito la cosa e il caso è rimasto impune, chi ha ucciso è rimasto libero”.

Perseo Quiroz, direttore di Amnisty in Messico, ha spiegato che non serve a nulla che il presidente Peña si rammarichi pubblicamente dei fatti di Iguala perché “questi incubavano tutte le condizioni perché succedessero, non sono fatti isolati […] lo stato messicano colloca la tematica dei diritti umani in terza o quarta posizione e per questa mancanza di azioni accadono come a Iguala”.

Ayo Polizia comunitaria a AyotzinapaAnche il Dottor Mireles, leader del movimento degli autodefensas del Michoacán e incarcerato dal luglio 2014, ha mandato un messaggio dal carcere solidarizzando con i normalisti di Iguala. Il suo comunicato è importante perché sottolinea il doppio discorso e le ambiguità del governo: da una parte la connivenza narcos-autorità-polizia è la chiave di un massacro di studenti nel Guerrero, per cui i vari livelli del governo sono immischiati e responsabili; dall’altra si mostra una falsa disponibilità al dialogo con gli studenti del politecnico (Istituto Politecnico Nazionale, IPN) che hanno occupato l’università due settimane fa per chiedere la deroga del regolamento, da poco approvato alla chetichella dalle autorità dell’ateneo, che attenta contro i principi dell’educazione pubblica e dell’università. Nonostante le dimissioni della rettrice dell’IPN e l’intimidazione derivata dal caso Ayotzinapa, la protesta studentesca continua, chiede la concessione dell’autonomia all’ateneo (cosa già acquisita da tantissime università del paese) e mette in evidenza la scarsa volontà di dialogo dell’esecutivo.

A San Cristobal de las Casas, nel Chiapas, gli zapatisti hanno proclamato la loro adesione alle iniziative di protesta di questa giornata e in migliaia hanno realizzato con una marcia silenziosa alle cinque del pomeriggio.

L’EPR (Esercito Popolare Rivoluzionario) ha emesso un comunicato in cui ha definito il massacro come un “atto di repressione e di politica criminale di uno stato militare di polizia”.

Il sindacato dissidente degli insegnanti, la CNTE (Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación), era presente alle manifestazioni che sono state convocate in decine di città messicane e presso i consolati messicani in oltre dieci paesi d’Europa e delle Americhe. La Coordinadora ha anche dichiarato lo sciopero indefinito nello stato del Guerrero. Nella capitale dello stato, Chilpancingo, hanno marciato oltre 10mila dimostranti.

A Città del Messico abbiamo assistito a una manifestazione imponente, non solo per il numero dei manifestanti, comunque alto per un giorno lavorativo e stimato tra le 70mila e le 100mila persone, quanto soprattutto per la diversità e il forte coinvolgimento delle persone nel corteo. Hanno risposto alla convocazione dei familiari delle vittime e degli studenti scomparsi centinaia di organizzazioni della società civile, tra cui il Movimento per la Pace e l’FPDT (Frente de los Pueblos en Defensa de la Tierra di Atenco), che sono scese in piazza con lo slogan “Ayotzinapa, Tod@s a las calles” mentre su Twitter e Facebook gli hashtag di riferimento erano  #AyotzinapaSomosTodos e #CompartimosElDolor, condividiamo il dolore.

Ayotzinapa resiste cartelloNel Messico della narcoguerra le mattanze si ripetono ogni settimana, da anni, e così pure si riproducono le dinamiche criminali che distruggono il tessuto sociale e la convivenza civile. Solo che ultimamente non se ne parla quasi più. I mass media internazionali e buona parte di quelli messicani hanno semplicemente smesso d’interessarsi della questione, seguendo le indicazioni dell’Esecutivo.

La strage di Iguala e il caso Ayotzinapa stanno facendo breccia nella cortina di fumo e silenzio alzata dal nuovo governo e dai mezzi di comunicazione perché mostrano in modo contundente, crudele e diretto la collusione della polizia, dei militari e delle autorità politiche a tutti i livelli con la delinquenza organizzata. Sono i sintomi della graduale metamorfosi dello stato in “stato fallito” e “narco-stato”. Disseppelliscono il marciume nascosto nella terra, nelle sue fosse e nelle coscienze, nei palazzi e nelle procure. Smascherano la violenza istituzionale contro il dissenso politico e sociale, aprono le vene della narco-politica ed evidenziano omertà e complicità del potere locale, regionale e nazionale. Per questo Iguala e le sue vittime fanno ancora più male.

[Questo testo fa parte del progetto NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga]

P.S. Mentre stavo per pubblicare quest’articolo, il governo messicano, attaccato da tutti fronti per la strage di Iguala e i desaparecidos di Ayotzinapa, ha annunciato la cattura di Vicente Carrillo, capo del cartello di Juárez. Un altro colpo a effetto al momento giusto per distrarre l’opinione pubblica, ricevere i complimenti della DEA (Drug Enforcement Administration) e provare a smorzare gli effetti dell’indignazione mondiale. A che serve catturare un boss importante se continuano comunque le mattanze come a Iguala e tutto resta come prima?

Galleria fotografica della manifestazione a Città del Messico: LINK

Video Cori e Sequenze del Corteo: LINK

Riassunto Fatti di Iguala – Andrea Spotti/Radio Onda D’urto: LINK

]]>
Paramilitari in Chiapas contro gli zapatisti: fatti, contesto e comunicato di Marcos https://www.carmillaonline.com/2014/05/11/paramilitari-in-chiapas-contro-gli-zapatisti-fatti-contesto-e-comunicato-di-marcos/ Sat, 10 May 2014 22:00:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14600 di Fabrizio Lorusso

Chiapas Escuelas-zapatistasUn morto, José Luis Solís López, e quindici feriti tra gli zapatisti nel caracol numero Uno, La Realidad, nel territorio del Municipio de Las Margaritas: questo il saldo dell’attacco di natura paramilitare del 2 maggio scorso ai danni delle BAEZLN (Basi d’Appoggio dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) in Chiapas. S’è trattato di un’imboscata, non di uno “scontro tra fazioni armate”, come inizialmente avevano riportato i media nazionali e stranieri basandosi su informazioni ufficiali e tendenziose. Secondo il comunicato degli zapatisti del 5 maggio e il bollettino del centro per i diritti umani Fray Bartolomé de las [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Chiapas Escuelas-zapatistasUn morto, José Luis Solís López, e quindici feriti tra gli zapatisti nel caracol numero Uno, La Realidad, nel territorio del Municipio de Las Margaritas: questo il saldo dell’attacco di natura paramilitare del 2 maggio scorso ai danni delle BAEZLN (Basi d’Appoggio dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) in Chiapas. S’è trattato di un’imboscata, non di uno “scontro tra fazioni armate”, come inizialmente avevano riportato i media nazionali e stranieri basandosi su informazioni ufficiali e tendenziose. Secondo il comunicato degli zapatisti del 5 maggio e il bollettino del centro per i diritti umani Fray Bartolomé de las Casas (Frayba) il 2 maggio, alle 18:30, 68 aderenti alle basi zapatiste, disarmati, sono stati attaccati da circa 140 persone armate, militanti della CIOAC-H (Central Independiente de Obreros Agrícolas y Campesinos-Histórica), del PAN (Partido Acción Nacional) e del Partito Verde Ecologista del Messico (PVEM). Tanto il governo statale del Chiapas, presieduto da Manuel Velasco, come quello municipale di Las Margaritas sono attualmente in mano a quest’ultimo partito che a livello nazionale è alleato del PRI (Partido Revolucionario Institucional), tornato al potere, dopo 12 anni di governi del PAN, col presidente Enrique Peña Nieto nel dicembre 2012 (nella foto: Velasco e Peña).

Chiapas Manuel velasco peña nietoL’omicidio del votán, cioè del maestro della Escuelita zapatista José Luis Solís López, persona rispettata e in vista nella comunità, è un fatto gravissimo e infame. Il maestro è stato accerchiato e linciato da una ventina di soggetti armati, infine raggiunto da tre colpi, uno alla gamba, uno al torace e un colpo di grazia alla nuca, oltre che da bastonate e sferzate di machete. Poco prima dell’attacco, alcuni aggressori hanno tagliato i dotti che portano l’acqua alle comunità zapatiste del caracol e hanno distrutto la clinica comunitaria, la scuola, gli orti e alcuni veicoli di proprietà delle BAEZLN. L’informazione attendibile è arrivata col contagocce, alcuni giorni dopo l’aggressione. Alcuni media, come il quotidiano La Jornada e la rivista Proceso, hanno rettificato le versioni iniziali che, come spesso accade, parlavano di semplici conflitti tra indigeni o “intracomunitari” e di controversie legate ai trasporti e all’uso della ghiaia o della terra della comunità.

Nell’ultimo anno ci sono stati altri due agguati mortali contro gli zapatisti: Carlos Gómez Silvano, indigeno tzetzal, è stato freddato nel marzo 2014 con 23 colpi di pistola, e Juán Vázquez Gómez è stato assassinato a fine aprile 2013. Però, nel caso di Solís, conosciuto anche come “Galeano”, non s’è trattato di una “sortita”, ma di un’operazione più grande e pericolosa per la sopravvivenza della comunità, in quanto diretta e pianificata contro un maestro dell’Escuelita zapatista, proprio nel cuore del caracol, e contro l’intero progetto autonomo, visto che sono state danneggiate le strutture della scuola, della clinica e i dotti dell’acqua. Ancor più grave è il fatto che, a pochi metri dalla zona dell’attentato, con la mediazione di due rappresentanti del centro Frayba per i diritti umani, si stessero concludendo degli accordi proprio tra la CIOAC e gli zapatisti.

L’8 maggio il Subcomandante Insurgente Marcos ha firmato un comunicato dell’EZLN intitolato “El dolor y la rabia” in cui si legge che Galeano

non è caduto nell’imboscata, è stato circondato da 15 o 20 paramilitari (sì, lo sono, le loro tattiche sono di tipo paramilitare); il compagno Galeano li ha sfidati a battersi a mani nude, senza armi da fuoco; lo hanno bastonato e lui saltava da una parte all’altra schivando i colpi e disarmando i suoi rivali”E continua: “Vedendo che non ce l facevano contro di lui, gli hanno sparato un colpo alla gamba tirandolo giù. Dopo questo, la barbarie: gli sono piombati addosso, picchiandolo e colpendolo col machete. Un’altro proiettile nel petto l’ha  reso moribondo. Hanno continuato a colpirlo. Vedendo che ancora respirava, un codardo gli ha sparato alla testa”Infine “il suo corpo è stato trascinato per 80 metri dai suoi assassini e l’hanno lasciato lì. E’ rimasto solo il compagno Galeano. Il suo corpo buttato in mezzo a quelle che prima fu la terra dell’accampata di uomini e donne provenienti da tutto il mondo che arrivavano al cosiddetto ‘accampamento di pace’ a La Realidad. E sono state le compagne, le donne zapatiste de La Realidad quelle che hanno sfidato la paura e sono andate a ritirare il corpo”

Qual è l’antefatto? Il 16 marzo alcuni appartenenti alla componente “Histórica” della CIOAC, una corrente dell’associazione rurale legata al PRD (Partido Revolución Democrática) e diversa dalla corrente “Democrática” o “Independiente”, risultata da una scissione e vincolata al Partido Verde, hanno bloccato e sequestrato presso il Municipio Autonomo General Emiliano Zapata un camioncino delle BAEZLN, pieno di medicine destinate alle comunità, che veniva utilizzato per le campagne per la salute degli zapatisti. La CIOAC è stata aiutata anche da membri del PAN e del Verde. Il pretesto per impossessarsi della camionetta e mantenerla sotto sequestro presso la casa ejidal, sede del potere di controllo sull’ejido, un territorio gestito come proprietà comune nel municipio de Las Margaritas, era piuttosto subdolo: secondo la Central “CIOAC” il furto del camioncino e del suo contenuto era la risposta a una presunta appropriazione indebita di ghiaia da parte degli zapatisti. In realtà il materiale da costruzione usato dagli zapatisti de La Realidad è adibito ad uso comune con gli altri gruppi della zona e non ha, quindi, un “proprietario”. Men che meno ne decidono le sorti le autorità municipali ufficiali o quelle dell’ejido, legate rispettivamente al PVEM e alla CIOAC-H(istórica). 

Chiapas mural zapatistaDopo due tentativi frustrati da quest’ultima, finalmente il primo maggio comincia un dialogo per la risoluzione del problema tra i delegati della Central, Alfredo Cruz e Roberto Alfaro, e quelli delle BAEZLN, tra cui c’è anche “Galeano”, la vittima degli attentati del giorno seguente, e due garanti del Frayba. Il dialogo diventa una “riunione permanente” e, dopo alcune ore di stallo, il delegato Cruz propone l’intervento dell’ex deputato federale del PRD Luís Hernández, dirigente della CIOAC in Chiapas, e abbandona più volte l’incontro per contattare i suoi superiori. Il 2 maggio si presentano 15 militanti della Central davanti alla casa della Giunta del Buon Governo, sede del governo autonomo zapatista in cui si svolgevano le negoziazioni, per intimare agli zapatisti la “liberazione” di un presunto ostaggio, Roberto Alfaro. E’ una provocazione bella e buona. Alfaro, però, smentisce ai suoi d’essere stato rapito e integra i “15” nel dialogo. Ciononostante, verso le sei e mezza di sera circa 140 militanti di PVEM, PAN e CIOAC-H, armati di pistole, fucili, machete, bastoni e pietre, entrano nel municipio, intercettano e attaccano violentemente una settantina di zapatisti che, nel frattempo, erano arrivati da fuori alla Realidad per svolgere alcuni lavori comunitari. Vero le otto e mezza gli zapatisti del caracol e quelli che stavano dialogando presso la Giunta del Buon Governo accorrono per evitare la distruzione della scuola e della clinica e poi in difesa delle basi attaccate, ma sono aggrediti a loro volta. 

Chiapas jbg-oventicViene ucciso brutalmente “Galeano” e ci sono 15 feriti. Appare chiaramente la volontà punitiva degli aggressori nell’ambito di un’operazione pianificata. E infatti, riporta il comunicato di Marcos che “una donna dei contras [gruppi anti-zapatisti] ha raccontato che è stato pianificato e che di per sé il piano era ‘fottere’ Galeano”. Il 5 maggio il governo del Chiapas sostiene di aver arrestato cinque persone, che sono state interrogate e rilasciate dopo alcune ore, ma di queste solamente una è stata riconosciuta come facente parte della CIOAC dalla Giunta del Buon Governo del caracol Uno. Le basi zapatiste hanno deciso di lasciare alla Comandancia dell’EZ la responsabilità d’indagare e fare giustizia su questo caso. Spiega il Sub-Marcos:

La CIOAC-Histórica, la sua rivale CIOAC-Independiente e altre organizzazioni ‘contadine’ come la ORCAO, ORUGA, URPA a altre, vivono della provocazione di scontri. Sanno che provocare problemi nelle comunità dove abbiamo presenza piace ai governi. E che sono soliti premiare con progetti e grosse mazzette di banconote per i dirigenti i danni che ci causano. Secondo le parole di un funzionario del governo di Manuel Velasco: “ci conviene di più che gli zapatisti siano occupati da problemi creati artificialmente piuttosto che si mettano a fare attività a cui arrivano ‘güeros‘ [biondi, stranieri] da ogni dove”. Ha detto proprio così ‘güeros’. Sì, è comico che così s’esprima il servitore di un ‘güero’. Ogni volta che i leader di queste organizzazioni “contadine” vedono diminuire il proprio budget per colpa delle abbuffate che si fanno, organizzano un problema e vanno dal governo del Chiapas affinché li paghi per “calmarsi”. Questo “modus vivendi” di dirigenti che nemmeno sanno distinguere tra “sabbia” e “ghiaia” è iniziato con il priista e è stato ripreso dal lopezobradorista [seguace dell’ex candidato presidenziale López Obrador] Juan Sabines e si mantiene con l’auto-nominato verde ecologista Manuel “el güero” Velasco”.

Andando oltre i precedenti e i fatti dell’uno e due maggio, è importante menzionare alcuni elementi che aiutano a chiarire i motivi e il contesto di quest’aggressione:

  • Non si tratta di un conflitto intracomunitario o di una guerra che ogni tanto torna ad apparire, magari per “futili motivi”, come in un primo momento i mass media avevano riportato, facendo ampio uso di fonti ufficiali prive di contesto e di fonti della CIOAC, secondo una strategia mediatica ormai nota e oliata;
  • Non si tratta nemmeno di un “enfrentamiento”, di uno scontro, come si leggeva nei primi articoli pubblicati in Messico, ma di un attacco per cui solo da una parte si contano morti e feriti;
  • I mezzi di comunicazione autonomi e indipendenti si sono attivati piuttosto tardi rispetto al mainstream, il che ha dato adito a speculazioni che poi piano piano sono rientrate anche grazie alla nota emessa dal Frayba;
  • L’attacco è stato portato a termine nonostante la presenza dei difensori dei diritti umani del Frayba nella località, anzi proprio durante la fase finale delle negoziazioni per un caso, quello dell’uso comune della ghiaia e del furto/sequestro di un veicolo zapatista che era usato per altri fini, che appare anch’esso una provocazione, lanciata per suscitare una reazione, magari violenta, delle BAEZLN che, però, non c’è stata;
  • Tanto la CIOAC “histórica” come quella “democrática”, nonostante le loro origini popolari e contadine negli anni sessanta e alla loro immagine “progressista”, agiscono con metodi e strategie di tipo paramilitare, sono organiche ai partiti, vi si legano per ottenere favori, protezioni e quote di potere locale e nazionale, e compongono così gli ingranaggi di un meccanismo o di una strategia più ampia di controinsurrezione e repressione dell’esperienza dell’autonomia in Chiapas;
  • Come documentò il Frayba, organismo per la difesa dei diritti umani presieduto dal vescovo di Saltillo, Raúl Vera, fu proprio la CIOAC ad attaccare le BAEZLN poche settimane fa, lo scorso 30 gennaio, malgrado avessero sottoscritto un compromesso di “non belligeranza” nel novembre 2013: 300 persone della Central, armate di pietre e bastoni, aggredirono gli zapatisti del caracol di Morelia, nel Municipio Autonomo XVII de Noviembre, e il saldo fu di sei feriti di cui due molto gravi;
  • Quello contro Solís López è il terzo agguato mortale in un anno, ma c’è stata un’escalation della tipologia delle azioni e degli obiettivi (il colpo di grazia, l’interruzione di un dialogo-negoziato, la penetrazione nel cuore della comunità, la numerosità dei gruppi, la visibilità della vittima), probabilmente (ma non solo) per via del “risveglio” zapatista in seguito alla marcia silenziosa dei 40.000, per ricordare la strage di Acteal nel dicembre 2012, alla serie di comunicati del Subcomandante Marcos o Delegado Cero e alla riattivazione delle reti di solidarietà internazionale e nazionale promossa dall’EZ nel 2013 con l’iniziativa delle “Escuelitas Zapatistas para la Libertad según los y la Zapatistas” che ha riportato in Chiapas migliaia di compagni, attivisti e simpatizzanti in un nuovo processo di avvicinamento e diffusione della filosofia e della prassi dell’autonomia zapatista;
  • Altre possibili spiegazioni dell’inasprimento repressivo: (a) boicottare l’evento organizzato da CIDECI-UNITIERRA-Chiapas e dai collettivi di alunni delle Escuelitas, con la partecipazione dell’EZ, che è previsto dal 2 all’8 giugno a San Cristobal de las Casas e che prevede un tributo a Luis Villoro Toranzo e un seminario con intellettuali e militanti invitati da tutto il mondo intitolato “Etica frente al despojo” (“Etica di fronte alla spoliazione”); (b) far fallire l’incontro degli zapatisti nel Cogresso Nazionale Indigena con i popoli originari del Messico e del mondo e le loro organizzazioni, previsto dal 26 al 31 maggio e ora sospeso, come spiega il comunicato dell’8 maggio; (c) spingere la Comandancia o le basi a una reazione che giustifichi nuovi attacchi; (d) il contesto nazionale delle “riforme strutturali”, specialmente della riforma energetica che, dopo l’approvazione delle modifiche costituzionali, sta per essere recepita con delle leggi ordinarie e aprirà fortemente il settore energetico, insieme ad altri, agli investimenti stranieri per cui, un territorio ricco di risorse energetiche, minerarie, turistiche e di biodiversità come il Chiapas sarà più ambito di quanto non lo sia già stato in passato;
  • l’EZLN è sotto attacco da sempre e non è mai stato in silenzio, ha sempre denunciato sul web, con comunicati, coi mezzi a propria disposizione e tramite le sue reti, la politica di persecuzione e repressione che, con diverse intensità a seconda del momento politico, economico e storico, ha colpito le sue basi, la Comandancia e gli aderenti alla Sexta Declaración de la Selva Lacadona, soprattutto in Messico.

Questi passaggi del comunicato del Sub Marcos aiutano a capire meglio la situazione e mostra alcuni risultati preliminari dell’indagine della Comandancia:

“I primi risultati delle indagini, così come le informazioni che ci giungono, non lasciano adito a dubbi: 1. S’è trattato d’una aggressione pianificata, organizzata militarmente e portata a termine in malafede, premeditazione e vantaggio. Ed è un’aggressione inserita in un clima creato e foraggiato dall’alto. 2. Sono implicate le direzioni della cosiddetta CIOAC-Histórica, del Partido Verde Ecologista (nome con cui il PRI governa nel Chiapas), il PAN e il PRI. 3. E’ implicato almeno il governo dello stato del Chiapas. E’ da determinare il grado di coinvolgimento del governo federale. Riassumendo: non s’è trattato di un problema della comunità, dove due bandi s’affrontano infuriati dalla situazione. E’ stata una cosa pianificata: primo, la provocazione con la distruzione della scuola e della clinica, sapendo che i nostri compagni non avevano armi da fuoco, e che sarebbero andati a difendere ciò che umilmente avevano costruito con il loro sforzo; poi, le posizioni che hanno preso gli aggressori, prevedendo la strada che avrebbero seguito dal caracol alla scuola; e alla fine il fuoco incrociato contro i nostri compagni”.

“Ora sono arrivate informazioni su una riunione dei dirigenti della CIOAC-Histórica. I dirigenti dicono letteralmente: “con l’EZLN non si può negoziare coi soldi. Ma, una volta arrestati tutti quelli compaiono sul giornale, che li rinchiudano 4 o 5 anni, dopo che s’è calmato il problema, si può negoziare col governo per la loro liberazione”. Un altro aggiunge: “o possiamo dire che c’è stato un morto tra i nostri e così c’è un pareggio di un morto per ciascuno de bandi, e che si calmino gli zapatisti. Ce lo inventiamo che è morto o lo ammazziamo noi stessi e così resta risolto il problema”.

Il comunicato conclude citando il modello della strage di Acteal del 1997 che “dall’alto comincia ad essere incoraggiato”, dato che i media hanno parlato di “un conflitto intracomunitario per un cumulo di sabbia”. E aggiunge: “Così continua la militarizzazione, il vociare isterico della stampa addomesticata, le simulazioni, le menzogne, la persecuzione. Non è gratuito che lì ci stia proprio il vecchio Chuayffet [attuale ministro dell’istruzione ed ex ministro degli interni 1995-1998], adesso con zelanti alunni nel governo del Chiapas e nelle organizzazioni ‘contadine'”. Infine l’EZ, per decisione del Subcomandante Insurgente Moisés, ha annunciato che “le attività pubbliche di maggio e giugno sono state sospese per un tempo indefinito, così come i corsi della libertà secondo gli/le zapatisti/e”, delle Escuelitas.

I Link
Messaggi di solidarietà con le comunità zapatiste da tutto il mondo: QUI
Andrea Spotti racconta i dettagli dell’aggressione su Radio Onda d’Urto: QUI
Comunicato dell’8 maggio Subcomandante Marcos/EZLN: QUI
Audio in spagnolo di Radio Zapatista e altri link utili: QUI
Comunicato originale della Giunta del Buon Governo La Realidad: QUI
Analisi sui media, la CIOAC e la strategia controinsurrezionale: QUI
Articolo sulla Escuelita in spagnolo, La Jornada: QUI
Comunicato eventi 26-31 maggio e 2-8 giugno e passi successivi dell’EZLN: QUI

]]>
L’anno nero della stampa in Messico https://www.carmillaonline.com/2014/04/05/lanno-nero-della-stampa-messico/ Fri, 04 Apr 2014 22:00:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13761 di Andrea Spotti

Crimenes-periodistasUn’aggressione al giorno. E’ la media delle violenze subite dalla stampa in Messico durante l’anno appena trascorso, considerato uno dei più violenti della storia recente per i giornalisti. Il dato, che indica la sistematicità e la quotidianità delle intimidazioni, è fornito dal rapporto annuale di Article 19, associazione internazionale per la difesa della libertà di espressione. Si conferma così l’allarmante situazione che vivono gli uomini e le donne che cercano di raccontare il Messico militarizzato della guerra al narcotraffico. Una realtà in cui il dovere di [...]]]> di Andrea Spotti

Crimenes-periodistasUn’aggressione al giorno. E’ la media delle violenze subite dalla stampa in Messico durante l’anno appena trascorso, considerato uno dei più violenti della storia recente per i giornalisti. Il dato, che indica la sistematicità e la quotidianità delle intimidazioni, è fornito dal rapporto annuale di Article 19, associazione internazionale per la difesa della libertà di espressione. Si conferma così l’allarmante situazione che vivono gli uomini e le donne che cercano di raccontare il Messico militarizzato della guerra al narcotraffico. Una realtà in cui il dovere di cronaca si scontra troppo spesso con gli interessi di autorità, mafie e poteri forti. E dove fare giornalismo in modo critico può voler dire mettere a rischio la propria vita. Il rapporto, presentato lo scorso 18 marzo a Città del Messico, s’intitola “Dissentire in silenzio: violenza contro la stampa e criminalizzazione della protesta, Messico 2013”, e traccia un quadro assai preoccupante dello stato di salute dell’informazione nel Paese. Da una parte, denuncia l’impunità di cui riesce a godere chiunque abbia interesse a silenziare voci scomode grazie alla complicità o all’inazione dei differenti livelli di governo e di potere, e, dall’altra, la decisa tendenza alla riduzione del diritto alla protesta e alla copertura della stessa, in atto su tutto il territorio nazionale e in particolare nella capitale, governata da poco più di un anno dal sindaco di centrosinistra (PRD, Partido Revolución Democrática) Miguel Àngel Mancera.

Secondo Article 19, nonostante il numero dei reporter uccisi sia diminuito, passando da 7 a 4 rispetto al 2012, lo scorso anno è stato il più violento ai danni della stampa dal 2007 a questa parte. Da quando, cioè, l’ex presidente conservatore Felipe Calderòn, in seria crisi di legittimità dopo le elezioni del 2006, macchiate dal forte sospetto di brogli, ha lanciato una campagna armata contro la criminalità organizzata, militarizzando il territorio e scatenando un’ondata di violenza che ha causato almeno 80mila e 27mila desaparecidos. E che ha fatto del Messico uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i lavoratori e le lavoratrici dell’informazione, con un bilancio di 51omicidi e 20 sparizioni forzate accumulate negli ultimi 7 anni dalla categoria.

I primi 365 giorni dell’amministrazione di Peña Nieto, che ha sancito il ritorno al potere del PRI (l’autoritario Partito Rivoluzionario Istituzionale) dopo 12 di transizione mancata a guida PAN (il destrorso Partito d’Azione Nazionale), non hanno dunque segnato l’inversione di tendenza annunciata in campagna elettorale: s’è registrato, al contrario, un aumento del 59% degli attacchi, i quali hanno così toccato quota 330. Il che, rappresenta una media quasi quotidiana di un’aggressione alla stampa, per la precisione si tratta di un segnalamento ogni 26 ore e mezza.

Oltre ad essere stato il più violento per l’informazione in generale, il 2013 è anche l’anno che ha accumulato il più alto numero di aggressioni nei confronti sia delle donne giornaliste, con 59 denunce registrate, che delle sedi di organi informativi, che sono arrivate 39. Stiamo parlando, rispettivamente, del 20 e del 10% del totale delle intimidazioni documentate. Rispetto alle minacce, invece, il 2013 è secondo solo al 2009, che lo supera di una sola lunghezza, però, con 50 denunce segnalate.

Gli attacchi documentati alla libertà d’espressione sono di diverso tipo: si va dal sequestro intimidatorio alle botte, passando dagli assalti armati alle sedi dei giornali fino ad arrivare alla sparizioni forzate e agli omicidi. Il tutto, in un contesto di brutalità inaudita, in cui fosse clandestine, decapitazioni e corpi mutilati sono così all’ordine del giorno da non fare quasi più notizia.

Con l’importante eccezione della capitale, su cui torneremo, anche quest’anno le aggressioni hanno colpito soprattutto reporter e mezzi di comunicazione che lavorano a livello statale e municipale. In zone del paese in cui sono in atto scontri tra forze armate e criminalità organizzata, oppure faide tra cartelli di narcos per il controllo del territorio. In questo senso nel rapporto si sottolinea come significativo che la maggioranza delle aggressioni, oltre che le più serie, si siano concentrate negli stati di Veracruz, Tamaulipas, Chihuahua e Coahuila.

Tuttavia, secondo Article 19, è possibile osservare una tendenza “alla disseminazione della violenza verso altre entità amministrative”. E in effetti, nel corso del 2013, il contesto è stato particolarmente difficile e pericoloso per i giornalisti anche in Chiapas, Guerrero, Michoacan, Baja California, Tlaxcala, Durango, Quintana Roo e, non senza una certa sorpresa data la sua tradizione progressista, a Città del Messico.

Il dato più inquietante, però, ha a che fare con i protagonisti delle aggressioni denunciate, che vede primeggiare le autorità e i funzionari dello stato. Secondo Article 19, infatti, delle 274 occasioni in cui è stato possibile identificare il colpevole, in ben 146 si é trattato di un rappresentante dello stato; nella maggioranza dei casi, di poliziotti municipali.

Pur non potendo considerare i dati come esaustivi, in quanto molte aggressioni, soprattutto se provenienti dal narcotraffico, non vengono neppure denunciate e in alcune zone sporgere denuncia è più comune che in altre, si tratta comunque di numeri indicativi dell’estensione, nonché della gravità ,della situazione, dato che stiamo parlando di sei aggressioni su dieci perpetrate da chi dovrebbe tutelare il diritto a informare ed ad essere informati.

Article19 2014Per quanto riguarda gli omicidi, invece, la parte del leone la fanno i diversi narco-cartelli presenti sul territorio nazionale, responsabili di 20 dei 51 casi registrati dal 2007 ad oggi. In modo tale che, secondo l’organizzazione internazionale, chi esercita il giornalismo in Messico si trova preso in mezzo tra l’incudine delle intimidazioni provenienti dalle autorità e il martello rappresentato dalla violenza del crimine organizzato. Tutto questo, in una situazione in cui l’impunità è la regola in oltre il 90% dei casi, e l’autocensura rappresenta sovente “l’unica opzione per poter lavorare senza essere aggediti”.

Nella relazione, inoltre, vengono fortemente criticate le istituzioni create dallo stato nel corso degli ultimi anni per rispondere al crescendo delle aggressioni contro la stampa e all’indignazione che suscitavano, come la Procura Speciale per i Delitti Contro la Libertà di Espressione e il Meccanismo per la Protezione di Giornalisti e Difensori dei Diritti Umani. I quali, lungi dal garantire una qualche forma di appoggio a coloro che si sono trovati nel mirino di mafie o poteri forti, sono risultate essere mere operazioni di immagine per l’opinione pubblica interna e gli organismi internazionali. Per dirla con lo scrittore e giornalista Juan Villoro, che ha introdotto la presentazione del rapporto, il governo non solo è responsabile di negare la protezione e di non garantire il pieno esercizio del diritto all’espressione ai suoi cittadini, ma dimostra tutto il suo cinismo e la sua demogogia, in quanto, pur riconscendo a parole la gravità della problematica, nei fatti non fa nulla per intervenire concretamente. Affidandosi ancora una volta alla vecchia formula priista, il cui messaggio è: “Perché governare se posso limitarmi a dichiarare?”

In “Dissentire in silenzio”, infine, lo stato di Veracruz e la capitale del paese, meritano una menzione a parte. Il primo, perché rappresenta la regione in assoluto più pericolosa per la stampa. Qui, infatti, durante i primi tre anni di mandato dell’attuale governatore, il priista Javier Duarte, le aggressioni si sono triplicate e sono stati assassinati ben 10 operatori della comunicazione. La situazione è tale che decine di reporter sono dovuti fuggire a causa delle minacce e degli attacchi subiti, favoriti dal clima di impunità propiziato dal governo e dalla Procura locali, contro i quali hanno più volte puntato il dito varie associazioni per la difesa dei diritti umani, accusandoli di non fare gli sforzi necessari per tutelare i giornalisti e per trovare e castigare i colpevoli. Emblematico, in questo senso, è l’atteggiamento della Procura, che pare sempre guardarsi bene dal collegare omicidi e sparizioni forzate all’attività giornalistica delle vittime.

D’altra parte, a Città del Messico, si è assistito a un eccezionale aumento di aggressioni e detenzioni nei confronti di giornalisti impegnati a documentare le proteste che hanno riempito le piazze della capitale tra agosto e ottobre del 2013 durante le mobilitazioni contro le cosidette riforme strutturali. Secondo il monitoraggio di Article 19, a partire dal primo dicembre 2012, data di inizio dei mandati dei governi di Peña Nieto e di Mancera, sono state documentate 64 aggressioni da parte della polizia locale e 36 detenzioni arbitrarie, molte delle quali sono avvenute quando il giornalista o il fotografo fermato stava documentando violenze e abusi polizieschi. Infine, l’organizzazione per la libertà di stampa, mette in evidenza come, più in generale, le autorità della capitale, a parole sempre molto dialoganti e aperte al confronto, abbiano “nei fatti un’intenzione deliberata di reprimere la protesta” e non offrano sufficienti garanzie a chi la vuole raccontare.

Se il 2013 si é accaparrato molti primati negativi, non si può certo dire che l’anno in corso stia andando molto meglio. Tra gli eventi recenti possiamo infatti ricordare: il sequestro e l’omicidio di Gregorio Jiménez de la Cruz, cronista veracruzano ritrovato in una fossa clandestina lo scorso 11 febbrario; le aggressioni poliziesche ai danni dei cronisti del giornale El Noroeste, impegnati nel tentativo di ricostruire le relazioni impresariali del boss “Chapo” Guzman nei giorni successici al suo arresto, nel municipio di Mazatlàn, Sinaloa; la chiusura, da parte delle autorità federali, del sito 1dmx.org, nel quale si era costituito un vero e proprio archivio che documentava la violenza della repressione poliziesca durante le manifestazioni del 2013; e infine, l’arresto illegale di Fabiola Gutiérrez, collaboratrice del portale digitale Somos El Medio, ed il furto con scasso praticato ai dani della casa di Darìo Ramìrez, direttore di Article 19 per il Messico e il Centroamerica, proprio due giorni prima della presentazione di “Dissentire in silenzio” , entrambi avvenuti nel capitale.

Insomma, stando alla cronaca delle ultime settimane, c’é poco da stare allegri. Ed è difficile pensare ad un cambiamento del contesto nel futuro. Anche perché, la cosiddetta comunità internazionale, ben rappresentata da riviste come il Time o quotidiani come Repubblica (si vedano, rispettivamente, una recente copertina e le corrispondenze ai tempi della visita di Letta), sembra molto più entusiasta delle aperture fatte dal governo in termini di libertà di investimento che preoccupata per “il costante deterioramento” della libertà di stampa e del diritto al dissenso denunciato da Article 19. E finché l’entusiasmo sarà maggiore della preoccupazione, e continuerà il relativo disinteresse internazionale rispetto a questa problematica, sarà molto difficile stimolare la scarsa volontà politica del governo a fare la sua parte per combattere l’impunità e la violenza dilaganti.

]]>