Palmiro Togliatti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 3 https://www.carmillaonline.com/2022/10/15/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-3/ Sat, 15 Oct 2022 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73969 di Emilio Quadrelli

L’asimmetria della guerra

Abbiamo detto, all’inizio del testo, che quanto accaduto in Val Susa non è altro che il rimpatrio di un modello ampiamente sperimentato in una serie di territori, ai quali è stata sottratta la dignità della dimensione statuale, e posti sotto sicurezza attraverso una serie di operazioni di polizia. Ma tutto ciò cosa ci racconta? Cosa significa la compenetrazione di militare e poliziesco? Perché affidare al militare compiti polizieschi e alla polizia ruoli propri dell’esercito? Evidentemente nella messa in forma della guerra deve essere accaduto qualcosa. [...]]]> di Emilio Quadrelli

L’asimmetria della guerra

Abbiamo detto, all’inizio del testo, che quanto accaduto in Val Susa non è altro che il rimpatrio di un modello ampiamente sperimentato in una serie di territori, ai quali è stata sottratta la dignità della dimensione statuale, e posti sotto sicurezza attraverso una serie di operazioni di polizia. Ma tutto ciò cosa ci racconta? Cosa significa la compenetrazione di militare e poliziesco? Perché affidare al militare compiti polizieschi e alla polizia ruoli propri dell’esercito? Evidentemente nella messa in forma della guerra deve essere accaduto qualcosa. Ma se qualcosa è accaduto nella messa in forma della guerra significa che dentro il “politico” qualcosa di non secondario si è modificato. Significa che la relazione simmetrica che faceva da sfondo all’agire della politica ha conosciuto una sostanziale modifica. In altre parole si è passati da un modello simmetrico a uno asimmetrico. Ma tutto ciò rappresenta una novità assoluta oppure, a conti fatti, non si tratta d’altro che di una nuova attualizzazione di un modello, quello coloniale, che ha a lungo accompagnato la nostra storia? La relazione politica asimmetrica e il conseguente modello che si porta appresso non è esattamente la rimessa in circolo di quanto ampiamente sperimentato nei confronti delle colonie? Questo, a conti fatti, sembra essere il cuore della questione. Per molti versi, infatti, sembra di essere precipitati, subito dopo la fine della “Guerra fredda”, all’interno di uno scenario internazionale che ha forzatamente accantonato uno degli aspetti centrali della storia novecentesca: la decolonizzazione. Ora, indipendentemente da qualunque giudizio si possa dare sulla decolonizzazione, una cosa appare comunemente accertabile: la decolonizzazione ha fatto sì che, i popoli senza storia, entrassero prepotentemente nello scenario politico internazionale.

A partire dalla Prima guerra mondiale, attraverso un processo che si prolunga sino agli anni Settanta del secolo scorso, le popolazioni non occidentali si conquistano, armi in pugno, il diritto a esistere in quanto entità politiche. Il “Movimento dei Paesi non allineati”, con ogni probabilità, ne ha rappresentato la sintesi politica per eccellenza. Si tratta di un moto storico senza precedenti poiché rompe drasticamente tutti gli equilibri politici e culturali che, pur in condizioni storiche profondamente diverse e modificate, parevano darsi come storicamente immodificabili. Più che significativa la regolarizzazione politica a cui, proprio in tale contesto, perviene la figura del partigiano. Si tratta di un passaggio importante e che, per molti versi, mostra tutta la forza politica che l’Ottobre è stato in grado, prima di porre in campo, quindi di scatenare. È con l’Ottobre infatti che i “popoli senza” storia acquistano dignità di linguaggio e, con questa, accedono a pieno titolo al mondo della politica. Ciò che con la Grande rivoluzione era stato posto come semplice principio astratto nell’Ottobre trova la sua piena concretezza. Le conseguenze pratiche della legittimità delle guerre anticoloniali comportano ricadute non secondarie sulla concettualizzazione della guerra e la sua conduzione. Le guerre anticoloniali sono, in prevalenza, guerre di tipo partigiano. Anche quando, come nel caso del conflitto vietnamita, è presente un esercito regolare la lotta nei territori occupati dal fronte imperialista è condotta da forze partigiane politicamente organizzate nel fronte di liberazione nazionale. Il fatto che, queste forze, abbiano ottenuto, non solo di fatto ma formalmente, un riconoscimento politico non è qualcosa di poco rilevante. Basti pensare a come nel corso della Seconda guerra mondiale, dove pur la guerra partigiana assunse ruoli e dimensioni considerevoli, non si pervenne mai a un suo riconoscimento giuridico formale e il partigiano continuò a essere ascritto all’ambito del fuorilegge.

La decolonizzazione interrompe quell’ordine del discorso fondato sulla “civiltà bianca ed europea” che aveva consentito di considerare gran parte dell’umanità come qualcosa di antropologicamente diverso e inferiore. Un dato “obiettivo” che nessuna frattura storica interna al mondo europeo era stata in grado di porre radicalmente in discussione. Su ciò la stessa Grande rivoluzione si era vista costretta a fare marcia indietro. Neppure l’ala più estrema e progressista della borghesia era riuscita a estendere l’uguaglianza oltre la “linea del colore”. Questa linea si mostrava invalicabile e l’universalismo dei diritti rimaneva pur sempre confinato tra quei popoli e quelle nazioni che potevano vantare “storia, linguaggio e cultura” mentre, tutti gli altri, rimanevano ascritti, senza soluzione di continuità, all’ambito dell’indistinto. A fronte di popoli e nazioni certe si stagliavano le miriadi di etnie senza nome e senza volto. I diritti dell’Uomo erano sì universali ma non tutti gli esseri umani erano, in quanto tali, immediatamente Uomo e quindi portatori di diritti universali. Un’aporia che, in realtà, la Grande rivoluzione eredita dall’Umanesimo il quale, fin dalla sua nascita, coltiva tale ambiguità come le guerre di conquista extra europee, pre – moderne, sono lì a ricordare.

In poche parole l’eguaglianza è cosa che va riconosciuta ed elargita con parsimonia. La borghesia rivoluzionaria non è in grado di spingersi oltre tanto che, quando le suggestioni dell’89 approderanno tra i popoli di colore, per i giacobini neri non vi sarà altra soluzione che la forca. A imporsi è un ordine discorsivo il quale finisce con il diventare banale retorica di senso comune all’interno di tutti gli ambiti sociali. La differenza obiettiva e “naturalista” esistente tra noi e loro si sedimenta in profondità tanto da diventare “ciò che tutti sanno”. Un razzismo che, a differenza di quanto accade tra i teorici della razza tout court, non ha bisogno di essere teorizzato e continuamente rafforzato. La vera forza di questo ordine discorsivo sta, piuttosto, nella sua debolezza. È questo razzismo debole, e proprio per questo difficilmente estirpabile, ad attraversare per intero le formazioni economiche e sociali prima europee, poi occidentali. Di ciò, anche se è storia di oggi, ne si avrà una facile conferma quando, con l’irrompere prepotente dei nuovi flussi migratori, le retoriche xenofobe e razziste non troveranno troppi ostacoli a conquistarsi un certo protagonismo politico nelle nostre società così come, in maniera del tutto speculare e complementare, gran parte di questo razzismo, nuovo e arcaico al contempo, troverà la sua migliore sistematizzazione nelle retoriche multiculturaliste.
Ma non anticipiamo e riprendiamo il filo del nostro discorso.

Abbiamo detto dei limiti che la stessa Grande rivoluzione si porta appresso. Su questa scia l’aveva seguita, almeno tacitamente, lo stesso movimento operaio organizzato nella Seconda internazionale. Sino a Lenin e ai bolscevichi, sino alla costruzione dell’Internazionale comunista, i popoli di colore, rimangono popoli senza storia e senza linguaggio. Un retaggio che, in Occidente, continuerà a essere a lungo il non detto di parte del movimento operaio. Di fronte alle lotte di liberazione dei Paesi sottoposti al giogo coloniale le titubanze degli stessi partiti comunisti occidentali non saranno proprio impasse da nulla basti pensare al comportamento del PCF nei confronti della guerra di liberazione algerina o alle dichiarazioni del PCI, attraverso il suo leader Palmiro Togliatti, rispetto alla legittimità dei possedimenti coloniali italiani per non parlare dei Partiti socialisti i quali, in non pochi casi, hanno condotto in prima persona la guerra contro i moti emancipatori dei popoli coloniali. In poche parole, la guerra fuori dai confini del “mondo civile”, è sempre stata qualcosa la cui messa in forma rimandava a uno scenario non commensurabile a quello abitualmente vigente tra entità politiche che si riconoscevano appartenenti al medesimo campo. Anche in guerra, come su tutti gli altri piani della vita, il principio di eguaglianza valeva solo all’interno di un ambito ristretto di popoli e nazioni.

La rottura epocale dell’Ottobre consiste proprio nell’aver universalizzato non tanto i Diritti dell’Uomo ma la dimensione politica dei popoli. Con l’Ottobre la “civiltà bianca” è costretta a riconoscere che tutti gli abitanti del globo hanno il diritto di organizzarsi politicamente e, pertanto, di essere posti su un piano di pari grado e dignità. Alla fine, pur se a denti stretti, USA e Francia (tanto per citare casi ampiamente noti) devono trattare con il FLN del Vietnam e con il FLN algerino considerandoli entità politiche a tutti gli effetti. Non per caso l’ONU è stato un terreno di battaglia, simbolico ma non secondario, di questo esercizio di diritto. Il riconoscimento legittimo presso l’ONU ratificava esattamente la dimensione politico – statuale alla quale una popolazione era pervenuta. Una parentesi, alla scala della storia, che si è protratta, all’incirca, per una sessantina d’anni e che da più di trenta anni è stata nuovamente posta al bando e che, non per caso, ha, di fatto, delegittimato l’ONU stesso diventato sempre più, da istituzione internazionale deputata a equilibrare i conflitti internazionali, a strumento delle politiche imperialiste. Basti pensare a come l’ONU ascrivi ormai abitualmente le lotte partigiane delle popolazioni sotto occupazioni, nell’ambito del terrorismo. Un modo neppure troppo raffinato per ascrivere all’ambito della criminalità ogni forma di resistenza e sottrarla così alla dimensione propria del “politico” e ricondurla nella più malleabile categoria del nemico privato. Con ciò il senso delle operazioni di polizia internazionale comincia a farsi più chiaro. A essersi ormai decisamente incrinato è tutto il quadro politico affermatosi con la fine della Seconda guerra mondiale.

Dal 1989 in poi, nei confronti delle popolazioni non appartenenti al Primo mondo, a riemergere è esattamente una linea di condotta che rimanda appieno alla situazione vigente prima dell’Ottobre. Tutto ciò è stato messo in atto attraverso una serie di operazioni anche culturali delle quali è opportuno occuparsi. Uno degli effetti immediati del post ’89 è stata la messa in mora di tale universalizzazione mentre, di pari passo, prendevano forma tutte quell’insieme di retoriche incentrate sul culturalismo così come, al posto delle entità statuali e nazionali, a emergere erano le singolarità etniche e l’insieme di conflittualità che, inevitabilmente, queste si portano appresso.

Subito dopo l’89 il mondo è stato oggetto di un nuovo bipolarismo solo che, questa volta, la divisione non nasceva sulla adesione alla forza militare della NATO o a quella del Patto di Varsavia ma su basi del tutto diverse. Da una parte, la sfera Occidentale e i cosiddetti Paesi emergenti, raggruppavano Stati politicamente organizzati mentre, il resto del mondo, sommava in maniera abbastanza confusa e caotica etnie e culture le quali non potevano far altro che essere nuovamente oggetto di un “processo di civilizzazione”. Le differenze non sono secondarie. Mentre nel primo caso, per forza di cose, a emergere non poteva essere altro che un conflitto tra eguali nel secondo, a emergere, era un non luogo privo di qualunque ordinamento politico a fronte di realtà statuali politicamente certe e organizzate. La distanza tra i due mondi diventava pertanto incommensurabile. Una nuova epopea coloniale si faceva non solo possibile ma necessaria. A emergere, in tale contesto, diventa l’esistenza di un nuovo forte noi contrapposto a un altrettanto forte loro. Di tale formazione è opportuno trarne la genealogia.

Questo noi ha preso forma all’interno di due contenitori più che diversi complementari. Da un lato il razzismo tout court delle formazioni di destra. Un razzismo un po’ sempre uguale a se stesso sul quale vi è ben poco da dire. In questo caso, il noi, ha funzionato come collante identitario attraverso il quale si ribadisce la “naturalità” della supremazia dell’occidentale nei confronti del resto del mondo. In questo caso, infatti, la “linea del colore” attraversa anche tutte quelle popolazioni che, pur bianche, risultano estranee alle retoriche politiche e culturali del mondo occidentale. Si tratta di un noi che, per molti versi, rimanda a una enfatizzazione e declinazione nazionalista dello Stato/Nazione e dei suoi perimetri e che, in non pochi casi, entra in rotta di collisione con le trasformazioni “post/nazionali” proprie dell’attuale fase imperialista globale. Comunemente questo modello politico/concettuale è ascrivibile al mondo dei populismi i quali si oppongono, o almeno su questo trovano la linfa del loro successo, alla costruzione di un blocco politico su base Continentale governato dalle frazioni transnazionali della borghesia imperialista finanziaria. Il costante richiamo a quell’entità mai chiaramente definibile come “popolo” ne rappresenta, insieme all’inconsistenza e indeterminatezza, tanto l’ambiguità quanto la sua capacità di catturare consensi non secondari tra quote di classe operaia impoverita o piccola borghesia proletarizzata. Questo ordine discorsivo, pur quantitativamente non irrilevante, non è stato però l’ordine discorsivo dominante delle nostre società. Accanto a questo razzismo becero e bifolco ha fatto prepotentemente capolino un altro tipo di discorso, quello che per comodità possiamo definire l’ordine del discorso multiculturale, che ha organizzato e declinato le retoriche razziste su basi completamente diverse.

Andando al sodo l’ordine discorsivo multiculturale aveva un unico e sostanziale progetto strategico: deprivare della dimensione del “politico” tutte quelle popolazioni esterne ed estranee non solo al mondo occidentale, questo è qualcosa che hanno sempre fatto tutte le variabili del discorso colonialista, ma alla “concreta” forma politica assunta dall’Occidente. Questo il vero punto della questione. In apparente contrapposizione alle retoriche della destra il discorso multiculturale spostava le differenze tra noi e loro dal piano della “naturalità” a quello delle culture. L’ordine discorsivo proprio del multiculturalismo spostava la differenza dal colore della pelle, della razza o dell’etnia sul piano delle gerarchie culturali. A fronte di un Cultura, con la c maiuscola e dal portato immediatamente globale, propria delle classi dominanti internazionali si stagliavano le infinite piccole culture particolari e locali proprie di quelle popolazioni non coscientemente globalizzate.

Una gerarchia obiettivamente immodificabile il cui riconoscimento doveva dar vita a un modello sociale all’interno del quale, le piccole culture (sotto l’attenta vigilanza della Cultura), trovavano un proprio spazio sia di legittimazione che di libertà. Mente la destra, un po’ goffamente, chiedeva insistentaltroemente l’omologazione e l’omogeneizzazione culturale, reiterando le retoriche proprie dell’assimilazione, la società “civile e democratica” optava per un modello che, a conti fatti, riportava in auge le retoriche proprie della “riserva indiana”. Non diversamente dalla destra non poneva in discussione il valore indiscusso dello “stile di vita” occidentale ma, mentre ribadiva con forza ciò, riconosceva ai popoli non occidentali o non occidentalizzati il diritto a conservare, negli appositi spazi a questi assegnati, i propri “riti” e le coeve “usanze”. In questo modo, oltre a rendere visibile, soddisfacendo in tal modo quella sete di orientalismo proprio delle società coloniali, l’ agli occhi curiosi e morbosi delle popolazioni locali, confinava le popolazioni non occidentali all’interno di codici culturali dai quali non avrebbero più potuto emanciparsi. Nel riconoscimento della cultura altra si realizzava un sostanziale processo di imprigionamento politico e sociale. Una prassi, a dire il vero, neppure troppo nuova poiché, qualcosa di simile, le nostre società lo avevano già ampiamente sperimentato, pochi anni addietro, nei confronti delle proprie classi subalterne. Un passaggio intorno al quale vale la pena di soffermarsi.

(fine terza parte – continua)

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La guerra: una questione divisiva, ma dirimente https://www.carmillaonline.com/2022/07/20/la-guerra-una-questione-divisiva-ma-dirimente/ Wed, 20 Jul 2022 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72976 di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini… Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano [...]]]> di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini…
Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano fermarsi, a meno di non risalire alle cannonate del 1898 e a Bava Beccaris, saltando a piè pari, o quasi, una stagione straordinaria di lotte e contraddizioni di classe e nella classe: quella intercorsa nel secondo decennio del ‘900, tra l’avvento di Mussolini alla direzione dell’«Avanti», la Prima guerra mondiale e la formazione del nucleo giovane e intransigente che avrebbe costituito una delle componenti più radicali della Sinistra socialista.

Bene hanno dunque fatto i compagni di «pagine marxiste» a ripubblicare in un unico volume due testi di Mirella Mingardo già precedentemente apparsi in altra edizione (Mussolini, Turati e Fortichiari. La formazione della sinistra socialista a Milano 1912-1918, edizioni Graphos, 1992 e 1919-1923. Comunisti a Milano. La Sinistra comunista milanese di Bruno Fortichiari e Luigi Repossi dalla formazione del Pcd’I all’ascesa del fascismo, pagine marxiste, 2011) rivolti a sottolineare l’importanza che la componente milanese di sinistra del Partito Socialista ebbe nelle lotte e nelle riflessioni che precedettero e accompagnarono lo sviluppo della frazione rivoluzionaria all’interno dello stesso. Fino e oltre la scissione di Livorno nel 1921 che diede vita al Partito Comunista d’Italia. Entrambi i testi erano da tempo esauriti e vengono oggi riproposti in un’edizione riveduta, ampliata, corretta e corredata da un vasto apparato di note biografiche cui hanno contribuito i redattori dell’Associazione Eguaglianza e Solidarietà.

La lettura si rivela immediatamente stimolante non soltanto dal punto di vista storico, ma anche propriamente politico, poiché quelle battaglie e quei fatti, soltanto apparentemente lontani nel tempo, servono ancora a mettere in evidenza carenze, errori e contraddizioni del nostro tempo. Così, anche se in precedenza non sono mancante le opere storiografiche destinate a ricostruire il travaglio politico e i conflitti sociali di quegli anni, i due testi di Mirella Mingardo permettono di ricostruire e collocare gli stessi temi ed avvenimenti in maniera tale da costituire ancora un termine di paragone per quelli attuali.

Prima di procedere nell’analisi dei contenuti, quello che occorre forse sottolineare è che la narrazione dei passaggi che portarono alla scissione del PSI e alla fondazione di un partito comunista rivoluzionario spesso ha privilegiato tre località “forti” per lo sviluppo della corrente più radicale del socialismo italiano di inizio ‘900 mettendo in risalto Torino, Napoli e Milano spesso nell’ordine qui appena esposto.

Se Napoli, descritta fin dall’Ottocento come la “polveriera d’Italia”1 e successivamente come uno dei principali centri di origine del Comunismo e del Fascismo2, aveva visto la presenza determinante di Amadeo Bordiga tra i giovani militanti che avrebbero intrapreso e guidato la lotta per la rivoluzione e il comunismo, curandone in particolare l’impostazione teorica, Torino, definita in un classico della storiografia del movimento operaio italiano come “operaia e socialista”3, ha fondato il suo primato, oltre che sulla combattività della sua classe operaia e del suo proletariato, sulla presenza di Antonio Gramsci, nonostante i tentennamenti che questi ebbe (insieme a Togliatti, all’epoca decisamente “interventista”) nei riguardi dell’opposizione ferma e radicale nei confronti del primo conflitto imperialista.

In entrambi i casi, però, le sezioni locali del partito socialista erano rimaste in mano alle posizioni riformistiche, mentre soltanto a Milano la sezione, fin da prima della guerra era stata diretta dalla frazione di Sinistra dello stesso partito. Il dubbio a cui si perviene, quindi, è che tale spostamento del baricentro della ricostruzione storiografica a favore di Torino sia stato dovuto, in un ambito di ricerca a lungo dominato dalla storiografia e dagli storici legati a doppio filo al PCI, alla necessità di far crescere a dismisura, dopo la sua morte, la figura e il ruolo svolta da Gramsci, e dall’«Ordine Nuovo», nella nascita e nella formazione del Pcd’I: sia per fornire a Togliatti una copertura autorevole per giustificare le sue infinite giravolte e tradimenti all’ombra della (tutt’altro che amichevole) figura di Gramsci4, sia per sminuire, se non proprio denigrare o rimuovere, le figure di Amadeo Bordiga e dell’ancor più odiato, se possibile, Bruno Fortichiari.

Bruno Fortichiari che si rivela essere, nell’ambito della ricerca di Mirella Mingardo, un autentico e intransigente promotore dell’organizzazione non soltanto del lavoro politico della sezione socialista milanese negli anni precedenti la prima guerra mondiale, ma anche dell’opposizione internazionalista alla stessa, una volta scoppiata. Insieme alla sua figura brilla, nell’ambito dell’ organizzazione e dell’agitazione svolta in senso internazionalista e antimilitarista, quella di Abigaille Zanetta (1875-1945), maestra socialista e agitatrice temutissima dalla prefettura milanese e dai vertici moderati e parlamentari socialisti dell’epoca.

Non a caso una donna, in una città e in un’epoca in cui, dall’Italia dei campi e delle fabbriche fino agli scioperi delle giovani operaie di Pietroburgo che diedero inizio alla rivoluzione di febbraio in Russia nel 1917, le donne lavoratrici di ogni età, con o senza famiglia, svilupparono azioni di lotta collettiva che pesarono enormemente sulle politiche dei partiti e le scelte, spesso repressive, degli Stati. Soprattutto prima e durante il primo vero macello imperialista che, oltre tutto, qui in Italia era stato già anticipata dalla guerra di Libia e dall’opposizione che nei confronti di questa si sviluppò in ambito socialista e anarchico.

Se tutta la ricerca sulla Sinistra socialista milanese è profondamente interessante nelle due parti che la compongono, per ragion di brevità, in questo contesto, si è valutato di soffermare maggiormente l’attenzione sulla prima parte, quella che si ferma al 1918 con la fine della guerra.
Periodo burrascoso che vedrà l’ascesa di Benito Mussolini e il suo conseguente allontanamento dal partito, l’affermazione di Fortichiari e dei compagni a lui più vicini alla guida della sezione socialista di Milano e, infine, anche il progressivo attestarsi della componente riformista, guidata da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, su posizioni sempre più collaborazioniste con gli interessi del governo e del capitalismo italiano.

Il fatto veramente interessante, nella ricostruzione e analisi di quegli eventi e personaggi, è dato dal fatto che fino a quando la battaglia interna e sulle piazze sarà condotta sul piano della lotta economica e dei diritti dei lavoratori oppure della validità del suffragio universale o, ancora, della corruzione dei quadri parlamentari socialisti più orientati alla collaborazione filo-governativa o la loro appartenenza alla Massoneria, tutte le componenti riusciranno comunque a trovare un equilibrio, per quanto conflittuale, che permetterà alla struttura partito di procedere nel suo cammino. Anche se, come afferma l’autrice:

Sin dai primi mesi del 1912 la divisione già presente nell’ala destra del partito si rivelò insanabile, sia nel convegno nazionale contro la guerra organizzato a Milano dai riformisti di sinistra, che nel dibattito avvenuto alla Camera per ratificare il decreto reale di annessione della Libia. In questa sede i contrapposti interventi di Bissolati (che pur criticando l’impresa libica manteneva il suo appoggio al Ministero Giolitti) e di Turati (che espresse l’opposizione della sinistra alla politica governativa) sancirono pubblicamente la scissione fra i due riformismi5.

Di tale situazione poterono approfittare da una parte la Frazione rivoluzionaria, che nel giro di poco tempo riuscì a conquistare la maggioranza delle sezioni di un certo rilievo, anche se, come si afferma ancora nel testo, «l’ascesa dei rivoluzionari fu soprattutto “il frutto di uno sforzo di carattere organizzativo” che non corrispondeva ad un radicale rinnovamento “di idee e di programmi”»6. Dall’altra lo stesso Mussolini che, dopo esser da poco rientrato nelle fila del partito, al successivo XIII congresso del Partito Socialista, tenutosi a Reggio Emilia il 7 luglio del 1912, riuscì ad ottenere l’espulsione dal partito dei deputati Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca, individuati come rappresentanti della destra riformista.

Episodio che, dopo il tentativo fatto da Bonomi di presentare le scelte parlamentari della destra come sforzo di riconciliazione con lo Stato per «imbeverlo della forza operaia e popolare» in attesa di porre fine al «divorzio tra capitale e lavoro», sancì la prima significativa scissione nella storia del Partito Socialista7.
In tale contesto occorre cogliere l’affermazione delle forze più giovani e intransigenti del partito raccolte in buona parte nella federazione giovanile, ma anche «lo sviluppo di nuove forze sociali che la lunga depressione e la guerra libica avevano contribuito a creare»8.

Mentre già il primo conflitto mondiale andava accumulandosi a livello economico, militare e politico, fu possibile un breve periodo in cui le forze radicali interne al Partito socialista, il sindacalismo rivoluzionario e quello della Confederazione Generale del Lavoro poterono convivere, anche se in maniera spesso conflittuale, con l’ala riformistica del partito stesso.
Ma il colpo di pistola di Sarajevo del 28 giugno 1914 avrebbe significato non solo l’avvio di un conflitto tra imperi non più procrastinabile, ma anche il processo che avrebbe dato inizio al disfacimento della Seconda Internazionale e dello stesso partito socialista italiano.

Ed è proprio nel corso dell’anno che separò l’inizio delle ostilità tra le forze della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa e l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, che tutti i nodi vennero al pettine, dimostrando come la questione dell’atteggiamento da tenersi nei confronti della guerra imperialista sia sicuramente estremamente divisiva ma, anche, dirimente più di qualsiasi altra sul piano delle politiche riformistiche, nazionaliste oppure rivoluzionarie.

Fa bene la Mingardo a sottolineare come Mussolini, indicato sempre come unico e vero traditore delle posizioni neutraliste del partito italiano, fosse in realtà in buona compagnia sia all’estero, dove i partiti socialisti tedesco e francese furono prontissimi ad approvare i crediti di guerra, sia in Italia dove sia all’interno del Partito che tra le altre forze di opposizione, sindacali e finanche anarchiche, furono tantissime le “conversioni” alla causa della guerra.

La prime contraddizioni inizieranno a manifestarsi proprio durante la cosiddetta “settimana rossa”, quando nel giugno del 1914, preceduta dagli scioperi dei ferrovieri e delle sigaraie, si sviluppò a partire da Ancora un movimento insurrezionale, che si estese in breve tempo ad altre regioni e che metteva insieme l’antimilitarismo con la protesta sociale per le condizioni salariali e di vita. Come annota la Mingardo:

Gli scontri sanguinosi della città marchigiana e la protesta spontanea che a macchia d’olio si estese in tutta la penisola non furono soltanto la reazione alla lunga serie di eccidi che distinsero l’Italia post-unitaria, ma rappresentarono nuovamente l’esplosione di una latente e disordinata carica rivoluzionaria delle forze proletarie.
Se sorprendente è l’assenza del partito, colto alla sprovvista dalla vastità del moto, ancor più sorprendente è l’assenza di Mussolini […] Il paese si rivolge al partito e al giornale, invoca una parola d’ordine, più volte preannunciata, “ma dietro la carta stampata dell’«Avanti!» non c’è niente”9

Citando Bozzetti, autore di Mussolini direttore dell’«Avanti!», aggiunge poi ancora: «Dopo aver predicato per anni la guerra, dopo aver identificato nel militarismo il nemico numero uno, dopo aver seminato l’odio contro le istituzioni militari […] quando scocca l’ora X Mussolini non è al suo posto»10.
L’ex-rodomonte socialista iniziava così a mostrare di che pasta fossero fatte le sue “radicali” affermazioni e a scivolare lungo il pendio che ben presto lo avrebbe portato tra le braccia dell’interventismo, del nazionalismo patriottardo e del militarismo stesso.

Il contesto in cui finirono col confrontarsi le differenti e irriducibili posizioni sulla guerra si rivela, attraverso le pagine del libro, non molto diverso da quello odierno, soprattutto per quanto riguarda il malessere che ben presto iniziò ad esplodere tra le classi popolari oltre che per il lento scivolamento verso la stessa proprio di quelle posizioni che pur volendosi “neutraliste” iniziarono a manifestare un atteggiamento decisamente anti-teutonico, pur dichiarandosi ancora non favorevoli ad un’entrata in guerra. Insomma un neutralismo che manifestava, nella sostanza una particolare avversione per uno dei contendenti del conflitto: quello austro-ungarico.

Posizione che iniziò a rivelare come le dichiarazioni indipendentiste e patriottiche di irredentisti come Cesare Battisti spingevano, inequivocabilmente, alla guerra nei confronti degli usurpatori delle “terre italiane”. Come afferma in un suo testo Luigi Cortesi, citato dall’autrice:

Questi atteggiamenti (anti-teutonici-NdR) ridimensionano qualitativamente la tradizionale leggenda di un PSI su posizioni coerentemente internazionalistiche. Il PSI – al di là del rigorismo formale di facciata – agì invece sul governo per evitare un possibile intervento a fianco degli Imperi Centrali e fin dall’inizio – esplicitamente o implicitamente – lasciò aperta la possibilità di un orientamento filio-intesista, differenziando in ogni caso subito le due parti belligeranti11

Mussolini nel frattempo, infiammando l’«Avanti!» con titoli come L’orda teutonica scatenata in tutta Europa, spingeva nella stessa direzione, oltre tutto rendendo ancora più evidente la sua tendenziosità nella cronaca bellica in cui, nonostante l’agosto del 1914 si fosse rivelato un mese di disfatte per gli eserciti dell’Intesa, i titoli del giornale socialista davano l’impressione che in realtà stessero vincendo. L’antitriplicismo però non era patrimonio del solo Mussolini poiché

da destra a sinistra il disorientamento percorreva il partito. Accanto alle dichiarazioni di alcuni riformisti (quali Treves12, Turati, Mondolfo, Graziadei) favorevoli alla “neutralità relativa”, emergevano le conversioni dei sindacalisti Alceste De Ambris, Filippo Corridoni, Decio Becchi, Livio Ciardi; dell’anarchica Maria Rygier13.

Mentre i partiti della cosiddetta sinistra finivano con lo schierarsi per un aiuto reale alle democrazie occidentali, l’unica voce a levarsi chiaramente contro la guerra fu quella di Amadeo Bordiga che, in un articolo pubblicato sull’«Avanti!»14, denunciava «le simpatie di “molti compagni” verso l’Intesa e demoliva le artificiose distinzioni tra guerra di offesa e guerra di difesa. La borghesia di tutti i paesi era la vera responsabile del conflitto o, meglio, lo era “il sistema capitalistico, che per le sue esigenze di espansione economica” aveva “ingenerato il sistema dei grandi armamenti”»15.

Bruno Fortichiari, collocandosi su altrettanto chiare posizioni intransigentemente antimilitariste e anti-imperialiste, poneva sullo stesso piano i blocchi contendenti, poiché l’Italia non doveva assolutamente lasciarsi «sedurre dalle sirene della Duplice Alleanza e della Triplice Intesa che indubbiamente prevedeva e attendeva l’aggressione per soffocare la Germania militarista e imperialista sì, ma anche forte concorrente nel campo industriale e coloniale»16.

Ma il testo edito da «pagine marxiste» ci rinvia al presente non soltanto dal punto di vista delle contrapposizioni ideologiche e politiche.

I paesi del vecchio continente non poterono sfuggire alla crisi generale che investì l’Europa allo scoppio della grande guerra. Sin dall’estate del 1914 l’economia italiana si trovò a fare i conti con il blocco navale inglese che impediva l’accesso nel Mediterraneo alla flotta della Triplice. Il provvedimento comportò l’aumento vertiginoso dei noli marittimi e “l’interruzione totale del traffico via mare da e per la Germania e l’Austria-Ungheria, e la più stretta dipendenza dall’Inghilterra per i rifornimenti”.
La mancanza di materie prime o il rallentamento nella loro fornitura, i provvedimenti governativi sulle restrizioni del credito e del commercio con l’estero, ebbero un’immediata ripercussione nell’economia: alle gravi carenze del mercato corrisposero il rialzo del costo della vita e l’aumento preoccupante della disoccupazione […] A peggiorare le condizioni di vita della sempre più numerosa popolazione disoccupata, contribuì la lievitazione del prezzo del pane. L’aumento incontrollato dell’alimento base fece scoppiare ovunque il grido di rivolta17.

Tumulti si ebbero a Bari, Caltanisetta, Napoli, Palermo, Catania, Pisa, Molfetta, Bitonto, Faenza con una forte presenza femminile all’interno delle stesse, spesso violente, manifestazioni affrontate con violenza superiore da parte dello Stato e con la dichiarazione dello stato d’assedio in alcune città coinvolte. Mentre, allo stesso tempo, il Governo e le forze di polizia permettevano e giustificavano le manifestazioni interventiste, spesso gonfiate artificialmente nei numeri ad uso della propaganda a favore della guerra.

Milano sia nel 1914 che nell’opposizione alle “radiose giornate di maggio” del 1915 fu spesso in prima linea con i suoi proletari, le lavoratrici e anche le donne della campagna circostante che protestavano sia per il peggioramento delle condizioni di vita che per il fatto che mariti e figli fossero stati richiamati o chiamati per la prima volta alle armi, aggravando così le già difficili condizioni economiche famigliari.

Di fronte all’inevitabile, la direzione del partito indirizzò al proletariato l’ultimo e drammatico manifesto inteso a separare le proprie responsabilità da quella delle correnti che avevano voluto la guerra. La lotta veniva rimandata al dopo, alla fine del conflitto. Il partito intanto si poneva “in disparte” – come scrisse l’«Avanti!» del 24 maggio 1915 – lasciando che la borghesia facesse la sua guerra18.

Fingendo una patina di nobiltà morale, la dirigenza socialista nazionale abbandonava definitivamente al suo destino un proletariato ancora combattivo che, però, avrebbe potuto essere indirizzato soltanto da un’organizzazione totalmente dedita al rovesciamento rivoluzionario dell’esistente, cosa che, certamente, il PSI non era e non voleva essere nella maggioranza della sua rappresentanza parlamentare e intellettuale.

Ma a gettare ancora benzina sul fuoco mai spento delle braci insurrezionali e rivoluzionarie giunsero nel 1917 le notizie provenienti dalla Russia e dalla rivoluzione che si era andata sviluppando colà. Fu così che nel maggio dello steso anno a Milano e poi ad agosto a Torino tornarono a svilupparsi violente azioni di massa contro la guerra, in cui la classe operaia, ancor prima dei militanti del partito fu in prima linea e sulle barricate.

E proprio a Milano, durante quelle manifestazioni portate avanti in maniera estremamente dura proprio dalle donne, Turati ebbe modo di osservare quaanta fosse la distanza che ormai separava l’ala riformista dalle masse che pretendeva di rappresentare in parlamento.
«Vogliono far la pelle ai signori – scrisse infatti ad Anna Kuliscioff – fra i quali, beninteso, siamo anche noi»19.

Prima della spesso e oggi fin troppo bistratta scissione del 1921 a Livorno, a rompere con il riformismo del PSI fu prima di tutto il proletariato delle grandi città industriali oppure trasferito al fronte e in divisa nel 1917.
Poi, nel novembre dello stesso anno, arrivò anche la risposta di migliaia di soldati italiani che autonomamente, e ancora una volta lasciati soli e privi di qualsiasi indicazione politica, abbandonarono il fronte e le trincee a Caporetto. Mettendo in pratica, senza magari neppure conoscerla, la parola d’ordine che era corsa lungo i fronti di guerra a partire dalla Francia: Facciamo come in Russia!

Ma la direzione nazionale del partito e Turati in particolare avrebbero continuato a procedere sulla linea di una sempre più stretta collaborazione col Governo in carica, sventolando la bandiera della “necessaria solidarietà” nei confronti dei profughi in fuga dal territorio profondo 70 chilometri in cui erano penetrate le truppe della Duplice, occupandolo. Un vero record nello sfondamento delle linee, visto che all’epoca la guerra permetteva di avanzare al massimo di qualche centinaio di metri al giorno.

La mobilitazione governativa e poliziesca affinché lo scontento interno non raggiungesse i soldati delle trincee si era già manifestata precedentemente, mentre i ferrovieri trasportavano verso le truppe al fronte i volantini inneggianti alla protesta e alla rivolta che la Sinistra intransigente cercava di diffondere a tutti i livelli. Nelle fabbriche, d’altra parte, il clima era diventato irrespirabile per le maestranze, poiché anche i lavoratori dovevano ormai rispondere ad un’autentica mobilitazione e militarizzazione del lavoro, in cui anche gli scioperi avrebbero potuto esser trattati come tradimento e diserzione.

Michele Fatica, citato dalla Mingardo, ha scritto in proposito:

Niente poteva essere più ben accetto alla borghesia industriale quanto la riduzione dell’operaio salariato alla condizione di lavoratore forzato. I dipendenti delle aziende dichiarate ausiliarie passano sotto la giurisdizione militare, quindi gli scioperi e le assenze ingiustificate vengono configurati come reati di ammutinamento o di diserzione20.

Dopo Caporetto alla vigilanza poliziesca e militare si aggiunse l’appello dei riformisti e di Turati alla collaborazione per un “governo di unità nazionale” per superare il ”difficile momento”. In antitesi con le affermazioni di Abigaille Zanetta, che aveva sostenuto che i socialisti dovevano «guardare a tutto ciò che si agita e si muove nelle masse, col proposito di assisterle, solidarizzare con esse, per averle collaboratrici al raggiungimento dei nostri ideali», Turati aveva già precedentemente affermato che «”solo l’isterismo e l’impulsività” potevano consigliare movimenti di folle, mentre l’azione del partito socialista doveva esser guidata “dalla riflessione e dalla ragione”»21.

Nell’estate precedente Caporetto, Lazzari (segretario del PSI dal 1912 al 1919) aveva rivendicato al partito “una tradizione di miglioramento sociale e di bontà” che non permetteva di contestare “il naturale sentimento di preferenza e di amore per il paese natio”, mentre dal fronte della futura frazione comunista la Zanetta

si soffermò sull’annoso dibattito riguardante il rapporto tra socialismo e patria e, negando a quest’ultima la propria “essenza”, sostenne “la necessità di demolirla”. L’oratrice inoltre affermò che la pace non doveva essere il fine ultimo del partito, anzi, a guerra conclusa, questo doveva “approfittare dei momenti di debolezza della classe capitalista per abbatterla” e facilitare l’avvento del socialismo22.

Bordiga già in precedenza aveva negato che compito del partito fosse quello di risolvere i problemi creati dal capitalismo stesso e che questo era impossibilitato, per proprie dinamiche, a risolvere.
Tutte queste affermazioni dimostrano che l’opposizione di sinistra era ormai passata ad una «matura scelta di classe che la guerra aveva contribuito a far emergere»23.

Lo spazio concesso da un articolo e da una recensione impediscono di approfondire maggiormente l’analisi di un testo che si rende indispensabile per chiunque voglia non solo approfondire la storia del movimento operaio e della Sinistra Comunista, ma anche per tutti coloro che, nella confusione oggi imperante sul tema della guerra, vogliano trovare un modello comportamentale e di analisi che superi con un subitaneo colpo d’ala tutte le inutili discussioni su guerra di aggressione o di difesa “dei patri confini”, diritti “umani” e tutte le altre infingardaggini liberal-democratiche che offuscano la reale funzione della guerra nella stagione, non ancora finita, degli imperialismi che già avevano infiammato i fronti europei di inizio ‘900, ottenendo però allora una ben diversa risposta politica e di classe. A Zimmerwald, Kienthal, Pietrogrado, Milano e Caporetto.

Poiché oggi come allora, la guerra tra stati e imperi, a differenza di quanto troppo spesso si afferma o si crede, non costituisce affatto un’eccezionalità in regime capitalistico, l’azione contro la stessa non può essere guidata ad un’impossibile unità di intenti tra forze agite da interessi diversi tra di loro, ma soltanto da una chiara visione del suo divenire e del necessario superamento delle contraddizioni insite nel modo di produzione che l’ha generata come inevitabile conseguenza della sua sfrenata ricerca di controllo delle ricchezze, dei mercati e delle risorse disponibili a livello planetario (lavoro umano compreso).


  1. Si veda: Giulio De Martino, Vincenza Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori Editore, Napoli 2004  

  2. Si veda ancora: Michele Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971  

  3. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1958  

  4. Si vedano: Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, (a cura di Chiara Daniele), Einaudi, Torino 1999 e Giancarlo Lehner, La famiglia Gramsci in Russia, Mondadori, 2008  

  5. M. Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 25-26  

  6. M. Mingardo, op. cit., p. 26  

  7. op. cit., p. 27  

  8. Ibidem, p. 26  

  9. Ibid., p.99  

  10. G. Bozzetti, Mussolini direttore dell’«Avanti!», Feltrinelli 1979, pp. 160-163 cit. in Mingardo, op.cit., p. 99  

  11. L. Cortesi, Le origini del PCI. Vol. I Il PSI dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Laterza 1977, pp. 86-87, cit. in Mingardo, op. cit., p. 108  

  12. Che avrebbe dichiarato che la neutralità non era “un dogma, un imperativo categorico” e che “il vantaggio che oggi si conclama domani può non ravvisarsi più”. Non neutralità “passiva” dunque, ma “attiva ed energica” in La nostra neutralità, «Critica Sociale» (rivista teorica del partito diretta da Filippo Turati), 15-31 agosto 1914  

  13. M. Mingardo,op. Cit., p.109  

  14. A Bordiga, In tema di neutralità. Al nostro posto!, «Avanti!», 13 agosto 1914  

  15. M. Mingardo, op. cit., p. 111  

  16. B. Fortichiari, Abbasso la guerra!, «La Battaglia Socialista», 12 settembre 1914 cit. in Mingardo, op. cit., p.115  

  17. ibidem, pp140-141  

  18. ibid., p. 166  

  19. F. Turati-a. Kuliscioff, Carteggio, vol.IV. 1915-1918. La grande guerra e la rivoluzione, p. 501, lettera del 3 maggio 1917, cit. in Mingardo, op.cit., p. 206  

  20. M. Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971, p.428 cit. in Mingardo, op. cit, p.210  

  21. Mingardo, op. cit., p.213  

  22. ibidem, p.225  

  23. ibid., p.226  

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Sport e dintorni – Storie di politici dell’Italia repubblicana alle prese col calcio https://www.carmillaonline.com/2020/02/11/sport-e-dintorni-storie-di-politici-dellitalia-repubblicana-alle-prese-col-calcio/ Tue, 11 Feb 2020 22:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57899 di Gioacchino Toni

I rapporti tra calcio e politica sono di lunga data; d’altra parte era inevitabile che uno sport capace di appassionare ed intrattenere come pochi altri non risultasse appetibile anche per chi ha legato le sue sorti politiche al consenso. Fabio Belli e Marco Piccinelli, che in un volume precedente – Calcio e martello. Storie e uomini del calcio socialista (Rogas edizioni, 2017) – si erano interessati ad alcune storie del calcio oltrecortina capaci di segnare l’immaginario ad Est come ad Ovest, in La Repubblica nel pallone. Calcio e politici, un amore non corrisposto (Rogas edizioni, Roma, 2019) hanno [...]]]> di Gioacchino Toni

I rapporti tra calcio e politica sono di lunga data; d’altra parte era inevitabile che uno sport capace di appassionare ed intrattenere come pochi altri non risultasse appetibile anche per chi ha legato le sue sorti politiche al consenso. Fabio Belli e Marco Piccinelli, che in un volume precedente – Calcio e martello. Storie e uomini del calcio socialista (Rogas edizioni, 2017) – si erano interessati ad alcune storie del calcio oltrecortina capaci di segnare l’immaginario ad Est come ad Ovest, in La Repubblica nel pallone. Calcio e politici, un amore non corrisposto (Rogas edizioni, Roma, 2019) hanno scelto di raccontare undici storie di politici dell’Italia repubblicana – a volte influenti protagonisti, altre vere e proprie meteore balzate alla cronaca per poi sparire senza lasciare traccie di sé se non nelle aule dei tribunali e nei conti non saldati – che in qualche modo hanno corteggiato, non sempre dotati di genuina passione, l’universo pallonaro del Belpaese.

Il volume si apre passando in rassegna il rapporto tra Presidenti della Repubblica e mondo del calcio raccontando in particolare di Giuseppe Saragat, che riceve al Quirinale la Nazionale campione d’Europa nel 1968 e quella che due anni dopo perde la finale dei mondiali messicani contro il Brasile di Pelè, di Giovanni Leone, tifoso dichiarato del Napoli, di Sandro Pertini, protagonista mediatico della vittoria azzurra dei mondiali spagnoli del 1982, di Francesco Cossiga, che oltre a palesare il suo sostegno alla Juventus in piena foga da picconatore non ha mancato di inveire contro la “giustizia sportiva” alle prese con Calciopoli nel 2006, di Carlo Azeglio Ciampi, affezionato ai colori della sua Livorno, per poi arrivare a Sergio Mattarella che, nonostante la riservatezza, pare seguire con un certo interesse le sorti del Palermo e dell’Inter.

Un capitolo è dedicato al caso del tutto particolare di Achille Lauro che lega la sua storia al calcio sin dal periodo fascista individuandone un importante strumento di consenso per poi proseguire nel dopoguerra, quando le vicende politiche personali – passando dalle liste monarchiche a quelle del Movimento sociale – si intrecciano con quelle che lo vedono gestire la società del Napoli Calcio con spavalde scelte imprenditoriali.

I rapporti dei politici comunisti col calcio sono invece raccontati attraverso la storia di Marco Rizzo che si intreccia, in giovane età, con quella della curva dei tifosi del Torino tra le fila del gruppo Ultras Granata, mentre in un’altra sezione del libro si parla del legame con la squadra degli Agnelli di alti esponenti del Pci a partire da Palmiro Togliatti, passando poi per Luciano Lama ed Enrico Berlinguer, con un’appendice post-Pci dedicata al tifoso juventino Walter Vetroni pragmaticamente attento però a non inimicarsi il tifo romanista.

Spazio è concesso anche a Ciriaco de Mita, la cui fortuna politica coincide con quella dell’Avellino nella massima serie durante gli anni Ottanta. Quanto diretta sia stata l’influenza del democristiano sulle sorti della squadra irpina è difficile da dire, tuttavia, si sostiene nel libro, «il rapporto tra De Mita e l’Avellino fu una sorta di amore pensato, in cui la presenza costante non fu mai accompagnata da esternazioni che nel mondo di oggi si potrebbero considerare quai d’obbligo per un esponente politico così in vista […] Non è un mistero che la Democrazia Cristiana, nell’espressione della sua nomenclatura, non disdegnasse operare dietro le quinte, e magari l’influenza demitiana la ricordano con più efficacia ad Avellino e dintorni, piuttosto che a livello nazionale» (pp. 43-44).

Inevitabilmente gli autori si soffermano sul rapporto tra Giulio Andreotti e la Roma, dagli stretti rapporti prima con Franco Evangelisti e poi con Dino Viola, a sostengo della quale interviene direttamente per l’ampliamento del centro sportivo di Trigoria e nelle trattative per portare in giallorosso il brasiliano Paulo Roberto Falcão. Andreotti non manca nemmeno di adoperarsi personalmente per il salvataggio della Lazio sull’orlo del fallimento dopo le gestioni di Giorgio Chinaglia e Franco Chimenti e persino nelle vicende del Frosinone, visto come importante bacino elettorale.

Un caso curioso riguarda la figura di Giovanni Di Stefano, avvocato che intreccia la sua storia con quella del Campobasso Calcio e con le vicende della guerra in Jugoslavia tra debiti insoluti e loschi affari in giro per il mondo. Celebri sono restate alcune sue dichiarazioni, come quella in cui accredita l’allenatore Levkovic, da lui portato al Campobasso, di un passato alla guida nientemeno che del Macnhester United, ma che da quelle parti nessuno ha mai sentito nominare, o come il suo millantare di essere segretario del Partito nazionale italiano, formazione politica di cui non vi è traccia negli archivi. Attualmente, pare, Di Stefano si trova a fare i conti con la giustizia inglese per reati di frode, truffa, riciclaggio e via dicendo.

Anche la parabola politica di Bettino Craxi si intreccia in qualche modo con il mondo del pallone. Milanese ma tifoso granata, probabilmente ammaliato dal fascino del Grande Torino. «Craxismo e Torinismo si sfiorarono a lungo, ma si intersecano solamente in una fase. Alla fine degli anni Ottanta il segretario socialista è al termine della sua esperienza di presidente del Consiglio, ma gli anni della Milano da bere, che dureranno a lungo, sono ancora all’apice. Craxi continua a seseguire il Torino con passione ed interesse, ha un figlio milanista, Bobo, e un amico, Silvio Berlusconi, al quale nel 1986 ha consigliato di prendere in mano le sorti della squadra rossonera, potenziale veicolo di grande popolarità» (p. 81). A quelle date il Torino non se la passa bene, tanto che nel giugno del 1989 finisce in Serie B ed è a questo punto che Craxi decide di intervenire supportando Gian Mauro Borsano, una sorta di ambizioso Berlusconi in scala ridotta. La parabola di Borsano al Toro è di breve durata ed esaurita la propulsione elettorale la squadra viene smantellata mentre Craxi si trova alle prese con ben altri problemi.

Un capitolo del volume è dedicato alla ricerca del consenso politico-calcistico nella Roma della Seconda Repubblica, quando i riflettori calcistici sembrano tra i pochi strumenti in grado di dare visibilità a figure di candidati sindaci in un’epoca segnata dal rigetto della politica da parte dei cittadini. In apertura di millennio nascono addirittura liste come Avanti Lazio e Forza Roma gravitanti attorno a Dario Di Francesco, liste elettorali “a schieramento variabile” che si ripresentano a più riprese fino al 2016. Del mondo capitolino degli ultimi decenni, sul libro viene descritta anche la grottesca corsa dei politici a mostrarsi vicini al popolare capitano giallorosso Totti.

Altro personaggio appartenente al teatrino della Capitale a cui Belli e Piccinelli dedicano qualche pagina è il Cavaliere della Repubblica Italiana, nonché fondatore e segretario nazionale di Italia Morale, Mario Auriemma. Candidatosi sindaco nel 2015 a Roma, costui è stato negli anni Novanta presidente delle società dilettantistiche di Civitavecchia e Pomezia, oltre che amministratore del Giorgione Calcio e patron dell’Avellino negli anni Ottanta: tutte società fallite sotto la sua direzione.

La Repubblica nel pallone si chiude su Silvio Berlusconi, per oltre un trentennio proprietario del Milan, nonché, una volta “sceso in campo” direttamente in politica nei primi anni Novanta, a lungo riveste la carica di Presidente de Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana ed ancora, pur “trascinandosi in campo”, attivo nel mondo politico attuale. Sul legame calcio-politca (e televisione) è stato scritto tanto ma su un aspetto, sostengono gli autori del libro, ci si è soffermati poco: «quello del Berlusconi “tattico”, amante del calcio più di quanto lo sia stato del Milan» (pp. 121-122). Le ultime pagine di Belli e Piccinelli sono proprio dedicate all’eterna insoddisfazione, costantemente e pubblicamente esplicitata, dall’uomo di Arcore a partire da quando alla sua prima squadra, il Torrescalla, presto ribattezzata Edilnord in onore della sua società di costruzioni, insoddisfatto della conduzione tecnica della squadra, si è trovato costretto a sollevare dall’incarico allenatori come Marcello dell’Utri e Vittorio Zucconi.

Fabio Belli e Marco Piccinelli, La Repubblica nel pallone. Calcio e politici, un amore non corrisposto, Rogas edizioni, Roma, 2019, pp. , € 13,70


Sport e dintorni

 

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I fotoromanzi del consenso. Il racconto illustrato nella propaganda del dopoguerra https://www.carmillaonline.com/2019/06/03/i-fotoromanzi-del-consenso-il-racconto-illustrato-nella-propaganda-del-dopoguerra/ Mon, 03 Jun 2019 21:30:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52643 di Gioacchino Toni

Quando si pensa al fotoromanzo si è portati a pensare ad una narrazione incentrata su banali storie d’amore a lieto fine, eppure questo tipo di pubblicazione popolare ha svolto un ruolo non da sottovalutare nell’evoluzione culturale e politica dell’Italia del dopoguerra. Di ciò si occupa il recente volume di Silvana Turzio Il fotoromanzo. Metamorfosi delle storie lacrimevoli (Meltemi, 2019). L’autrice, dopo aver ricostruito il panorama nazionale di tale tipo di riviste illustrate ed aver tratteggiando le modalità con cui viene realizzato il fotoromanzo, analizza il trattamento riservato ai racconti illustrati da parte delle grandi compagini sociopolitiche che nel [...]]]> di Gioacchino Toni

Quando si pensa al fotoromanzo si è portati a pensare ad una narrazione incentrata su banali storie d’amore a lieto fine, eppure questo tipo di pubblicazione popolare ha svolto un ruolo non da sottovalutare nell’evoluzione culturale e politica dell’Italia del dopoguerra. Di ciò si occupa il recente volume di Silvana Turzio Il fotoromanzo. Metamorfosi delle storie lacrimevoli (Meltemi, 2019). L’autrice, dopo aver ricostruito il panorama nazionale di tale tipo di riviste illustrate ed aver tratteggiando le modalità con cui viene realizzato il fotoromanzo, analizza il trattamento riservato ai racconti illustrati da parte delle grandi compagini sociopolitiche che nel dopoguerra si contendono il consenso popolare. Il capitolo finale del libro è invece dedicato ai “fotoromanzi della controinformazione” degli anni Settanta ed Ottanta. A questa ultima parte sarà dedicato un successivo scritto.

In Italia il fotoromanzo – per diverso tempo definito “fumetto” – è stato a lungo guardato con sospetto tanto dalla sinistra quanto dal mondo cattolico, come se si trattasse di un’intrusione americana nella cultura nazionale, non tenendo conto del fatto che le origini del “romanzo d’amore a fotogrammi” sono in realtà italiane. Nonostante le trincee ideologiche, dimostra il volume, «il fotoromanzo si è insinuato negli interstizi delle barricate comuniste e cattoliche per emergere infine per mano dei suoi stessi detrattori. Le vicende del fotoromanzo politico gettano luce non solo su un periodo congelato dalla Guerra fredda e da una classe politica chiusa alla comunicazione, ma anche sull’emersione impellente delle questioni civili» (pp. 9-10).

Nel dopoguerra, all’interno del Pci ci si interroga sul successo di pubblicazioni come «Grand Hotel» tra le donne e tra le militanti. Se una parte del partito palesa una condanna senza appello nei confronti di tali periodici non mancano però posizioni più sfumate. Enrico Berlinguer tra il 1948 e il 1955 interviene più volte sulla preoccupazione diffusa nel partito di non lasciare i giovani in balia del modello di vita americano mostrando, nei confronti del fotoromanzo, una maggiore comprensione. In particolare nel 1949 scrive: «Non è davvero nelle nostre intenzioni negare alle ragazze il diritto di scegliere le loro letture, di appassionarsi ad avventure o a vicende d’amore. Vorremmo soltanto aiutarle a comprendere che, alle volte, in chi scrive quelle avventure, in chi immagina quelle storie d’amore, vi è l’intenzione di farci palpitare per le avventure di altri, di farci sognare qualcosa che non appartiene al nostro mondo per impedirci di aprire gli occhi, di unirci, di operare per rimuovere insieme gli ostacoli che impediscono a tante ragazze di conquistarsi un loro avvenire, di portare a compimento il loro sogno d’amore, di avere tutte la loro famiglia e di raggiungere la loro felicità in una società che più non conosca per i pochi, il privilegio, il lusso, il capriccio e, per i molti, l’umiliazione, lo scherno, la miseria. Vogliamo, soprattutto, indicare alle ragazze che sono stati scritti altri libri, che esistono altre letture che sanno rispecchiare – anch’essi – i loro sogni e le loro aspirazioni, che sanno essere anch’essi appassionanti, perché parlano della più grande delle avventure, che è la nostra vita di ogni giorno, perché esprimono il più grande dei sogni che è quello di una società giusta di liberi e di uguali, perché infondono fiducia e mostrano, nella lotta, una via che non tradisce, che non delude e che tutti i sogni può trasformare in realtà. Sono le opere dei comunisti, dense di umanità, ricche di una vita vera e vissuta da milioni di uomini e di donne, di una passione che non conosce ostacoli, di una fede grande ed invincibile» (pp. 74-75).

Dopo la sconfitta elettorale del 1948 lo stesso Palmiro Togliatti, inizialmente meno intransigente nei confronti della letteratura popolare, mostra maggiore risolutezza nel condannare quella che viene vista come una pericolosa ingerenza ideologica americana. La commissione culturale del partito, all’epoca diretta da Emilio Sereni, intraprende una vera e propria campagna in favore di una cultura popolare alternativa a quella d’importazione americana sull’onda del cinema neorealista nazionale, osteggiato invece dalla Dc.
In un clima di ostilità diffusa nei confronti delle storie illustrate sia tra le fila della sinistra che tra quelle cattoliche, nel 1951 si arriva ad una proposta di legge democristiana per l’istituzione di una Commissione parlamentare di Vigilanza e Controllo della stampa destinata all’infanzia e all’adolescenza.

La difficoltà che la politica incontra nell’affrontare la narrazione visiva è palese anche sulle pagine di «Rinascita», ove Nilde Iotti muove una condanna senza appello nei confronti del “fumetto” che «non si legge ma si guarda. E questo provoca un grave danno poiché il solo guardare le immagini mina la capacità di riflessione insita nella lettura portando alla brutalità e alla violenza istintive. L’agent provocateur è in questo caso il gruppo editoriale Hearst […] che dagli Stati Uniti – secondo la Iotti “terra di aspetti negativi, repellenti” – invade l’Europa attraverso i “fumetti”» (p. 77). Dunque, secondo la dirigente comunista, l’eventuale controllo attuato tramite la commissione proposta dalle fila democristiane risulterebbe del tutto inutile in quanto questa «sarebbe formata da persone che lascerebbero circolare i “fumetti”, persino quelli realizzati dalle organizzazioni cattoliche». Da interventi come questo emerge, sostiene Silvana Turzio, «quanto le problematiche che sorgono intorno alla questione siano uno strumento per demonizzare sia gli Stati Uniti che le organizzazioni cattoliche, surrettiziamente assimilate ai pericolosi “yankee” nell’utilizzo del “fumetto”» (p. 77).

Gianni Rodari, in una lettera a «Rinascita», pur dicendosi anch’esso contrario alla proposta democristiana, intende differenziarsi dalla Iotti evitando di estendere il giudizio negativo al “fumetto” come genere, sottolineando invece come sia possibile ricorrere a tale modo di espressione per realizzare prodotti differenti da quelli americani per forme, contenuti e spirito. Inoltre, Rodari pone l’accento su come l’avvento del cinema abbia creato un “bisogno di vedere” del tutto assimilabile al “bisogno di cultura”.
Palmiro Togliatti, all’epoca direttore di «Rinascita», condanna le illustrazioni americane ma al tempo stesso mostra maggior disponibilità nei confronti delle immagini popolari di Épinal. Nel ragionamento del leader comunista, sostiene Turzio, si ravvisa come la maggior benevolenza per le immagini di Épinal, antesignane del “fumetto”, derivi in parte dalla loro origine europea. Si tratterebbe dunque, secondo la studiosa, di una difesa della cultura europea minacciata da quella americana: ciò che realmente preoccupa è il fascino esercitato dagli Stati Uniti.

Nell’ambito della discussione che attraversa il Pci attorno alla metà degli anni Cinquanta sul come arrivare a quell’elettorato femminile scarsamente alfabetizzato che frequenta malvolentieri i comizi e fatica a leggere «l’Unità», interviene anche la palermitana Giuliana Saladino, dalle pagine del «Quaderno dell’attivista» sostenendo che di fronte all’incapacità delle donne meno acculturare di affrontare il quotidiano del partito o «Noi Donne», «affinché possano diventare consapevoli della loro ingiusta condizione», sia auspicabile vedere «in mano alle donne siciliane degli albums a fumetti con i celebri romanzi d’amore e di lotte in cui viene esaltata la giustizia e condannata questa società, i suoi mali e i suoi torti, fumetti che trattino problemi attuali, sulla base di una trama semplice, di una storia vera […] che esalti la lotta del popolo per la terra, la lotta contro il costume ancora feudale». Dunque, afferma Saladino, in polemica con Nilde Iotti, «non possiamo noi, in Sicilia, così semplicemente scartare il fumetto, letto da milioni di donne, come mezzo di propaganda» (p. 82) ed a sostegno della sua tesi la palermitana cita l’esempio dei fumetti cinesi che, dal 1949, raccontano a disegni l’epopea di Mao.

Negli anni seguenti il Pci, pur continuando ad osteggiare le produzioni illustrate di tono sentimentale, decide di pubblicare i racconti a disegni sulla vita di Antonio Gramsci (s.d.) e di Giuseppe Di Vittorio (1958). «Espunti dai periodici e dai quotidiani, denigrati sugli organi di stampa ufficiali, una decina di fotoromanzi riescono tuttavia a forzare lo sbarramento ed escono allo scoperto per pochi anni. Stampati prevalentemente in occasione delle campagne elettorali amministrative (1956) e politiche (1953-’58-’63-’68) come pubblicazioni a sé, distribuiti porta a porta, svolgono una funzione di propaganda e rimangono limitati al periodo e ai temi elettorali, sottolineando soprattutto i problemi sociali più urgenti […] Non è una lettura di “svago”, ma una porta che apre prospettive per il raggiungimento di condizioni di vita migliori attraverso l’adesione alla lotta comune. Le storie vertono su temi scottanti, come la presa di coscienza dei diritti civili: la garanzia di un lavoro sicuro in patria, il rispetto della donna lavoratrice, il diritto di sciopero e il diritto alla casa, il predominio maschile sul lavoro e in casa, le difficoltà di progettare un futuro per le giovani coppie, la mancanza di asili nido e la tutela degli anziani. Problematiche impellenti ma sepolte in una nebbiosa inconsapevolezza dei propri diritti e quindi poco condivise dalle persone meno colte e più isolate socialmente e geograficamente. In questa prospettiva il fotoromanzo “politico” si pone come uno specchio fedele della realtà e individua le necessità dei lettori aiutandoli quindi a capirne la portata e la legittimità. Il lieto fine sentimentale è la scusa formale per introdurre il vero finale: l’“invito al voto comunista” che marca il distacco dal melodramma dei fotoromanzi classici. Il protagonista glorioso, sottotraccia sino alla risoluzione finale, è il Partito che interviene per proporre soluzioni concrete ai problemi del singolo inglobandoli e rafforzandoli in quelli collettivi» (p. 86-87).

Non è facile rintracciare tutti i fotoromanzi pubblicati su indicazione delle commissioni culturali dal Pci e diffusi porta a porta dalle militanti, tra questi si possono citare Più forte del destino e La vita cambierà. Il primo esce a disegni nel 1956 ed a fotografie nel 1958. Nella prima versione, realizzata alla vigilia delle amministrative di Bologna, la narrazione, che ruota attorno alle vicende di due fidanzati, si concentra soprattutto sui contratti capestro che regolano il lavoro femminile. Nell’edizione del 1956 «ci sono tutti gli ingredienti narrativi di una vita misera, raccontata secondo gli stilemi del fotoromanzo classico. Nonostante tutto, i due protagonisti resistono alle prove del destino sino a quando un anziano li esorta a votare per il Partito [ed] Il lieto fine annuncia la decisione dei due giovani di “votare per chi ci difende e ci protegge”» (p. 89). Nella versione fotografica, pubblicata alla vigilia delle elezioni politiche del 1958, i protagonisti non appartengono più alla classe operaia ma sono due giovani di buona famiglia che, sottoposti alle angherie del conformismo famigliare, troveranno nel Partito una promessa di un futuro migliore.
Il fotoromanzo La vita cambierà, probabilmente ambientato nell’imminenza delle politiche del 1968, attraverso una trattazione più corale, affronta invece una questione presente anche in molti fotoromanzi meno politicizzati: il problema dell’emigrazione verso la Svizzera e la Germania e le difficoltà delle famiglie che restano in Italia.

«L’utilizzo del fotoromanzo per costruire narrazioni educative non ha però superato l’esame da parte dei quadri, malgrado il successo confermato dalle donne più aperte e attente. Invece di vederne e sfruttarne il potenziale visivo, ci si è fermati alla distribuzione più spicciola e immediata, a mo’ di volantinaggio, limitata nello spazio e nel tempo. È tuttavia innegabile che i fotoromanzi, pur limitati nel tempo e nella quantità, hanno svolto un ruolo importante al momento delle campagne elettorali» (p. 97).
Nonostante il ricorso al fotoromanzo da parte del Pci svolga una funzione educativa politico-sociale e sperimenti un modo nuovo di cercare il consenso soprattutto tra l’elettorato femminile, la componetene più tradizionalista del partito fatica a riconoscere dignità ai racconti per immagini.

Particolare è il caso della rivista «Noi Donne» – dal 1944 pubblicazione ufficiale dell’Unione Donne Italiane – per il suo tentativo di coniugare l’impegno politico con i modelli dei periodici illustrati, soprattutto quelli rivolti alle donne. La rivista dell’Udi deve confrontarsi «sia con il disprezzo per la cultura dei rotocalchi femminili, diffuso tra i quadri dei partiti di sinistra, sia con una misoginia classista presente in alcune lettrici e redattrici» (p. 99).

Nel 1947 su «Noi Donne» viene pubblicato “Il nuovo romanzo d’amore illustrato”, Una donna si ribella, con disegni ad acquerello stampati a mezzatinta ad effetto fotografico di Vittorio Cossio e i testi di Grazia Gini – ispirato al romanzo Portrait of a Rebel (1930) di Netta Syrett – incentrato su una donna che, superati gli ostacoli sociali e famigliari, giunge a conquistare un’identità professionale e la libertà sentimentale. La tematica affrontata deve essere contestualizzata all’interno della campagna elettorale del 1948 che vede il Pci impegnato sul diritto al lavoro per le mogli e le madri. Con la presenza del romanzo illustrato, sotto alla direzione di Dina Rinaldi, la rivista passa dalle 40 mila alle 130-150 mila copie vendute grazie anche al capillare lavoro delle diffonditrici della pubblicazione, attività utile anche per comprendere le preferenze delle lettrici. Insieme al successo nelle vendite, però, arrivano anche le critiche da parte di alcune lettrici che, nel pieno della campagna antiamericana del 1948 contro i “fumetti” portata avanti dai vertici del Pci, si dicono contrarie alla loro pubblicazione sulla rivista dell’Udi.

In una delle prime scene del film Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis, Silvana Mangano ha tra le mani una copia particolarmente “vissuta” di «Grand Hotel», probabilmente ad indicarne una lettura smaniosa e ripetuta. Poco prima dell’uscita nelle sale del film su «Noi Donne» Riso amaro compare nella versione a cinefotoromanzo realizzato con fotogrammi e fotografie tratte dal set ottenendo un enorme riscontro di vendite.

La direzione della rivista dell’Udi a partire dal 1950 passa a Maria Antonietta Macciocchi e la linea editoriale cambia: «i cineromanzi assumono un’aria dimessa, impaginati a scomparti fissi di sei fotografie orizzontali per pagina, ridotti a due sole pagine e accompagnati da didascalie redatte in modo neutro. I romanzi illustrati a disegni scompaiono e così le seppur rare vignette a “fumetti” dei mesi precedenti […] Con la nuova direzione il fotoromanzo viene additato come veicolo di un immaginario femminile sconveniente che ammicca pericolosamente dalle fotografie dove la donna “è rappresentata come un essere stupido, ridicolo, insignificante”» (p. 111).

Si apre così una stagione di attacchi diretti contro «Grand Hotel», «Bolero Film», «Luna Park», «Sogno», «Tipo», «Hollywood», pubblicazioni che la rivista dell’Udi «scova nei luoghi meno “colti”: dal parrucchiere, in treno, in tram, alla cassa del droghiere e del farmacista e sempre in mano a giovani donne» (p. 111). La nuova direzione di «Noi Donne» se la prende con quel «pubblico piccolo borghese che “smania” per occhieggiare come un voyeur i grandi alberghi e le donne procaci e discinte esibite in “questa volgare e ridicola illustrazione della sessualità”» (p. 111) ma soprattutto denuncia come le ingenue lettrici vengano, proprio attraverso i fotoromanzi, educate «al razzismo più bieco poiché i negri, i cinesi e gli indiani presenti nei racconti sono sempre ladri, traditori, spie, losche figure in contrasto con il bellimbusto americano e la sua indomita innamorata» (p. 112).

Sul finire del 1951 in un suo intervento pubblicato su «Noi Donne», l’onorevole Camilla Ravera accusa il fotoromanzo di sviare i lettori dai problemi reali e dalla lotta indirizzandoli verso un mondo fittizio. Il fotoromanzo, sostiene Ravera, «è luciferino per i ragazzi: favorisce la pigrizia mentale e ne atrofizza a lungo andare le facoltà intellettive, insegna la tecnica del delitto, alimenta l’odio di razza, indirizza a una concezione falsa della realtà» (p. 112).
Nonostante tutto i i cineromanzi continuano ad essere ospitati sulle pagine della rivista dell’Udi, pur ridotti alla doppia pagina ed accuratamente scelti su basi ideologiche, con un’impaginazione frema ai modelli delle prime pubblicazioni popolari degli anni Venti e Trenta oramai non più al passo coi tempi.

«Noi Donne», sostiene Silvana Turzio, «è un esempio non solo delle diverse e spesso opposte posizioni nei confronti delle dispense popolari a fumetti ma soprattutto della perplessità paralizzante nei confronti delle immagini e, in fondo, anche di una paradossale e poco consapevole misoginia che si manifesta anche nelle fautrici di un nuovo femminismo. Il problema emerge infatti quando le immagini mostrano troppo esplicitamente gli emblemi che scatenano il desiderio – “passioni d’amore, uomini, natiche e seni…” –, immagini pericolose perché offerte all’infanzia, intesa in senso letterale, della donna italiana» (p. 113).

Anche sul fronte cattolico alcune riviste decidono di ospitare fotoromanzi, tra queste «Famiglia Cristiana», pubblicazione che da una tiratura alla nascita nel 1931 di circa 300 mila copie, passa poi alle 750 mila nel 1956, alle 900 mila nel 1959, al milione nel 1961 fino a toccare i 2 milioni di copie a fine 1971 divenendo, nel corso degli anni Settanta, il settimanale più venduto in Italia. Per quanto riguarda la qualità dei servizi fotografici e della stampa, la rivista paolina rivaleggia con i periodici di maggior successo dell’epoca.

Il rapporto della Chiesa con le novità tecnologiche dei mezzi di comunicazione è notoriamente problematico: se da un lato viene incoraggiato il loro uso per «Portare Cristo oggi, con i mezzi di oggi» – si pensi alla produzione di cortometraggi, documentari e film della Sampaolofilm –, dall’altro però si avverte la necessità di istituire sistemi censori volti a preservare il pubblico da eventuali messaggi diseducativi e contrari alla morale cristiana.

Sebbene inizialmente ad essere trattate dai fotoromanzi pubblicati sul periodico cattolico siano storie di santi e religiosi, col passare del tempo prendono piede sia le riduzioni dei classici della letteratura, altrimenti sconosciuti al grande pubblico, che a vicende a sfondo sociale. In tutti i modi si tratta di produzioni votate alla catechizzazione in linea con l’impostazione paolina.
Nel 1959 su «Famiglia Cristiana» viene pubblicato Non posso amarti, la storia a fotoromanzo di Sant’Agnese, mentre l’anno successivo la rivista ricorre al racconto per immagini con didascalie, sulla falsariga dei cineromanzi degli anni Quaranta, per un servizio sul matrimonio e per uno sui grandi miracoli.
Sangue sulla palude (1960) rappresenta invece un tipo di fotoromanzo socio-educativo incentrato sulla vicenda di Maria Goretti. Nel giro di un quarto di secolo i fotoromanzi pubblicati su «Famiglia Cristiana» sono circa una cinquantina e, fino a metà degli anni Sessanta, sono prodotti internamente alla rivista

«Da un punto di vista formale il fotoromanzo cattolico è nei primi anni poco innovativo. Gli attori sono quasi sempre gli stessi, la pagina è densa di immagini collocate secondo la struttura classica del fotoromanzo: sei o otto fotografie per pagina, distribuite in una gabbia a crescere, le piccole in alto, le grandi in basso a sinistra, i testi invece sono collocati ai bordi superiori o inferiori, le vignette si sovrappongono a volte maldestramente alle immagini, che non sembrano essere realizzate in rapporto con il testo. La sequenza narrativa è chiusa sul presente, raramente con flashback o salti temporali» (p. 119). Le storie narrate riguardano soprattutto biografie edificanti di religiosi e figure femminili che hanno saputo compiere scelte coraggiose guidate da cristallini principi cristiani.

Dalla metà degli anni Sessanta le storie illustrate iniziano a preferire l’attualità ai racconti storici e agiografici e le modalità narrative si fanno più accurate, grazie al ricorso a professionisti del genere e soprattutto, segnala Silvana Turzio, si mostrano funzionali «ai cambiamenti dell’ultimo momento che possono essere sollecitati dalle reazioni dei lettori o da eventi di cronaca avvenuti tra una puntata e l’altra, secondo la collaudata tecnica del romanzo d’appendice, successivamente adottata dalle soap opera televisive. A volte emerge il meccanismo contrario: la rivista propone nel fotoromanzo scene o svolgimenti narrativi provocatori per suscitare nei lettori reazioni indignate, il che permette di riprendere il tema in articoli a latere o nelle rubriche dei lettori nei numeri successivi. Le pubblicità sono a loro volta articolate in funzione delle questioni che si vogliono affrontare nel corpo centrale della rivista. Gli interventi collaterali sembrano quindi essere costruiti consapevolmente come apparati di controllo e di deviazione del racconto in funzione di una precisa strategia comunicativa» (p. 120).

Nel periodo compreso tra la metà degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo, il mondo cattolico è toccato dalle turbolenze che attraversano l’intera società dell’epoca. All’interno del nuovo clima che si respira tra i cattolici, soprattutto tra i più giovani, i fotoromanzi pubblicati dalla rivista paolina «sembrano svolgere il ruolo di “messa in scena” dell’argomento per proporne una soluzione negli articoli o nelle rubriche di cronaca, dimostrando un uso congiunto del fotoromanzo e del paratesto di carattere propedeutico. Lungi dall’essere demonizzato, il fotoromanzo viene invece accolto come un contenitore capace di veicolare informazioni e indicazioni di vita e di pensiero» (p. 121).

Nel volume vengono dettagliatamente presi in esame un paio di fotoromanzi che affrontano il tema del celibato e dell’impegno sociale: La miniera del miracolo (1967) ed Il rifiuto (1967). Nel primo si narra del coinvolgimento di un prete nel mondo dei minatori, con annesse tragedie sul lavoro, e del problema del celibato sacerdotale, mentre nel secondo è di scena la questine dello scontro generazionale, in linea con il tentativo della Chiesa di «proporre un equilibrio tra gli effetti del boom economico e le lotte operaie e sindacali che si profilavano all’orizzonte» (pp. 129-130).

Ad essere affrontate sono anche la procreazione extramatrimoniale, l’identità femminile al di fuori della famiglia e l’imposizione parentale sulla scelta lavorativa o affettiva delle donne, tematiche trattate all’epoca anche dai fotoromanzi delle testate non cattoliche, «Noi Donne» compresa.
Se nelle produzioni “laiche” si assiste ad un evidente miglioramento della qualità fotografica, che adotta il colore, «Famiglia Cristiana» si ostina al bianco e nero evitando di curare l’aspetto fotografico ritenendolo esclusivamente funzionale alla narrazione scritta. La stagione del fotoromanzo sulla rivista cattolica può dirsi terminare attorno alla metà degli anni Settanta.

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Il ‘muratore’ della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2018/07/12/il-muratore-della-lotta-di-classe/ Wed, 11 Jul 2018 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46732 di Fiorenzo Angoscini

Ottone Ovidi, Salvatore Ricciardi, Bordeaux, Roma, maggio 2018, pagg. 118, € 12,00

Questa agile pubblicazione è una biografia circoscritta (1960-1980) realizzata sotto forma di intervista, con domande e risposte, condotta da Ottone Ovidi, redattore romano della rivista «Zapruder-Storie in Movimento» ed autore di una premessa sociale-storico-politica di quel periodo, a Salvatore Ricciardi, militante politico-proletario della borgata popolare della Garbatella.

Già iscritto alla sezione Psiup (Partito Socialista di Unità Proletaria), nato da una scissione a sinistra del Psi, sciolto per non aver raggiunto il quorum alle elezioni politiche del 1972 e i cui dirigenti, dopo questa debacle, confluirono [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Ottone Ovidi, Salvatore Ricciardi, Bordeaux, Roma, maggio 2018, pagg. 118, € 12,00

Questa agile pubblicazione è una biografia circoscritta (1960-1980) realizzata sotto forma di intervista, con domande e risposte, condotta da Ottone Ovidi, redattore romano della rivista «Zapruder-Storie in Movimento» ed autore di una premessa sociale-storico-politica di quel periodo, a Salvatore Ricciardi, militante politico-proletario della borgata popolare della Garbatella.

Già iscritto alla sezione Psiup (Partito Socialista di Unità Proletaria), nato da una scissione a sinistra del Psi, sciolto per non aver raggiunto il quorum alle elezioni politiche del 1972 e i cui dirigenti, dopo questa debacle, confluirono massicciamente nel Pci. Tra i più in vista: Lucio Libertini, Dario Valori, Tullio Vecchietti, della borgata. Nonostante un diploma di Perito Industriale, inizia l’attività lavorativa e politica tra gli operai edili, con i quali partecipa alle energiche lotte del 1961-1963 che culmineranno con gli scontri (130 arrestati) di Piazza Santi Apostoli a Roma. Dopo aver vinto un fatidico concorso, entra nell’apparato delle Ferrovie dello Stato: ufficio tecnico. Inizialmente aderisce allo Sfi-Cgil, successivamente se ne stacca (espulso, insieme ad altri, quando se ne erano già andati) e, nel 1971, fonda l’organismo autonomo Cub-Ferrovieri di Roma, che ‘organizzava’ (contava) 1500 lavoratori. Poi, l’incontro con gli studenti:

“Quando cominciarono le prime avvisaglie del 1968 dalle parti della stazione Termini dove ci sono diverse scuole e licei in cui cominciavano a fare assemblee, i fascisti che venivano dalla zona di Corso Italia le attaccavano. Noi andavamo in permesso sindacale, spesso insieme a quelli del Pci e ci siamo trovati fianco al fianco nel respingere queste aggressioni fasciste”.

Quasi contemporaneamente (1969-1970) i primi contatti con i Compagni del Collettivo Politico Metropolitano di Milano (uno degli organismi che darà vita alle BR).
Il suo percorso di evoluzione (senza nessuna intenzione apologetica) politica culmina (1976) con l’adesione alle Brigate Rosse. Il vecchio (nato nel settembre del 1940, senza nessuna intenzione offensiva, bensì per sottolineare la significativa differenza di età con quella media del corpo militante. Solo Renato Curcio -anno di nascita 1941-può essere considerato suo ‘coetaneo’. Prospero Gallinari era di 11 anni più giovane; un altro reggiano, cofondatore delle Br e, poi, del Partito Guerriglia, ‘innominabile’ per molti degli ex-compagni, ne aveva 7 meno; Ario Pizzarelli aveva 14 ‘primavere’ meno; Walter Alasia, addirittura, era distanziato di ben 16 anni) come veniva chiamato dai suoi compagni di militanza nell’Organizzazione Comunista Combattente, per la sua attività nel ‘Partito armato’ colleziona 30 anni di carcere:

D.: “Ti ricordi della prima azione che è stata fatta a Roma?”
R.: “Un magistrato che firmava gli ordini di sfratto e gli sgomberi, proprio per i motivi che avevano fatto nascere la colonna romana, che fu ferito. Un’altra azione di quel periodo, che ci fece molta pubblicità perché riguardava un personaggio particolarmente odiato dal proletariato romano, fu l’uccisione di un palazzinaro, soprannominato “Jack lo sfrattatore”, molto attivo nello sfrattare e chiamare la forza pubblica contro gli inquilini morosi, che poi erano tutte famiglie popolari in quartieri periferici”.1

Di questi 30 anni, Ricciardi ne trascorre “…20 chiuso, e 10 in semilibertà e libertà condizionale”.2
In questo libro, non nello scritto-intervista, tanto meno nella breve autobiografia, Ricciardi non ricorda il suo grave stato di salute. Per rispetto della sua persona e volontà, non l’avremmo fatto nemmeno noi, ma ci sembra un comportamento di dignitosa coerenza che vale la pena sottolineare.
Dopo gli anni della galera, Ricciardi, rientra nel consesso civile (?), si interessa ed occupa di carcere, detenuti e diritti. Il libro, preceduto da un post scriptum di Ottoni, imperniato sulla metodologia storica, si chiude con un suo intervento proprio su quest’ultimo tema.

Senza vis polemica, solo un paio di annotazioni relativamente a sviste ed errori.
Giangiacomo Feltrinelli non muore nel 1971 (pag. 43) bensì il 14 marzo 1972. Ancora, a proposito di Luigi Longo, ex segretario del Pci dal 1964 al 1972, sostiene:

“Tra l’altro nel partito stava avvenendo una mutazione, avvertita ‘in primis’ da Luigi Longo nel 1975-1976…che mise in guardia il resto della dirigenza dalla perdita di iscritti di estrazione operaia a favore dei ceti medi. Ed è per me il risultato di un’azione politica rivolta a privilegiare questi ceti piuttosto che altri”.

Ma già Palmiro Togliatti, segretario generale nazionale del partito, il 24 settembre 1946, al teatro municipale di Reggio Emilia, sviluppò un ragionamento in tal senso, dal titolo: Ceto medio ed Emilia Rossa.
Anche “L’Unità” (prima pagina del 25 settembre) riportò la notizia: “I ceti medi hanno interessi comuni a quelli di tutti i lavoratori”3. Pochi giorni dopo, letteralmente, venne pubblicato un opuscolo con lo stesso titolo dell’iniziativa-convegno.4.
Tanto era l’interesse a pigiare su questo tasto.

Ricciardi ha realizzato un paio di pubblicazioni a firma propria: Cos’è il carcere. Vademecum di resistenza5 e Maelstrom. Scene di rivolta ed autorganizzazione di classe in Italia dal 1960 al 19806.
Nel gennaio del 2013, insieme a molti altri Compagni, e non solo ex militanti delle Brigate Rosse, partecipa ai funerali del Comunista reggiano, Prospero Gallinari7 e per questo, con Sante Notarnicola, uno dei primi detenuti politici ad abitare le patrie galere, Loris Tonino Paroli, ex militante dell’organizzazione e Davide Mattioli, attivista No-Tav di Reggio Emilia, viene indagato per istigazione a delinquere.
Tutto si sarebbe poi chiuso con un’archiviazione.

A Lidia
Questo è il primo scritto che ‘tento’ di elaborare dopo che, il 20 gennaio, mi hai lasciato per sempre.
Purtroppo, non ho potuto fartelo leggere, come solito, prima di divulgarlo.
Non ho nemmeno potuto usufruire dei tuoi preziosi consigli e suggerimenti, delle tue critiche.
Mi manchi tanto.
Mi manchi anche per questo.

(Fiorenzo, 30 giugno 2018)


  1. pag. 46  

  2. pag. 47  

  3. L’Unità, pag. 1, 25 settembre 1946  

  4. Palmiro Togliatti, Ceto medio ed Emilia Rossa, Tipografia popolare, Reggio Emilia, 1946  

  5. Salvatore Ricciardi, Cos’è il carcere. Vademecum di resistenza. Prefazione di Erri De Luca, DeriveApprodi, Roma, 2015, pag, 128  

  6. Salvatore Ricciardi, Maelstrom. Scene di rivolta ed autorganizzazione di classe in Italia dal 1960 al 1980, DeriveApprodi, Roma, 2011, pag. 400  

  7. 1 gennaio 1951-14 gennaio 2013  

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Mettere le mani nella merda https://www.carmillaonline.com/2016/07/28/mettere-le-mani-nella-merda/ Wed, 27 Jul 2016 22:01:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32155 di Sandro Moiso

coop connection 1 Antonio Amorosi, COOP CONNECTION. Nessuno tocchi il sistema. I tentacoli avvelenati di un’economia parallela, Chiarelettere editore, Milano 2016, pp. 290, € 16,90

Se non fosse che l’elegante espressione contenuta nel titolo è utilizzata da un rappresentante del “sistema” Coop per definire la capacità di certi dirigenti del PCI – PDS –PD, anche di alto e altissimo livello, di esporsi pur di fare gli interessi del Partito e/o della rete di attività economiche e finanziarie ad esso legate attraverso le Coop, ci sarebbe da dire che l’autore, per redigere il testo da poco pubblicato da [...]]]> di Sandro Moiso

coop connection 1 Antonio Amorosi, COOP CONNECTION. Nessuno tocchi il sistema. I tentacoli avvelenati di un’economia parallela, Chiarelettere editore, Milano 2016, pp. 290, € 16,90

Se non fosse che l’elegante espressione contenuta nel titolo è utilizzata da un rappresentante del “sistema” Coop per definire la capacità di certi dirigenti del PCI – PDS –PD, anche di alto e altissimo livello, di esporsi pur di fare gli interessi del Partito e/o della rete di attività economiche e finanziarie ad esso legate attraverso le Coop, ci sarebbe da dire che l’autore, per redigere il testo da poco pubblicato da Chiarelettere, ha dovuto immergere più che le mani in un intreccio di interessi ed attività che quasi mai è stato così potentemente indagato e scoperchiato.

Antonio Amorosi, coautore nel 2008-2009 del libro «Tra la via Emilia e il clan» sulla presenza della criminalità organizzata in Emilia Romagna, 1 è stato assessore alle politiche abitative del Comune di Bologna per la giunta Cofferati tra il 2004 e il febbraio 2006. Ruolo da cui si è dimesso dopo aver denunciato2 un sistema illecito nelle assegnazioni delle case popolari del Comune di Bologna. Da anni si dedica al giornalismo di inchiesta e collabora con diversi quotidiani, riviste e radio nazionali.

Occorre qui subito dire che, nel prendere in mano il libro, il lettore si troverà davanti a pagine dense (a volte fin troppo) di dati, nomi, fatti e cifre che rendono il testo paragonabile ad una sorta di Gomorra delle attività lecite o meno della struttura economico-finanziaria sviluppatasi intorno a quel sistema di governo che ha fatto dell’Emilia Romagna, soprattutto, la vetrina della proposta sociale e politica di quello che è stato, prima, il più grande Partito Comunista dell’Occidente e, poi, il successivo PDS-DS-PD.

L’analisi copre soprattutto il periodo che va dagli anni ’80 ai giorni nostri, ma per fare ciò l’autore non può esimersi dal lanciare uno sguardo sul mondo delle Coop rosse e bianche fin dal secondo dopoguerra e nel corso dei decenni successivi. Ricostruendo un percorso che inizia con la “conquista” di Legacoop da parte di Guido Cerreti, voluto alla sua presidenza dal Segretario del PCI Palmiro Togliatti nel 1947.

Cerreti, tra i fondatori del Partito comunista, decorato dall’Unione Sovietica con l’Ordine della bandiera rossa e la Medaglia della vittoria, è contemporaneamente presidente di Legacoop e parlamentare del PCI […], rimane ai vertici di Legacoop fino al 1962. Deputato fino al 1963, passa poi al Senato, dove resta fino al 1968, infine esce di scena […] Da allora fino ad oggi, può raggiungere i vetici di Legacoop solo chi ha avuto la tessera del Pci, Pds, Ds e Pd e quasi sempre ha fatto il parlamentare o il politico ad alti livelli” (pp. 76-77)

Quello che salta però agli occhi è che dall’iniziale controllo del Partito sulle Coop e le altre attività associate si è passati ad una sorta di controllo delle Coop sul Partito. Tanto che, ancora e soprattutto oggi, molte beghe interne al PD, travestite sapientemente da scontro tra dirigenza e minoranza, altro non sembrano riguardare che uno scontro tra differenti fazioni all’interno del mondo delle cooperative.

Un mondo che costituisce “uno dei cardini dell’economia italiana che pesa 151 miliardi di fatturato, l’8 per cento del Pil, e che dà lavoro a più di un milione e centomila persone. Un universo economico che vale più del Prodotto interno lordo dell’intera Ungheria […] Dove «fare il bene» è una dialettica commerciale che fa crollare qualsiasi muro e sa inglobare ogni cosa. Al punto che, come scrive Mediobanca, le coop guadagnano più dalla finanza che dalla vendita delle merci.” (pag. 7)

E’ chiaro che degli ideali socialisti e di mutuo soccorso che avevano accompagnato la formazione di cooperative di produzione e distribuzione all’interno del movimento operaio dell’Ottocento è rimasto poco o nulla. E quel poco e nulla rimane soltanto a livello di facciata, così come il richiamo ai valori della Resistenza. Questi ultimi, soprattutto, presenti se possono servire a dimostrare che qualche importante rappresentante (ad esempio Oscar Farinetti di Eataly) ha avuto rapporti famigliari e/o di Partito con protagonisti del mondo partigiano.

Se tutto questo, come dimostra in maniera ben documentata il testo, si limitasse ad una conseguente spartizione interna dei finanziamenti distribuiti dalle varie aziende del settore in occasione delle campagne elettorali dei vari esponenti del Partito ci sarebbe comunque da arricciare il naso, ma rientrerebbe nei canoni di una lobbystica che accompagna da sempre le logiche elettoralistiche del parlamentarismo borghese.

In realtà, però, lo scambio di favori tra aziende della grande distribuzione, banche di credito cooperativo, cooperative di servizi e cooperative di produzione (soprattutto del settore edilizio) e mondo politico ha finito quasi col determinare i programmi politici e le priorità economiche di quasi tutti i governi degli ultimi anni. Dalle Grandi Opere al Jobs Act, dalla gestione dell’”emergenza immigrazione” al salvataggio delle banche attraverso la rovina dei piccoli risparmiatori, dalla raccolta ed eliminazione dei rifiuti urbani e tossici all’organizzazione dei servizi alla persona, tutto sembra essere determinato da ciò che il modo della cooperazione ritiene prioritario.

C’è però anche un altro aspetto che Amorosi sottolinea con insistenza ed abbondanza di particolare e di dati: la stretta connessione, che l’inchiesta Mafia capitale sembra aver per la prima volta disvelato, tra attività svolte da cooperative e criminalità organizzata sul territorio, anche se le interconnessioni tra mondo delle coop e mafie sembrano risalire, a detta del testo in questione, almeno dalla fine degli anni ’50, soprattutto nel settore dell’edilizia.

Dall’Expo al Mose, da Mafia capitale alla Grande distribuzione, dai cantieri della Tav in Val di Susa sono troppi i casi in cui imprese targate coop, come Cpl Concordia, risultano inquinate da rapporti con la criminalità organizzata e dalla corruzione. La crisi economica li fa emergere nonostante lo storytelling della sinistra, l’affabulazione che ieri si chiamava propaganda di partito. Per non parlare dei risparmi di molti soci affidati alle coop e andati in fumo in seguito a spericolate operazioni finanziarie […] O dei contratti da fame e delle condizioni capestro cui sono costretti molti giovani lavoratori. Un «sottomondo» di schiavi invisibili, manovalanza dell’agroalimentare, nella logistica, nel facchinaggio. Schiavi anche grazie a un articolo del Jobs Act voluto da Renzi e dal ministro del Lavoro – l’ex presidente di Legacoop Giuliano Poletti – e passato nell’indifferenza generale, che abroga il reato di intermediazione fraudolenta di manodopera, il cosiddetto caporalato” (pp. 7-8)3

Ma a cosa è dovuta la forza dello storytelling teso a giustificare ogni scelta delle consociate di Legacoop? Sintetizzando,in una sorta di “noi siamo i buoni”, quelli responsabili, impegnati nel sociale, che agiscono soltanto in base a nobili principi e ideali. Quei “Buoni” che Luca Rastello, nel suo ultimo, straordinario romanzo di denuncia aveva così umanamente e lucidamente stigmatizzato.4 E il riferimento al libro di Rastello non è casuale poiché anche l’associazione Libera di Don Ciotti fa parte della galassia derivata dall’universo coop.

Un universo in espansione costante che dalla grande distribuzione dall’edilizia si è esteso alle banche, al mondo dei servizi di assistenza fino ai servizi legati alla sanità pubblica dove, dopo aver assunto la gestione dei servizi di pulizia di molti centri ospedalieri ha finito coll’ottenere spesso i contratti per la costruzione di nuove e faraoniche strutture ospedaliere oppure sostituire sul territorio i medici di base con strutture mediche in concorrenza con la sanità pubblica.

L’outsourcing, l’esternalizzazione di pezzi di attività ospedaliera, affidata a società che con propri addetti svolgeranno le mansioni, è il mantra del settore. Avviene in massima parte tramite cooperative di soci che lavorano per anni senza ferie, malattia, contributi e con uno stipendio mensile massimo di 600-800 euro per otto ore giornaliere.” Ma ” l’esternalizzazione e l’ingresso delle coop nella sanità non hanno ridotto costi e sprechi, che incidono sul bilancio dello Stato per 110 miliardi di euro annui.” (pag. 234)

Non è difficile cogliere, sfogliando le intense pagine del libro di Amorosi, come tutta una serie di narrazioni e programmi dell’attuale governo Renzi (ma che affondano le radici sia in quelli di centro-sinistra che di centro-destra successivi a Tangentopoli), così attenti al taglio della spesa pubblica, al risparmio e all’ottimizzazione dei servizi tramite la loro privatizzazione non facciano altro che seguire un cammino già tracciato all’interno del mondo coop.

Un mondo dove i legami politici, sia a destra che a sinistra, servono a garantire appalti e leggi tagliate su misura sulle necessità e sull’impellenze, ma soprattutto sulle pretese finanziarie, di una componente avida e spregiudicata dell’economia nazionale.

La criminalità organizzata insegue il denaro. E’ un fenomeno incapace di incepparsi e le grandi opere ne sono gli asset fondamentali. Il 75,5 per cento dei 285 miliardi di euro stanziati dagli ultimi governi arrivano nelle regioni del centro-Nord e solo il 24 per cento nel Mezzogiorno.[…] la mafia non è un fenomeno territoriale, non è un virus che invade un corpo sano. Non spunta dal nulla. E’ il frutto di un lavorio di anni.[…] Non va in qualsiasi luogo, ma ove c’è domanda di mafia e di ricchezza. Richiesta di organizzazioni che portino ammassi di denaro nero da riciclare, facile da reinvestire o da reimpiegare […] E non è neanche il prodotto di un’invasione del Nord Italia, di qualcuno che arriva dal Sud, ma uno scambio reciproco iniziato in un tempo ormai lontano” (pp. 164-186)

Un mondo in cui rappresentanti di Partito e sindaci di ridenti cittadine dell’Emilia Romagna devono presenziare a cerimonie religiose in cittadine calabresi come Cutro per accaparrarsi voti e appoggi necessari alle proprie aspirazioni politiche. Per poi dover rendere il favore o i favori difendendo e rielaborando i piani di grandi opere inutili come il TAV, fino al limite del ridicolo.5 Purché, là dove l’incrocio di interessi economici più disparati e un compromesso storico ante-litteram tra cooperative bianche e rosse hanno assunto da sempre il volto bonario di Don Camillo e Peppone, non si parli di criminalità organizzata.

coop connection 2Dagli anni Sessanta le regioni del Nord sono state preda chi di Cosa Nostra, chi della ‘ndrangheta, chi della camorra. In Emilia invece ci sono tutte e tre contemporaneamente. All’inizio le coop di peso si dividono le regioni del Sud che contano, partecipando agli appalti. Le bolognesi e le ravennati in Sicilia, le modenesi in Campania, le reggiane in Calabria. Uno scambio perfetto. Cosa Nostra arrivava a Bologna e Ravenna […], la camorra a Modena, la ‘ndrangheta a Reggio Emilia. Non si entra nelle medie e grandi opere del Sud senza sedersi ai tavoli della criminalità organizzata” (Pag. 180) Con buona pace di ogni narrazione pietistica e di slogan pubblicitari del tipo: “La Coop sei tu…che cosa vuoi di più?

Sarebbero tantissimi i tasselli del mosaico ricostruito da Amorosi che potrebbero ancora essere qui elencati ed esaminati, ma poiché il libro merita di essere apprezzato da chiunque non si voglia far abbindolare dallo storytelling renziano e perbenista del suo partito, a questo punto, vale la pena di suggerirne la lettura diretta e più attenta possibile. Ne vale davvero la pena.


  1. A. Amorosi, C. Abbondanza, Tra la via Emilia e il clan, Casa della legalità e della cultura, Genova 2010  

  2. Relazione tecnica dell’ass._Amorosi sul Sistema politico di assegnazione delle case del Comune di Bologna del 16/2/2005  

  3. Vale la pena qui di annotare che circa un anno fa, presso tutti i punti di distribuzione Coop, fu lanciata una campagna promozionale per mezzo della quale i soci potevano trasformare i punti accumulati con gli acquisti in “bonus” per incrementare il lavoro giovanile. Praticamente i soci Coop invece di trasformare i loro punti in sconti sugli acquisti o premi di vario genere potevano di fatto pagare i vaucher con cui la Coop avrebbe pagato gli stagisti operanti nelle sue attività. Il tutto, naturalmente, presentato come solidarietà nei confronti dei giovani potenzialmente disoccupati. Insomma, la Coop poteva finanziare il lavoro “quasi nero” dei propri dipendenti senza tirar fuori un soldo: un autentico capolavoro di buonismo sociale!  

  4. Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere, 2014  

  5. Si consulti a tal proposito, e solo come esempio, l’ultima proposta del Ministro Del Rio per modificare costi e percorso del TAV in Val di Susa: http://ilmanifesto.info/torino-lione-il-governo-diventa-ni-tav/ oppure http://torino.repubblica.it/cronaca/2016/07/01/news/torino-lione_delrio_annuncia_stiamo_revisionando_il_progetto_useremo_di_piu_la_linea_vecchia_-143221243/  

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La “Rivoluzione” interrotta https://www.carmillaonline.com/2016/05/14/la-rivoluzione-interrotta/ Fri, 13 May 2016 22:01:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30473 di Fiorenzo Angoscini

semprepartigiano Pino Tripodi, Per sempre partigiano. L’insurrezione di Santa Libera, DeriveApprodi, Roma 2016, pp. 243, € 16,00

Non si sono ancora del tutto spenti gli echi della festa d’aprile del 1945 che numerosi proletari, semplici combattenti – tra cui comandanti di brigata e commissari politici – per convinzione e non per convenienza, intuiscono ciò che si sta programmando, annusano l’aria, colgono l’atmosfera: è solo un cambio d’abito. Chi tira le fila, e continua a condurre le danze, sono i soliti profittatori di sempre.

Presidente del consiglio è Alcide De Gasperi (ministro della malavita, secondo un [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

semprepartigiano Pino Tripodi, Per sempre partigiano. L’insurrezione di Santa Libera, DeriveApprodi, Roma 2016, pp. 243, € 16,00

Non si sono ancora del tutto spenti gli echi della festa d’aprile del 1945 che numerosi proletari, semplici combattenti – tra cui comandanti di brigata e commissari politici – per convinzione e non per convenienza, intuiscono ciò che si sta programmando, annusano l’aria, colgono l’atmosfera: è solo un cambio d’abito. Chi tira le fila, e continua a condurre le danze, sono i soliti profittatori di sempre.

Presidente del consiglio è Alcide De Gasperi (ministro della malavita, secondo un efficace e tagliente slogan comunista) che si sforza in tutti i modi di essere accettato e ben visto dai pronipoti dello zio Sam, i quali, tramite “addetti militari”, “consiglieri politici” e “funzionari diplomatici”, stanno cercando di incastrare tutti i pezzi necessari per garantire la loro democrazia e soggettiva stabilità alla giovane repubblica italiana.1 Così, nemmeno troppo dietro le quinte, insieme a vecchi arnesi, generali felloni e voltagabbana si armeggia e trama nei retrobottega e anticamere dei palazzi della politica istituzionale. Il personale dell’amministrazione statale proviene ancora, per la stragrande maggioranza (vicina al 100%) dalle strutture del passato regime: prefetti, questori, magistrati, ispettori di PS, capitani dei carabinieri ai posti di comando, hanno tutti vestito la camicia nera. Per non parlare degli operatori finanziari, quelli che allargano, o stringono, i cordoni della borsa, i presidenti dei vari enti statali, gli insegnanti di tutti i gradi e livelli.

In aggiunta, nei primi giorni del 1946, i pochi partigiani arruolati nella polizia ausiliaria, vengono allontanati. Il corpo viene epurato dagli elementi non affidabili. E’ troppo pericoloso che ex combattenti per la libertà detengano legalmente delle armi. Essendo poliziotti, sono armati.
La classica goccia che fa traboccare il vaso delle promesse non mantenute, è la legge emanata dal segretario nazionale del Partito Comunista Italiano, il Ministro della Giustizia, guardasigilli Palmiro Togliatti. Il 22 giugno 1946 entra in vigore il dispositivo per cui, in sostanza, si liberano i fascisti e si arrestano i partigiani responsabili di reati “comuni” o crimini “efferati” (eliminazione di gerarchi e simili) negli ultimi mesi della guerra di liberazione nazionale. Ma che è stata anche guerra civile e guerra di classe. Partendo da queste realtà prende corpo e si sviluppa il racconto di Pino Tripodi.

Manipoli di presunti vincitori, potenziali sconfitti ma non arresi, decidono di incidere profondamente sull’andamento delle cose. Vogliono cambiare il corso delle storie. In molte province, soprattutto del centro-nord Italia si riorganizzano, rispolverano le armi, ricostituiscono le Brigate, tornano in montagna.

Le agitazioni insurrezionaliste partigiane si registrano nelle province di Brescia, Sondrio, Mantova, Vercelli, Pavia,2 Lucca, Parma, Massa, Savona, Reggio Emilia, Pistoia, Verona, La Spezia,3 Vicenza, Firenze, Udine, Genova, Asti, Alessandria, Cuneo.

Proprio di quella che è diventata il simbolo (anche se poco conosciuta e studiata) e “capitale” delle rivolte partigiane dell’estate 1946, l’insurrezione di Santa Libera (20 agosto),4 località collinare del comune di Santo Stefano Belbo, provincia di Cuneo, paese natale del letterato-poeta-comunista Cesare Pavese, ci racconta, in forma romanzesca, l’autore di Per sempre partigiano.

ario L'IBER(N)AZIONE Grazie ad un lascito manoscritto, una sorta di autobiografia postuma consegnata ad un prete “illuminato” e progressista, che a sua volta la regala a Tripodi, uno dei protagonisti, Giovanni Primo Rocca, nato proprio – strani incroci del destino – il 21 gennaio 1921,5 capo – insieme ad Armando Valpreda 6, anch’egli reduce partigiano e, all’epoca dei fatti, presidente provinciale dell’Anpi di Asti – della rivolta, mescolando infanzia-adolescenza-giovinezza-amore-lotta-delusione-abbandono, dipana la storia di una sessantina di uomini che tornano in quella “casa sulla collina” dove, fino a pochi mesi prima, inquadrati nella Brigata Garibaldi Stella Rossa, avevano combattuto contro gli occupanti nazisti e i loro servi in camicia nera.

Rivendicano il diritto ad una vita di affetti, giustizia e riscatto sociale. Pretendono dignità umana e politica, chiedono ciò che era stato loro promesso, ma che non hanno ottenuto.
Tripodi-Rocca, in una sorta di duetto da ventriloquo, ricordano: “…sei un nero che frequenta le scuole dei bianchi. Glielo devi far capire che loro hanno i soldi mentre tu sei intelligente…”; accusano: “…i partigiani mi sono amorevolmente antipatici…mio padre è un partigiano. Mio padre è uno stronzo dunque tutti i partigiani sono stronzi…così per inerzia inizio a vedere in ogni partigiano un rompiballe presuntuoso”; si contraddicono: “…dicono che mi piace vincere però non sopporto le responsabilità della vittoria…” ; rimpiangono, inteso come rammarico: “…ai partigiani privi di santi in paradiso tocca la sorte dell’emarginazione della disoccupazione…” ; perché sono “persone storte”. Nel senso di diversi, non omologati, divergenti e distinti.

Nel loro narrare ci sono anche affermazioni forti che possono offendere o stupire. Ad esempio nel dichiarare, riferendosi alla nefasta e famigerata amnistia comunemente abbinata al nome di Togliatti, che: “…neanche andasse Hitler al governo potrebbe concepire un provvedimento simile…” . Oppure ancora: “…appendere Mussolini morto a testa in giù è il gesto meglio copiato dai nazifascisti…non è la nostra vendetta per i martiri di Piazzale Loreto massacrati dai fascisti. E’ la vendetta di Mussolini. Il ghigno di un assassino che può dire al mondo intero voi che vi liberate di me siete di me peggiori” . Il massimo dell’equiparazione repubblichini-partigiani. Anzi…criticano duramente la cultura antifascista: “…si dicono combattenti per la libertà ma hanno la cultura reazionaria introiettata anche nei calli…” Fino a sostenere: “…le spie…ci sono già a Santa Libera. Hanno in tasca le nostre stesse tessere di partito”. Per arrivare alle ultime “confessioni”, le più incredibili, le più amare, le più dolorose per un partigiano. “Primo Comandante sempre”, quasi come un pugile suonato, afferma: “…ogni qual volta c’è un peto di discontinuità nell’aria…qualcuno mi chiede di riprendere la vita attiva di partecipare a storie che chiamano in modo assai poco originale di nuova resistenza. Succede dopo l’attentato a Togliatti all’indomani del governo Scelba e tante altre volte. Chiunque senta il prurito di riprendere la lotta di ricominciare a combattere di imbracciare le armi viene da me. Lo ascolto con pazienza e lo licenzio con cortesia. Non sono cose per me…L’unica tentazione di tornare a vivere nella vita vera l’ho all’indomani del sessantotto ma dura appena un attimo…I compagni mi avvertono ti stai allontanando da noi”. (Per tutto il virgolettato: nessuna punteggiatura come nel testo, ndr).

Fa male, ferisce più di una manganellata, di una purga all’olio di ricino, di una seduta di torture in una delle tante “ville tristi” allestite dai nazifascisti in molte città della penisola, di un rastrellamento di civili, di una fucilazione di anziani, donne e bambini, sentire il ‘Comandante Sempre’, Giovanni Primo Rocca, pronunciare queste frasi. Un partigiano che decide di non esserlo mai più, per sempre. Altri, fortunatamente, come forse l’ultimo degli ancora in attività e in vita di quella bell’estate, Giovanni Reuccio Gerbi, continuano la lotta: senza tregua!7

L’epilogo, con la smobilitazione, dell’insurrezione di Santa Libera avviene il 27 agosto.
Con la sua ‘fine’ si esauriscono anche le altre agitazioni partigiane dell’agosto 1946. La ‘sordina’ a quel moto di rivolta si realizza per l’intervento di normalizzazione attuato dal dirigente comunista piemontese Celeste Negarville e, purtroppo, del prestigioso comandante partigiano della Val Sesia Cino Moscatelli.8 Tacitati i ribelli della collina piemontese, come detto, anche tutti gli altri insorti “rientrano”.9

ario incompiuta Per i cosiddetti paladini della libertà, il pericolo è scampato, per gli illusi-sognatori di un futuro diverso, l’appuntamento è rimandato. Ma, nemmeno l’attentato a Togliatti, l’eccidio delle Fonderie Riunite di Modena, gli assassinii di Reggio Emilia, Licata (Ag), Palermo e Catania del luglio ’60, le stragi di Milano, Brescia, Italicus e stazione di Bologna riusciranno a smuovere i vecchi e nuovi partigiani, a mobilitarli ed organizzare il definitivo e finale assalto al cielo.

A conclusione di queste considerazioni, alcune note che non sono, e non vogliono essere, osservazioni negative, né critiche trancianti, sullo stile ortografico e letterario con cui l’autore ha scelto di raccontare la confessione umana e politica di Giovanni Rocca. Perché, come alcuni sostengono: “…chi sceglie di scrivere senza punteggiatura deve possedere una grande sicurezza, cioè deve conoscere a fondo le regole e far uso delle parole in maniera tale da “costringere” chi legge a far pausa laddove, per consuetudine, ci sarebbe voluto un segno”.
Ma, si può soggiungere, si obbliga chi legge ad affrontare una lettura diversa, a compiere uno sforzo interpretativo nuovo, non sempre facile e di immediata realizzazione.

Soprattutto, magari, per chi ha frequentazioni abituali – senza scomodare i classici della letteratura – con contemporanei come Cesare Pavese che ci mette in guardia dagli intellettuali di prima e seconda mano: “Per fidarsi di quelli che studiano, bisogna studiare…si dovrebbe studiare per sapere fare a meno di quelli che studiano. Per non farsi fregare da loro”.
Oppure con Luis Sepulveda, “guerrigliero della parola”, l’internazionalista del racconto, l’apologeta del paradiso, “ma non quello dei preti, il nostro, quello in cui si fuma e si beve rum e se chiedi ad una ragazza di ballare, non ti dice mai di no” e delle “donne della mia generazione che scrissero la parola Companera su tutte le schiene e sui muri di tutte le carceri”.
Dell’erotico e anticonformista Boris Vian di “Sputerò sulle vostre tombe”.
Dell’ asciutto, sintetico e preciso Italo Calvino.
Dell’ operaio di Porto Marghera, Ferruccio Brugnaro, di Sono sempre stato da una parte sola, “…con i minatori, con i contadini, con gli operai turnisti”.
Il Pablo Neruda di Farwell, la poesia più amata da Ernesto Guevara de la Serna; di Sante Notarnicola, il bandito della poetica di La nostalgia e la memoria; di Julius Fucik e Papà Cervi..
Di Nazim Hikmet, il ‘turco’ Comunista romantico di “…so che ancora non è finito / il banchetto della miseria…/ ma finirà…” e Mahmoud Darwisch, fedayn della poesia e di “Scrivi: sono arabo…vengo da un villaggio perduto, dimenticato / dalle strade senza nome / e tutti gli uomini al campo come alla cava / amano il Comunismo”.
Questi sono alcuni esempi, non tutti.

Per concludere davvero, scomodando il filosofo di Treviri, è necessario scrivere con semplicità, precisione, chiarezza perché ci si rivolge a dei lettori che “presuppongo naturalmente vogliano imparare qualcosa di nuovo e che quindi vogliano anche pensare da sé”.

Alcune indicazioni di carattere bibliografico per approfondire gli avvenimenti dell’estate 1946:

Oltre alla già citata tesi di laurea di Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, anno accademico 2009-2010;

Giovanni Rocca (Primo), Un esercito di straccioni al servizio della libertà, Art pro Arte, Canelli (Cn), 1984

Nazario Sauro Onofri, Il triangolo rosso (1943-1947), Sapere 2000, Roma, aprile 1994;

Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’insurrezione partigiana. Agosto 1946, Edizioni Gruppo Abele, Torino, marzo 1995;

Giovanni Gerbi, I giorni di Santa Libera, otto puntate su “L’eco del lunedì”, settimanale di Asti, ottobre-novembre 1995;

Marco Rossi, Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione. 1945-1947, Edizioni Zero in condotta, Milano, 2009;

Claudia Piermarini, I soldati del popolo. Arditi, partigiani e ribelli: dalle occupazioni del biennio 1919-20 alle gesta della Volante Rossa, storia eretica delle rivoluzioni mancate in Italia, Red Star Press, Roma, giugno 2013

Accompagnano il presente testo due opere di Ario Pizzarelli:
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25 aprile 1945-2015
L’IBERNAZIONE

1946-2016
INCOMPIUTA


  1. Nel gennaio del 1947 verrà accolto negli Stati Uniti d’America dove, con il cappello in mano, si reca per elemosinare le briciole degli aiuti economici del Piano Marshall, il piano per la ripresa europea: dollari USA in cambio di sudditanza economica, politica, sociale 

  2. Nell’ Oltrepò pavese, dove la protesta è energica e decisa, coordinano l’iniziativa, tra gli altri, Angelo Cassinera garibaldino Mufla, Luigi Vercesi e Vittorio Meriggi. Questi tre, con Luigi Bassanini, a bordo di una utilitaria di fortuna, raggiungono la zona di confine tra le province di Asti, Alessandria e Cuneo, per prendere contatto con gli altri insorti e concordare le azioni successive. Rientrati nel loro territorio, costituiscono due gruppi. Il primo, un’ ottantina di uomini equipaggiati con armi leggere e pesanti, è guidato da Ferruccio Fellegara e raggiunge il Brallo, una località di montagna nell’alta Valle Staffora, al confine tra le province di Pavia ed Alessandria, situata in posizione strategica e dove si controlla anche la Val Trebbia. L’altro raggruppamento, cinquanta uomini al seguito di Mufla, a bordo di un autocarro, raggiunge Pometo – comune di Ruino – da Stradella. Requisiscono scuole per utilizzarle come alloggiamenti, un albergo da adibire a “comando’” organizzano pattugliamenti e turni di vigilanza. Cassinera fa piazzare una mitragliatrice di 20 mm sulla strada principale di Brallo. Gli insorti pavesi dispongono anche di mortai e autoblindo  

  3. Dove, alla testa dei rivoltosi c’è Paolo Castagnino, maresciallo ausiliario di Pubblica Sicurezza, capo partigiano con il nome di Saetta, militante del Pci. Nell’aprile del 1972 verrà arrestato per “complicità’”con Giangiacomo Feltrinelli ed appartenenza a banda armata, ma sarà poi completamente scagionato  

  4. Inizialmente in tanti solidarizzano con i rivoltosi piemontesi, anche il sindaco Pci di Asti, Felice Platone, e molti dirigenti locali dell’Associazione Nazionale Partigiani  

  5. Lo stesso giorno in cui, a Livorno, suo padre partecipava alla fondazione del Partito Comunista d’Italia  

  6. Nel saggio di Laurana Lajolo, “I ribelli di Santa Libera. Storia di un’ insurrezione partigiana. Agosto 1946” il leader degli insorti, Armando, “…insieme ad alcuni compagni, costituì, dopo la liberazione, un gruppo clandestino denominato “808’” in onore di un potente esplosivo e che, di fronte al progressivo atteggiamento di clemenza dei giudici nei confronti dei fascisti, decise di assumersi il compito di fare giustizia.”  

  7. Vedi la tesi di laurea di Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, anno accademico 2009-2010  

  8. Nonostante gli accordi raggiunti, tra cui la non punibilità per i protagonisti della rivolta, vengono arrestati – perché individuati quali capi degli insorti – Battista Reggia, Giovanni Rocca e Armando Valpreda. Quest’ultimo, arrestato e rilasciato a più riprese, decide di riparare in Cecoslovacchia da dove rientra definitivamente nel 1956 a seguito dell’amnistia  

  9. In Oltrepò smobilitano entro la fine d’agosto, nello spezzino si prosegue fino al 3 settembre. L’ultimo colpo di coda avviena a Pallanza, vicino a Verbania, Val d’Ossola, il 29 agosto: circa 200 partigiani armati entrano nelle carceri e, dopo aver disarmato le guardie, liberano tre loro compagni arrestati per un omicidio politico, poi riparano in montagna  

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Il nostro nonno collettivo: Antonio Gramsci https://www.carmillaonline.com/2015/06/19/il-nostro-nonno-collettivo-antonio-gramsci/ Thu, 18 Jun 2015 22:01:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23349 di Mauro Baldrati

Vincenzo Sparagna e Saverio Montella, Vita, imprese e avventure di Nonno Gramsci, 001 Edizioni, Torino 2015, introduzione di Juan Carlos Monedero, pp 208, € 18.00

Nonno-GramsciVincenzo Sparagna non è stato solo uno dei padri del giornalismo situazionista-underground italiano, noto soprattutto per avere ideato e diretto il mensile-cult Frigidaire, oltre ad avere curato molti testi de Il Male, e creato false edizioni di Trybuna Ludu, La Pravda, Il lunedì della Repubblica. Si è laureato con una tesi su Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia, compagno politico di Antonio Gramsci, col quale ha condiviso la passione rivoluzionaria, [...]]]> di Mauro Baldrati

Vincenzo Sparagna e Saverio Montella, Vita, imprese e avventure di Nonno Gramsci, 001 Edizioni, Torino 2015, introduzione di Juan Carlos Monedero, pp 208, € 18.00

Nonno-GramsciVincenzo Sparagna non è stato solo uno dei padri del giornalismo situazionista-underground italiano, noto soprattutto per avere ideato e diretto il mensile-cult Frigidaire, oltre ad avere curato molti testi de Il Male, e creato false edizioni di Trybuna Ludu, La Pravda, Il lunedì della Repubblica. Si è laureato con una tesi su Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia, compagno politico di Antonio Gramsci, col quale ha condiviso la passione rivoluzionaria, anche se li separavano questioni di tattica, soprattutto sul come arrivare alla rivoluzione in Italia. Ha studiato la storia del movimento operaio, e soprattutto ha letto i Quaderni, e le Lettere dal carcere, documenti fondamentali della nostra storia politica-filosofica-letteraria. Pertanto, quando ha deciso di creare un alter ego dal nome di Vincenzino Gramsci, ha applicato una delle regole non scritte dello scrittore: parlare di ciò che si sa. Ma non solo: anche di ciò che si ama.

Vincenzino, con questo libro, ha ricostruito alcune fasi della vita del “nonno”, con l’ausilio delle tavole del disegnatore Saverio Montella, ma ha anche voluto esprimere la sua ammirazione, e il suo amore incondizionato di nipotino per il piccoletto sardo. Ne ha tracciato, con poche battute, gli aspetti principali del carattere, la sua ritrosia e al contempo il temperamento allegro, che si alternava con periodi di depressione nera, anche dovuti al suo precario stato di salute, ai dolori ossei dei quali soffriva, alla lontananza dall’amata moglie Giulia e dai figli, rimasti a Mosca mentre lui era tornato in Italia per organizzare il partito devastato dalle aggressioni fasciste. Chi conosce già le linee principali della vita di Gramsci si ritroverà in questo piccolo trattato biografico-affettivo, avrà conferme, ricordi letterari, anche alcune visioni, soprattutto contemplando le tavole più riuscite di Montella. Sappiamo, per esempio, che a Torino, dove da ragazzetto Gramsci si trasferì per studiare, viveva in piccole stanze senza riscaldamento, in povertà, talvolta saltando i pasti, spesso ammalato. In una pensione di Corso Vittorio 149 abitava in una stanzetta “che aveva perduto tutta la calce per l’umidità e aveva solo un finestrino che dava in una specie di pozzo, più latrina che cortile”. Faceva vita a sé, ha raccontato un compagno di pensione, l’avvocato Dino Frau. Saliva faticosamente le scale, poi si chiudeva in camera. Un misantropo? No. Un giorno l’avvocato lo andò a trovare, e “dalla stanza venivano canti e suoni. Trovammo (era con altri pensionanti ndr) un bel po’ di gente sconosciuta, per lo più gente dei paesi. Cantavano, qualcuno ballava. Ed in mezzo c’era Gramsci, intento a eseguire danze popolari sarde con un organetto a mantice.” Questo periodo di formazione è stato restituito con particolare vivacità nel libro: Torino, “I quattro moschettieri”, Angelo Tasca, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti, Antonio Gramsci, giovanissimi intellettuali socialisti, poveri in canna, grandi studiosi (specialmente Togliatti – lo “zio Palmiro” – che era “diligentissimo” e “preparatissimo”, mentre Gramsci era più incostante, anche per motivi di salute); frequentavano le trattorie e le osterie, così ben rappresentate da Montella nella sua tavola forse più riuscita. Noi abbiamo sempre in mente Parigi, Montmartre e Montparnasse, i bohémiens, ma anche immaginando l’ambiente torinese di inizio secolo possiamo sconfinare nel mito. Gli artisti esotici e sciupafemmine parigini stavano creando la nuova arte, ma gli intellettuali torinesi edificavano le fondamenta del nuovo pensiero politico-rivoluzionario, l’analisi dei movimenti di massa, della repressione capitalista, del fascismo.

Nonno_Gramsci

Vincenzino, coi suoi “pensierini” e i suoi “raccontini” manoscritti nella pagina di sinistra (la pagina di destra è sempre riservata a una tavola), coglie molti elementi storici e filosofici che hanno caratterizzato la biografia del nonno: “Nelle lettere che ci mandava dal carcere, dove finì proprio su decisione di quel tale Mussolini (che alla fine portò tutta l’Italia alla catastrofe e se stesso a Piazzale Loreto), il nonno ci parlava spesso di queste sue riflessioni giovanili. Non era il Nord che aveva oppresso il Sud, come aveva creduto fino ad allora. Erano le classi industriali del Nord che avevano stretto un patto con gli agrari e le classi privilegiate meridionali, perché tutto cambiasse senza che cambiasse nulla. Così nonno Gramsci capì che il protezionismo favoriva l’industria del Nord e che la sua abolizione poteva essere una leva per scalzare la supremazia savoiarda sulla stessa Sardegna”.

Il libro è introdotto da un testo di Juan Carlos Monedero, saggista politico spagnolo, leader del movimento Podemos, che a sua volta esprime tutta la sua ammirazione per il “nonno”: “Il dittatore (Mussolini ndr) gli fece un’offerta: se firmi un foglio in cui rinunci alle tue idee, ti lascerò libero. Che avranno avuto, quelle idee, per impedire ad Antonio di firmare quella rinuncia? Gramsci uscirà dal carcere, anni dopo, solo per morire. Gramsci non assomigliò mai ai suoi nemici. Quando uno è davvero libero, può darsi che non lo vogliano nemmeno quelli che credeva fossero al suo fianco.”

Quando qualcuno è davvero libero.
Gramsci era un uomo libero.
E noi tutti siamo suoi nipotini.

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Otello Gaggi: perseguitato dal fascismo, eliminato dallo stalinismo https://www.carmillaonline.com/2015/06/17/otello-gaggi-perseguitato-dal-fascismo-eliminato-dallo-stalinismo/ Wed, 17 Jun 2015 20:30:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23275 di Sandro Moiso

otello gaggi Giorgio Sacchetti, OTELLO GAGGI. Vittima del fascismo e dello stalinismo, Nuova edizione riveduta ed ampliata, BFS edizioni 2015, pp.104, € 12,00

Nella infinita, e talvolta soltanto retorica, diatriba che accompagna da sempre il conteggio delle vittime, dei martiri, degli eroi e dei combattenti caduti sui due fronti della guerra civile italiana tra il 1943 e il 1945 e, ancor prima, tra il 1919 e i primi anni del regime fascista, spesso non vengono conteggiati tutti quei militanti e proletari che una volta rifugiatisi nel paese dei soviet, colpiti da provvedimenti persecutori e condanne dei tribunali fascistizzati [...]]]> di Sandro Moiso

otello gaggi Giorgio Sacchetti, OTELLO GAGGI. Vittima del fascismo e dello stalinismo, Nuova edizione riveduta ed ampliata, BFS edizioni 2015, pp.104, € 12,00

Nella infinita, e talvolta soltanto retorica, diatriba che accompagna da sempre il conteggio delle vittime, dei martiri, degli eroi e dei combattenti caduti sui due fronti della guerra civile italiana tra il 1943 e il 1945 e, ancor prima, tra il 1919 e i primi anni del regime fascista, spesso non vengono conteggiati tutti quei militanti e proletari che una volta rifugiatisi nel paese dei soviet, colpiti da provvedimenti persecutori e condanne dei tribunali fascistizzati e dallo squadrismo nero, finirono con l’essere lì eliminati fisicamente nel corso delle epurazioni volute da Stalin e dai suoi accoliti per eliminare ogni opposizione interna al Partito Bolscevico e all’Internazionale Comunista. Tragedia che in alcuni casi continuò anche fuori dei confini dell’URSS dopo la caduta del fascismo e dell’occupazione tedesca, come nel caso dell’omicidio del militante internazionalista Mario Acquaviva avvenuto a Casale l’11 luglio 1945 ad opera del partigianesimo togliattiano.1

Per molti anni infatti, grazie anche alle connivenze del Partito Comunista Italiano, il cui leader Palmiro Togliatti aveva pienamente condiviso la responsabilità dei provvedimenti letali presi nei confronti dei rifugiati politici che avevano osato criticare le scelte dello stalinismo, si è venuto così a formare, precedendo nel tempo quello di estrema destra nei confronti della shoa, una sorta di vero e proprio “negazionismo di sinistra” tutto teso a negare oppure a giustificare tali provvedimenti liquidatori nei confronti di centinaia di militanti antifascisti italiani che avevano cercato scampo nell’URSS.

Esattamente come nel caso del negazionismo, tali rimozioni o, ancor peggio, giustificazioni storico-politiche avevano tutte l’obiettivo di negare la realtà dei fatti o, addirittura, le testimonianze dirette di chi era sopravvissuto sia alle purghe che al gulag e aveva potuto tornare in Italia a denunciare ciò che era avvenuto,2 nonostante le denunce su ciò che stava avvenendo o era già avvenuto fossero note, grazie all’opposizione all’estero sia internazionalista che trozkista. O, ancora, grazie alla prima dettagliata sintesi, con tanto di elenco di qualche centinaio di nomi, pubblicata da Alfonso Leonetti nel 1978.3

Il saggio di Giorgio Sacchetti, professore associato di Storia contemporanea e docente a contratto di Storia delle ideologie del novecento in Europa presso il dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell’università di Padova e già autore di altri saggi sulla storia del movimento libertario ed antifascista, ricostruisce le vicende e la tragedia di un operaio anarchico delle ferriere di San Giovanni Valdarno che, riparato in modo avventuroso in Russia per sfuggire alla vendetta fascista , avrebbe trovato la morte nei campi di lavoro siberiani dopo più di un decennio di detenzione, cui era stato condannato come “controrivoluzionario”.

Come recita il titolo di uno dei testi più celebri sull’argomento: una piccola pietra nel mare delle storie, dimenticate e rimosse, dell’antifascismo e dell’antistalinismo classista,4 eliminato per volontà dei vertici del partito sovietico e di quelli asserviti di quello italiano. Piccola, ma significativa. Un’autentica sineddoche storico-politica utile a comprendere come le vicende, anche infinitesimali, di una parte dell’antifascismo e del sovversivismo italiano tra gli anni venti e il 1945 possano rappresentare un’intera tragedia non ancora completamente affrontata dalla storiografia di classe.5

Rispetto all’edizione pubblicata nel 1992, sempre dalla Biblioteca Franco Serantini, la presente può avvalersi di nuovi documenti ed importanti testimonianze anche dei parenti russi collegati alla nuova famiglia che il Gaggi aveva là ricostituito. Ma è soprattutto dalle carte del “processone” contro quello che fu definito il soviet del Valdarno (quasi un centinaio di imputati, tra cui lo stesso Otello, latitante per i fatti di Castelnuovo Sabbioni del 1921) che “ traspaiono chiari i termini di uno scontro di classe di inaudita brutalità nel quale la schermaglia giudiziaria è solo un pretesto per saldare i conti politici e sindacali ormai pendenti fin dal periodo del famoso Biennio rosso”, utili ai fini di comprendere “quale sia stato il clima della violenta battaglia tra fascisti e sovversivi in quell’epoca e la successiva «normalizzazione»” (pag. 9)

Dal voluminoso e inesplorato fascicolo del Casellario politico, presso l’Archivio centrale dello Stato in Roma, sono inoltre usciti importanti documenti soprattutto relativi agli anni della sua permanenza nell’URSS e accurate informative dell’ambasciata italiana a Mosca, luogo quest’ultimo di indicibili transiti controllato a vista dalla polizia sovietica, postazione dell’OVRA e crocevia di ambigui personaggi. Sono carte preziose per capire il destino doloroso della comunità italiana in quel paese. Ne esce uno spaccato assai significativo sulla situazione di terrore e di sospetto vissuta in tutto l’ambiente dell’emigrazione” (pp. 9-10) Cui vanno ancora aggiunti stralci dall’interrogatorio al Gaggi trascritti negli archivi sovietici.6

Nato a San Giovanni Valdarno il 6 maggio 1896 nella numerosa famiglia di un operaio siderurgico, Otello percorrerà nella sua gioventù tutte le tappe di una militanza politica radicale. Assunto come operaio in ferriera a 15 anni, “sa il fatto suo come mestiere, ma «non è assiduo al lavoro» come lamentano i caporali dello stabilimento di quel giovane che, per di più, ha frequentazioni con soggetti poco raccomandabili e risulta accanito lettore di stampa sovversiva” (pag. 22)

Dall’Archivio centrale dello Stato risulta, poi, che: “Ha fatto propaganda contro la guerra del 1915 partecipando come promotore abusivo a manifestazioni clamorose, sì da essere denunziato. Antimilitarista per viltà e per assenza di sentimento patriottico, nonché per indole ribelle, incorse sotto le armi in delitti che condussero alla sua espulsione dall’esercito” (pag. 23)

Evidentemente, anche in questo caso, le vicende del Gaggi rappresentano ancora una volta molto bene la situazione generalizzata di conflitto e di rifiuto del militarismo e della guerra che si era venuta a creare in Italia nel corso del primo macello imperialista, se è vero che: “Su circa 5.200.000 sudditi del Regno, chiamati alle armi dal 1915 al 1918, in 870.000 subiscono denunzie all’autorità giudiziaria. Di questi oltre la metà (470.000, in maggioranza residenti all’estero) per renitenza alla leva e il resto per fatti commessi sotto le armi. Su 350.000 processi celebrati dai tribunali di guerra sono 140.000 le sentenze di assoluzione e 210.000 quelle di condanna […] Il 15% dei mobilitati e il 6% di coloro che, come Gaggi, pure avevano risposto alla chiamata scendendo in trincea e accettando di indossare la divisa di soldato, si trovarono quindi sotto processo per il loro NO alla guerra” (pag. 27)

Ma saranno i drammatici fatti del 23 marzo 1921 a segnare il destino di Otello, quando in Valdarno, a seguito di una provocazione fascista si svilupperà un violento scontro tra forze dell’ordine e squadristi da un lato e lavoratori antifascisti che per armarsi e reagire avevano svaligiato un’armeria. Tra gli antifascisti si conteranno un morto e nove feriti, mentre nel vicino bacino minerario i minatori sequestreranno l’intera direzione degli impianti e resterà ucciso un ingegnere e ferito il direttore degli stessi.

Per questo motivo, tra i manifestanti colpiti da provvedimenti giudiziari, 92 su 94 saranno accusati di omicidio. Tra questi Otello Gaggi che, pur essendo stato riconosciuto dai testimoni della parte avversa come colui che si era frapposto tra i minatori armati e il direttore nel tentativo di salvarlo dalla furia proletaria, sarà condannato in contumacia a trent’anni di reclusione, tre anni di vigilanza e 165,50 lire di pena pecuniaria.

Ha inizio da quel momento il travagliato viaggio di Otello verso il paese di utopia: la terra dei soviet. Occorre qui comprendere “come nel movimento operaio italiano e internazionale nasca e perduri il mito della Russia rivoluzionaria, mito di lunga durata che si rivela terreno fertile per lo sviluppo successivo di categorie politiche come lo stalinismo ( e il «togliattismo» per quanto riguarda la specifica vicenda italiana). Con una dinamica in parte analoga a quella già in atto per le masse cattoliche nei confronti dell’autorità millenaria dell’istituzione Chiesa, si instaura un vincolo di tipo ideologico fideistico, mutuato dall’attesa messianica del «sol dell’avvenire», nei confronti dello Stato sovietico appena sorto” (pp. 47-48)

Cui occorrerebbe aggiungere che una parte della fiducia derivava anche, nel caso in questione, dal fatto che all’epoca dei fatti di Castelnuovo dei Sabbioni (la località mineraria di cui si è prima parlato) “il PCd’I è stato appena costituito a Livorno, eppure già riscuote vasti consensi e simpatie tra il movimento operaio valdarnese. Non solo socialisti seguaci di Bordiga, ma anche sindacalisti dell’USI e molti anarchici passeranno al nuovo partito” (nota pag, 39)

Anche se l’accusa di “bordighismo” sarà quella che dopo il 1926, sia in URSS che nel partito italiano sotto la direzione di Togliatti, porterà molti militanti all’espulsione o addirittura alla condanna ai lavori forzati o alla morte, l’entusiasmo iniziale verso il nuovo leader del movimento operaio e per il giovane partito nato a Livorno spingerà molti sovversivi a parteggiare per l’Unione Sovietica e il partito bolscevico. E forse anche per questo motivo il Gaggi, dopo una funambolesca fuga di massa avvenuta il 6 giugno 1921 dal carcere in cui era stato rinchiuso in stato di “arrestato provvisorio”, finirà col giungere ad Odessa sul Mar Nero.

Risulterà in seguito che già nel 1922, a Baku, l’anarchico toscano sarà condannato a tre anni di detenzione per motivi politici, anche se dal dicembre 1921 all’aprile dell’anno successivo era stato ospite dell’Hotel Lux di Mosca, riservato in genere ai dirigenti di partito o ai loro familiari. Ma le condizioni di esistenza del Gaggi e della nuova famiglia che egli ha ricostituito in Russia si faranno via via più precarie, in un clima di sospetto e di delusione che il militante valdarnese non manca di segnalare nelle sue missive ai compagni più fidati.

Gaggi che svolge l’attività di venditore di libri “sospetto ai gerarchi”, a partire dal 1930, pur non perdendo la sua abitudine alla critica, si vedrà sempre più minacciato e diffidato, mentre a partire “dal 1933 tutti gli stranieri residenti nel paese iniziano ad essere considerati, in quanto tali, «nemici dell’URSS»” e “di lì a poco si approverà anche la cosiddetta legge sul «tradimento della patria» che comporta la pena capitale ed estende la responsabilità penale ai familiari del condannato” (pag. 64).

Il totale abbandono delle istanze internazionaliste sulle cui basi era nato l’esperimento sovietico e il ritorno al nazionalismo di stampo slavofilo , segna l’inizio della catastrofe per migliaia di militanti del partito sovietico e per molti di coloro che avevano sperato di trovare nell’URSS un rifugio sicuro dall’ondata montante del fascismo e del nazionalsocialismo. Così la notte del 28 dicembre1934, quattro settimane dopo l’assassinio di Sergej Kirov, considerato l’astro nascente del nuovo firmamento bolscevico in grado di insidiare la leadership del dittatore georgiano, che avrebbe dato la stura alle purghe e ai processi di Mosca, “«gli organi addetti alla sicurezza dello Stato proletario» prelevano dalle loro abitazioni con un’azione simultanea nella città di Mosca, undici persone di cui dieci di nazionalità italiana” (pag. 68). Tra questi l’anarchico valdarnese e la sua compagna russa.

Gaggi negli interrogatori finirà col confessare le sue “terribili colpe”, soprattutto quella di aver condiviso con altri compagni l’opinione “«che in URSS i lavoratori vivano male e che nel paese non ci sia libertà»” (pag.70). Riconosciute, quindi, le proprie colpe il militante toscano sarà successivamente condannato a tre anni di confino. Andrebbe qui segnalato che nel quinquennio 1929 – 1934 era in corso un avvicinamento di carattere politico-economico tra Italia fascista e Russia stalinizzata che avrebbe portato alla realizzazione di progetti comuni, con la realizzazione di fabbriche (per esempio quella di una di cuscinetti a sfera nel 1932, le cui foto dell’inaugurazione con Togliatti al centro si trovano ancora presso l’Archivio storico Fiat). E pare quindi evidente che uno dei caposaldi del business tra imprenditori e gerarchi italiani e gerarchi sovietici7 dovesse essere proprio quello della pacificazione delle frange operaie e politiche più ribelli.

E proprio nel 1935, anno della condanna al confino di Gaggi, ha inizio il mito dell’operaio Aleksej Stachanov che, secondo la vulgata stalinista, avrebbe estratto, con una tecnica di divisione dei ruoli lavorativi di sua ideazione, la notte del 31 agosto, 102 tonnellate di carbone, pari a quattordici volte la quota prevista, in meno di sei ore. Mentre erano proprio gli operai che rifiutavano l’enorme sforzo produttivo richiesto dall’industrializzazione a marce forzate sovietica ad essere deportati ed eliminati dopo aver impiccato ai soffitti delle officine i loro colleghi stakanovisti.8

Le vicende politiche dello stalinismo e delle sue vittime sono state trattate troppe volte, da un lato e dall’altro della barricata, da un punto di vista ideologico e politico mentre a ben guardare9 sono sempre i concreti rapporti di classe a definire i regimi, i modi di produzione che li sostengono e le loro eventuali e tutt’altro che “innaturali” alleanze. Soprattutto nei confronti della risorsa lavoro: dalle officine al gulag e ai lager.

Per quanto riguarda le vicende del Gaggi, “si saprà poi che, in data 29 luglio 1937, era stato nuovamente arrestato «per attività antisovietica svolta tra gli altri prigionieri» e per questo condannato (9 gennaio 1938) a ulteriori cinque anni di carcere. Dal 1938 in poi risultano tre trasferimenti in campi di lavoro destinati alle costruzioni ferroviarie, al disboscamento e alle coltivazioni agricole, tutti situati a nord del paese e gestiti da diverse amministrazioni del sistema concentrazionario sovietico” (pag.88)

Ed è a questo punto che si perdono definitivamente e sciaguratamente le sue tracce, nonostante l’appello rivolto da Victor Serge a Palmiro Togliatti che naturalmente, quando era ancora Ministro del Governo antifascista di Roma, si rifiutò di rispondere. Ma qui occorre fermarsi, anche se le responsabilità togliattiane e del partito italiano stalinizzato nell’opera di eliminazione della dissidenza interna ed internazionale risultano dettagliatissime nel lavoro di Sacchetti. Opera che, seppur segnata a tratti da un’eccessiva enfasi libertaria, tutti coloro che ancora si ritengono avversari del capitale e delle sue maschere politiche e nazionali dovrebbero leggere. Soprattutto chi ancora oggi si crogiola nel “mito” di Stalin e della “patria dei lavoratori”.


  1. Si legga in proposito Giorgio Bona, Sangue di tutti noi, Scritturapura casa editrice, Asti 2012  

  2. Si vedano, soltanto come esempio: G. Fabre, Roma a Mosca. Lo spionaggio fascista in URSS e il caso Guarnaschelli, Dedalo 1990, in cui, sulla base di pochissimi e superficiali elementi si cerca di avvalorare la tesi staliniana dell’appartenenza degli oppositori ai servizi segreti fascisti e ad un complotto controrivoluzionario anti-sovietico, già sbandierato ai tempi dell’eliminazione della vecchia guardia bolscevica e trotzkista. Oppure, sull’altro fronte: Dante Corneli, Il redivivo tiburtino, testimonianza diretta di un sopravvissuto che, una volta tornato in Italia , non trovò nessuno disposto a pubblicare le sue memorie, né nel suo partito, il PCI, perché ritenuto un provocatore, né tanto meno nella restante editoria che lo riteneva comunista e quindi sovversivo. Costringendolo così a pubblicare privatamente la sua testimonianza; cosa che lo accomuna a Primo Levi, il cui fondamentale Se questo è un uomo venne infatti stampato nell’autunno del 1947, in 2.500 copie, da una piccola casa editrice torinese, la De Silva diretta da Franco Antonicelli, dopo che alcuni grandi editori, fra cui Einaudi, avevano rifiutato il manoscritto. Soltanto nel 1958 la casa editrice Einaudi, che ne avrebbe poi fatto uno dei suoi monumenti, lo avrebbe accolto ripubblicandolo nei suoi “Saggi”  

  3. A. Leonetti, Vittime italiane dello stalinismo in URSS, Milano, La Salamandra 1978  

  4. Emilio Guarnaschelli, Una piccola pietra. Le lettere di un operaio comunista morto nei gulag di Stalin, prima edizione Garzanti 1982 con prefazione di Alfonso Leonetti, poi Marsilio 1998  

  5. Tanto che in Italia una delle opere più importanti sull’argomento, fino ad ora pubblicate, è stata per lungo tempo disponibile soltanto nel volume collettaneo REFLECTIOS ON THE GULAG with a documentary appendix on the italian victims of repression in the URSS, a cura di Elena Dundovich, Francesca Gori e Emanuela Guercetti, Annali Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Anno Trentasettesimo 2001 poi solo parzialmente ripubblicato in Gulag. Storia e memoria, Feltrinelli UE/saggi 2004  

  6. Riportati nel testo di F.Bigazzi e G.Lehner (a cura di), Dialogho del terrore.I processi ai comunisti italiana in Unione Sovietica (1930 – 1940), Ponte alle Grazie, Firenze 1991  

  7. Si veda sempre in proposito il fondamentale: Pier Luigi Bassignana, Fascisti nel paese dei soviet, Bollati Boringhieri 2000  

  8. Come ricordava Danilo Montaldi nel suo Saggio sulla politica comunista in Italia (1919 – 1970), Edizioni Quaderni Piacentini 1976  

  9. Come nel caso di Margarete Buber Neumann, moglie di un importante dirigente del partito tedesco, rifugiatosi nell’URSS per sfuggire al nazismo e qui eliminato durante le grandi purghe staliniane, restituita alla Germania nazista e ai suoi lager in occasione del patto Ribbentopp – Molotov del 1939  

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UN’ODISSEA PARTIGIANA: intervista a Mimmo Franzinelli https://www.carmillaonline.com/2015/04/09/unodissea-partigiana-intervista-a-mimmo-franzinelli/ Thu, 09 Apr 2015 21:00:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21699 di Anna Luisa Santinelli

Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Mimmo Franzinelli, Nicola Graziano, Feltrinelli 2015, pp. 220, € 18,00

5964909_339734Al termine del secondo conflitto mondiale, in quel periodo complesso che vede l’Italia transitare verso la democrazia, la magistratura processa centinaia di ex partigiani per reati commessi durante la lotta al nazifascismo e nell’immediato dopoguerra. Questa situazione contraddittoria è favorita dalla mancata epurazione fascista (magistrati, funzionari, poliziotti del passato regime non vengono rimossi dai loro incarichi) e condizionata dall’avvio di una nuova fase storica, la Guerra fredda, appena cominciata. La fallita estromissione di personalità colluse con la dittatura consente un clima [...]]]> di Anna Luisa Santinelli

Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Mimmo Franzinelli, Nicola Graziano, Feltrinelli 2015, pp. 220, € 18,00

5964909_339734Al termine del secondo conflitto mondiale, in quel periodo complesso che vede l’Italia transitare verso la democrazia, la magistratura processa centinaia di ex partigiani per reati commessi durante la lotta al nazifascismo e nell’immediato dopoguerra.
Questa situazione contraddittoria è favorita dalla mancata epurazione fascista (magistrati, funzionari, poliziotti del passato regime non vengono rimossi dai loro incarichi) e condizionata dall’avvio di una nuova fase storica, la Guerra fredda, appena cominciata.
La fallita estromissione di personalità colluse con la dittatura consente un clima di rivalsa e di pregiudizio antiresistenziale, che si concretano nell’uso strumentale del dispositivo giuridico. In estrema sintesi, «il sistema giudiziario rimane quello forgiato nel Ventennio».
Per tutelare gli antifascisti incriminati, gli avvocati della difesa ricorrono alla seminfermità mentale, suggerendo il manicomio come alternativa al carcere. L’accorgimento si rivelerà ben presto controproducente.
Nel 1946 l’amnistia Togliatti, da cui la detenzione manicomiale è esclusa, genera uno scenario paradossale ma emblematico: la scarcerazione per i fascisti e l’esonero dall’indulto per i partigiani reclusi in manicomio. Riguardo poi l’applicazione dell’amnistia, fin da subito cifre e modalità parlano chiaro:
«Il 30 giugno 1946, a otto giorni dall’emanazione, l’amnistia Togliatti è stata applicata a 7106 fascisti e a 153 partigiani. La giustizia della neonata Repubblica italiana, con una mano rialza i collaborazionisti, con l’altra percuote i partigiani».

Nel saggio Un’odissea partigiana, Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano focalizzano la loro attenzione sull’Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario) di Aversa; avvalendosi di fonti inedite, i due autori ricompongono le esistenze drammatiche dei “pazzi per la libertà”, riportando alla luce una vicenda ignorata che racconta la storia di una sotterranea e persistente guerra civile.

Nelle prime pagine del saggio affrontate l’argomento della fallita epurazione fascista nell’immediato dopoguerra. Perché il processo di defascistizzazione non si è realizzato?
Il fascismo è durato vent’anni, ha imposto l’identità tra partito e nazione, tra fazione e patria, è caduto per una guerra persa e non per una rivoluzione… In un primo tempo, sin dal 1944, la nuova classe dirigente voleva attuare un’estesa epurazione, che avrebbe coinvolto milioni di persone, poi, gradualmente, gli elementi di continuità dello Stato si sono imposti e nell’apparato pubblico sono tornati o sono rimasti in servizio i magistrati, i poliziotti e i prefetti che avevano servito Mussolini con zelo repressivo. Si sarebbe invece dovuto puntare in modo selettivo ai vertici: gerarchi e alti funzionari in primis. Ad un anno dalla fine della guerra, l’amnistia Togliatti ha praticamente chiuso la questione, grazie ad interpretazioni incredibilmente estensive da parte della magistratura che – guidata dalla fascistissima Corte di Cassazione – prosciolse fior di criminali. Ci fu dunque, dentro la discontinuità fascismo/democrazia, la continuità istituzionale sul piano delle carriere dei funzionari pubblici e il mantenimento in vigore di norme liberticide quali il Codice penale emanato dal guardasigilli Alfredo Rocco nel 1930: venne parzialmente modificato soltanto nel 1955 e sostituito da un nuovo Codice nel 1988.

Chi sono i “pazzi per la libertà” che finiscono reclusi nell’Opg di Aversa?
Nel 1943-45 ci fu, nell’Italia centro-settentrionale, una guerra civile feroce, che non terminò d’incanto il 25 aprile. Il ritorno alla civile convivenza fu un processo travagliato, nel quale si esercitarono anche vendette di vario genere. Gli avvocati di numerosi giovani partigiani accusati di omicidio per episodi accaduti durante la guerra o a ridosso della Liberazione, chiesero per i loro assistiti il riconoscimento della seminfermità mentale, per diminuire la pena detentiva. L’evoluzione degli eventi dimostrò che questo calcolo era errato: l’amnistia Togliatti ridusse o cancellò la pena detentiva ma non incise sulla pena accessoria dei 3 o dei 5 anni di detenzione in manicomi criminali. Di conseguenza, persone assolutamente sane di mente dovettero sperimentare la detenzione in strutture assai peggiori del carcere, in località assai lontano da casa, trovandosi isolate in una situazione pazzesca…

L’internamento manicomiale di soggetti invisi al regime fascista era una pratica consolidata. Rispetto a tali prassi detentive, l’Italia postbellica presenta corrispondenze con il fascismo?
Il ventennio mussoliniano ha rappresentato un sensibile arretramento sul piano delle istituzioni repressive, adattate ai progetti del potere e gestite con raffinata e quotidiana crudeltà. Diversi oppositori politici furono rinchiusi in manicomio… Il ritorno alla democrazia non rappresentò, almeno nel medio termine, il superamento di quei metodi: manicomi e carceri continuarono a risentire del clima e delle normative d’epoca fascista. La classe politica repubblicana non giudicò una priorità le riforme delle “istituzioni totali”. Soltanto negli anni ’60, dapprima con il centro-sinistra e poi sull’onda della contestazione operaia e giovanile, si modernizzarono strutture dove ancora persisteva la visione mussoliniana.

L’impegno solidaristico di Angelo Jacazzi è stato fondamentale per i partigiani reclusi ad Aversa. Precisamente, che ruolo ha svolto Jacazzi in queste tragiche vicende?
Angelo Jacazzi, all’epoca giovane segretario della sezione di Aversa (Caserta) del Partito comunista, ha svolto un importante lavoro, solidarizzando con gli ex partigiani internati nel manicomio della sua città: li ha rincuorati, ne ha segnalato la situazione ai parlamentari della sinistra e ai comitati di solidarietà, ha rappresentato il tramite tra i “pazzi per la libertà” e le loro famiglie. Negli ultimi anni, accortosi che quell’esperienza era assolutamente sconosciuta, ha consegnato al magistrato Nicola Graziano il suo archivio, con i carteggi e varia altra documentazione sulla preziosa intermediazione da lui attuata su base volontaria, per altruismo. Partendo da quel materiale, abbiamo reperito ulteriore documentazione e scritto il libro.

A pag. 204 scrivete «La storiografia ha sino a oggi ignorato il fenomeno dei “pazzi per la libertà”, confinato entro il recinto delle vicende personali e dei lutti familiari […]»
Il vostro saggio può dirsi esaustivo o l’argomento deve essere ulteriormente indagato?

Questo è un lavoro esplorativo. Il magistrato Nicola Graziano ed io abbiamo intrapreso e indicato una nuova strada. Il libro, nella parte preponderante, si basa sull’analisi del materiale conservato nell’ex manicomio criminale di Aversa. Attraverso l’esame di ogni altro archivio degli Opg (enti in via di smantellamento), sarà possibile arricchire il quadro, individuando una quantità di situazioni che ci costringono a rivedere il giudizio sull’Italia che, ufficialmente nata dalla Resistenza, usava il pugno di ferro contro ex partigiani e la carezza verso ex fascisti. Odissea partigiana ha insomma la funzione di apripista. D’altronde abbiamo già avuto riscontri in questo senso, ad esempio su ricerche ora avviate presso l’ex manicomio di Reggio Emilia.

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