Osip Ėmil’evič Mandel’štam – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sono lontani i tempi in cui leggevo i miei testi al Cabaret del Cane Randagio https://www.carmillaonline.com/2025/08/02/sono-lontani-i-tempi-in-cui-leggevo-i-miei-testi-al-cabaret-del-cane-randagio/ Sat, 02 Aug 2025 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89647 di Franco Pezzini

Giorgio Bona, Volevo soltanto salvare le mie parole, pp. 201, € 16, Arkadia, Cagliari 2025.

È sempre difficile dar conto in chiave di romanzo della vita interiore di uno scrittore, tanto più di un poeta: ciò che egli vede, ciò che per rifrazione vede il narratore stesso, deve restituire non solo fatti ma echi, toni, persino silenzi. L’operazione è possibile immergendosi nell’opera, magari traducendola nella lingua originale a scoprirne i ritmi e le pause: ma la sfida è resa più ardua dall’evocazione di contesti di vita estremi, lontani da quelli in cui fortunatamente viviamo e tali da mettere [...]]]> di Franco Pezzini

Giorgio Bona, Volevo soltanto salvare le mie parole, pp. 201, € 16, Arkadia, Cagliari 2025.

È sempre difficile dar conto in chiave di romanzo della vita interiore di uno scrittore, tanto più di un poeta: ciò che egli vede, ciò che per rifrazione vede il narratore stesso, deve restituire non solo fatti ma echi, toni, persino silenzi. L’operazione è possibile immergendosi nell’opera, magari traducendola nella lingua originale a scoprirne i ritmi e le pause: ma la sfida è resa più ardua dall’evocazione di contesti di vita estremi, lontani da quelli in cui fortunatamente viviamo e tali da mettere alla prova l’equilibrio stesso della scrittura – con il rischio di produrre un testo ostico al lettore.
Tutte queste considerazioni sono state chiare a Giorgio Bona nella scrittura di Volevo soltanto salvare le mie parole, un testo intenso e partecipe sulla caduta sociale del grande poeta russo Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1891-1938). Bona attinge alle sue liriche, che in parte ritraduce e incastona, e alle memorie della vedova Nadežda Jakovlevna Khazina (1899-1980) che con piena partecipazione alla passione di lui ne tratterrà mnemonicamente i versi, lasciando uno struggente memoriale e tante lacrime. E nel dar conto di un testo scritto quasi in stato d’ipnosi e comunque in punta di piedi, con grande delicatezza e umana empatia, l’autore fornisce un’indispensabile bibliografia.
“Ecco il secolo belva”. Nelle pagine di questa storia, che è anche la storia di un corpo malato e sottonutrito che si sta spezzando, e delle umiliazioni che tuttavia finisce col reggere, incontriamo in modo diretto o meno i grandi nomi della letteratura russa del tempo, in parte amici di Osip, parecchi destinati a finir male – Anna Achmatova, Nikolaj Stepanovič Gumilëv, Sergej Esenin, Marina Cvetaeva, Velimir Chlebnikov, Vladimir Majakovskij, Vjačeslav Ivanov… – e in parte nemici o imbarazzati conoscenti come Aleksey Tolstoy cui Osip rifila uno schiaffone, o l’ambiguo Boris Pasternak che cerca di destreggiarsi tra piccoli aiuti e posizioni incensurabili con le autorità. “Quella degli scrittori è una razza dalla pelle puzzolente e dalla cucina sudicia. […] Perché la letteratura adempie a un’unica funzione: aiuta i capi a preservare la disciplina tra i soldati e i giudici a massacrare i condannati”.
E poi una selva di ombre, burocrati o sbirri che in qualunque momento possono fermare per strada o fare irruzione in casa, maltrattare, minacciare e – ciò che massimamente turba chi scriva – confiscare libri e opere, e addirittura il necessario per scrivere. Indicativa la rivendicazione del titolo: Volevo soltanto salvare le mie parole. Ombre, burocrati o sbirri, connotati fino a un certo punto nel farsi massa fungibile: una sorta di pluralità brulicante e volgare a costituire il corpo del qui invisibile ma sempre evocato “montanaro del Cremlino, / l’assassino e il mangiatore di uomini”, Stalin. E poi questa è una storia di stanze: quelle di casa asfittiche, minuscole, dove trascinarsi fragili o fare l’amore o riuscire impensabilmente a scrivere, e quelle di uffici e istituzioni davanti alle quali fare anticamera o nelle quali confrontarsi coi burocrati. Ma le stanze più segrete, in fondo, sono quelle della mente dove la poesia sboccia (in Osip) o viene custodita (in Nadežda): e lì gli sbirri non possono fare irruzione. “Avrai soltanto il mio cadavere, la mia poesia sarà più forte di te”.
Di Mandel’štam sono note soprattutto due foto: la prima giovanile (1914, ventitré anni), riportata qui anche in copertina, mentre la seconda è la foto segnaletica del 1938, all’epoca del suo secondo arresto, dove dimostra molti anni in più dei quarantasette effettivi. Ingrossato, sciupato, con gli abiti trascurati concessigli: si fatica a riconoscere l’elegante ventitreenne dell’altra. Ma questo invecchiamento di fame e vessazioni in stanze fredde e vuote dove, se proprio va bene, qualche vicina magari bussa alla porta a donare un uovo – e resta il sospetto che sia un’informatrice, in un intero panorama di spioni – è il tessuto di cui è fatto questo romanzo doloroso. Tra le cui pieghe, nondimeno, assieme a una grande storia d’amore di coppia, nel terreno ingrato di quella Mosca riesce a germinare intatta la poesia.

No, non appartengo al presente,
non mi conviene così tanto onore.

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Tema di Lara: la disperazione del tempo https://www.carmillaonline.com/2025/03/14/tema-di-lara-la-disperazione-del-tempo/ Fri, 14 Mar 2025 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87262 di Giorgio Bona

Il dottor Živago fu scritto da Boris Pasternak tra il 1946 e il 1955, durante il periodo in cui lo scrittore era emarginato dal circuito letterario sovietico.

Fu il giornalista Sergio D’Angelo a recarsi in Unione Sovietica su incarico affidatogli da Giangiacomo Feltrinelli per incontrare lo scrittore, proponendogli una pubblicazione nel nostro paese.

La censura sovietica aveva negato la sua uscita in patria con la rivista letteraria “Novyj Mir”, che rifiutò con un secco no il romanzo.

L’editore italiano, nel frattempo, rischiava di provocare uno strappo violentissimo vista la posizione dei comunisti italiani: Feltrinelli era ancora iscritto al [...]]]> di Giorgio Bona

Il dottor Živago fu scritto da Boris Pasternak tra il 1946 e il 1955, durante il periodo in cui lo scrittore era emarginato dal circuito letterario sovietico.

Fu il giornalista Sergio D’Angelo a recarsi in Unione Sovietica su incarico affidatogli da Giangiacomo Feltrinelli per incontrare lo scrittore, proponendogli una pubblicazione nel nostro paese.

La censura sovietica aveva negato la sua uscita in patria con la rivista letteraria “Novyj Mir”, che rifiutò con un secco no il romanzo.

L’editore italiano, nel frattempo, rischiava di provocare uno strappo violentissimo vista la posizione dei comunisti italiani: Feltrinelli era ancora iscritto al Partito comunista quando le autorità sovietiche chiesero la restituzione del manoscritto, affidandosi a un tentativo di intercessione proprio dei comunisti di casa nostra.

Non ci fu nulla da fare.

A questo punto il tentativo fu di ritardarne l’uscita con la scusa di poterlo prima pubblicare in Unione Sovietica. Addirittura una delegazione di comunisti italiani si trovò nel paese del socialismo reale in occasione della festa della gioventù sovietica, e vi fu il coinvolgimento in una discussione sul caso Pasternak. Quando tornarono avevano con loro una lettera firmata e sicuramente apocrifa in cui lo scrittore diffidava l’editore italiano a pubblicalo.

Fu un buco nell’acqua. Il romanzo comparve in Italia nel 1957 e l’anno successivo lo scrittore venne insignito del Premio Nobel per la letteratura, anche se poi costretto a rinunciarvi su pressione delle autorità.

Il romanzo rimase out in Russia fino al 1988, quando la politica del Nuovo Corso promossa da Michail Gorbačëv consentì di vedere la luce.

Il romanzo divenne un film nel 1965 diretto da David Lean e fu presentato al Festival di Cannes vincendo cinque Golden Globe e cinque Oscar, tra cui quello per la sua colonna sonora, Tema di Lara, musicato dal compositore francese Maurice Jarre che ebbe un’estrema popolarità con molte rielaborazioni pop come Somewhere, My Love di Paul Francis Webster nell’interpretazione di Ray Conniff and The Singers.

A questa ne seguirono altre. Anche la musica pop italiana accolse Tema di Lara con un testo scritto da Giorgio Calabrese e interpretato da Rita Pavone, Dove non so (1967). Sarà Orietta Berti a riprenderlo (2000) con un’interpretazione fortemente melodica.

Quel che molti ascoltatori della canzone non sanno è che la donna amata da Jurij Živago, quella donna che offre senso a un amore destinato a resistere al gelo, alla rivoluzione, alla malattia, alla morte di lui, un amore che non si spegnerà neanche quando lei diviene “numero tra i numeri di qualche imprecisato elenco” avesse tratti reali.

La scena finale del film in cui Živago, appena salito su un tram vede camminare Lara per strada e cerca di richiamare la sua attenzione prima di essere schiantato dall’infarto è molto famosa, e viene ripresa anche da Nanni Moretti in Palombella rossa, dove gli spettatori gridano “Voltati!”, “Fatelo scendere!”, “Corri!” come reagiremmo noi d’istinto a scena tanto struggente.

In realtà il personaggio di lei trova un riscontro nella realtà di quel durissimo periodo sovietico. Lara ha un nome: Olga Vsevolodovna Ivinskaya (1912-1995), una donna che ha amato il poeta allo stremo, fino a sopportare la tortura e il gulag. Una storia intensa, fatta insomma non soltanto di letteratura e poesia, ma di vita concreta.

Boris Pasternak era sposato con Zinaida Nikolaevna che diceva pubblicamente che prima del marito e dei figli c’era Stalin. Stalin su tutto e tutti. Anche Nadežda Mandel’štam lo racconterà nelle sue memorie, quando lei e il marito Osip facevano la posta al sommo poeta per incontrarlo e cercare di ottenere un lavoro che potesse permettere loro di continuare a vivere.

Pur ricoprendo un ruolo di prestigio all’interno della Cooperativa Scrittori, Boris Pasternak non si espose più di tanto per difendere e aiutare un poeta che pure stimava e che come tanti colleghi di quel periodo si trovava alla deriva di una condizione disperata. Anche Marina Cvetaeva vedeva in Boris l’uomo con cui avrebbe potuto costruire un futuro dentro un paese difficile, e lui interruppe subito ogni rapporto facendo cadere tra loro una cortina di gelido silenzio.

Boris conobbe Olga quando lei lavorava per la rivista “Novyj Mir”. Lei era di ventidue anni più giovane e già vedova due volte, d’un primo marito suicida e un secondo morto in guerra.

Olga non si perdeva una lettura pubblica del sommo poeta e il loro incontro avvenne nel 1946, anno d’inizio della stesura de Il dottor Živago. Da quel momento Boris e Olga non smisero di vedersi, fino al 1949 quando lei venne arrestata e condotta alla Lubjanka, la sede dei servizi segreti a Mosca. Per giorni interi subì sevizie, torture, durissimi interrogatori, che tuttavia sopportò senza cedere.

Volevano colpire Pasternak, farle rilevare che stava scrivendo un libro antisovietico e riuscire a metterlo sotto processo mostrando a Stalin che si era sbagliato sul suo conto. Per lo stesso motivo, a luglio del 1950 Olga venne condannata a cinque anni di rieducazione nel gulag di Potma. Nei fatti, Pasternak aveva ancora un filo diretto con Stalin, mentre non era amato da molti burocrati del partito. Fu abile nel trovare un equilibrio tra la realtà sovietica e una qualche irreale dissidenza letteraria, camminando sempre come su un filo sospeso nel vuoto.

Olga sopportò anche questo. Non aprì bocca, subendo torture tali da provocarle un aborto – era incinta del figlio di Pasternak. Dopo la detenzione, la loro relazione riprenderà fino alla fine dei giorni del poeta nella sua dacia di Peredelkino (1960).

È Anna Pasternak, pronipote dello scrittore, a rompere il silenzio imposto dalla famiglia sulla figura di Olga che i discendenti avevano voluto nascondere tra gli affetti importanti del poeta.

Raccontare Boris Pasternak diviso tra la moglie Zinaida e Olga era come entrare nel romanzo dello scrittore e riconoscere chi stesse dietro le figure di Tonya e Lara, e una storia d’amore che diventa un romanzo, anche se di fatto in questa storia viene identificata una resistenza al potere sovietico.

Le molte poesie che Živago dedica a Lara nel romanzo sono quelle che Boris Pasternak dedicava a Olga.

La figura di Lara, quella che il pubblico ha amato fino alla commozione è esistita davvero, e nella realtà visse una vita di stenti e di sofferenze ben più dure e terribili di quelle della Lara del romanzo.

Ma mentre nel finale del film Lara scompare deportata in qualche campo di lavoro numero tra i numeri di qualche imprecisato elenco, Olga tornò dalla prigionia trasferendosi in una piccola casa vicino alla dacia di Boris, a Peredelkino, e la loro storia riprese da dove era stata interrotta.

“Ho amato Boris, e non posso ingannarmi quando penso che la mia persona è stata a lui necessaria, sono riconoscente al destino che mi ha riservato questo posto di privilegio accanto a lui, nella sua disperazione del tempo”.

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Ti ustionava toccandola https://www.carmillaonline.com/2024/09/08/ti-ustionava-toccandola/ Sun, 08 Sep 2024 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84154 di Giorgio Bona

Giovanni Greco, Bruciare da sola. Una notte di Nadja Mandel’štam con i suoi fantasmi, pp. 144, € 15, Ponte alle Grazie, Milano 2022.

Vivere nel ricordo. Oltre il tempo. Perché il tempo è memoria e la memoria spinge avanti i ricordi, soprattutto quelli belli, o meglio quelli che lo sarebbero stati se la brutalità di quei tempi non avesse spento gli ardori e gli impeti che fiorivano dentro cuori in tumulto.

27 dicembre 1968: Nadežda Jakovlevna Khazina, vedova del poeta Osip Mandel’štam ricorda. Ricordare è stata una sua missione, un dovere, un atto d’amore verso l’uomo che amava [...]]]> di Giorgio Bona

Giovanni Greco, Bruciare da sola. Una notte di Nadja Mandel’štam con i suoi fantasmi, pp. 144, € 15, Ponte alle Grazie, Milano 2022.

Vivere nel ricordo. Oltre il tempo. Perché il tempo è memoria e la memoria spinge avanti i ricordi, soprattutto quelli belli, o meglio quelli che lo sarebbero stati se la brutalità di quei tempi non avesse spento gli ardori e gli impeti che fiorivano dentro cuori in tumulto.

27 dicembre 1968: Nadežda Jakovlevna Khazina, vedova del poeta Osip Mandel’štam ricorda. Ricordare è stata una sua missione, un dovere, un atto d’amore verso l’uomo che amava e che la storia aveva messo in ginocchio. Nonostante tutto, anche se gli eventi e le persecuzioni lo stavano annichilendo Osip Mandel’štam non aveva smesso di comporre versi di grande bellezza, tali da farne uno dei più grandi poeti del Novecento.

“Nadežda” in russo significa speranza e mai come nella memoria di Nadežda Mandel’štam sperare, nonostante tutto e contro tutti, è stato un imperativo e un insegnamento.

 

Ci si ammala di somiglianza dopo tutto questo tempo insieme. S’infetta la memoria e non si sa più chi ha detto cosa, chi ha mangiato cosa, chi ha pensato per primo ad aprire la finestra e ci si ferma un attimo prima di dire in coro quello che si è concepito insieme per poi dirlo insieme comunque, dopo due, tre esitazioni, con un sorriso rassegnato. Al punto che si finisce comunque per credere molte volte sia accaduto quello che non è mai accaduto, si ricorda quello che brilla feroce e quello che non è male, si spera, cioè si è convinti, che l’altro abbia fatto quello che non è andato in porto, mentre si crede di essersi inventati quello che invece è stato davvero, senza dubbio, la coperta rubata e ripresa ogni notte tra la veglia e il sonno o la mano confusa con la propria, a forza di tenerla stretta mesi e anni con le dita che tendono a incastrarsi perfettamente le une con le altre.

 

La compagna di vita di uno dei più grandi poeti del Novecento nelle pagine di questo Bruciare da sola è rappresentata in uno straordinario monologo sulla sopravvivenza di quei versi proibiti, mentre dialoga con i fantasmi che le hanno fatto compagnia per tutta la sua esistenza. Nadežda sarà la custode dell’opera del marito, figura capitale della resistenza intellettuale al regime sovietico.

La voce di Osip Mandel’štam attraverso il racconto in prima persona della moglie diventa un unico coro perché si uniscono all’unisono i tanti compagni delle purghe staliniane, un’intera generazione di scrittori che è passata nel tritacarne della ferocia di un regime che, come diceva l’autore medesimo, non ha amato i suoi poeti. Ecco comparire nel loro straziante dolore Marina Cvetaeva, Anna Achmatova. La prima si suiciderà dopo il tentativo di intercedere presso Lavrentij Berija per perorare la causa del marito arrestato per attività controrivoluzionarie e condannato a morte, la seconda perseguitata e condannata a vivere in miseria dopo la fucilazione del marito, il poeta Nikolaj Gumilëv con la vita del figlio appesa a un filo perché giurava di vendicare la morte del padre.

Il titolo del libro Bruciare da sola già offre tutti gli ingredienti: dolore, amore e potere suonano tutti la musica di una condizione di disperazione.

Occorre ricordare che il poeta russo Iosif Brodskij nel suo celebre saggio Fuga da Bisanzio caratterizzerà la figura di lei in un racconto importante.

 

La vidi l’ultima volta il 30 maggio 1972, in quella sua cucina a Mosca. Il pomeriggio era agli sgoccioli e lei sedeva, fumando, in un angolo, nell’ombra profonda proiettata sul muro della grande dispensa. Nadežda assomigliava all’avanzo di un grande incendio, una minuscola brace che ti ustionava toccandola.

 

L’essenza di quei tempi feroci è diluita in una narrazione diretta, minuziosa, una prosa che è un tributo del dolore. Giovanni Greco in queste pagine fa trapelare un senso di gratitudine. nella certezza che il lavoro di Nadežda in vita non è stato vano: nonostante il buio che ha accompagnato il suo lungo cammino nel tormento, nella fame e nella fatica, ha sempre camminato a testa alta tra le tante difficoltà con un senso di responsabilità incrollabile.

 

Ogni notte le mie labbra carezzano il tuo nome, Osip. E ogni notte lotto contro l’oblio, perché non divori questa bocca e anche questa mia preghiera.

Ti prego, non perdermi. Ti prego non abbandonarmi!

Ricordi il tuo sorriso quando ti dissi che il mio nome, Nadežda, significa speranza?

 

Osip Mandel’štam morì in un campo di transito in Siberia, a Vtoraja rečka, mentre era diretto a Vladivostock. Data della morte sembra, secondo le testimonianze più attendibili, il 27 dicembre 1938.

Dal momento del suo arresto, nel maggio dello stesso anno, Nadežda non ebbe più notizie, ma gran parte della sua opera fu salvata e molti versi conservati nella cassaforte della memoria della moglie.

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Stare dentro al mondo senza ipocrisia https://www.carmillaonline.com/2024/08/02/stare-dentro-al-mondo-senza-ipocrisia/ Fri, 02 Aug 2024 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83539 di Giorgio Bona

Cristiano Godano, Il suono della rabbia. Pensieri sulla musica e il mondo, pp. 272, € 19, il Saggiatore, Milano 2024.

“Tutti dicono che la musica è amore”.

Sembra veramente uno slogan di altri tempi. Provai davvero quell’entusiasmo quando ascoltai per la prima volta, era il 1976, in un negozio di dischi in Via del Campo a Genova, Music is love, brano tratto dal disco LP If I Could Only Remember My Name di David Crosby, accompagnato da tutti i migliori musicisti della West Coast e, in realtà, uscito negli Stati Uniti cinque anni prima, nel 1971. E mi [...]]]> di Giorgio Bona

Cristiano Godano, Il suono della rabbia. Pensieri sulla musica e il mondo, pp. 272, € 19, il Saggiatore, Milano 2024.

“Tutti dicono che la musica è amore”.

Sembra veramente uno slogan di altri tempi. Provai davvero quell’entusiasmo quando ascoltai per la prima volta, era il 1976, in un negozio di dischi in Via del Campo a Genova, Music is love, brano tratto dal disco LP If I Could Only Remember My Name di David Crosby, accompagnato da tutti i migliori musicisti della West Coast e, in realtà, uscito negli Stati Uniti cinque anni prima, nel 1971. E mi ritornano alla mente quegli anni leggendo il libro di Cristiano Godano catapultato nella realtà di mezzo secolo dopo, Il suono della rabbia.

Cantautore e frontman dei Marlene Kuntz, Godano (Fossano, 1966), attore, blogger, docente del Master in Comunicazione musicale alla Cattolica di Milano, si presenta in libreria con un libro che intende intercettare quelle vibrazioni e quella musica raccogliendo tutto in uno spartito fatto di sole parole. Non è sicuramente un esordiente della scrittura e ha al suo attivo una raccolta di racconti, I vivi, uscito nel 2008 da Rizzoli, seguito nel 2010 dal reading-concerto Nel vuoto dei Marlene Kuntz, ancora per Rizzoli, e nel 2019 dal saggio autobiografico per i tipi della Nave di Teseo Nuotando nell’aria. Dietro 35 canzoni dei Marlene Kuntz.

Il suono della rabbia è un libro che raccoglie alcuni testi scritti dal cantautore per “Rolling Stone”, accresciuto di tre elaborati, con impressioni e opinioni offerte con taglio narrativo. Un libro che sembra vivere di una voce dell’anima, di un approccio alla scrittura come in musica, appassionato e a volte scomodo, dove la parola è forte ed echeggia come una nota.

Tutto produce suono. Le guerre, le dita sullo schermo di uno smartphone… i battiti del cuore.

Cristiano Godano tratta grandi temi che attraversano le civiltà occidentali: dittatura, libertà, cambiamento climatico, internet: lo fa senza rabbia o rancore, indignandosi per questa deriva occidentale, un’indignazione che è alla base del suo comporre, del suo fare musica.

Sono trascorsi esattamente trent’anni dall’uscita dell’album di culto che segnò una generazione. Catartica fu il disco di esordio della band (13 maggio 1994) destinato a diventare una pietra miliare della musica italiana. Le quattordici canzoni che componevano l’album hanno rappresentato una risposta a tutti quelli che auspicavano una musica diversa che sfidasse le attrazioni dei richiami oltre confine, e intriso di un rock energico ma anche a tratti melodico.

Due sono per Cristiano gli autori di riferimento: Nick Cave e Vladimir Nabokov. Un cantante e uno scrittore accomunati da un sentimento forte e coraggioso, quello di vivere una vita totalizzante all’arte.

Nabokov rappresenta quel grande serbatoio della Letteratura, con la L maiuscola, cui attinge la musica impegnata, colta, che crea piacere all’anima e stimola pensiero e passione.

Nell’album del 2013 dei Marlene Kuntz Nella tua luce c’è un brano intitolato Osja, amore mio, che si ispira alla figura del grande poeta russo Osip Mandel’štam ed è scritto dall’appassionante visione della moglie Nadežda Jakovlevna Mandel’štam che durante gli anni di lontananza del marito nel periodo delle Grandi Purghe si impegnò a conservarne la memoria imparando a memoria gran parte del suo lavoro poetico. Un brano intenso da ascoltare più volte per percepirne con intensità la straziante bellezza.

In questo album è incluso anche un altro pezzo capolavoro dal titolo Il genio (L’importanza di essere Oscar Wilde), dove Godano si concede il lusso di scomodare Oscar Wilde che rappresenta l’emblema di un genio assoluto lontano dalla catastrofe.

Il suono della rabbia ci racconta un modo di stare dentro al mondo senza quell’ipocrisia che pare rappresentarne l’anima e la coscienza. Un modo di abitarlo senza stare in silenzio, “cantarlo” con tutta la passione che è dentro di noi, perché il suono della rabbia più diventa forte e alza il volume, più spinge intensamente a vivere la vita.

 

Le propagande esistono da sempre, e ne siamo tutti travolti. La nostra visione delle cose ne è influenzata, e la verità che pensiamo di possedere è spesso figlia di un bombardamento di informazioni finanche subdole che ci vengono somministrate.

 

Un approccio alla scrittura, quello di Godano, appassionato e a tratti scomodo, non privo di asprezza a indignazione: il titolo stesso del libro ne dà conto, generato da quella che si può definire la deriva occidentale anche nei temi più complessi e discutibili.

 

Il tema della morte mi è caro. La temo molto e la considero tremendamente ingiusta […] Fa parte del gioco, la morte, e fin dalla nascita, noi esseri umani, inchiodati dalla coscienza a tenerla in conto non appena il nostro pensiero di bimbi si struttura e si fa consapevole e ragionatore, viviamo sapendo di dover morire.

 

In queste pagine il legame tra l’attività artistica e quella del musicista non perdono colpi ed è una presenza costante tra l’impegno civile e la musica.

 

Per i pessimi percorsi che il cammino dell’umanità occidentale (quella in cui vivo, in cui viviamo) sta intraprendendo, portandoci, verso luoghi che appaiono pericolosi e minacciosi. I contesti sociali soffrono della gravissima crisi della democrazia e si paventano brutte o bruttissime derive, la tecnologia modifica la natura stessa della nostra essenza convertendoci poco alla volta in automi e il pianeta è infastidito dalle nostre attività antropocentriche…

 

In queste parole appare evidente il tentativo di far presa sul lettore per generare riflessione, lasciando sulla pagina emozioni e sensazioni vissute e qualche auspicio di speranza. Senza nascondere un evidente pessimismo e dismettere la posizione di pragmatico realista, alieno dal crogiolarsi in illusioni o raccontare favolette tranquillizzanti.

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Se c’è Poesia c’è Speranza https://www.carmillaonline.com/2023/04/14/se-ce-poesia-ce-speranza/ Fri, 14 Apr 2023 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76878 di Giorgio Bona

Nadežda Mandel’štam, Speranza contro Speranza. Memorie I, pp. 656, € 28, trad. di Giorgio Kraiski, Settecolori, Milano 2022.

Mi accompagna la voce di Cristiano Godano, il cantante della Rock Band cuneese Marlene Kuntz che intona “Osja, amore mio” dall’album del 2013 Nella tua luce, una canzone sulla straziante lettera scritta da Nadežda Mandel’štam dopo il secondo arresto del marito Osip.

Quelle note sono presenti dall’inizio della lettura di questo libro intenso e profondo Speranza contro Speranza della vedova di uno dei più grandi poeti del ‘900, Osip Mandel’štam.

Nadežda in [...]]]> di Giorgio Bona

Nadežda Mandel’štam, Speranza contro Speranza. Memorie I, pp. 656, € 28, trad. di Giorgio Kraiski, Settecolori, Milano 2022.

Mi accompagna la voce di Cristiano Godano, il cantante della Rock Band cuneese Marlene Kuntz che intona “Osja, amore mio” dall’album del 2013 Nella tua luce, una canzone sulla straziante lettera scritta da Nadežda Mandel’štam dopo il secondo arresto del marito Osip.

Quelle note sono presenti dall’inizio della lettura di questo libro intenso e profondo Speranza contro Speranza della vedova di uno dei più grandi poeti del ‘900, Osip Mandel’štam.

Nadežda in russo vuol dire proprio speranza e il titolo è già un buon viatico per capire che Speranza non ha alcuna speranza.

È un imperativo, ma anche un grande insegnamento, un tracciato della memoria ancora vivo nel presente, questo primo volume pubblicato in edizione integrale (il secondo, Speranza abbandonata, è prossimo all’uscita sempre per le edizioni Settecolori).

I due volumi uscirono clandestinamente in Unione Sovietica negli anni ’60, per essere successivamente tradotti e pubblicati in lingua inglese nel 1970 e nel 1974 infrangendo la cortina di silenzio e aprendo lo scrigno di quella memoria tenuta in cassaforte per tanti, troppi anni.

Con questa testimonianza Nadežda scende nell’inferno del poeta salvandone l’opera dall’oblio postumo, presentandoci con pennellate a tinte fosche la scena letteraria del tempo, popolata da intellettuali che in osservanza al regime gli voltarono le spalle, e altri, pochissimi, che all’amico perseguitato e in miseria ebbero il coraggio di offrire aiuto.

La rappresentazione del dolore non è teatralità. È il sentimento puro di un pianto arcaico.

La memoria è l’elemento cardine di questi scritti. Non soltanto perché si fondano sul ricordo, ma diventano lo scrigno di conservazione di quelle opere che vengono materialmente sottratte durante le perquisizioni e la luce di una mente che si accenderà per chi verrà dopo.

Che dire? Non basta un libro fondato sulla memoria per fare uno scrittore, anche se questa è circondata dal buio dove l’unico spiraglio di luce in questo mondo anemico viene offerto da un puntino luminoso dentro un regime infetto.

Nadežda con questo libro di memorie di alto valore letterario ci appare come un’eroina, rappresentante della resistenza al regime. Questa figura minuta, delicata, con un viso angelico, per decenni visse alla macchia facendo i più disparati mestieri.

Gli scritti di Nadežda Mandel’štam mostrano una forte tensione letteraria, sono una rivoluzione dentro la rivoluzione tradita. Persino la paura, terrore più che paura, scompare, perché, come diceva lei stessa, chi vive sotto una dittatura si permea del senso della propria impotenza e trova consolazione nella sua incapacità di reagire.

La delazione è come la peste, contagia il paese, diventa una sorta di sindrome collettiva. Il delatore è convinto di mettersi in mostra davanti agli occhi del regime e non sa che domani le parti si possono invertire, col risultato di farlo trovare inaspettatamente nel ruolo del perseguitato.

Se la letteratura mondiale conosce gran parte l’opera di Osip Mandel’štam lo si deve al grande lavoro di Nadežda; e se si riconosce la grandezza di Mandel’štam non deve passare in secondo piano il valore narrativo di sua moglie. Che con quest’opera rende giustizia a un grande poeta umiliato in vita da persecuzioni crudeli e dopo la morte avvolto da una gelida cortina di silenzio.

La sua prosa non trascura il minimo dettaglio, con dovizia di particolari. La mente è stata ferma e ha immortalato come una fotografia istantanea ogni particolare di quei momenti terribili. Ripercorre la vita con Osip attraverso la memoria e il ricordo come se li vivesse proprio allora, attimo dopo attimo, ricostruendola con minuziosa pazienza, raccontando in presa diretta anche la stesura del suo lavoro.

Tali memorie sembrano davvero un’opera di resurrezione ripercorrendo quella che è stata la stessa vita, nella sua autenticità, senza tralasciare nulla, come se il passato fosse un presente continuato.

Da queste pagine emerge non solo una condizione di disperazione, ma si comprende come un poeta messo in ginocchio davanti alla storia abbia potuto lasciare dei versi bellissimi perché emerge non soltanto la magia potente della parola ma il suo peso e il suo valore. Una parola illuminante e dolorosa, una rivolta contro il potere, un cardine irrinunciabile della vita.

E qui ci racconta il primo arresto del marito, nel maggio 1934, mentre Anna Achmatova era loro ospite, fino alla deportazione che condusse il poeta a morire (27 dicembre 1938) in un campo di transito mentre veniva condotto nel lager di Kolyma.

Speranza contro Speranza è la storia di un amore vissuto oltre la vita, quasi un superamento di questa vita, qualcosa di più potente e determinato.

Non c’è nulla di sentimentale in tutto questo e non si fanno sconti a un regime che ha passato ai raggi x un’intera classe di intellettuali e poeti per spegnere la loro luce.

Ecco allora il vero valore della rivoluzione giusta e bella secondo Nadežda: la poesia supera di gran lunga quel prodigio, quell’intuizione improvvisa e diventa una battaglia ostinata, parola dopo parola, verso dopo verso, ai limiti del possibile sradicando la lingua quotidiana per spiccare il volo.

Se Nadežda non avesse avuto questo coraggio, il gesto prode e temerario di affrontare il sistema con l’arma della sola parola, Mandel’štam sarebbe morto parecchi anni prima e la sua opera sarebbe andata certamente distrutta.

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Il montanaro del Cremlino https://www.carmillaonline.com/2023/02/22/il-montanaro-del-cremlino/ Wed, 22 Feb 2023 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76146 a cura di Giorgio Bona

Viviamo insensibili al paese che ci regge

Le nostre voci non si sentono a pochi passi

Ma basta una mezza conversazione

Per evocare il montanaro del Cremlino.

Le sue grasse dita sono gonfie come bachi,

le sue parole scendono come un peso di cento chili.

Ridono gli enormi baffi da scarafaggio,

luccicano i suoi stivali, catturano lo sguardo.

Intorno a lui una marmaglia di capetti dal collo sottile,

mezzi uomini con cui si diverte notte e giorno.

Uno fischia, l’altro miagola, un  terza ghigna,

solo lui tiene [...]]]> a cura di Giorgio Bona

Viviamo insensibili al paese che ci regge

Le nostre voci non si sentono a pochi passi

Ma basta una mezza conversazione

Per evocare il montanaro del Cremlino.

Le sue grasse dita sono gonfie come bachi,

le sue parole scendono come un peso di cento chili.

Ridono gli enormi baffi da scarafaggio,

luccicano i suoi stivali, catturano lo sguardo.

Intorno a lui una marmaglia di capetti dal collo sottile,

mezzi uomini con cui si diverte notte e giorno.

Uno fischia, l’altro miagola, un  terza ghigna,

solo lui tiene il timone e indica la rotta.

Batte regole su regole, sembra un vero fabbro,

le pianta a chi nell’inguine, a chi negli occhi, a chi dritto in fronte.

Ogni esecuzione è per lui piacere,

si lecca i baffi l’Osseta dal grande stomaco.

 

Sono i passi dell’ultima versione de Il montanaro del Cremlino che il poeta Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1891-1938) scrisse su Stalin.

Così si rivolse il poeta, quando nel 1938, ormai minato nel corpo e nella mente, perduto in un labirinto di ossessioni, dialoghi immaginari che ripercorrono con passo leggero quella che è stata la sua poesia e la sua prosa, i versi di Dante e il ricordo del viaggio in Armenia, si avvicina alla morte in un campo di transito per la Siberia.

Di questo lungo viaggio verso la deportazione parla Varlam Šalamov ne I racconti della Kolyma, precisamente in un racconto che ha per titolo Pane. Šalamov, arrestato per attività controrivoluzionaria trockista, viene condannato a cinque anni di lavori forzati prolungati fino alla fine della guerra.

Venus Khoury-Ghata, scrittrice di origine libanese che vive in Francia, nel suo libro Gli ultimi giorni di Mandel’štam, racconta il poeta raggomitolato sotto una coperta in un campo di transito vicino a Vladivostock.

La pagnotta del mattino, la zuppa della sera. Il braccio del poeta ormai privo di forze alzato dal vicino per avere una razione di pane in più.

Il poeta non arriverà mai a Kolyma. Il suo cadavere gettato in una fossa comune, un corpo anonimo con altri corpi.

Kolyma prende il nome dal fiume omonimo che sfocia nel Mare Siberiano Orientale. Scriveva Michail Geller: Kolyma era un’industria sovietica che dava al paese oro, carbone, stagno e uranio, nutrendo la terra di cadaveri.

 

Campo di concentramento di Vtoraja Rečka presso Vladivostok

Avanti, oltre la selva oscura che la diritta via era smarrita.

Il dolore, il male, non hanno vie d’uscita.

Soltanto vicoli ciechi.

Facce scavate, che venivano da anni di persecuzioni, di non appartenenza a nessun luogo.

Quando il treno dei deportati si avviava ecco levarsi un brusìo, una protesta molle come la scorreggia di un verme.

Puzza di petrolio, di pagliericcio fradicio e del secchio di rifiuti cosparso di acido fenico.

Ripeteva di continuo che sentiva la mancanza dei suoi libri, che non gli avevano consentito di portarne nemmeno uno e che La Divina Commedia era stata sottratta dalle sue tasche.

Ora sono suoi quei versi di Dante che pungevano il cuore dei pellegrini d’amore.

I naviganti delle incerte rotte, dell’esilio, sospinti verso l’ignoto condannati a sentire in lontananza il pianto musicale della squilla, la campanella dell’ultima ora che fa tremare l’aria di tenerezza e porta il ricordo dell’oblio ai dolci amici in patria.

Il diavolo osservava la scena dal liquame in cui era immerso.

In attesa dell’angelo vendicatore.

Nelle onde dell’etere, nello spazio e nel tempo, ascoltava soltanto la voce che veniva da dentro: risveglia il poeta che si è addormentato dentro di te!

Steso su una tavola di legno sentiva la vita sfuggirgli di mano.

Le sue mani, gonfiate dalla fame, le dita esangui e le unghie sporche, erano incrociate sul suo petto nella posizione del riposo eterno.

Stava morendo, forse era morto da lungo tempo

Eppure, ogni tanto, la vita tornava a fargli visita, gli occhi si aprivano, si sforzava di pensare.

Non credeva nell’immortalità.

Credeva soltanto nell’immortalità dei suoi versi.

In quei momenti in cui ritornava la vita, la poesia fluiva nella sua testa come lo scalpitare di un branco di cavalli al galoppo.

Giaceva immobile come se fosse davanti a un foglio bianco.

Qualcuno gli aveva sottratto la forma di pane che aveva accanto.

La fame era una brutta bestia, tanto lui in quelle condizioni non avrebbe toccato una briciola.

Amico segreto, amico lontano, guardami! Sono la fredda e mesta luce dell’alba… il freddo e mesto di primo mattino, amico segreto, amico lontano, io morirò.

Perché questi versi giungano al destinatario ci vorranno forse le medesime centinaia di anni che ci mette una stella per far giungere la propria luce a un pianeta lontano.

Ora le immagini che si presentavano ai suoi occhi non erano più quelle dell’infanzia, della giovinezza, dei periodi felici con la famiglia.

Nel suo delirio, nel suo estraniarsi da un mondo terribile avrebbe continuato a scrivere con più passione di prima.

Chi avrebbe desiderato leggerlo poteva farlo.

Lui avrebbe riempito la pagina di più eternità possibile.

Doveva solo dar tempo ai suoi fantasmi di andarsene.

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