Oscar Wilde – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 25 Aug 2025 22:01:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il Re in Giallo: un libro di presagi https://www.carmillaonline.com/2024/07/04/il-re-in-giallo-un-libro-di-presagi/ Thu, 04 Jul 2024 18:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83121 di Sandro Moiso

Robert W. Chambers, Il Re in Giallo, con una prefazione di Christophe. Thill e una postfazione di Sunand Tryambak Joshi. Illustrazioni di Samuel Araya, L’Ippocampo, Milano 2024, pp. 320, 25,00 euro.

«Non posso dimenticare Carcosa dal cielo cosparso di stelle nere, dove nel pomeriggio si stende l’ombra dei pensieri degli uomini, dove i soli gemelli affondano nel lago di Hali, e il mio spirito sarà sempre ossessionato dal ricordo della Maschera Pallida.»

Non sono certamente mancate le edizioni italiane del classico di Robert Chambers, ma quella edita dalla casa editrice milanese L’Ippocampo, ripresa da [...]]]> di Sandro Moiso

Robert W. Chambers, Il Re in Giallo, con una prefazione di Christophe. Thill e una postfazione di Sunand Tryambak Joshi. Illustrazioni di Samuel Araya, L’Ippocampo, Milano 2024, pp. 320, 25,00 euro.

«Non posso dimenticare Carcosa dal cielo cosparso di stelle nere, dove nel pomeriggio si stende l’ombra dei pensieri degli uomini, dove i soli gemelli affondano nel lago di Hali, e il mio spirito sarà sempre ossessionato dal ricordo della Maschera Pallida.»

Non sono certamente mancate le edizioni italiane del classico di Robert Chambers, ma quella edita dalla casa editrice milanese L’Ippocampo, ripresa da quella uscita nel 2022 per le edizioni Callidor di Parigi, sembra essere la prima a rispettare, con il dovuto apparato di testi a cura di Christphe Till e S. T. Joshi, la ventina di illustrazioni di S. Araya e un racconto di Ambrose Bierce, l’importanza di un testo che, pur parzialmente estemporaneo nella produzione dell’autore, ha davvero segnato il cammino della letteratura fantastica e dell’orrore moderna.

Robert William Chambers (1865 -1933) nacque a Brooklyn, figlio dell’avvocato William P. Chambers e di Caroline Chambers, diretta discendente del fondatore di Providence, capitale del Rhode Island che avrebbe in seguito dato i natali al più celebre autore americano di romanzi e racconti weird: Howard Phlillip Lovecraft. Robert, di condizione economiche e sociali agiate, dopo essere entrato a vent’anni a far parte della Art Students’ League si recò a Parigi dove ebbe modo di studiare alla École des Beaux-Arts e all’Académie Julian tra il 1886 e il 1893. Periodo durante il quale, più che allo studio e al lavoro d’artista, si dedicò alla frequentazione della bohème del Quartiere Latino.

Al suo ritorno negli Stati Uniti, ebbe modo di lavorare come illustratore per importanti riviste. Solo successivamente, rivolse la propria attività in direzione della scrittura, con il suo primo romanzo, In the Quarter, pubblicato nel 1894. La sua opera letteraria più famosa, The King in Yellow, fu pubblicata l’anno successivo e riscosse immediatamente una straordinaria accoglienza, sia di pubblico che di critica. Facendo sì che la raccolta di dieci racconti, uniti tra di loro dalla presenza malefica di un libro terribile e di un’opera (teatrale) maledetta, venisse ristampata più volte, con grande sorpresa dell’autore stesso.

Dieci racconti in cui, con risultati alterni e non sempre pienamente riusciti, il decadentismo si intreccia con il weird nel binomio romantico di amore e morte, nella descrizione allucinata degli orrori della tomba e delle cripte, attraverso i volti biancastri e mollicci di individui dalla consistenza corporea simile a quella dei vermi che masticano i cadaveri, il desiderio di potere oppure, ancora, esperimenti scientifici prossimi ai sogni degli alchimisti più che ai risultati della scienza moderna. Invenzioni letterarie e artifici narrativi adeguati a mantenere lo sguardo e l’attenzione del lettore incollato alle pagine da cui questi “strani” avvenimenti scaturiscono.

Raggiunta, in questo modo, la popolarità, negli anni successivi Chambers continuò a produrre romanzi e raccolte di racconti che, toccando soprattutto i temi dell’amore romantico, spesso inserito in romanzi di carattere storico ambientati durante la guerra franco-prussiana, quella di secessione americana oppure all’epoca dei pirati e della guerra di indipendenza nei confronti dell’impero britannico, raramente tornarono ad occuparsi del mistero o di temi ricongiungibili al genere weird e quasi mai tornarono a sfiorare l’eleganza delle descrizioni e la tensione raggiunte nel Re in Giallo.

Nella lunga esperienza di scrittore successiva al Re, come afferma Christophe Thill nella sua prefazione al testo, Chambers diede prova di un perbenismo che avrebbe sempre caratterizzato le sue opere, raggiungendo vertici impensabili di insipidità, moralismo puritano, viscerale timore per ogni forma di cambiamento dell’ordine tradizionale dato e, in particolare, di autentica avversione nei confronti di qualsiasi movimento rivoluzionario. Sia che si trattasse della Comune di Parigi, che affrontò nel romanzo The Red Republic già nel 1895, o dei sindacalisti, socialisti, comunisti e anarchici americani o bolscevichi come fece in The Crimson Tide, pubblicato nel 1919 sulla rivista «Cosmopolitan», oppure ancora nel romanzo The Slayer of Souls, del 1920, in cui i rivoluzionari non sono altro che gli ultimi e odiosi discendenti di una setta satanica di origine orientale che affondava la proprie radici in tempi immemori. Probabilmente pre-umani.

Tema quest’ultimo di cui è possibile ritrovare anche traccia nell’opera di Lovecraft, in particolare nel racconto The Horror at Red Hook, e comunque riconducibile a quella Red Scare che attanagliò gli Stati Uniti a partire dalla rivoluzione bolscevica e dalla fine della prima guerra mondiale fino alla metà degli anni Venti. Grande paura dei “rossi”, di cui furono vittime esemplari gli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, durante la quale le classi medio-alte americane unirono l’odio per la lotta di classe al timore per l’invasione aliena degli immigrati (soprattutto italiani). Eppure, eppure…

Nel testo ora ripubblicato da L’Ippocampo, l’autore sembra travalicare, a tratti, le proprie convinzioni, e anche se non è possibile separare il successo dell’opera da un’epoca, quella della fine del XIX secolo, in cui la moda per la cultura francese e la letteratura decadente alimentò sia il rifiuto del materialismo che della scienza che lo aveva prodotto, sia il rifiuto del viver borghese che assunse a tratti caratteristiche assolutamente antagonistiche, anche se spesso inconsapevoli, come nelle opere di Oscar Wilde oppure di Bram Stoker e Charles Baudelaire. Appare allora evidente, agli occhi di chi si trova a rileggerlo oggi, che tra le sue righe sono nascoste immagini destinate a rimanere a lungo nella mente di chi le scorre, drammaticamente anticipatrici di tematiche che avrebbero accompagnato a lungo l’immaginario americano, non soltanto letterario e gotico.

Perché non è soltanto l’allucinata poesia posta in apertura a fornire la cifra della dimensione onirica della narrazione, poi ripresa e ampliata da scrittori successivi quali Howard P. Lovecraft, August Derleth, Abraham Merritt, Clark Ashton Smith e infiniti altri fino a Michael Moorcock negli anni Settanta del XX secolo.

Le nuvole si infrangono come onde lungo la costa,
I Soli gemelli affondano nel lago
Mentre le ombre si allungano
A Carcosa.

Strana è la notte dove si levano stelle nere,
E lune mai viste solcano i cieli
Ma ancora più misteriosa
è la perduta Carcosa.

Le Iadi canteranno canzoni,
Dove si agitano al vento i cenci del Re
Ma qui moriranno inascoltate
Mentre Carcosa si spegne.

Canto dell’anima mia, la mia voce è morta;
Muori anche tu, silenzioso, come lacrime mai piante
Destinate a seccarsi e perire
Nella perduta Carcosa.

Da La canzone di Cassilda in Il Re in Giallo, Atto I, Scena 2.

Non è soltanto il richiamo ad Ambrose Bierce, che già nel dicembre del 1886 aveva pubblicato sul «San Francisco Newsletter» un allucinato racconto dal titolo Un cittadino di Carcosa, ripubblicato nell’attuale edizione del Re in Giallo. Carcosa, il cui nome Thill fa risalire ad una sorta di storpiatura nella pronuncia americana del nome della città francese di Carcassonne, dalle imponenti mura medievali conservatesi fino ad oggi, e che può inserirsi bene nella moda decadente e francesizzante della fine del XIX secolo, di cui nei dieci racconti che compongono l’opera restano abbondanti resoconti mediati dalle memorie parigine dello stesso Chambers.

E non è soltanto l’invenzione di un’opera maledetta (Il Re in Giallo, appunto) destinata a rovinare la vita e la mente di chiunque ne entri in possesso o le legga, che rinvia immediatamente al Necronomicon dell‘arabo pazzo Abdul Alhazred ideato successivamente da Lovecraft oppure al De Vermis Mysteriis iinventato da Robert Bloch e, ancora una volta ripreso, dallo scrittore originario di Providence che, comunque, nel corso della sua opera avrebbe citato più volte il romanzo di Chambers. Non soltanto nel suo saggio sulla letteratura del soprannaturale, ma anche nel corso stesso dei suoi romanzi e racconti.

No, non è soltanto tutto questo, perché vi è nelle pagine di alcuni racconti contenuti nel libro l’avvento di quel misto di fantastico e fantascientifico, di cui Lovecraft nel giudizio di Sunand Tryambak Joshi, massimo esperto della vita e delle opere del solitario di Providence, sarebbe stato poi maestro e decisivo fondatore, che avrebbe caratterizzato la migliore letteratura weird del secolo appena trascorso.

Ma si ritrova anche, in tanti dei dieci racconti, quella presenza incancellabile della Morte come destino, sia dei singoli che degli imperi e delle società, che a partire da una concezione puritana e colpevolizzante della Vita e della Storia ha segnato pesantemente la letteratura americana da Poe, Melville e Hawthorne fino a Lovecraft, Hemimgway, Twain e McCarthy.

Senso della morte che si trova fin dalle prime pagine del primo dei racconti, Il Riparatore di Reputazioni (uno dei migliori a giudizio di chi scrive), ambientato in un’America del 1920 in cui è appena terminato un conflitto di carattere imperialistico con la Germania e in cui, come forma di società utopistica, è stata appena inaugurata una sorta di Casa della Morte, in cui i cittadini infelici possono chiedere di ricevere la stessa come ultimo premio e definitiva consolazione.

Un immaginario in cui i temi della follia, della perversione, della morte e dell’arte “maledetta”, tipici della migliore tradizione decadente, si intrecciano con i temi di un imperialismo già in nuce e proiettato su scala mondiale, anche se la vera prima guerra “mondiale” degli Stati Uniti e delle loro forze armate, in questo racconto presenti come in pochi altri della raccolta, quella con la Spagna per il controllo di Cuba e del Pacifico attraverso le Filippine sarebbe venuta soltanto tre anni dopo la sua pubblicazione, nel 1898.

Un libro di presagi, dunque, che vanno ben al di là di quanto, ancora una volta, l’autore avrebbe mai potuto immaginare, dimostrando così che la letteratura e l’immaginario fantastico, spesso, possono rivelarsi superiori, nel definire la realtà che ci attende, al “realismo” più trito e scontato. Ma la modernità del Re in Giallo sta anche nell’intrecciarsi dei racconti, in cui gli eventi e i personaggi non si richiamano soltanto attraverso la citazione dell’opera maledetta, ma per mezzo di un rimescolio di nomi, luoghi e rimandi che sarà il lettore a dover riconoscere e individuare.

Con quest’opera, insieme a Il grande dio Pan di Arthur Machen, sempre accompagnato dalle splendide illustrazioni di Samuel Araya, ispirate soprattutto all’opera del tedesco Arnold Böchlin (1827-1901), l’editore milanese ha iniziato la ripubblicazione di alcuni classici del decadentismo fantastico nella collana Collector; operazione encomiabile sia per il valore letterario delle scelte operate che per l’eleganza della veste grafica, cui non resta che augurare il successo di pubblico e critica.

Non prendiamoci gioco dei folli;
La loro pazzia dura più della nostra…
La differenza è tutta qui.

(Francais Adolphe d’Houdetot)

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Il marxismo secondo Bloch, una mappa del mondo che contiene il paese Utopia https://www.carmillaonline.com/2022/12/31/il-marxismo-secondo-bloch-una-mappa-del-mondo-che-contiene-il-paese-utopia/ Sat, 31 Dec 2022 04:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75132 di Fabio Ciabatti

Ernst Bloch, Speranza e Utopia. Conversazioni 1964-1975, Mimesis, Milano 2022, pp. 142, € 15,81

“Rompere l’assedio, tentare il futuro” è uno degli slogan scelti dal collettivo di fabbrica della GKN, impegnato nel difficile tentativo di salvare 300 posti di lavoro riconvertendo il sito produttivo in uno stabilimento “pubblico e socialmente integrato”. “Quanto stiamo tentando – sostengono i lavoratori della fabbrica fiorentina – è completamente nuovo e al contempo affonda pienamente le radici nella storia di questo nostro territorio”. L’accostamento potrebbe apparire eccessivo, ma in queste parole sembra di ascoltare la lontana eco del “principio speranza” di Ernst Bloch. Per [...]]]> di Fabio Ciabatti

Ernst Bloch, Speranza e Utopia. Conversazioni 1964-1975, Mimesis, Milano 2022, pp. 142, € 15,81

“Rompere l’assedio, tentare il futuro” è uno degli slogan scelti dal collettivo di fabbrica della GKN, impegnato nel difficile tentativo di salvare 300 posti di lavoro riconvertendo il sito produttivo in uno stabilimento “pubblico e socialmente integrato”. “Quanto stiamo tentando – sostengono i lavoratori della fabbrica fiorentina – è completamente nuovo e al contempo affonda pienamente le radici nella storia di questo nostro territorio”. L’accostamento potrebbe apparire eccessivo, ma in queste parole sembra di ascoltare la lontana eco del “principio speranza” di Ernst Bloch. Per il filosofo tedesco, infatti, il futuro autentico, l’avvenire propriamente utopico, è ciò che non è accaduto mai e in alcun luogo. Allo stesso tempo, “non tutto ciò che è scomparso è ciarpame, perché c’è del futuro nel passato, qualcosa che non è stato liquidato, che ci è dato in eredità”.1
Bisogna fare attenzione, però, perché in questa duplicità si apre anche lo sciagurato spazio per un futuro inautentico, quello rappresentato, per esempio, dalla traboccante retorica del “Führer che ci conduce a nuove imprese”; quello che si spaccia per un nuovo inizio ma risale fino alla notte dei tempi per riscoprire una patria concepita come “sangue e suolo”.  In realtà, la vera patria è un luogo dove nessuno è mai stato, ma che dobbiamo cercare di raggiungere, ammesso che si intenda la categoria di Heimat nella sua vecchia accezione filosofica e mistica: “essere a casa”, trovarsi finalmente in un posto in cui cessa l’alienazione e gli oggetti non sono più estranei, ma prossimi al soggetto. Riappropriarsi del “futuro nel passato” non significa, come per i nazisti, resuscitare una tradizione ancestrale per riutilizzarla bella e pronta, come fosse un antico cimelio recuperato dal mondo dei morti. Significa, piuttosto, cercare dare compimento al canto della guerra dei contadini tedeschi del 500, citato da Bloch: “Battuti torniamo a casa, i nostri nipoti combatteranno meglio”. Questo è il passato che ancora  ci interpella perché ci assegna il compito di portare a compimento ciò che si è manifestato come possibilità nei tempi che furono senza poter giungere a realizzazione. Nulla c’è nella storia di cui possiamo riappropriarci realmente, se la ripresa non è contemporaneamente un’anticipazione sul nostro futuro.

Sono questi alcuni fili che si dipanano dalla lettura di Speranza e utopia, testo che raccoglie le conversazioni intrattenute da Ernst Bloch tra il 1964 e il 1975, gli ultimi dieci anni della sua vita, con vecchi amici, come Lukács e Adorno, e altri intellettuali. Da questo libro, nota il traduttore Eliano Zigiotto nel breve saggio che chiude il volume, “emergono, esposti in modo colloquiale e diretto, a tratti perfino didascalico, i temi principali del pensiero blochiano, che disegnano anche per l’oggi una topografia del pensiero non arreso”.2 Un pensiero ancora utile per tutti coloro che non vogliono unirsi all’ampia schiera dei corifei dello status quo, felici di celebrare ad abundantiam “i funerali dell’utopia”. Ciò non significa, secondo Bloch, abbandonarsi a vuote fantasticherie perché la speranza è il contrario dell’ottimismo ingenuo. “La speranza può essere delusa perché non è fiducia, ma è circondata dal pericolo e da ciò che può anche essere diverso”.3 Non a caso, “Il coraggio di sperare e di disperare” è il titolo del sintetico testo di Laura Boella che precede quello di Zigiotto. In queste poche parole l’autrice esprime un punto fondamentale del pensiero di Bloch il quale afferma:

Io ho cercato – per esempio nel Principio speranza – di esaminare la cenerentola della logica, la possibilità, e di comprenderla come un’eccedenza molto, molto più grande dell’esistente, perché lo abbraccia tanto per il peggio quanto per il meglio, tanto nel segno della sventura, del nulla, dell’invano, della rovina, quanto nel segno del tutto, del buon esito e della luce.4

Per Bloch, in ogni caso, si tratta di fondare la speranza, l’utopia concreta, attraverso il concetto di “possibile oggettivo-reale”. Entra dunque in gioco la “categoria del non-ancora, che si dà in due forme, soggettiva e oggettiva: come non-ancora conscio e non-ancora divenuto. La prima è interiore, la seconda esteriore”.5
Entrambe sono forme del nuovo, del futuro autentico. Partendo dal punto soggettivo, il non-ancora-conscio è una categoria assai diversa dal non-più-conscio, cioè dal rimosso e dall’inconscio di Freud e, a maggior ragione, da quello di Jung con i suoi archetipi dell’era diluviana. Si tratta del “crepuscolo che guarda avanti, ciò che cova nella giovinezza. È l’aria che circola nei tempi di svolta – Rinascimento, Sturm und Drang, 1848, 1917 – quando sta per nascere qualcosa di nuovo”.6 Il non-ancora-conscio non si manifesta prioritariamente nei sogni notturni, regno del rimosso, ma si esprime più facilmente nei sogni ad occhi aperti, sebbene questi abbiano spesso carattere privato, individuale. Dal punto di vista oggettivo occorre analizzare il reale nella sua dinamica, andando oltre il mero dato di fatto che, positivisticamente, trova appagamento in ciò che è, nell’esser-fattuale, innalzato a giudice di ogni pensiero e a criterio del vero. “Tendenza, latenza, processo … sono concetti arci-materialisti che hanno la loro origine in Aristotele, il primo pensatore del processo di sviluppo”.7

E proprio attraverso il filosofo greco, Bloch tenta una delle sue operazioni concettuali più ardite: “tracciare un arco tra il concetto di utopia … e la sostanza dell’accadere, ossia la materia”.8 In particolare, secondo la terza definizione di Aristotele della materia, essa costituisce

il grembo di ogni possibilità in generale, il dynámei ón, l’essere-in-possibilità. La materia stessa è incompiuta ed è pertanto protesa in avanti, aperta, ha dinnanzi a sé un imprevedibile percorso che coinvolge gli esseri umani: è la sostanza del mondo. Il mondo è un esperimento, che la materia, attraverso di noi, mette in atto con sé stessa.9

Con questo tentativo di fondazione materialistica della speranza Bloch sembra quasi rispondere indirettamente alle osservazioni di Horkheimer che criticava Benjamin, in una lettera a lui indirizzata, tacciando di idealismo la sua concezione della storia come “non-compiuta”. Una concezione che ha significativi punti di contatto con quella di Bloch. “Se si prende del tutto sul serio l’incompiutezza – scriveva l’esponente della Scuola di Francoforte nel 1936 – bisogna credere al giudizio universale”.10 Altre analogie tra Bloch e Benjamin si potrebbero rilevare, ma qui ci limitiamo a indicare ciò che probabilmente li separa: l’importanza attribuita all’idea di futuro. L’odio di classe e la volontà di sacrificio, sostiene Benjamin, “si alimentano all’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati”.11 L’angelo della storia ha lo sguardo  rivolto all’indietro perché cerca di allontanarsi dal cumulo di rovine prodotte da ciò che viene chiamato progresso. Per Bloch, invece, occorre porre maggiormente l’accento sul “verso-dove” sul “a-che-scopo”, ciò che gli utopisti hanno provato a fare. Non si tratta di sacrificare i fini prossimi per i fini lontani, ma di riscoprire la presenza dei fini lontani.

Ciò non significa presentare un’immagine di futuro “dipinta alla perfezione” perché ogni volta che lo facciamo “l’utopia si allenta”. Anche un semplice “acconto dell’utopia”, come può essere la sua rappresentazione in un libro, significa darla in qualche modo per raggiunta e ciò non può che portare all’inganno, alla reificazione di ciò che deve essere concepito soltanto come una tendenza. L’utopia, nella sua funzione critica, deve continuamente rimandare a un “non-dover-essere”, a un’insufficienza del reale,  piuttosto che a un essere perfettamente realizzato.
Rimane il fatto che, secondo Bloch, il progresso del socialismo dall’utopia alla scienza di engelsiana memoria è stato forse troppo grande con la conseguenza che il socialismo stesso ha perduto il suo sfondo morale e la sua capacità di catturare la fantasia delle persone.  

La rivoluzione è di per sé morale, a partire dalla spinta che le sta alla base, e non è economica, ma morale: non tollerare più che ci siano due specie di uomini, il servo e il padrone. L’esistenza del servo e del padrone può essere definita esattamente in termini economici, ma con questo non ho ancora cavato un ragno dal buco. Che ciò non debba e non possa essere, che non se ne possa più – ecco il fuoco che accende la rivoluzione.12

Parlare di morale, di fantasia non significa, per il filosofo tedesco, sottovalutare “la grande missione illuministica” del marxismo, quella di far “cadere la benda dagli occhi”. Parlando del ruolo scientifico del marxismo, Bloch ne descrive così gli effetti:

Al posto delle parolone generiche, invece del fumoso idealismo, subentrava la spiegazione materiale a cui si aggiungeva la strana sensazione di scoprire un crimine; quasi che un detective scoprisse il funzionamento, l’ingranaggio entro cui la società si muove con la lotta di classe, con l’oppressione di una classe sull’altra fin dal tempo dell’economia agricola, quindi da molti, forse centinaia di migliaia di anni.13

Ben venga dunque il disincanto legato alla demistificazione della sovrastruttura e, per certi versi, anche il suo essere ridotta a un “niet’altro che”, vale a dire a un’espressione di interessi di classe. Ma con questo il compito del marxismo non è concluso perché il suo vero obiettivo è il salto dal regno della necessità al regno della libertà.

Il sobrio sguardo sul mondo non consente alcun inganno ed è interamente al servizio dell’interesse degli sfruttati e degli oppressi, degli umiliati e offesi, contro quello dell’esiguo ceto padronale. La corrente fredda marxista è questo. Sulla sua scia, però, spesso, troppo spesso è stata ingiustificatamente trascurata la corrente calda del marxismo che si volge alla luce che deve sorgere al cadere dell’inganno.14

La polemica marxiana contro l’utopismo astratto, secondo Bloch, fu probabilmente una medicina necessaria per curare l’intellettualismo dei vari Owen, Fourier, Saint-Simon e per sconfiggere la loro illusione che si dovesse fare appello solo alla coscienza dei ricchi perché cominciassero a segare il ramo sul quale erano seduti. L’astrattezza non esaurisce però l’utopia sociale perché essa contiene un’eccedenza che ancora ci interpella: l’idea della “costruzione di uno Stato in cui non ci siano sfruttati e oppressi”.15 Così come ci riguarda ancora l’altra componente utopica, da sempre colpevolmente trascurata dal marxismo, quella derivante dal diritto naturale che ci parla della “costruzione di uno Stato in cui non ci siano umiliati e offesi”.16 Senza dimenticare neanche la religione che è sempre stata “la più forte esplosione di speranza” perché in  in essa “hanno trovato posto sogni, tempi e spazi del desiderio”.17 Bisogna però precisare che quella di Bloch è una religione “de-teologizzata”, “senza dio”. Solo attraverso un’opera di demistificazione che non si risolva in un cinico disincanto, possiamo distinguere i miti reazionari al servizio dei signori da quelli che sovversivi che stanno dalla parte degli sfruttati e degli umiliati recuperando “tutto ciò che nel mito alza il pugno chiuso del servo”.18

In conclusione,

I fatti possono essere criticati solo a partire dai contenuti della speranza fondata, cioè dalla speranza guidata dal sapere della tendenza, che permette di rettificarla. È impossibile criticare qualcosa dal di fuori, perché da fuori c’è solo imprecazione o quel che si sapeva già prima, a priori.19

Allo stesso tempo,

ogni critica dell’imperfezione, di ciò che è incompiuto, inaccettabile, intollerabile, presuppone la rappresentazione e l’anelito di una perfezione possibile. L’imperfezione non sussisterebbe se nel processo non ci fosse qualcosa che non deve essere, se non s’intravedesse in qualche modo la perfezione, e precisamente come momento critico.20

In estrema sintesi, per agire abbiamo bisogno di una mappa che ci dica con la maggiore precisione possibile dove siamo e dove stiamo andando. Ma, come sostiene Bloch citando Oscar Wilde, “Una carta del mondo non merita neppure uno sguardo, se non riporta il paese di Utopia”.

 


  1. E. Bloch, “Il marxismo come morale”, in Id., Speranza e Utopia, Mimesis, Milano 2022, p. 97. 

  2. E. Zigiotto, “Echi del pensiero blochiano”, in E. Bloch, Speranza e Utopia, cit., p. 136. 

  3. E. Bloch, “Speranza in lutto, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 15. 

  4. E. Bloch, “Utopie dell’uomo comune e altri sogni a occhi aperti”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 36. 

  5. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 11. 

  6. Ibidem. 

  7. E. Bloch, “Ereditare la decadenza”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 27. 

  8. E. Bloch, “La funzione utopica nel materialismo”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 122. 

  9. Ivi, p. 124. 

  10. Cit. in M. Löwy, Segnalatore di incendio, Ombre Corte, Verona 2022, pp. 49-50. 

  11. W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 43. 

  12. E. Bloch, “Il marxismo come morale”, cit., p. 102. 

  13. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 13. 

  14. E. Bloch, “La funzione utopica nel materialismo”, cit., p. 126. 

  15. E. Bloch, “Qualcosa manca … sulle contraddizioni dell’anelito utopico”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 50 

  16. Ibidem. 

  17. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 16. 

  18. E. Bloch, “Il significato della Bibbia”, in Id., Speranza e Utopia, cit., pp. 83-84. 

  19. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 15. 

  20. E. Bloch, “Qualcosa manca… sulle contraddizioni dell’anelito utopico”, cit., p. 56. 

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Wilde, la virtù dell’irriverenza https://www.carmillaonline.com/2022/08/12/wilde-la-virtu-dellirriverenza/ Fri, 12 Aug 2022 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73174 di David Goodway

Oscar Wilde, La virtù dell’irriverenza, a cura di David Goodway, traduzione di Elena Cantoni (elèutera 2022)

[Noto soprattutto per i suoi romanzi e le sue commedie, oltre che per la sua dichiarata omosessualità che gli è costata la prigione  e l’ostracismo sociale, Oscar Wilde ha dato prova anche di scritti politici radicali di stampo anarchico, come lui stesso ebbe modo di dichiarasi. La sua opera è pervasa da una spinta libertaria del tutto contrapposta alla morale vittoriana che ama mettere alla berlina. Accanto al Wilde dandy e decadente esiste un [...]]]> di David Goodway

Oscar Wilde, La virtù dell’irriverenza, a cura di David Goodway, traduzione di Elena Cantoni (elèutera 2022)

[Noto soprattutto per i suoi romanzi e le sue commedie, oltre che per la sua dichiarata omosessualità che gli è costata la prigione  e l’ostracismo sociale, Oscar Wilde ha dato prova anche di scritti politici radicali di stampo anarchico, come lui stesso ebbe modo di dichiarasi. La sua opera è pervasa da una spinta libertaria del tutto contrapposta alla morale vittoriana che ama mettere alla berlina. Accanto al Wilde dandy e decadente esiste un Wilde politicamente consapevole, acuto osservatore dell’animo umano e delle ingiustizie del suo tempo. Ringraziando le edizioni elèutera per la gentile concessione, di seguito si riporta l’introduzione al volume di David Goodway – ght]

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Cinquanta o sessanta anni fa, la reputazione di Oscar Wilde in Inghilterra poggiava perlopiù sui suoi folgoranti aforismi, il suo dandysmo, le sue commedie brillanti. Da allora, la nascita e la diffusione del movimento per i diritti lgbt in Europa occidentale e Nord America hanno portato – soprattutto in riferimento alla brutale condanna a due anni di lavori forzati – alla sua canonizzazione come «icona» gay, uno sviluppo in realtà contestuale al suo riconoscimento come grande autore tout court. Questo secondo processo iniziò nel 1962 con la pubblicazione delle sue lettere in un’edizione magistralmente curata da Rupert Hart-Davis, che non soltanto incluse per la prima volta il testo completo di uno dei suoi capolavori, il De Profundis, ma che al contempo lo rivelò come quel superbo epistolarista che era; proseguì poi con la raccolta di saggi curata da Richard Ellmann, uscita con il titolo The Artist as Critic [Il critico come artista] nel 1969 negli Stati Uniti (e un anno dopo in Gran Bretagna); e infine culminò nel 1987 con la magnifica biografia critica di Ellmann (particolarmente rilevante posto che i due soggetti precedenti del biografo erano stati W.B. Yeats e James Joyce, e che il suo James Joyce, in particolare, è considerato uno dei massimi esempi contemporanei del genere «biografia letteraria»). Così l’anniversario della morte di Wilde, nel 2000, fu in parte contrassegnato dall’avvio di un’edizione in nove volumi della sua opera omnia, The Complete Works of Oscar Wilde, all’interno degli Oxford English Texts: un chiaro segno della piena, seppur tardiva, accettazione della sua produzione da parte dell’establishment accademico. Nel ventennio intercorso da allora, due specifiche aree, quella gay e quella accademica, hanno prodotto in parallelo e a ritmi sempre più frenetici pubblicazioni su Wilde, spesso segnate da un’ineleganza verbale e da una tortuosità di pensiero in diretto contrasto con la lucidità aforistica di Wilde stesso.

In questa gara alla riscoperta brilla per la sua assenza un dibattito informato sull’approccio politico che gli era propria (tranne che in materia sessuale). Una dimenticanza curiosa, se si pensa che uno degli scritti più noti e letti di Wilde è proprio un saggio politico: The Soul of Man Under Socialism [L’anima umana nel socialismo, infra p. 75]. La sua difesa sia del socialismo sia dell’individualismo è stata genericamente intesa come un tipico esempio dei suoi paradossi, e abbondano i fraintendimenti del sostanziale anarchismo della sua argomentazione e della sua posizione. La sovraccoperta dell’edizione americana di The Artist as Critic, curata da Ellmann, per esempio presenta il saggio, incluso nella raccolta, come un’argomentazione «a sostegno di una riforma sociale», quando di fatto Wilde contesta il riformismo senza mezzi termini: «[I] loro rimedi non guariscono la malattia: ottengono solo di prolungarla. Anzi, i rimedi stessi sono parte della malattia. […] Il vero obiettivo dovrebbe essere quello di ricostruire da capo la società, su basi che rendano impossibile la povertà» [corsivo di Wilde]. Un altro esempio. In un’edizione economica dei suoi scritti, un’accademica inglese, autrice di un libro su Wilde, si sente autorizzata a concludere la presentazione di L’anima umana nel socialismo come segue: «Il socialismo che emerge da queste pagine è altamente idiosincratico […] impossibile da allineare con qualsiasi politica di partito»1.

Questo stato di cose sorprende ulteriormente se si considera che fin dall’inizio gli anarchici riconobbero – e anzi acclamarono – L’anima umana nel socialismo come un’importante manifesto anarchico. Kropotkin lo indicava come «quell’articolo di O. Wilde sull’anarchismo»2. Nel 1949, l’anarchico George Woodcock pubblicò un libro illuminante su Wilde, ne discusse la politica nella sua fondamentale storia dell’anarchismo del 1962, e infine incluse un estratto di L’anima umana nel socialismo nella sua celebre antologia di scritti anarchici del 19773. Nel suo monumentale Demanding the Impossible, degno successore del notevole Anarchism [L’Anarchia] di Woodcock, Peter Marshall dedica parecchie pagine a Wilde come «libertario inglese», affermando che «il suo socialismo libertario è la più attraente tra tutte le varianti di anarchismo e socialismo»4. Tempo fa Marshall mi disse che a determinare la sua presa di posizione anarchica erano state la rivolta parigina del Maggio ’68 e la lettura di due testi: il pamphlet About Anarchism di Nicolas Walter (1969) e il saggio L’anima umana nel socialismo5. Nel 1967, Masolino D’Amico concludeva senza esitazioni (nella rivista italiana «English Miscellany», malauguratamente poco nota nel mondo anglofono) che Wilde era «anarchico, non socialista»; e Owen Dudley Edwards, nella sua ponderata voce del 2004 per l’Oxford Dictionary of National Biography, definisce L’anima umana nel socialismo come «verosimilmente la più memorabile e senz’altro la più estetica esposizione di teoria anarchica in lingua inglese»6. Anche le tesi di dottorato di due brillanti studenti di Oxford, Sos Eltis e Paul Gibbard, identificano Wilde come anarchico, illustrandone la posizione politica con notevole acume7. La speranza è che gli studi di Eltis e di Gibbard, insieme al saggio su Wilde presente nel mio Anarchist Seeds Beneath the Snow (su cui si basa questa introduzione), saggio che indaga ancora più a fondo delle due tesi citate la specifica questione, possano con il tempo percolare nella coscienza accademica e diffondersi ben al di là di questa – anche se per ora non si vedono indizi in tal senso8.

Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde nacque nel 1854 a Dublino da genitori protestanti, ereditando, come lui stesso avrebbe sottolineato nel 1897, «da mio padre e da mia madre un nome di alta distinzione in letteratura e arte»9. William Wilde era un chirurgo oftalmico e auricolare di fama internazionale – fu insignito del titolo di baronetto nel 1864 – oltre che un pioniere nei campi dell’archeologia e degli studi folklorici. Jane Wilde (Elgee da nubile), irredentista irlandese come il marito, vantava una personalità ancora più spiccata e un’eccentricità di abbigliamento e comportamenti degna del figlio. Con lo pseudonimo di «Speranza» collaborava, pubblicando poesie oltre che articoli politici, con la testata «Nation», organo di stampa della Young Ireland [Giovane Irlanda], tanto che era intervenuta in aula al processo a carico di Charles Gavan Duffy, nel 1848; inoltre traduceva dal francese e dal tedesco. Entrambi i figli dei Wilde studiarono in convitto alla Portora Royal School, da dove passarono al Trinity College di Dublino. Dopo i brillanti risultati dei tre anni al Trinity, Oscar ottenne una borsa di studio per il Magdalen College di Oxford, dove trascorse i quattro anni successivi di nuovo immerso nello studio dei classici, accumulando trionfi, compresa una doppia laurea summa cum laude, e coronando la carriera accademica con l’assegnazione, nel 1878, dell’ambito premio di poesia Newdigate per Ravenna, che sarebbe diventata la sua prima pubblicazione indipendente.

Tra i docenti di Oxford negli anni Settanta dell’Ottocento due in particolare esercitarono un’influenza decisiva sulla sua formazione intellettuale. Entrambi furono progenitori del movimento dell’estetismo, per quanto abitassero universi morali molto diversi. Walter Pater, fellow del Brasenose College, omosessuale e trentacinquenne nel 1874, aveva pubblicato un anno prima i suoi Studies in the History of the Renaissance [Il Rinascimento], la cui Conclusione, che si dice Wilde conoscesse a memoria, venne omessa dalla ristampa, uscita quattro anni dopo, per timore che potesse «sviare alcuni di quei giovani nelle cui mani sarebbe potuta finire». Per Pater, «non è il frutto dell’esperienza, ma l’esperienza stessa a essere il fine», e una vita pienamente realizzata consiste «nell’arder perenne di questa fiamma gemmea, nel mantener perenne quest’estasi». Quello che esaltava era «la passione poetica, il desiderio della bellezza, l’amore dell’arte per l’arte». Wilde chiamava il Rinascimento di Pater «il mio libro aureo», e più tardi, scrivendo dal carcere, lo indicò come «quel libro che ha esercitato un così peculiare ascendente sulla mia vita». Solo al suo terzo anno a Oxford ebbe la possibilità di conoscere di persona Pater – che per parte sua non incontrò mai il secondo faro di Wilde: John Ruskin. Primo Slade Professor of Fine Art, e maggiore di ventun anni rispetto a Pater, Ruskin illustrò e celebrò a fondo l’opera d’arte, ma per lui erano l’etica e la natura ad avere la precedenza: solo gli uomini buoni possono produrre buona arte, e solo attenendosi alla verità della natura. Wilde frequentò il corso di Ruskin sulle Scuole estetiche e matematiche di Firenze già nel suo primo trimestre e aderì di slancio alla sua proposta di partecipare alla costruzione della strada di Ferry Hinksey, entrando così a far parte della cerchia più ristretta dei suoi studenti; nel 1888 gli avrebbe scritto che «il ricordo più caro dei miei giorni a Oxford è quello delle nostre passeggiate e conversazioni»10.

Dunque l’estetismo di Wilde si può far risalire al periodo oxfordiano. Poi, posto di fronte alla necessità di guadagnarsi da vivere (alla morte di sir William, nel 1876, gli era stata riconosciuta una rendita di appena 200 sterline l’anno), Wilde si trasferì a Londra, promuovendosi ostinatamente come «esteta». Il ciclo di conferenze tenuto nel corso del 1882 in Nord America, sempre ostentando le sue appariscenti tenute da «dandy», si rivelò estremamente redditizio – la sua parte di introiti ammontò a ben 5.600 sterline – e fu seguito da altri cicli tenuti nelle province inglesi e irlandesi, in vari periodi del biennio 1883-1885. Come appare evidente fin dai titoli delle conferenze – English Renaissance in Art; The House Beautiful; The Decorative Arts; Dress e The Value of Art in Modern Art – Wilde esponeva non soltanto le idee di Pater e dell’estetismo propriamente detto, ma anche quelle di Ruskin, di William Morris e del movimento Arts and Crafts. In effetti Morris fu un’altra figura di grande rilievo nella sua vita. Si erano conosciuti già nel 1881, un incontro che Morris commentò come segue: «Così come il diavolo viene sempre dipinto a tinte più fosche del dovuto, lo stesso vale anche per O.W. È un insolente, non dico di no; ma è un insolente geniale»11.

La costante ammirazione e il debito di riconoscenza nei confronti di Ruskin (che nel 1882 fu entusiasta di sapere da lady Wilde che «Oscar è ancora il più devoto dei miei discepoli»12 ). spiega almeno in parte la velenosa animosità sviluppata tra Wilde e James Abbott McNeill Whistler. A sua volta un dandy di brillante arguzia, quest’ultimo a un certo punto si indispettì con il giovane sodale per il suo atteggiamento durante la causa per diffamazione da lui intentata contro Ruskin nel 1878, causa che, pur vinta in tribunale, venne vanificata da un risarcimento intenzionalmente irrisorio, lasciandolo sul lastrico. Wilde infatti, a dispetto dell’ammirazione per i quadri e le incisioni di Whistler, continuava ad aderire in larga parte ai criteri estetici stabiliti da Ruskin. Nel 1885 recensì per la «Pall Mall Gazette» la conferenza tenuta da Whistler alla Queen’s Hall, passata alla storia con il titolo Ten O’Clock, in cui l’artista americano affermava:

Che la natura abbia sempre ragione è un’affermazione tanto falsa, in termini artistici, quanto può esserlo ogni affermazione la cui verità sia universalmente data per scontata. La natura ha poche volte ragione, talmente poche si potrebbe dire che ha quasi sempre torto. Ovvero: le condizioni che danno luogo alla perfetta armonia, consona a un quadro, sono infrequenti e nient’affatto comuni. Ciò sembrerà una teoria blasfema persino ai più intelligenti. Questo presunto assioma è a tal punto radicato nella nostra educazione, che credervi è parte della nostra morale; le sue parole suonano sacre al nostro orecchio. Eppure, di rado la natura riesce a produrre un dipinto [Alle dieci di sera, trad. di Paolo Martone, Castelvecchi, Roma, 2014, p. 17].

Nell’articolo pubblicato l’indomani Wilde trascurò questo passaggio chiave, limitandosi a citare in modo generico «l’astuta satira e le divertenti stoccate» di Whistler. Ben diversa la reazione di un grande poeta. A sua volta tra il pubblico, Stéphane Mallarmé fu, secondo il suo accompagnatore Henri de Régnier, «istantaneamente rapito dalla magia di Whistler», una fascinazione che lo indusse a tradurre il testo della conferenza nell’influente Le Ten O’Clock de M. Whistler (1888)13.

Mallarmé era il rappresentante di punta della poesia simbolista e un simpatizzante anarchico. Wilde non raggiunse una posizione di pari radicalismo artistico fino al gennaio del 1889, quando in The Decay of Lying [Osservazioni sulla decadenza della menzogna, infra p. 123] dichiarò a sua volta la supremazia dell’arte sulla natura oltre che sulla vita. Il saggio fu pubblicato nel 1891 nelle splendide Intentions [Intenzioni] insieme a Pen, Pencil and Poison [Penna, matita e veleno. Uno studio in verde, infra p. 167] e Il critico come artista, rispettivamente del 1889 e del 1890. Il testo conclusivo della raccolta, The Truth of Masks, del 1885, era fuori posto nella raccolta, tanto che Wilde stesso lo sconfessò in una postilla: «Per la verità non concordo con tutto ciò che ho scritto in quel saggio. Anzi, c’è molto da cui dissento completamente». Infatti, già nel 1891 informava il traduttore francese che il testo, poiché «je ne l’aime plus», andava sostituito con L’anima umana nel socialismo, apparso all’inizio dell’anno, «qui contient une partie de mon esthétique»14.

Inizialmente, la sua evoluzione politica fu più lenta rispetto a quella del pensiero estetico. Nel 1880 aveva scritto la sua prima commedia, Vera; or, The Nihilists [Vera o i Nichilisti], andata in scena a New York per una settimana nel 1883, ma mai rappresentata a Londra. Questo testo laborioso, in cui l’arguzia wildiana del primo ministro, il principe Paul Maraloffski, è incompatibile con il melodramma centrale, ha attirato un’attenzione sorprendentemente generosa da parte di chi si proponeva di indagare principalmente le sue idee politiche. Chiaramente ispirata ai populisti russi (o Narodniki) e a Vera Zasulič, che fu una protagonista della «propaganda del fatto» grazie all’attentato al generale Trepov del 1878, la pièce li presenta come nichilisti, un movimento puramente intellettuale degli anni Sessanta dell’Ottocento, tanto che nelle prime rappresentazioni l’azione si svolge nel 1800, malgrado nel testo si accenni all’esistenza delle ferrovie e all’emancipazione dei servi della gleba. Quanto a me, non riesco proprio a considerare Vera degna di alcuna seria attenzione.

Anche i versi a tema politico composti tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento, pubblicati in Poems (1881) sotto il titolo complessivo di Eleutheria («Libertà») e probabilmente ispirati all’esempio di sua madre, sono stati percepiti come un’anticipazione dell’anarchismo futuro. Eppure, questi scritti mediocri (per quanto di una competenza tecnica ben superiore a Vera), che comprendono Quantum Mutata, To Milton, Theoretikos e Louis Napoleon, celebrano le libertà civili, la democrazia e il repubblicanesimo a scapito dell’ultra-radicalismo delle masse. Il sonetto Libertatis Sacra Fames, pubblicato per la prima volta nel 1880, ne fornisce un buon esempio:

Sebbene nutrito di democrazia,
e preferendo quello Stato repubblicano
in cui ogni uomo è Re e nessuno
troneggia sui suoi simili, tuttavia considero,
a dispetto dell’ansia moderna di Libertà,
migliore il governo di uno solo, cui tutti obbediscano,
che permettere a roboanti demagoghi di tradire
la nostra libertà con il bacio dell’anarchia.
Pertanto non amo coloro le cui mani profane
piantano la bandiera rossa su una strada disselciata
senza motivo alcuno, e sotto il cui regno ignorante
le Arti, la Cultura, il Rispetto, l’Onore, ogni cosa scompare,
salvo il tradimento e il suo pugnale,
o l’omicidio, col suo passo silente, intriso di sangue.

«Speranza», la madre, da tipica nazionalista di classe borghese temeva i movimenti popolari e i loro possibili eccessi rivoluzionari, e agli esordi il figlio ricalcò le sue orme. E infatti il Sonnet to Liberty si chiude dando voce al dilemma di entrambi:

… eppure, eppure,
questi Cristi che muoiono sulle barricate,
sa Dio se non sono con loro, in certe cose15.

Anche tenuto conto di questi limiti, Vera e i primi tentativi poetici segnalano comunque un interesse autentico per le proteste rivoluzionarie e una ricettività alle idee radicali; e fu da questo punto di partenza che il revival del socialismo in Inghilterra spinse Wilde ancora più a sinistra. Per quanto minuscole fossero le sue organizzazioni – la Social Democratic Federation (sdf), fondata nel 1881 ma dichiaratamente socialista solo a partire dal 1883, la Fabian Society e la Socialist League, entrambe del 1884 – in quel decennio si assiste alla conversione al socialismo di alcuni degli intellettuali più capaci della generazione di Wilde, compresi R.B. Cunninghame Graham, Bernard Shaw, Sidney Webb (per Beatrice Webb si sarebbe dovuto attendere il 1890) e l’architetto W.R. Lethaby, tutti nati negli anni Cinquanta del secolo, oltre a rappresentanti della generazione precedente, come William Morris e Edward Carpenter, e di quella successiva, come C.R. Ashbee e Raymond Unwin. Un esempio sorprendente e poco noto del fenomeno è costituito da Frank Harris, futuro editore, amico e biografo di Wilde, il quale per un breve periodo sarà membro della sezione di Marylebone della sdf marxista e apprezzato oratore di comizi, prima di fare abiura e aderire ai Tory.

Nel 1883, passando dalle Tuileries incendiate dai Comunardi, le cui «mani profane» avevano piantato «la bandiera rossa sulla strada disselciata», Wilde ormai dichiarava: «Non c’è tra queste macerie annerite una pietra tanto piccola da non rappresentare per me un capitolo nella Bibbia della democrazia»16. Al tempo era già stato notato a una conferenza della Socialist League, a Kelmscott House, per «la grossa dalia purpurea» che portava all’occhiello e per «la sua figura incongrua», simile a «un cesto di frutta, matura e allettante»17. A detta di Shaw, Wilde fu l’unica personalità della Londra letteraria a firmare, dietro sua richiesta, la petizione lanciata nel 1887 dalla classe operaia internazionale per chiedere la grazia a favore degli anarchici di Chicago, condannati a morte dopo un processo-farsa. Per Shaw: «Il suo fu un gesto del tutto disinteressato, che gli garantì il mio rispetto per il resto della vita»18. Nel 1889 May Morris invitò Wilde a far parte di un comitato che intendeva promuovere un ciclo di conferenze di Kropotkin; lui declinò l’offerta, dicendosi troppo impegnato per partecipare alle riunioni, ma insistette perché il suo nome venisse usato «in qualsiasi forma riteniate utile»19. La prima volta in cui rese pubblica la sua adesione al socialismo fu nel 1889 in una recensione dell’antologia Chants of Labour. A Song-Book of the People, di Edward Carpenter, nella quale scriveva che «è per l’edificazione di una città eterna che i socialisti di oggi compongono la loro musica». Ma nell’approvare la varietà dei poeti e dei loro contributi, esprimeva già eloquentemente il proprio libertarismo:

Tutto ciò è, nel suo complesso, molto promettente. Dimostra che il socialismo non si lascerà ingabbiare da alcun credo definitivo e irrevocabile o stereotipare in formule ferree. Il socialismo accoglie nature multiple e multiformi. Non respinge nessuno e ha posto per tutti. Ha le attrattive di una magnifica personalità, è capace di conquistare il cuore di alcuni e la mente di altri, riesce a trascinare quest’uomo per il suo odio verso l’ingiustizia, quell’altro per la sua fiducia nel futuro, e magari un terzo per il suo amore dell’arte o la sua folle adorazione di un passato morto e sepolto. E tutto questo è un bene. Perché rendere socialisti gli uomini non è nulla, mentre rendere umano il socialismo è una gran cosa20.

Dei principali socialisti inglesi coevi, Wilde fu l’unico a spingersi oltre, schierandosi a favore dell’anarchismo (il sostanziale libertarismo di Carpenter era mimetizzato dalla sua visione non dottrinaria e dal suo sostegno a tutte le correnti all’interno del movimento laburista, sia rivoluzionarie sia riformiste). Come e perché arrivò a queste posizioni? Nel 1884 aveva sposato Constance Lloyd; il primo figlio, Cyril, nacque nel 1885 e il secondo, Vyvyan, nel 1886. Nel 1887 assunse la direzione di «Woman’s World», e a quel punto aveva già consapevolmente abbandonato i panni del «professore di estetica» per quelli del «dandy appesantito e datato»21. Questo periodo di cambiamenti fu contrassegnato da una svolta ancora più notevole avvenuta nel 1886, quando a trentadue anni Wilde fu sedotto dal diciassettenne Robert (Robbie) Ross (che dopo la fine della relazione sarebbe rimasto il suo amico più fedele e dopo la morte sarebbe diventato il suo esecutore testamentario).


  1. Anne Varty, Introduzione a Oscar Wilde, De Profundis, The Ballad of Reading Gaol, and Other Writings, Wordsworth, Ware, 1999, p. xx. 

  2. Lettera di Kropotkin a Robert Ross, 6 maggio 1905, in Margery Ross (ed.), Robert Ross, Friend of Friends. Letters to Robert Ross, Art Critic and Writer, Together with Extracts from His Published Articles, Cape, London, 1952, p. 113. 

  3. George Woodcock, The Paradox of Oscar Wilde, Boardman, London, 1949; ripubblicato da un’editrice anarchica con il titolo: Oscar Wilde. The Double Image, Black Rose Books, Montréal, 1989, con l’edizione di The Soul of Man Under Socialism curata da Woodcock nel 1948 in appendice; George Woodcock, Anarchism. A History of Libertarian Ideas and Movements (1962), Penguin, Harmondsworth, 2a ed., 1986, pp. 378-380 [trad. it. L’anarchia. Storie delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 396-399]; George Woodcock (ed.), The Anarchist Reader, Glasgow, 1977, pp. 72-74, 381. 

  4. Peter Marshall, Demanding the Impossible: A History of Anarchism, London, 1992, p. 180. 

  5. Ora in Peter Marshall, Bognor Boy: How I Became an Anarchist, Harper Collins, London, 2018, pp. 245-246. 

  6. Masolino D’Amico, Oscar Wilde between «Socialism» and Aestheticism, «English Miscellany», xlviii, 1967, p. 132. 

  7. Sos Eltis, Revising Wilde: Society and Subversion in the Plays of Oscar Wilde, Clarendon Press, Oxford, 1996, in particolare cap. 1, «Oscar Wilde. Anarchist, Socialist and Feminist»; Paul Gibbard, Anarchism in English and French Literature, 1885-1914. Zola, the Symbolists, Conrad, and Chesterton, tesi di dottorato, Oxford, 2001, pp. 163-175. 

  8. David Goodway, Anarchist Seeds Beneath the Snow: Left-Libertarian Thought and British Writers from William Morris to Colin Ward, Clarendon Press, Liverpool, 2006; pm Press, Oakland, 2a ed., 2012, cap. 4. 

  9. Merlin Holland e Rupert Hart-Davis (ed.), The Complete Letters of Oscar Wilde, Fourth Estate, London, 2000, p. 780. 

  10. Richard Ellmann, Oscar Wilde, London, 1987, pp. 46-50, 80-82; Tim Hilton, John Ruskin: The Later Years, Hamish Hamilton, New Haven-London, 2000, pp. 230, 263, 292-294; Richard Ellmann, The Artist as Critic: Critical Writings of Oscar Wilde, Random House, New York, 1969, pp. xi-xv, 229-230; Walter Pater, The Renaissance: Studies in Art and Poetry. The 1893 Text, a cura di Donald L. Hill, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1980, pp. 186-190, 274, 457 [trad. it. Il Rinascimento, Abscondita, Milano, 2000]; Holland e Hart-Davis, cit., pp. 349, 735. 

  11. The Collected Letters of William Morris, a cura di Norman Kelvin, Princeton University Press, Princeton, 4 voll., 1984-1996 (da qui in avanti clwm), vol. ii: 1881-1884, p. 38. 

  12. Hilton, cit., p. 439. 

  13. [James McNeill Whistler,] The Gentle Art of Making Enemies, William Heinemann, London, 1919, p. 143 [trad. it. La nobile arte di farsi dei nemici, Lubrina-leb, Bergamo, 1988]; Oscar Wilde, Mr Whistler’s Ten O’Clock, in Ellmann, Artist as Critic, cit., pp. 13-16; Robert Craft, Le Ten O’Clock de M. Whistler, «Times Literary Supplement», 23 febbraio 2001. 

  14. Oscar Wilde, Intentions, in Ellmann, Artist as Critic, cit., pp. 290n, 432; Holland e Hart-Davis, cit., p. 487; Ellmann, Wilde, cit., p. 249. 

  15. Bobby Fong e Karl Beckson (ed.), The Complete Works of Oscar Wilde, I: Poems and Poems in Prose, Oxford University Press, Oxford, 2000, pp. 148-149. 

  16. Robert H. Sherard, Oscar Wilde. The Story of an Unhappy Friendship, London, 1905, p. 35; Robert Harborough Sherard, The Real Oscar Wilde. To Be Used as a Supplement to, and in Illustration of ‘The Life of Oscar Wilde’, The Hermes Press, London, [1917], p. 36. 

  17. Fiona MacCarthy, William Morris. A Life for Our Time, Faber & Faber, London, 1994, p. 522; Peter Faulkner, William Morris, and Oscar Wilde, «Journal of the William Morris Society», xiv, n. 4, estate 2002, pp. 34, 39-40. 

  18. George Bernard Shaw, My Memories of Oscar Wilde, in Edward H. Mikhail (ed.), Oscar Wilde. Interviews and Recollections, Macmillan, London-Basingstoke, 2 voll., 1979, ii, p. 403. 

  19. Holland e Hart-Davis, cit., p. 396. 

  20. Poetical Socialists, «Pall Mall Gazette», 15 febbraio 1889, in Oscar Wilde, The Soul of Man Under Socialism and Selected Critical Prose, a cura di Linda Dowling, Penguin, Harmondsworth, 2001, pp. 18-19. 

  21. Ellen Moers, The Dandy. Brummell to Beerbohm, Secker & Warburg, London, 1960, p. 299 [trad. it. Storia inimitabile del Dandy, Odoya, Bologna, 2017]. 

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Praticare la pigrizia (con impegno) https://www.carmillaonline.com/2020/05/21/praticare-la-pigrizia-con-impegno/ Thu, 21 May 2020 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60120 di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un [...]]]> di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un libro godibile ove: passa in rassegna le modalità con cui si è guardato alla pigrizia nel corso del tempo; opera una ricostruzione semantica del termine pigrizia indagandone derivati, sinonimi e contrari in diverse lingue e culture; prende in esame detti, proverbi, fiabe e romanzi (soprattutto russi) che fanno rigerimento alla pigrizia; si sofferma sul personaggio di Oblòmov di Ivan Aleksandrovič Gončarov e su quello di Bartleby di Herman Melville; esamina la figura del pigro nei fumetti prestando particolare attenzione a Paperino di Disney e a Snoopy dei Peanuts; riflette, infine, su alcune affermazioni di Roland Barthes a proposito della pigrizia.

La pigrizia, sostiene Marrone, non è la manifestazione di un carattere individuale ma un sentimento collettivo, una forma di vita che tendenzialmente si manifesta in reazione – per opposizione o per sottrazione – a quei contesti sociali e culturali in cui il sistema di valori esalta l’operosità, il lavoro, il fare. «Poltrire è rifiutare di agire, considerare l’inazione un obiettivo esistenziale, per resistere a chi vorrebbe farci lavorare, per protestare contro ogni forma di insensato stakanovismo.» (p. 13) Lungi dal “non far nulla”; il pigro si trova a compiere ogni sforzo necessario per riuscire in questo suo intento.

Solitamente a essere contrapposto al lavoro e alle sue retoriche è l’ozio e non la pigrizia. Anche se quest’ultima non se ne allontana granché, resta comunque differente; per certi versi ne consegue e per altri lo anticipa. A seconda di come storicamente è stato concepito il lavoro è stato inteso l’ozio.

Bertrand Russell nel suo “Elogio dell’ozio” (1932) prende di mira l’etica di matrice protestante che indica nel lavoro un dovere sociale denunciando come in ciò sia sottesa  una volontà di sfruttamento e polemizza nei confronti della stessa Russia comunista rea di aver ereditato dal capitalismo occidentale l’etica dell’operosità e dello spirito di sacrificio come realizzazione di sé e non come strumento per guadagnarsi da vivere. Soddisfatti i bisogni indispensabili, sarebbe auspicabile, sostiene Russell, una generalizzata riduzione dell’orario dedicato al lavoro. In linea con una tradizione di pensatori anglosassoni che si confrontano con i disastri dell’industrializzazione, secondo il filosofo inglese è attraverso l’ozio che si possono affermare altre forme di necessità indirizzare alla joie de vivre.

Secondo diverse sfaccettature, apologie dell’ozio si ritrovano in Robert L. Stevenson, Oscar Wilde, Jerome K. Jerome e Gilbert K. Chesterton ma, più in generale, la valorizzazione dell’inoperosità non può essere ricondotta esclusivamente all’ascesa dell’industrialismo. Nella Bibbia il lavoro è una maledizione divina derivata da quel peccato originale che, nel testo sacro, inaugura l’ingiustizia di genere (il dominio dell’uomo sulla donna), quella di specie (il privilegio umano sul resto del creato) e quella sociale (la necessità di ricorrere al lavoro finirà per non riguardare tutti allo stesso modo).

Nell’antichità al negotium si oppone l’otium aristocratico e a proposito delle modalità con cui vengono attribuiti valori o disvalori all’ozio, Marrone passa velocemente in rassegna le posizioni di Cicerone, Orazio, Seneca e Tacito. In ambito cristiano al lavoro come marchio d’infamia si è presto sostituita l’idea del lavoro come rifugio dalle tentazioni prodotte dall’ozio: è qua che trova la sua codifica, pur riprendendo alcuni elementi dalla tradizione greca, la colpa di accidia propria della cultura cristiana.

Se nel contesto medievale l’inattività resta un segno di distinzione sociale, progressivamente il lavoro cambia statuto tanto da necessitare di una nuova definizione e rivalutazione. Di come intendere l’operosità e l’ozio si occupano anche i propugnatori della Riforma protestante e i filosofi dell’utopia come Moro e Campanella. Con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese vengono presi di mira tanto i privilegi degli inoperosi aristocratici quanto coloro che intendono imitarli

«Lavorare è produrre, mettere in circolazione nuove cose, migliorando le condizioni di vita sulla terra senza attendere l’intervento risolutore dell’aldilà. Come diranno gli economisti, il lavoro è strumento di produzione ma anche, e soprattutto, origine del valore dei prodotti, ossia loro trasformazione in merce.» (pp. 28-29) É con la modernità che il lavoro assume stabilmente lo statuto di valore e di pari passo l’ozio diviene un malcostume che, suggerisce lo studioso, altro non è che una forma di accidia secolarizzata: un peccato mortale trasformatosi in disobbedienza civile. Interi sistemi educativi e teorizzazioni economiche e politiche si preoccupano di esaltare l’attivismo in quanto produttore di valore (e valore esso stesso) e di diffondere rancore e condanna verso tale accidia laicizzata. La stessa psichiatria, ricorda Marrone, si presta con solerzia alla medicalizzazione della pigrizia designandola come malattia da curare.

Già Rousseau, nel sottolineare come l’ineguaglianza degli esseri umani derivi dalla divisione sociale del lavoro e dal progresso della civiltà, esalta l’individuo non ancora “civilizzato” in quanto privo delle angosce dell’operosità. Contro le tesi espresse da Charles Fourier, circa la necessità di trasfigurare il lavoro in piacere, di fare del godimento il fine del lavoro, prende posizione Marx che, anziché preoccuparsi della diminuzione delle ore di lavoro (come fa Russell), si pone il problema di porre fine all’opposizione lavoro/riposo, fatica/svago, in modo da eliminare l’alienazione e permettere all’essere umano di «affermarsi come essere sociale libero e sicuro di sé grazie alla propria attività lavorativa». (p. 33)

Agli slogan inneggianti al diritto al lavoro, Paul Lafargue risponde con Il diritto alla pigrizia (1883): proclamare il diritto dell’essere umano al lavoro significa introiettare l’ingannevole morale diffusa e proposta come universale dal cristianesimo e dal capitalismo. «Che vi sia l’obbligo di lavorare solo tre ore al giorno, di fannullare e di fare bisboccia per il resto della giornata e della notte». I lavoratori, sostiene Lafargue, dovrebbero fare propria la pigrizia che contraddistingue la borghesia e la loro voracità consumistica: il lavoro, in sostanza, deve essere proibito, non imposto o autoimposto.

Le cose, sappiamo, sono andate diversamente da come auspicato: il lavoro non è diminuito, il consumo è divenuto un obbligo sociale e la ricchezza ha finito per concentrarsi sempre più nelle mani di pochi. Non è andata meglio all’idea marxiana circa la necessità di porre fine all’opposizione fra lavoro e tempo libero: tutto si è trasformato in lavoro, anche lo spazio del leisure. Negli sviluppi successivi del sistema capitalista si è giunti a una società dei consumi in cui a produrre identità è l’atto stesso del consumo. Il loisir, la bisboccia, il tempo libero hanno finito per coincidere con il consumo e con il lavoro.

Il fancazzismo non è (più) l’esito triste della disoccupazione, una condizione che occorre necessariamente subire, ma un modo d’essere morale e civile rivendicato come una soluzione possibile, nemmeno così angosciosa. E la pigrizia, tutt’altro che diritto condiviso, diviene rivoluzionaria. O almeno da molti viene considerata tale. Da un altro lato, però, quella che è stata chiamata società della prestazione continua risucchiare al suo interno qualsiasi forma di attività, lavorativa o ricreativa. (pp. 39-40)

Marrone puntualizza come concetti come lavoro, ozio e pigrizia necessitino di una contestualizzazione culturale, oltre che storica: non in tutte le culture operosità e inoperosità assumono lo stesso valore, così come gli stessi concetti di progresso, tempo libero, sussistenza e opulenza non vengono significati nello stesso modo. A riprova di ciò lo studioso si sofferma su un paio di casi derivati da culture non occidentali.

Kenkō Yoshida in Tsurezuregusa (Ore d’ozio o Momenti d’ozio, 1330-1332) non contrappone l’ozio al lavoro o al negotium ma alla noia della quotidianità, esplicitando così un rifiuto per la società vissuto dall’interno. Lin Yutang, nel suo Importanza di vivere (1937), confronta il tradizionale distacco dalle cose terrene della cultura cinese con l’american way of life palesando come l’ozio nella prima venga vissuto, ben diversamente che in Occidente, come vivere alternativo al fare; non si tratta di una contrapposizione a un mondo su cui si vuole incidere ma di una particolare immersione in esso per coglierne le potenzialità.

Nel passare in rassegna le definizioni di pigro e pigrizia proposte dai dizionari, Marrone si sofferma su alcune dimensioni che vi si ritrovano: “estesica” (la pigrizia viene associata con la mancanza efficienza, con la lentezza, il torpore); passionale (il pigro è svogliato, indolente, apatico); cognitiva (la pigrizia ha a che fare con la mancanza di volontà, curiosità e interesse); pragmatica (pur essendo lento, apatico e svogliato, il pigro è tutt’altro che inoperoso: egli fa di tutto per non far nulla. Il pigro, pur scansando il lavoro, è a suo modo un gran lavoratore).

Il pigro, che può anche manifestarsi come attore collettivo, non fa quello che gli altri si aspettano da lui, non adempie agli impegni e ai doveri che la società gli impone rinnegando così il suo essere sociale. A scontrarsi sono due sistemi morali: l’azione di resistenza dispiegata dal pigro attraverso il suo non-voler-fare e non-voler-essere nei confronti della società del dover-fare e del dover-essere, «è tanto più potente quanto più è legata alla coscienza dei valori sociali cui egli si sta opponendo, del lavoro che sta a tutti i costi evitando» (p. 62).

Stando ai dizionari, rispetto alla pigrizia, l’ozio sembra aver più a che fare con una chiusura in se stessi che non con una resistenza ai doveri sociali. A differenza dei termini pigrizia e pigro, ozio indica tanto una “condizione”, una “disposizione” d’animo che un lasso di tempo (“prendersi un periodo di ozio”). L’ozio è indicato, inoltre, come inclinazione posseduta dal soggetto prima di ogni situazione intersoggettiva o tendenza sociale che rimanda alla ricerca indiscriminata del piacere che non può che condurre alla dissolutezza. Il termine può riferirsi anche all’inattività e all’inoperosità imposte dall’esterno a scopo punitivo, come nel caso della prigionia, oppure, in accezione positiva, a una situazione di inoperosità vacanziera.

Nel caso del termine accidia, i primi riferimenti proposti dai dizionari rimandano al peccato capitale, pertanto, in questo caso, l’indolenza non è rivolta ai doveri sociali e agli impegni intersoggettivi ma piuttosto al bene nella sua accezione etico-religiosa. A differenza dell’ozio, che può essere circoscritto a un periodo limitato (assumendo valore negativo o positivo a seconda dei casi), l’accidia, il disinteresse per il fare il bene, non è circoscritta nel tempo.

Prendendo in esame il folklore europeo, Marrone nota come questo sia intessuto di disapprovazione nei confronti della pigrizia. Nei modi di dire e nei proverbi, risulta evidente un’inclinazione moralistica volta a ribadire le conseguenze nefaste dell’inoperosità. D’altra parte, si tratta di massime scaturite da un universo contadino che percepisce il lavoro come strumento indispensabile al proprio sostentamento quotidiano, come destino indiscutibile e il sottrarsi a esso comporta sicura sciagura. Al di là delle convinzioni calviniste e dell’efficientismo capitalistico, anche il mondo delle fiabe, soprattutto russe,  è attraversato da un’ideologia utilitarista votata all’operosità in cui si sostiene l’idea di un’esistenza votata alla realizzazione di sé attraverso il buon superamento delle prove che la vita presenta.

In risposta all’ideologia fattiva e avventuriera della fiaba russa il saggio di Morrone propone un approfondimento dell’Oblòmov di Gončarov che rappresenta la rivincita di «chi non si limita a opporre una pigrizia positiva al dinamismo negativo, ma decostruisce pezzo per pezzo l’ideologia su cui tale attivismo si appoggia, mostrandone i limiti, la violenza costitutiva, la malafede» (p. 84). Il protagonista del romanzo di Gončarov non intende sostituire il sistema valoriale con un altro; semplicemente, e radicalmente, si limita a decostruire quello esistente. «È qualcuno che, conservando strenuamente i propri spazi di felicità, ha additato la banalità del fare. La sua è una pigrizia fattiva, una malinconia euforica, una nostalgia del futuro.» (p. 108)

Se di Oblòmov il lettore finisce per conoscere parecchio della sua complessa interiorità, non altrettanto si può dire di Bartleby di Melville, personaggio che non palesa alcuna volontà di non-fare; semplicemente esprime una preferenza: «I would prefer not to». Si tratta di un grado debole di volontà che lascia il lettore di fronte alla sua testarda indeterminatezza che però non cela alcun mistero. Ed è proprio l’assenza di una motivazione profonda ad affascinare e inquietare.

Ecco una nuova versione politica della pigrizia: non, alla Lafargue, la rivendicazione di un programmatico non-lavoro di contro al lavoro alienato del modo di produzione capitalistico, né il dolce far niente di chi del lavoro se ne infischia perché non ha bisogno, né, ancora, l’idea di un ozio creativo di contro al fare meccanico della modernità. Nulla di radicalmente oppositivo, insomma. Nessun volere, nessun controvolere. Piuttosto, l’esasperazione estrema di una preferenza tanto irragionevole quanto caparbia, di un progressivo ritiro dalle cose del mondo, dai suoi valori, dalle sue necessità e dai suoi piaceri. Non è pigrizia? Probabilmente no: è più che altro desiderio di santità, di ascesa all’ascesi, condotta angelica, emulazione di Cristo. Ma comunque, sotto sotto, alla pigrizia assomiglia parecchio. (pp. 111-112)

Nell’esaminare la figura del pigro nei fumetti – Arcibaldo, Mafalda, Garfield, Andy Capp, Homer Simpson… –, Marrone si concentra sulle specificità della pigrizia di Paperino, ben diversa da quella di altri personaggi disneyani, e su quella di Snoopy. Paperino è un pigro che, pur detestando il lavoro, nelle sue storie non fa altro che lavorare nella speranza di poter tornare alla sua amata amaca. «Il riposo è l’oggetto di valore, l’oggetto cercato o al quale vuol tornare; il lavoro lo strumento per ottenerlo, per tornarvi.» (p. 126)

Se per Paperino la pigrizia è un traguardo o un gesto di resistenza rispetto a chi intende farlo lavorare, per Snoopy è invece uno stato acquisito. Il personaggio di Charles Monroe Schulz poltrisce e basta, non ha doveri da scansare, è un pigro puro che avendo tanto tempo a disposizione lo impiega fantasticando: la sua pigrizia risulta produttiva, stimola l’immaginazione che lo porta a vivere mille vite attraverso meccanismi di assimilazione e identificazione. «Né apocalittico né integrato. Forse eroe decadente, ma – inaspettata forma di pigrizia – con lo sguardo rivolto al futuro.» (p. 140)

Nell’ultima parte del volume, Marrone riprende alcune riflessioni di Roland Barthes in cui passa in rassegna varie forme di pigrizia. Secondo il francese il tempo libero non può essere visto come vera e propria pigrizia, come ozio, in quanto esso presuppone il tempo del lavoro. Pigrizia e ozio dovrebbero esser sganciati da ogni presupposizione sociale. «Per ritrovare la pigrizia occorre piuttosto fuoriuscire dalla coercizione del tempo libero, e prospettare un tempo neutro e un’attività a sé stante: […] “a meno che – precisa Barthes – non si sia presi dal desiderio di finire il lavoro”» (pp. 146).

Il francese propone l’esempio del lavoro a maglia nel suo darsi come gesto puramente intransitivo. Altro esempio di pigrizia riuscita è, secondo Barthes, il restare al letto dopo essersi svegliati senza giustificazione, nemmeno di tipo fisiologico. In alternativa a queste pratiche antisociali si può pensare a uno sconvolgimento quotidiano del ritmo dell’esistenza, al frantumare il flusso abituale del tempo attraverso diversivi del tutto gratuiti, improduttivi.

Tuttavia, una per una vera e propria pigrizia, secondo l’autore di Miti d’oggi, ci si potrebbe rifare allo Zen, al suo mirare al dissolvimento del soggetto. «Nella pigrizia, ci dice lo Zen, non c’è più il conflitto perché spariscono, prima ancora che le ragioni del contendere, i soggetti stessi che dovrebbero contendersele» (pp. 148-149). O ancora, continua il francese, per innescare una pigrizia risuscita, si potrebbe ricorrere alla via letteraria: legare il non far nulla alla pratica della scrittura, sul modello di Marcel Proust.

«Essere pigri, secondo questa prospettiva, è appunto, per riprendere la metafora proustiana, essere come la madeleine che si disgrega lentamente nella bocca, che, in quel momento, è pigra. Il soggetto si lascia disgregare dal ricordo, ed è pigro. Se non lo fosse ritroverebbe una memoria volontaria» (p. 149). Da questo punto di vista, la pigrizia durerebbe il tempo della preparazione del romanzo, poi, a questa, succede il tempo della scrittura, del lavoro e lì la pigrizia è obbligata a farsi da parte.

A  proposito di ozio e pigrizia, in conclusione vale la pena far riferimento a un bel saggio di Pablo Echaurren (Duchamp politique, Postmedia Books 2019) dedicato all’artista francese in cui l’autore argomenta come l’ozio praticato da Duchamp sia interpretabile come forma elaborata di rifiuto del lavoro e di rigetto della società capitalistica. Attraverso il suo oziare, appartarsi dalla scena artistico-mediatica, rifugiarsi nel gioco degli scacchi, Duchamp opera una rivolta nei confronti dell’accumulazione. La sua proverbiale inoperosità non è però fine a se stessa ma coincide con la critica di un modus operandi, di un amore per il lavoro che ha intaccato anche il mondo dell’arte, ormai pienamente compromesso con i processi di ottimizzazione tayloristi votati al denaro e a ciò il francese risponde con la sua inoperosità. «Preferisco vivere, respirare piuttosto che lavorare».

Insomma, a maggior ragione in questi tempi di pandemia, in un contesto in cui mentre vengono mandate sugli schermi personalità dello spettacolo per invitare la gente a restare chiusa in casa per evitare il contagio, solerti capitani d’impresa richiamano la nazione al posto di lavoro, sottrarsi alla società della prestazione è un lavoraccio che forse vale la pena di fare con impegno.

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Hanns Heinz Ewers e la Donna Ragno (Victoriana 27/II) https://www.carmillaonline.com/2019/08/12/hanns-heinz-ewers-e-la-donna-ragno-victoriana-27-ii/ Mon, 12 Aug 2019 21:40:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54102 di Franco Pezzini

Sussurri e ghigni    [qui la prima puntata]

Dalla sommità di Punta Tragara a Capri, l’uomo che narra sta godendosi da un po’ il panorama. A un certo punto si appresterebbe ad andarsene, ma ecco un tipo sedersi sulla sua panchina e trattenerlo per un braccio: lo chiama per nome, c’è in lui qualcosa di noto. Occorre però un attimo al Nostro per riconoscere (nientemeno) Oscar Wilde: o piuttosto C.3.3., dal numero della cella assegnatagli a Reading dopo la penosa carcerazione per “gross public indecency”, e che lascia del frizzante [...]]]> di Franco Pezzini

Sussurri e ghigni    [qui la prima puntata]

Dalla sommità di Punta Tragara a Capri, l’uomo che narra sta godendosi da un po’ il panorama. A un certo punto si appresterebbe ad andarsene, ma ecco un tipo sedersi sulla sua panchina e trattenerlo per un braccio: lo chiama per nome, c’è in lui qualcosa di noto. Occorre però un attimo al Nostro per riconoscere (nientemeno) Oscar Wilde: o piuttosto C.3.3., dal numero della cella assegnatagli a Reading dopo la penosa carcerazione per “gross public indecency”, e che lascia del frizzante e vigoroso esteta d’un tempo “una povera imitazione, un pallido ricordo”. Iniziano a parlare, fanno due passi insieme: Wilde è affaticato, non riesce a salire un ripido pendio e vi girano intorno.

Siedono davanti all’Arco naturale, e il Nostro ricorda un loro precedente incontro proprio in quel punto cinque anni prima: aveva trovato irritante la superbia sdegnosa di Wilde. Sembra fantastico ritrovarsi lì ora.

 

 – Sì – sottolineò Oscar Wilde. – Fantastico!

Si direbbe il sogno di un Essere ignoto… un sogno di cui siamo i protagonisti.

– Sì… che ha detto? – esclamò Oscar Wilde, ansante, ferito e divorato dall’eccitamento.

Ripresi negligentemente:

– Si direbbe il sogno di un Essere ignoto, un sogno di cui noi siamo i protagonisti.

Le mie labbra si muovevano macchinalmente, mi rendevo appena conto di quanto dicevo e pensavo.

Oscar Wilde ebbe un sussulto; questa volta la sua voce ritrovò l’antica inflessione dell’uomo il cui spirito altero si elevava al di sopra della folla volgare.

– Si guardi bene dal voler svelare l’ignoto: non a tutti è dato!

 

Il Nostro vorrebbe chiedergli, capire di più, ma Wilde si allontana. Tre giorni dopo il narrante riceve il biglietto per un appuntamento alle otto di sera nella grotta Bova Marina.

Interrompiamo per ora la storia di questo dialogo sui sogni di un essere ignoto, e torniamo al racconto Il ragno: che quanto a carica onirica a sua volta non scherza. Ewers si dedica al testo mentre si trova a Villa Suzy (successivamente detta Hôtel du Vieux-Chêne) nel Bois-de-Cise, una frazione di Ault nel dipartimento della Somme, Alta Francia. È reduce dal Sud America, via Lisbona e Parigi, e dal 12 giugno 1908 si ferma all’albergo dove compone varie novelle della raccolta Die Besessenen. Nei mesi successivi la Mosse-Verlag pubblicherà Il ragno sul Volkszeitung, il Berliner Morgen-Zeitung e sul Zeitgeist, supplemento culturale del Berliner Tageblatts: e l’opera, dedicata al fedele amico Franz Zavrel, sarà destinata a un successo strepitoso.

Le fonti sono, come rammentato, probabilmente parecchie, da un intero ventaglio di letture dell’autore. Che però molto presto deve difendersi da una specifica accusa di plagio: a detta di alcuni lettori, la sua sarebbe un’indebita ripresa della novella L’oeil invisible di Erckmann-Chatrian (firma collettiva dei due autori francesi Émile Erckmann, 1822-1899 e Alexandre Chatrian, 1826-1890). Ewers risponde il 7 dicembre 1908 su Zeitgeist dichiarando di non aver mai letto niente dei due, e che anzi non è stato facile rinvenire il testo in questione. Oltretutto – come emergerà da voci a sua difesa – anche se ne Il ragno l’ambientazione parigina può essere contemporanea, la misteriosa serie di suicidi sarebbe effettivamente avvenuta a Parigi intorno al 1866: ciò almeno secondo il beninformato Hofrat Hanel, docente di diritto tedesco all’Università di Praga. Della veridicità delle affermazioni di Ewers si è in realtà dubitato, suggerendo che potrebbe aver utilizzato novelle come quelle di Erckmann-Chatrian – brevi e non troppo complesse – per misurarsi fin da giovanissimo con la lingua francese. In effetti i nessi sembrano troppi per parlare di un caso: anche se, esaminando il presunto testo-fonte, ci rendiamo conto che Ewers lo trasforma comunque in tutt’altro, molto più affascinante e disturbante di quella fiaba romantica.

La novella L’oeil invisibile era comparsa nella raccolta Contes populaires edita tra il 1875 e il 1880, e vi si parla di due edifici gemelli a Norimberga: uno è il vivace albergo del Bue Grasso, l’altro il suo opposto speculare e sinistro, silenzioso e triste abitato in apparenza solo da una vecchia. I denti di lei sono “piccoli, appuntiti e di un bianco meraviglioso, e questo non è naturale alla sua età” fa notare il vecchio rigattiere ebreo Toubac: la gente la chiama Fledermausse, la Pipistrella… Parte così tutta una vicenda di rifrazioni, narrata dal protagonista, il pittore Christian, costretto per povertà a insediarsi nel tetto di un edificio molto più alto prossimo ai due. Quando appunto nell’albergo si consumano uno dopo l’altro tre misteriosi suicidi di clienti – guarda caso per impiccagione all’insegna dell’esercizio, raggiungibile da una certa Camera verde – Christian riesce dall’alto a scoprire che c’entra Fledermausse: una strega che vive sola in compagnia di un ragno ripugnante, e si serve di un manichino abbigliato come la vittima di turno onde indurla per imitazione (magia simpatica, potremmo dire) al suicidio. L’interesse della vecchia è quello tipico delle streghe folkloriche, la “soddisfazione diabolica” (sic) del male per il male, e tutto il racconto è giocato come una fiaba: compreso il finale in cui Christian si fa ospitare nella Camera verde e, truccatosi specularmente da vecchia, mette in gioco per primo il sotterfugio del manichino. La pessima Fledermausse finirà dunque con l’impiccarsi…

Lo scarto dalla storia di Ewers è ovviamente enorme: la natura della nemica è chiara, non si tratta di una fascinosa e sfuggente femme fatale incarnazione delle potenti forze della libido e la dimensione erotica è assente; il set è una Norimberga alla Hoffmann, romantica e fiabesca, invece della metropoli francese moderna; il narrante è lo stesso Christian, non due voci altamente sospette come quelle dell’anonimo che in Ewers riporta i fatti e dello stesso diario di Richard; e se pure troviamo tre suicidi misteriosi prima dell’inizio dell’azione reale, il contesto è del tutto diverso. Tra le vittime c’è uno studente, ma è appunto uno dei primi tre; e l’ottimismo del protagonista non emerge all’inizio, ma alla fine della storia, prima dello scontro “magico” con la Pipistrella. Quanto al ragno, ha un ruolo del tutto secondario: vediamo la vecchia che lo nutre con una mosca (torna cioè il siparietto di voracità tra invertebrati) ma mancano la dimensione cannibalesca tra femmina e maschio della stessa specie e l’ambiguo nesso con la persona della predatrice.

La dimensione scopica è poi presentata in termini differenti. Troviamo anzitutto la visione panoramica della casa maledetta da parte di Christian, spinto a guardare dal richiamo di una farfalla notturna (che lui interpreta come l’anima di una delle vittime, proprio lo studente). Una visione che si rivela però tanto innaturalmente dettagliata da flirtare con lo sguardo di un narratore onniscente; al punto da spingere Christian ad avvicinare metaforicamente la farfalla a un silfo, gli spiriti dell’aria noti come paradigmatici voyeur in tutta una tradizione letteraria francese. D’altra parte c’è la visione delle vittime, che però non richiede un rapporto tanto prolungato tra l’ospite della Camera verde e la vecchia portatrice di malocchio. Emblematica la spiegazione sul meccanismo criminale: che certo Christian affronta in termini generali, senza capire il particulare del potere di Fledermausse (appunto la magia simpatica), ma per esempio dà conto in termini efficaci del brivido misterioso di certe epidemie di suicidi.

 

Mi vennero alla mente quei precipizi che attraggono con un potere irresistibile; quei pozzi o cavità che la polizia è stata costretta a chiudere, perché la gente vi si gettava dentro; quegli alberi che erano stati abbattuti perché ispiravano agli uomini l’idea di impiccarsi; quel contagio di suicidi, di rapine, di omicidi, in certe epoche, con mezzi disperati; quella strana e sottile attrattiva dell’esempio, che ti fa sbadigliare perché un altro sbadiglia, soffrire perché vedi un altro soffrire, uccidere te stesso al vedere gli altri ammazzarsi – e i miei capelli si sono rizzati per l’orrore.

 

Quanto al finale, quella di Christian è la vittoria di un eroe da fiaba, mentre la distruzione della seduttrice Clarimonde – parente di altre femme fatale e mostri femmina simbolisti come l’enigmatica Sfinge strangolatrice – si ascrive a un contesto di fragilità e disperazione ben diverso, dell’uomo decadente che sta fallendo alla prova della realtà e deve far fronte al vampiro con gli ultimi spasmi della propria debolezza.

In questo senso, il cercare la fonte – o le fonti – de Il ragno non può ovviamente ridursi alla cifra asfittica del plagio, in presenza di un quadro ben più ricco, ma torna a suggerire la creatività con cui Ewers gioca i materiali a propria disposizione. Anche sul piano formale: se la dimensione scopica in L’oeil invisibile presenta come detto connotati irrealistici, al contrario Ewers offre un dramma (letteralmente) da camera. Cioè una situazione da un lato agevolmente riconducibile a dinamiche teatrali, e ormai conosciamo le sue competenze in materia; ma dall’altro già leggibile con uno sguardo cinematografico. Non solo insomma quanto a possibile messa in scena, ma in rapporto a un linguaggio, un immaginario (la finestra come schermo, i giochi d’ombre, il dialogo muto come nei primi film), una potenza simbolica e di metafora. E all’Ewers del cinema dovremo tornare.

D’altra parte il libero uso di fonti letterarie da parte del Nostro non comporta che tutto si esaurisca sul piano libresco. Al contrario, molti degli spunti presenti nella raccolta di cui ora continuiamo l’esame, Il Ragno e altri Brividi,  vengono direttamente dalla vita di Ewers, dai suoi viaggi, dagli incontri fatti, dalle storie ascoltate…

Il volume costituisce la benemerita riproposta da parte di Meridiano Zero di un florilegio ewersiano edito da Del Bosco (Roma 1972), uno dei pochi apparsi in Italia: ed è vero che a fronte del capolavoro Il ragno gli altri racconti antologizzati risultano minori. Eppure chi li svilisse sbaglierebbe: a parte la fantasia, l’abilità nei siparietti messi in scena, il divertissement di certe situazioni macabre, il panorama che emerge è di primario interesse nella prefigurazione di quella cultura nera di Weimar, libera e ossessa, visionaria e torbida, che ad autori come Ewers dovrà moltissimo. Dove torniamo al distinguo tra l’abilità tecnica di un autore, il suo impatto e l’originalità mostrata, da un lato, e dall’altro la dimensione anche profondamente equivoca di un certo immaginario.

Si pensi alla frequenza di immagini disturbanti legati al corpo e alla figura femminile, anche se all’interno di racconti che poi sviluppano temi diversi in termini di grande fantasia. Il nesso è in fondo con quel simbolismo fitto di demoni e dei che vede dilagare nella cultura tedesca – e non solo – intere gallerie di donne tremende: dove in realtà i profili della vamp divoratrice e della vittima di violenze disturbanti finiscono con il sovrapporsi, nel segno di un esplosivo mix sessista di sadismo e ginofobia. Anche la distruzione del ragno alla fine del racconto che abbiamo esaminato può ascriversi al quadro di donna fatale punita: veri e propri materiali mitologici, con tutto ciò che comportano in termini di adesione emotiva e ricadute anche allarmanti nei rapporti concreti tra i sessi.

Il fenomeno, come detto, guarda ben oltre la Germania, e per capire alcune odierne derive del web dobbiamo indagare come l’eredità di Sade sia stata ripensata a cavallo tra Otto e Novecento impattando sul modo di concepire il genere, la sessualità e le sue forme. Emblematico in età nazista il ruolo della vamp che minaccia l’eroe, e sul tema si può rinviare al classico studio di Klaus Theweleit, Fantasie virili. Donne Flussi Corpi Storia. La paura dell’eros nell’immaginario fascista (il Saggiatore, Milano 1997). Ma il discorso non si esaurisce evidentemente con la caduta della croce uncinata, e corre per infiniti altri rivoli fino ai nostri giorni.

A conferma di tale direzione immaginale si sgranano le novelle successive della raccolta in esame: e i necessari cenni di riassunto qui forniti in chiave di analisi – almeno sommaria – lasciano intatte le sorprese di un tessuto narrativo.

Troviamo così L’ambra al Tribunale Criminale, dove dall’immagine di insetti preistorici imprigionati appunto nella resina fossile si passa all’evocazione di reperti inclusi sempre maggiori, come nella leggendaria collezione del dottor Katzenkopf che il narrante vorrebbe vedere. Salvo poi scoprire che si tratta di reperti falsificati, nel senso che il sinistro dottore conchiude nel materiale resinoso in fusione gli oggetti naturali più incredibili: e il racconto termina con l’immagine evocata, francamente macabra, della testa nell’ambra di una bella donna. Dove il fatto che sia bella rimarca non solo la sua dimensione di attrattiva erotica ma la sua iniziale pericolosità: pietrificata nell’ambra, finisce così col rimandare al pietrificante gorgoneion, sia pure in una chiave sordida di truffa e follia.

Il racconto seguente, La fine di John Hamilton Llewellyn (scritto a Capri, 1905), narra della triste rovina psichica cui va incontro un pittore morbosamente attratto da un corpo femminile preistorico (questa volta lo è sul serio) incluso nel ghiaccio come i coevi mammut. Per ritrarre quella bellezza al meglio, il pittore penetra abusivamente nel deposito del British Museum dov’è conservata e la libera dalla gelida corazza: ma poi non trova di meglio che gettarsi tra le braccia di lei… le cui carni all’improvviso gli si decompongono addosso facendolo impazzire. Se qui il rimando sembra piuttosto alle vanitas pittoriche, restano gli elementi di una donna fatale, un corpo imprigionato e una dimensione di sessualità disturbante, necrofiliaca.

Ne Il cuore trafitto (Ellen Carter) (scritto a Cannes, 1903) il cadavere soggetto all’impalamento nel Rhode Island non appartiene a una donna – come potremmo a questo punto attenderci –, ma a un uomo di una certa età: la disgustosa pratica è sancita secondo l’antico uso dal tribunale per punire un suicidio. Ma la bellissima figlia Ellen è pronta a concedersi a chi l’aiuti a ottenere una più degna sepoltura al genitore: il narrante riesce nell’impresa vivendone tutto l’orrore, desidera disperatamente la ragazza ma rifiuta un simile rapporto mercenario. Ellen si sente a sua volta rifiutata e lui resta in scacco delle proprie emozioni: non riescono a chiarirsi, lui rimane tormentato dal desiderio – il cuore trafitto del titolo è quello del cadavere ma idealmente anche il suo e in fondo quello di Ellen – e le due vite finiranno con l’incrociarsi continuamente, tormentosamente. Di nuovo insomma una donna fatale, una donna che si fa puro corpo, e l’orrore fisico di un cadavere devastato.

La Mamaloi (scritto a Ragusa, 1907) vede invece in scena Haiti e i rituali vudù: il protagonista amato da Adelaide, una mamaloi/sacerdotessa del culto, verrà da lei salvato a un prezzo terribile e finirà con l’ucciderla. Ancora dunque una donna fatale, che cambia la vita al narrante, e alcuni cadaveri.

Ambientato in Guyana, Due donne per un uomo (scritto sull’Atlantico presso quella costa, 1906) racconta il salvataggio di un tedesco da parte di una religiosa, la soave Suor Vittorina, e di una nativa americana di cui non conoscono il nome: costei nutre il poveretto, colpito da un morbo locale, con l’unico alimento che lo stomaco possa trattenere, cioè il latte dei suoi seni. E per questo finisce poi battuta a morte dal marito.

 

– Ma è roba da pazzi – gridò il tedesco. – Ditemi, dottore: Suor Vittorina sapeva gli usi inconcepibili di queste tribù?

Il dottor Bonhommet alzò nuovamente le spalle.

– L’ignoro – rispose. – Del resto, la cosa non mi riguarda. In tutti i casi è certo che l’indiana che le ha salvato la vita sapeva benissimo che cosa l’aspettava.

 

Il finale, con l’ennesimo femminicidio, lascia insomma sussistere nei confronti della brava suora tanto preoccupata per l’occidentale un’ombra vaga e piuttosto raggelante. In questo caso la fatalità del ruolo femminile presenta ovviamente un duplice volto.

Ne La mummia (scritto a Capri nel 1913), invece, un’altra vicenda di orrori d’alloggio offre il destro per un divertissement macabro dove una ragazza un po’ insopportabile finisce mummificata da un condomino del narrante, e passa per reperto egizio…

In apparenza non compaiono invece donne, fatali o meno, nel racconto con Oscar Wilde sopra citato, Il ghigno: un testo fantastico ispirato però, come detto, all’autentico incontro di Ewers con lo scrittore inglese nel 1898 durante un viaggio a Capri. Abbiamo lasciato che i due si ritrovassero nella grotta Bova Marina, dove Wilde ha dato appuntamento al tedesco: un posto, spiega, che gli ricorda il suo penitenziario. E incalza: “Recentemente, lei ha detto qualche cosa che mi ha colpito… Ha detto: ‘Si direbbe il sogno di un Essere ignoto, un sogno di cui noi siamo i protagonisti’”. Proprio così: tutto è sogno, “il sogno di un Essere ignoto, un sogno di cui io sono il protagonista!”. Soltanto per quello non si è fatto saltare le cervella alla prospettiva del carcere: la rivoltella gliel’avevano pure passata, di straforo durante il processo… ma durante la notte Wilde aveva fatto uno stranissimo sogno.

 

Vicino a me vidi un essere strano, una massa molle come un mollusco, che nella parte superiore terminava in una orribile Smorfia. Questa creatura era sprovvista di braccia e di gambe; la si sarebbe detta una testa ovoidale dalla quale, in qualunque momento e da tutte le parti, potevano spuntare arti gelatinosi. Tutto l’insieme aveva un colore bianco tendente al verde quasi trasparente, dove s’intrecciavano innumerevoli lineamenti.

E io parlavo con questa cosa; non so più di che. Tuttavia il nostro colloquio divenne sempre più vivace, e alla fine la Smorfia mi rise ignominiosamente in faccia, prorompendo:

“Vattene! Non vale veramente la pena di discutere con te!”

“Cosa?” replicai. “È un po’ forte! Guardate la cattiveria che pretende di sviluppare un essere che in realtà non è che un brutto fantasma di me stesso!”

La Smorfia si contorse in un sogghigno, s’inchinò più volte e chiocciò:

“Guardatelo! Non sarei dunque che un suo fantasma! No, povero amico, la situazione è proprio l’opposto: sono io che sogno, e tu non sei che un minuscolo personaggio del mio sogno”.

Ciò dicendo, la Cosa continuava a sogghignare: tutta la sua maschera sembrava un sogghigno. Poi scomparve e io non vidi più, nell’immaginazione, che il Sogghigno.

 

Soffermiamoci su quest’immagine terribile, una specie di mollusco dai connotati disturbanti e sarcastici. E il primo pensiero è relativo a quel sogghigno che resta alla sparizione dell’essere: qualcosa come la riscrittura lisergica, disturbante, del già onirico Gatto del Cheshire di Alice in Wonderland. Un richiamo sembra almeno plausibile.

Inevitabile poi domandarsi quali tipo d’influenze – per quanto oblique e indirette – simili fantasie avrebbero contribuito a scatenare nei lettori. Per esempio in un Lovecraft, che si può sospettare conosca il racconto: dove la fantasia su un mostruoso simil-mollusco dai poteri sul cosmo – nel senso della realtà di Wilde – e legato a una dimensione di sogno pone almeno qualche domanda. “In his house at R’lyeh, dead Cthulhu waits dreaming” eccetera…

Ma torniamo alla provocazione di partenza: siamo davvero certi che il racconto in esame manchi di figure femminili? Soffermiamoci su quest’essere inquietante. Mettiamo pure da parte l’uso in italiano del genere femminile per i vocaboli che lo definiscono: “Smorfia”, “creatura”, “testa ovoidale”, “Cosa”. Mettiamo da parte anche il fatto che l’essere ha generato Oscar nei suoi sogni, cioè ne è in qualche modo madre. Ma un essere che è tutta testa, vagamente tentacolata, finisce col richiamare anche e proprio nel mondo immaginale di Ewers al mostro-femmina per eccellenza, la Gorgone decapitata, dalle labbra spalancate in una sorta di ghigno. Se in effetti la donna, nelle storie di Ewers, è spesso una parte di donna, una mutilazione di donna o un semplice residuo di corpo femminile, quest’essere molle potrebbe interpretarsi come la testa mozza di Medusa: dove il nome, anche in tedesco, trascolora dal mito alla zoologia. Con una suggestione ulteriore, persino più estrema: se pensiamo a come altri artisti hanno giocato a épater le bourgeois in chiave teratologica sul tema queer – per esempio ai giochi che il genio omosessuale James Whale immetterà in Bride of Frankenstein, 1935 – potremmo non stupirci nel riconoscere in quel gorgoneion dall’aspetto di porzione anatomica ridacchiante che dialoga con l’omosessuale Wilde un apparato genitale femminile… In fondo una provocazione onirica e un po’ disturbante che non striderebbe rispetto all’ironia dell’inventiva mitologizzante di Ewers.

Sia come sia: ma il giorno dopo quel sogno, durante l’interrogatorio che vede il pubblico sbellicarsi alle fulminanti risposte dell’aforista Oscar, questi guarda a un tratto il fondo dell’aula. Ed è ben sveglio, nel notare che laggiù ora “tutto lo spazio disponibile era occupato dall’orribile Cosa informe della notte. Il Ghigno sardonico che aveva turbato il mio sogno si estendeva a tutta la Smorfia”… Questa ridacchia chiocciando e contorcendosi alle risposte di uno degli avvocati; e quando Wilde, chiudendo gli occhi e poi riaprendoli, riesce a riconoscere finalmente qualche volto di conoscenza, la Cosa ghignante resta comunque dietro di loro. Impossibile per lui seguire il processo attentamente, con quel Sogghigno alle spalle. E alla fine “Quattro agenti di cambio, cinque negozianti di cotone, cereali e whisky, due maestri di scuola e un onorato padrone di macelleria mandarono Oscar Wilde in prigione. Veramente comico!”: visto che si tratta di persone neppure in grado di capire cosa lui scriva.

Ma quella notte la Smorfia torna a visitare Oscar: i due discutono – ciascuno sostiene che l’altro appartiene al suo sogno – e Wilde, convinto di parlare in inglese, scopre a quel punto di comunicare “in una lingua che mi era completamente sconosciuta, che parlavo e capivo alla perfezione, e che non aveva certamente niente in comune con l’inglese o con qualunque altra lingua del globo”. Un contesto, a ben vedere, di nuovo parecchio lovecraftiano.

Incassata una vittoria almeno temporanea, la Cosa cerca allora di convincere il prigioniero a usare la pistola e uccidersi: per tutta la notte continua così, ghignando accanto a lui, tanto che al mattino l’esausto Wilde consegna l’arma a un custode. La notte seguente la Smorfia gli propone dunque d’impiccarsi con le bretelle, e il prigioniero avrà dunque il suo daffare a lacerarle in minuti frammenti. “È in questa atmosfera che cominciò il mio soggiorno in prigione”…

Ma lasciamo ancora una volta i due personaggi e soffermiamoci sul set. Il racconto viene scritto proprio a Capri, dove, ricorderemo, Ewers passa un lungo periodo con la prima moglie. Assieme a lei e poi più tardi dopo la separazione (aprile 1912) viaggia parecchio, come corrispondente per giornali: Spagna e Francia meridionale (1905), Caraibi e America centrale (1906), Brasile, Argentina e Paraguay (1908), India, Sudest asiatico, Australia (1910) eccetera. Ne sviluppa un’ampia serie di memoriali di viaggio a partire da Mit meinen Augen su Capri e in generale sull’Italia, 1909, e Indien und ich appunto sull’India, 1911; ma i viaggi sono anche preziose fonti d’ispirazione per i racconti, di cui vara una nuova raccolta, Grotesken, 1910. Durante il viaggio del 1906, per esempio, partecipa a una cerimonia vudù ad Haiti da cui la vicenda di La Mamaloi. D’altra parte i viaggi e la stessa attività di traduttore lo spingono a vagheggiare una cultura sovranazionale degli artisti – i suoi contatti con un mondo intellettuale vivacissimo non si esauriscono entro i confini della Germania –, sia pure nell’ambito di una visione razziale in cui gli europei avrebbero un ruolo speciale.

Ancora: ben radicato nel mondo teatrale, almeno dal 1907 Ewers inizia a occuparsi di cinema, è tra i primi critici a riconoscere il valore della nuova arte e probabilmente in Francia nel 1908 gira il suo primo filmato. Non è un caso che i suoi romanzi – avviati nel 1910 da Der Zauberlehrling oder die Teufelsjäger, primo della trilogia sull’antieroe Frank Braun, amorale e privo di scrupoli – presentino uno sguardo a tratti vividamente cinematografico che nei racconti accennati trovava meno spazio. Ciò è particolarmente evidente nel secondo della saga, il notissimo Alraune, 1911, che non solo sarà a monte molto presto di varie trasposizioni per il grande schermo, ma presenta già nel taglio delle fantasie macabre e burattinesche, in certe coreografie, persino (si direbbe) nelle maschere/trucchi dei personaggi un sapore di cinema, nel segno di quell’espressionismo su schermo che Ewers stesso contribuirà a spalancare.

D’altronde Ewers continua nei romanzi la trascrizione delle femme fatalities dei racconti. In Der Zauberlehrling il cinico Braun manipola con l’ipnosi le reazioni entro una piccola comunità evangelica di un villaggio alpino in Italia: la donna sua vittima finirà crocifissa, in una libera rilettura del caso ottocentesco di Margaretta Peter (una vicenda patologica di mix tra misticismo e crimine) alla luce delle dinamiche della psicologia di massa. Ma soprattutto la terribile Alraune torna alla tradizione da un lato delle donne fatali e dall’altro di quelle reificate – per il nesso con la radice di mandragora nelle disturbanti modalità di concepimento, tramite fecondazione di una prostituta con il seme di un assassino giustiziato – fino a un’ovvia, tragica fine. Alraune può considerarsi a buona ragione il capolavoro di Ewers, sia pure con il compiacimento per il turpe che fermenta nelle sue pagine.

Nel terzo romanzo della saga e che arriverà a distanza di parecchio tempo, Vampir, 1921, troveremo Braun alle prese con una fatale deriva che lo spinge a nutrirsi del sangue della sua amante ebrea Lotte van Ness: una sorta di prefigurazione da parte del filosemita Ewers di qualcosa che in pochi anni precipiterà addosso alla Germania.

Per quanto il Nostro resti eclettico (nel 1912 si unisce al Deutsches Theater di Max Reinhardt come attore e poco dopo lavora a un libretto d’opera, a un’antologia di canzoni francesi e altre iniziative nel campo dello spettacolo culturale) e mostri una notevole vitalità anche nel privato (avvia per esempio un rapporto che durerà fino al 1920 con la pittrice Marie Laurencin, cui dedica l’opera teatrale Das Wundermädchen von Berlin, 1912), le coloriture del suo lavoro si fanno sempre più livide e tenebrose. Tra il 1909 e il 1910 avvia una serie di conferenze sulla religione di Satana e si abbandona alla morfina, e nel 1913 sceneggia il suo primo vero film, lo straordinario e sulfureo Der Student von Prag, tra i protomodelli dell’espressionismo su schermo, giocato sul tema del patto faustiano e del doppio: di nuovo una sorta di prefigurazione, stavolta su un patto fatale che lui stesso firmerà una ventina d’anni dopo. E per inciso, in un remake nuovamente sceneggiato da Ewers (assieme a Henrik Galeen, 1926) troverà per caso una piccola parte quell’Horst Wessel poi oggetto del citato film propagandistico su commissione nazista.

Der Student von Prag è d’altronde l’ennesimo caso di capacità di Ewers di collaborare con altri artisti d’eccezione (in questo caso i due registi Stellan Rye e Paul Wegener, qui anche interprete, poi mattatore del fantastico tedesco su schermo), di studiare tecniche nuove che influiscono sul complesso della sua produzione, di rileggere la grande età del primo romanticismo tedesco in un nuovo epos espressionista.

D’altra parte, a proposito di occulto, tra il 1914 e il 1918 il Nostro intrattiene contatti e amichevoli frequentazioni con il mago inglese Aleister Crowley: fatto non strano perché in qualcosa si assomigliano, entrambi eccessivi, egocentrici, visionari e coltissimi, entrambi cultori di occulto ma con allegre derive verso l’osceno e il pornografico.

Quanto ai viaggi di Ewers in questi anni, i motivi non sono solo culturali. Lo troviamo in Spagna tra il 1915 e il 1916 con passaporto svizzero falsificato, poi in Messico dove in apparenza solidarizza con la rivoluzione e conosce Pancho Villa, quindi in Perù dove apprende l’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando… Sulla via per il ritorno in Europa resta bloccato negli USA dall’esplosione della Grande guerra, dove diventa attivissimo tra gli emigrati tedeschi: su invito dell’ambasciatore del Kaiser conduce propaganda filotedesca, gira il paese tenendo discorsi contro l’entrata in guerra degli americani, pubblica a New York Deutsche Kriegslieder (cioè canzoni di guerra tedesche), raccoglie fondi per la Croce Rossa tedesca e aiuta compatrioti – come emergerà a un certo punto – a raggiungere il fronte in Europa con documenti falsi. D’altra parte è entrato negli USA assieme a una “Grethe Ewers” presentata come moglie ma la cui identità resta ignota, e lo stesso viaggio in Messico sembra finalizzato a creare turbative contro gli USA, evidentemente per ostacolare la loro partecipazione alla guerra. È un fatto del resto che in questi anni il suo sentire veda una sterzata – o almeno una svolta, coerente del resto con un certo immaginario amato da sempre – dal precedente cosmopolitismo al nazionalismo. Col risultato che dopo l’entrata in guerra americana, nel 1918 il Nostro è impacchettato quale “propagandista attivo”, non processato come agente nemico (come invece lo considerano i servizi inglesi e francesi e studi recenti confermano), ma internato a Fort Oglethorpe in Georgia: si ammala gravemente, viene ricoverato a New York e lo scrittore inglese John Galsworthy si attiva per riguadagnargli la libertà vigilata su cauzione nell’agosto del 1919. Riceve comunque il divieto di tornare a pubblicare negli USA, e la commedia musicale Das Mädchen von Alaska, di cui ha scritto il libretto, non viene rappresentata. Frattanto in sua assenza in Germania appaiono per i tipi Georg Müller le raccolte Der gekreuzigte Tannhäuser und andere Grotesken, 1916 (che unisce Grotesken e alcune novelle precedenti) e, nella collana “Galerie der Phantasten” precedentemente curata dal Nostro, Mein Begräbnis und andere seltsame Geschichten, 1917 (altra selezione di testi precedenti).

Liberato dopo la fine della guerra, rientra in patria (agosto 1920) con la giovane Josephine Bumiller che diverrà sua moglie. Ma il ritorno di Ewers in una Germania impoverita e provatissima non è lieto, tra crediti non saldatigli da parte dell’editore, debiti a sua volta insoluti che gli causeranno un arresto (gli alimenti alla prima moglie) e difficoltà varie. Possiamo non stupirci trovando la sua fantasia farsi sempre più nera: pubblica il citato Vampir e la nuova raccolta Nachtmahr, 1921, che gronda morbosità quasi ai limite dell’intollerabile, continua (fino al 1925) le conferenze sul diabolismo attingendo anche all’opera del 1897 Die Synagoge des Satan di Stanisław Przybyszewski… Ma edita anche un originale Der Geisterseher, a ideale completamento del Visionario di Friedrich Schiller, 1921, purtroppo stroncato dai critici, biografie romanzate come Der Graf Cagliostro, 1921, e persino un testo di divulgazione scientifica, Die Ameisen, 1923-1924.

Sembra paradossale il disagio di Ewers in una Germania che sembra uscita dalle sue stesse fantasie d’inizio secolo, quasi sia lui ad avere il ruolo del Ghigno che la sogna e la plasma: una Germania dove i suoi racconti sono letti e ripubblicati, dove l’eros e l’occulto di cui si è baloccato – e in fondo continua a farlo – sono assurti a mode, dove tra scossoni sociali, rivolte, tentati putsch (soprattutto nella prima fase 1919-1923) fioriscono le arti, la filosofia, gli studi sulla sessualità. Basti citare il pionieristico Institut für Sexualwissenschaft fondato nel 1919 (e spazzato via dai nazisti nel 1933) dell’“Einstein del sesso” Magnus Hirschfeld, grandissimo studioso e militante omosessuale, amico del Nostro. Le speculazioni narrative di Ewers sull’androginia, per esempio, e la convinzione che non si esaurisca sul piano estetico (si pensi al peso del tema in Alraune) perché la psiche contiene elementi sia maschili che femminili, si accordano proprio con il libero dibattito di quegli anni di Weimar. D’altra parte non mancano anche componenti più torbide, e basta aprire il volume Voluptuous Panic. The Erotic World of Weimar Berlin di Mel Gordon (Feral House, expanded edition, 2008) per rendersi conto di come le fantasie di Ewers abbiano in parte precorso i tempi, in parte fornito forme adeguate a fenomeni d’epoca in fermentazione. Fenomeno del resto parallelo a quello di altri grandi nomi le cui fantasie associamo a Weimar ma che già prima – si pensi alla squadra di Der Student von Prag – avevano iniziato a seminare.

Quando nel 1922 l’amico Walther Rathenau, che aveva cercato di coinvolgerlo nel proprio lavoro ed è diventato ministro degli Esteri, viene assassinato da terroristi di estrema destra, per Ewers è un ulteriore trauma. È però proprio verso destra che le sue posizioni politiche muovono sempre più: ma pur aderendo al partito popolare monarchico, con il suo bagaglio di tradizionalismo fuori tempo, su alcuni temi continua a rompere le righe. Firmando per esempio petizioni contro la punibilità dell’omosessualità maschile (1923 e 1926).

La sua fama letteraria ha trovato del resto una sorta di consacrazione con l’uscita per Georg Müller dell’Hanns Heinz Ewers Brevier, 1922, antologia di testi dal complesso della sua opera con un’ampia bibliografia. Ma, quasi in sintonia con la deriva sempre più a destra, la sua vena creativa inizia a inaridirsi.

Tanto più che nel 1926 muore sua madre, interlocutrice preziosa. Tanto più che nel 1927, amareggiato, è costretto a chiudere il rapporto con Georg Müller che non gli versa i diritti arretrati: passa a Sieben Stäbe Verlag. Tanto più che varato un nuovo romanzo – Fundvogel, die Geschichte einer Wandlung, 1928, libera ripresa di un testo dei Grimm che ora include la storia di una mutazione sessuale – e fondata la società cinematografica Hanns Heinz Ewers Produktion, deve fare i conti con la crisi del 1929 che impatta anche su editoria e cinema. Tanto più che si ammala, e vede entrare in crisi anche il secondo matrimonio. Tanto più. Tanto più…

Pubblica con Hirschfeld i tre volumi di Liebe im Orient ma è quasi un canto del cigno, e a fine 1929 decide di uccidersi. Però non lo fa, e l’anno dopo si separa dalla moglie.

Ma torniamo al racconto, e ad altre tentazioni di suicidio. Come spiega l’ex-prigioniero del carcere di Reading:

 

Oscar Wilde non si è mai piccato d’impegnare battaglia con la stoltezza umana, né di giocare all’eroe e al martire di fronte ai piccoli e miserabili tormenti dell’esistenza. Ma qui mi si offriva un eccitamento e un combattimento nuovo: un combattimento che pochi mortali hanno mai sostenuto. Volevo vivere per dimostrare alla maledetta che io vivevo! La mia esistenza era destinata a provare l’inesistenza di un altro Essere.

 

Se nel passato si spezzavano le ossa, ora Wilde è spezzato dalla prigionia: e tuttavia resiste alla Cosa ghignante che gli si presenta tutte le notti e talora di giorno, sempre con nuovi motivi per spingerlo al suicidio. Soltanto dopo un anno di sue resistenze le visite si rarefanno: lui la annoia, confessa la Cosa, “Non vali abbastanza per tenere un ruolo nei miei sogni. Ci sono cose più divertenti. Credo che comincerò a dimenticarti tranquillamente”. E anche Wilde inizia a quel punto a dimenticare se stesso:

 

Di tanto in tanto le succede ancora di sognare di me, ma sento che la mia vita onirica sta sfumando. Non sono ammalato, ma la mia vitalità comincia a cedere. La Cosa non vuol più sognare di me; quando mi avrà completamente abbandonato, mi spegnerò.

 

Gli pare anzi di riconoscerla, in quel momento, in uno scoglio, “ha la facoltà di conferire la sua forma a qualunque oggetto. Guardi come sogghigna!” e anche al narrante sembra di riconoscerla. Poco dopo, sulla barca che li riporta indietro, Wilde lo esorta a credergli: “non c’è dubbio possibile. Rinunci una volta per tutte alle sue magniloquenti concezioni dell’umanità. La vita umana e tutta la storia del Mondo non sono altro che il sogno che un Essere beffardo fa a nostre spese”.

Concludendo il racconto a Capri, nel maggio 1903, Ewers non può ancora sapere che il Ghigno attenderà lui pure al varco.

Mentre sta cercando di ripartire con l’attività creativa, cerca interlocutori sempre più a destra, pubblicando nel 1932 il romanzo Reiter in Deutscher Nacht come apologia dei Freikorps, le milizie volontarie di antica storia in Germania (quelle stesse, per intendersi, responsabili nel 1919 dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht). Dietro la figura del tenente omosessuale Detlev Hinrichsen del romanzo è Karl-Günther Heimsoth, medico, poligrafo e politico che gli fornisce utili informazioni sul tema: attivista del primo movimento omosessuale (è forse il primo ad introdurre il termine homophilia in sessuologia), diviene membro del partito nazista e finirà assassinato dalle SS a Berlino, nell’ambito della Notte dei Lunghi Coltelli.

Ma ormai il cerchio è chiuso, dal 1931 Ewers è entrato nell’orbita di Hitler. La svastica può esser vista in effetti come un ragno mostruoso, ed è in quel mondo fattosi improvvisamente claustrofobico – come una certa stanza di un albergo di Parigi – che lo scrittore pagherà le conseguenze del suo patto faustiano. Salvando qualche vita di amici ebrei, riuscirà ancora a stritolare coi denti il ragno che l’ha invaso dentro: ma non a salvarsi. Non tanto dalla morte fisica, che logoro com’è ormai si attende, o dalla damnatio memoriae di cui francamente può non importargli; ma dal sapore in bocca di quella Grande Bruttezza che in qualche modo ha sostenuto, come forse è ancora abbastanza lucido da avvertire.

Riconoscere le qualità tecniche di uno scrittore, le sue grandezze e per contro le sue miserie, non è un’operazione da tifoseria acritica (e per favore evitiamoci banalità udite in certe presentazioni, per esempio su Lovecraft, come “Bisogna capirlo, a quell’epoca tutti pensavano così”: non è vero, ed è un mezzuccio per non porsi questioni). Il problema non sta nell’affibbiare etichette a uno scrittore, tanto più dalle posizioni continuamente fuori e dentro il coro come Ewers, e comunque in un percorso che resta cangiante: per questo le stigmatizzazioni facili (o le facili canonizzazioni, c’è anche quel rischio) restano, a un’analisi che intenda esser seria, operazioni di scarsa utilità, intelligenza, onestà. E tantomeno sta nel giudicare l’uomo dietro la scrittura, una missione i cui maldipancia possiamo serenamente evitarci. Ma nell’individuare, questo sì, tra le pieghe di quegli scritti tracce di un terreno malsano, pre-fascista o francamente fascista, nutrito di nazionalismo e di sessismo (pensiamo alle contraddizioni di aperture coraggiose verso l’omosessualità e di avalli almeno equivoci alle peggiori fantasie virili sulla donna), di aggressive insicurezze e di estetizzazioni losche: qualcosa che nel contesto di quella Germania ha infine condotto a soffocare ogni sogno di libertà e richiesto un prezzo altissimo. In alcune forme storiche, non sappiamo quanto ripetibili. Però quei mali del mondo moderno non si sono esauriti lì, ci accompagnano, nutrono certe colture batteriche delle destre anche italiane – spesso irriconosciute nei giudizi facili di chi si crede estraneo a una certa area, e pontifica da “uomo della strada”. Dipende quale strada.

La cartina al tornasole di una serie di problemi è in fondo, potremmo sintetizzare, quella dell’identità: cioè la grande questione posta sul tavolo, nella sue dimensioni individuali come collettive, proprio dal linguaggio del fantastico moderno, fin dalle sue origini. Se il fantastico è il linguaggio dell’ambiguità – perché le fa emergere – è anche quello delle crisi (nel senso più ampio possibile del termine) legate all’identità. L’opera di Ewers, con le sue contraddizioni, ne è un grande teatro, e richiederà senz’altro studi ulteriori. Contribuendo forse a ricordarci che in quella chiave di provocazione identitaria si gioca non solo ciò che leggiamo, ma ciò che intendiamo o non intendiamo essere.

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Il patto col demonio prima di Faust https://www.carmillaonline.com/2017/01/03/il-patto-col-demonio-prima-di-faust/ Mon, 02 Jan 2017 23:01:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34987 di Gioacchino Toni

cover_antenati-faustAlfonso D’Agostino, Gli antenati di Faust. Il patto col demonio nella letteratura medievale, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 10,00

L’interessante saggio di Alfonso D’Agostino tratta le narrazioni dei patti che gli esseri umani stringono con il maligno – per sete di conoscenza, di potere, di ricchezza o di sesso – nella letteratura medioevale. Si tratta di uno studio di tipo letterario su un tema antropologicamente significativo concentrato sui tipi narrativi che anticipano la comparsa di Faust. Ad essere prese in esame sono fondamentalmente la letteratura latina [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_antenati-faustAlfonso D’Agostino, Gli antenati di Faust. Il patto col demonio nella letteratura medievale, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 10,00

L’interessante saggio di Alfonso D’Agostino tratta le narrazioni dei patti che gli esseri umani stringono con il maligno – per sete di conoscenza, di potere, di ricchezza o di sesso – nella letteratura medioevale. Si tratta di uno studio di tipo letterario su un tema antropologicamente significativo concentrato sui tipi narrativi che anticipano la comparsa di Faust. Ad essere prese in esame sono fondamentalmente la letteratura latina medievale e le letterature romanze dell’Età di Mezzo, pur non mancando riferimenti ad alcuni testi in altre lingue (es. greco) e di altri periodi (es. il teatro barocco).

A tale scopo l’autore, docente di Filologia romanza presso l’Università degli Studi di Milano, passa in rassegna tanto capolavori letterari – come Cantigas de Santa María di Alfonso X, Miracoli di Gautier de Coinci, Miracolo di Teofilo di Rutebeuf, Conde Lucanor di Juan Manuel, Libro de buen amor di Juan Ruiz, El mágico prodigioso di Calderón de la Barca… – quanto testi che, pur affrontando la tematica indagata, risultano di minore qualità letteraria.

The Tragical History of Doctor Faustus (ca. 1590) di Marlowe e Faust (1808) di Goethe hanno reso la vicenda di Faust “il patto col demonio per antonomasia” generando una miriade di varianti successive. D’Agostino sottolinea come la creazione di Marlowe, sicuramente debitrice di una lunga tradizione medievale, riesca a dar vita, «sulla base di una struttura testuale dai tratti fantastici, a un complesso sistema di potenzialità che avrebbe incrociato alcuni dei temi più scottanti della riflessione filosofica e dell’ispirazione artistica presenti e futuri. In primo luogo, la meditazione etica sulla scienza (da un lato) e le teorie dell’Uebermensch (ossia del Superuomo, dall’altro) assimilano a volte scienziati folli (o “stregoni”) e superuomini a Faust novelli, innescando non di rado procedimenti narrativi come quello fantascientifico degli universi paralleli o quello moral-metafisico del Doppelgänger (la figura del “doppio”). Ma […] anche la passione amorosa, il denaro e la volontà di potenza sono rappresentati sovente come daimones (spiriti, guide od ossessioni semi-divine) in grado di soggiogare l’animo umano. E nelle metamorfosi del tema s’inseriscono pure le tensioni polari fra libero arbitrio e necessità, fra titanismo e melancolia, fra pentimento e conversione» (p. 10).

patto-col-diavolo1

1. Un mago conduce Teofilo presso il diavolo che gli consegna un cartiglio con un sigillo: il patto è siglato – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

L’autore, nell’accennare agli esempi di patti col demonio moderni meglio riusciti indica The Bottle Imp (Il diavolo nella bottiglia, 1893) di Robert Louis Stevenson, l’incompiuto Master i Margarita (Il Maestro e Margherita, ante 1940) di Michail Bulgakov, Doktor Faustus (1947) di Thomas Mann, Mulata de Tal (Mulatta senza nome, 1963) di Miguel Ángel Asturias, oltre ad alcune opere che “affrontano o sfiorano” il patto diabolico, come The Picture of Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray, 1890) di Oscar Wilde e The Monkey’s Paw (La zampa di scimmia, 1902) di William W. Jacobs.

D’Agostino opera una distinzione fra creature demoniache non-umane ed esseri umani che intrattengono rapporti col demonio, dunque in grado di stipulare accordi con esso. È di quest’ultima categoria che si occupa il saggio, sebbene le stesse creature demoniache a cui fa riferimento la prima tipologia possono risultare dalla trasformazione subita da esseri umani votati al male (es. i dibbuk della tradizione ebraica o il “principe impalatore” che diviene Dracula).

Altra distinzione esplicitata dall’autore è fra le narrazioni che trattano un vero e proprio patto col maligno e quelle in cui interviene il demonio, come nel caso del tema dell’alleato del diavolo o dei “figli di Satana”.

Un racconto che intende rappresentare il patto col demonio deve esplicitare come esso si sviluppi in una sua sequenza narrativa. Patti tra esseri umani e dèi sono presenti nella mitologia greca e latina o nella tradizione pagana ma, sostiene l’autore, non si trovano miti o vicende assimilabili al patto di tipo faustiano. È solo con l’aprirsi dell’era cristiana che si sviluppa tale tematica; la stessa interpretazione del serpente dell’Eden (Genesi) come demonio avviene in epoca decisamente posteriore.

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2. Grazie al patto demoniaco Teofilo entra in possesso di ingenti ricchezze – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

Nel suo studio D’Agostino, sulla falsariga di quanto fatto da Adolfo Mussafia a fine Ottocento con le novelle del Libro dei Sette Sapienti, distingue i diversi tipi di patto col diavolo indicandoli con un lemma latino, anche se il più delle volte i testi propongono contaminazioni tra tipi diversi. I principali lemmi individuati e proposti dall’autore sono: Servus, Theophilus, Gerbertus, Fur, Uxor, Abnegatio e Cyprianus.

A questi sette aggiunge altri nove “tipi minori” di patto col diavolo, poco studiati, a cui l’autore attribuisce un lemma provvisorio: Visio, Sosia, Triplicatio, Mater, Columba, Hostia, Marinus, Raptus, Odium.

Oltre a soffermarsi sullo studio dei tipi principali di patto ed una successiva più sommaria trattazione dei minori, il saggio affronta anche alcuni “tipi affini”, ove il protagonista nello stringere un patto col diavolo, anziché se stesso, gli offre la moglie od il figlio. Tali tipi affini vengono così indicati dallo studioso: Substitutio, Robertus ed Oblatus.

Passando in rassegna i sette tipi principali di patto col demonio, con il lemma Servus l’autore indica il patto di Proterio, servo di Felladio, contenuto nella Vita Sancti Basilii Caesareae Cappadociae Archiepiscopi (prototipo greco del V-VI sec) ove si ritrovano tanto gli attanti base (essere umano e diavolo ed oggetto del patto) che gli elementi facoltativi (intermediario, documento e sabba).

Con il lemma Theophilus si fa riferimento alla leggenda di Teofilo giunto a noi in forma scritta in greco da Eutychianos verso il 661 ove «il patto è descritto in tutta la sua ampiezza, con la “doppia conversione” del protagonista, lo stato di necessità, l’intermediario satanico, il sabba, il documento (che a un certo punto della metamorfosi del racconto sarà firmato col sangue dell’apostata), il rito di sottomissione, il pentimento, la preghiera alla Vergine e così via. Da risaltare la promozione del culto mariano e, al tempo stesso, l’evidente antisemitismo» (pp. 26-27). A tale tipo appartiene il Miracle de Theophile di Rutebeuf (sec. XIII).

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3. Teofilo si pente e prega la Vergine Maria – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

A proposito del terzo tipo di patto medievale, indicato con il lemma Gerbertus, l’autore riprende la leggenda relativa a Gerberto d’Aurillac, papa Silvestro II (m. 1003), di cui vengono ricordati tanto gli studi di Arturo Graf (di fine Ottocento) quanto quelli di Massimo Oldoni (di fine Novecento). A partire dall’analisi del racconto di Walter Map, l’autore individua tra i caratteri specifici del Gerbertus: «la complessità dei moventi (l’erotismo si aggiunge alla passione per la scienza e al desiderio di potenza); la posizione ambigua del protagonista, che, contro il mònito biblico, pare in realtà voler servire due padroni; la sostanziale mancanza degli elementi “secondari”, come l’intermediario e il sabba; e il profilo tutto particolare del demonio, che risulta o poco determinato (come nella vicenda maggioritariamente ripetuta dalla tradizione) o al contrario fortemente virato nei colori della mitologia celtica» (p. 34). Il racconto di Walter Map introduce il personaggio del “diavolo-servitore” che è originariamente un folletto servizievole, animato da intenzioni più o meno buone che conduce al personaggio di Mefistofele.

La storia del ladro (spesso un ricco caduto in povertà) che stipula un patto col demonio al fine di poter rubare impunemente rappresenta il quarto tipo fondamentale di patto indicato dallo studioso con il lemma Fur. Tra gli esempi più importanti il saggio indica una novella del Conde Lucanor di Juan Manuel e un racconto del Libro de buen amor di Juan Ruiz, entrambi spagnoli e databili attorno agli anni Trenta del XIV secolo. A proposito del primo esempio D’Agostino sottolinea l’abilità nell’uso della “sospensione d’animo” (suspense) ed il ricorso ad un tempo della narrazione dilatato o contratto in maniera inversamente proporzionale al tempo del narrato.

Con il lemma Uxor viene indicato il quinto tipo di patto. Si tratta di un tipo scarsamente usato e può essere identificato da un exemplum raccolto da Klapper ove si narra di una donna che, maltrattata dal marito, ricorre ai consigli di un’anziana che al fine di farle riconquistare l’amore del marito coinvolge il demonio che impone alla donna il sacrificio dell’unico figlio e di rinnegare Cristo e i santi. Nonostante la sottomissione al volere del demonio la donna continua ad essere maltrattata dal marito ed il racconto termina con il pentimento al cospetto di un sacerdote della peccatrice che ottiene così il perdono. Abbiamo dunque il peccatore, l’intermediario, il demonio, l’abiura (con infanticidio), il pentimento e la redenzione. Oltre a ciò compare la figura del sosia, visto che il diavolo compare alla donna sotto le spoglie del marito.

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4. La Vergine Maria sconfigge il demonio facendogli vomitare il cartiglio con il patto – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

Con Abnegatio viene indicato il sesto tipo di patto che, sottolinea D’Agostino, «va considerato a parte, dato che in verità il patto col diavolo non giunge quasi mai a perfezionarsi, perché il peccatore, disposto a rinnegare Dio e i santi, si rifiuta di fare lo stesso nei confronti della Madonna» (pp. 45-46). Probabilmente la prima espressione latina di tale tipologia è rappresentata dal Dialogus miraculorum di Cesario di Heisterbach ma lo studioso preferisce «presentare il racconto, con parole di Angelo Monteverdi, secondo il testo dello Specchio di vera penitenza di Jacopo Passavanti, che peraltro segue l’Alphabetum narrationum di Arnoldo da Liegi, il quale a sua volta si ispira proprio a Cesario» (p. 47).

Il settimo tipo di patto viene indicato con il lemma Cyprianus. In questo viene fatto riferimento alla leggenda di San Cipriano del IV secolo anche se nella sua forma originaria manca l’apostasia. Si deve attendere qualche tempo affinché la vicenda si accosti al tema faustiano: «la piena adesione dell’exemplum ciprianeo al patto col diavolo si ha con gli sviluppi moderni del tema, che raggiungono il punto più elevato nel dramma di Calderón de la Barca, El mágico prodigioso» (p. 61).
Al tipo di patto definito Cyprianus nel saggio viene accostata la vicenda di Antemio e di Maria di Antiochia ove si rintracciano diversi tratti tipici come il movente passionale, l’intermediario, l’abiura, il documento scritto, l’incontro notturno col demonio, la processione… Si tratta comunque di un caso particolare visto che il peccatore pentito non riesce a rientrare in possesso della scrittura, resta dubbia la salvazione ed Antemio viene palesemente descritto con tratti diabolici prima del patto stipulato col demonio. Nonostante tale racconto si allontani da Cyprianus anche perché «il protagonista non è un mago (prima) né un martire (dopo)» (p. 66), vi sono elementi, come il movente passionale, la magia ed i ripetuti tentativi di seduzione della ragazza che lo possono accostare a tale tipologia.

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5. Teofilo si salva – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

Circa gli “altri tipi” di patto, con il lemma Visio l’autore si riferisce ad un peccatore che reso omaggio al demonio e consegnatogli un documento firmato col sangue ha una visione del suo giudizio. Con il lemma Sosia nel saggio viene fatto riferimento in particolare alla storia di un cavaliere che stipula un patto col demonio impegnandosi a non prestare ascolto ad una predica, a non farsi il segno della croce e ad evitare di entrare in chiesa. Convinto da alcuni amici il cavaliere entra in chiesa e, dopo che il diavolo, prendendo le sue sembianze, litiga coi vicini, il cavaliere decide di confessarsi. Con il lemma Triplicatio si rimanda alla storia di un uomo che per divenire ricco accetta di sottomettersi al diavolo a condizione che questi gli appaia tre volte prima della morte. Dopo che il demonio gli è apparso tre volte – non riconosciuto – sotto le sembianze di un povero, nella quarta apparizione il travestimento viene svelato e, nonostante le proteste, il demonio se lo porta all’inferno. Nel caso del Mater viene fatto riferimento alle vicende di un figlio che con la sua penitenza libera la madre – che aveva stretto un patto col maligno – dalle pene infernali. Con il lemma Columba il riferimento è alle vicende di un monaco che verrà perdonato dopo aver rinnegato il battesimo e Gesù per poter prendere in sposa la figlia di un sacerdote pagano. A proposito del tipo indicato con Hostia D’Agostino rimanda al patto non riuscito dell’exemplum del negromante di Magdeburgo nella raccolta di Klapper, mentre un altro patto non riuscito è nell’assempro 25 di Filippo degli Agazzari definito dallo studioso con il lemma Marinus dal nome del protagonista. Al XXXIX assempro di Filippo degli Agazzari è accostabile anche un originale racconto di Giovanni Sercambi in cui il protagonista «distilla odio allo stato puro» (p. 78) e per tale motivo viene lemmatizzo Odium.

Relativamente ai “tipi affini”, con Substitutio viene fatto riferimento al «miracolo della Madonna in cui Maria sostituisce la moglie ceduta al demonio» (p. 3) a partire dalla Legenda aurea di Iacopo da Varazze (storia ripresa, con qualche variazione nel Dit du povre chevalier di Jean de Saint-Quentin). Con il lemma Robertus ci si riferisce alla tipologia in cui è la prole ad essere offerta al maligno, mentre con Oblatus si prende in esame la storia di un fanciullo consacrato al demonio la cui prima redazione pare essere quella di un testo latino pubblicato da Mussafia simile a quello di Vincenzo di Beauvais, a cui ricorre Gautier de Coinci nel miracle intitolato Dou jovencel que li dyables ravi, mais il ne le pot tenir contre Nostre Dame.

 

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