Orlando – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Liberarsi dal “giogo dei ruoli” https://www.carmillaonline.com/2022/12/19/liberarsi-dal-giogo-dei-ruoli/ Mon, 19 Dec 2022 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75218 di Paolo Lago

S. Chemotti, M. Coglitore, Il giogo dei ruoli, Il Poligrafo, Padova, 2021, pp. 201, euro 23,00.

È difficile liberarsi dei “ruoli”, delle identità cristallizzate e incancrenite da dinamiche di tipo sociale, politico, economico e, perché no, anche letterario. È difficile perché il ruolo può presto trasformarsi in “giogo”, in una sorta di prigionia identitaria che cresce intorno ai singoli individui. E, probabilmente, risulta ancora più difficile quando i ruoli assumono le loro forme all’interno di una coppia, una struttura sociale appesantita da rigidità imposte dall’alto, dalle convenzioni di matrice borghese [...]]]> di Paolo Lago

S. Chemotti, M. Coglitore, Il giogo dei ruoli, Il Poligrafo, Padova, 2021, pp. 201, euro 23,00.

È difficile liberarsi dei “ruoli”, delle identità cristallizzate e incancrenite da dinamiche di tipo sociale, politico, economico e, perché no, anche letterario. È difficile perché il ruolo può presto trasformarsi in “giogo”, in una sorta di prigionia identitaria che cresce intorno ai singoli individui. E, probabilmente, risulta ancora più difficile quando i ruoli assumono le loro forme all’interno di una coppia, una struttura sociale appesantita da rigidità imposte dall’alto, dalle convenzioni di matrice borghese e cattolica ancora dure a morire nell’Italia di oggi, dove è stato creato addirittura un ministero “della famiglia, della natalità e delle pari opportunità”. Ma il “giogo dei ruoli” può trasformarsi anche in un vero e proprio gioco nel quale, per mezzo di una sottile ironia, si cerca di prendere a staffilate quelle antiquate e rigide convenzioni imposte dal potere. È ciò che si propongono di fare Saveria Chemotti e Mario Coglitore nel loro bel libro intitolato, appunto, “Il giogo dei ruoli”, in cui i due autori mettono in scena dei dialoghi fra personaggi letterari o reali che appartengono a coppie famose di innamorati o di amanti, cristallizzati dal tempo e dall’immaginario comune. All’interno di una struttura articolata in tre tempi, incontriamo, fra gli altri, Paolo e Francesca, Dulcinea e Don Chisciotte, Orfeo ed Euridice, Marianna e Sandokan ma anche Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, Mileva Marić e Albert Einstein, Sibilla Aleramo e Dino Campana. La scrittura si trasforma quindi anche in un gioco in cui la rigidità del giogo si rompe perché, come affermano gli stessi autori in una nota finale, “i momenti più divertenti di questa scrittura senza affanni sono consistiti nella stesura di quelli che abbiamo chiamato «ordini inversi», quando cioè ci siamo scambiati i ruoli, affidando al maschio di questa inusuale coppia di sorella e fratello per «elezione» il personaggio femminile e viceversa alla femmina il personaggio maschile. Un rovesciamento del «gioco delle parti» che ci è piaciuto particolarmente”.

I personaggi messi in gioco non dialogano soltanto fra di loro ma anche, metaletterariamente, con il lettore e con la sua epoca, con avvenimenti storici ancora di là da venire. Il “giogo” viene rotto anche in questo modo: le figure reali e letterarie messe in scena da Chemotti e Coglitore escono dal loro imprigionante contesto e si inseriscono all’interno di un immaginario comune non statico ma avvolto da un movimento continuo. Altre volte, come nel caso di Paolo e Francesca o di Alphonsine Plessis e Alexandre Dumas figlio non si instaura un vero e proprio dialogo ma una narrazione commentata attraverso la quale gli autori discutono sui personaggi, sul loro tempo e sul loro ambiente sociale, intervallando la narrazione con un andamento più riflessivo e saggistico. Ad esempio, come scrive Saveria Chemotti giocando sul significato del verbo “scambiare” e “scambiarsi”, “la colpa di Paolo e Francesca non è stata solo quella di scambiarsi di nascosto un tenero bacio, ma quella di aver scambiato la letteratura con la vita, cadendo nel più pacchiano degli errori”. Perché la stessa letteratura può trasformarsi in gabbia, in schema, in rigido meccanismo che consegna all’immaginario comune figure stereotipate. Gli stessi personaggi letterari (e mitici, come in questo caso) lottano per scrollarsi di dosso quegli stereotipi, quei gioghi arbitrariamente imposti, come Euridice (la cui voce è mediata da Chemotti) che, dopo essersi dichiarata una “preda del destino a cui mi hanno assoggettata gli dei”, afferma perentoria: “A nessuno viene in mente che io ero in grado di resuscitarmi da sola? Che potevo fare affidamento sulla mia sensibilità, sulla mia stessa natura per vincere le ombre e risalire al sole? Che potevo liberare la mia anima prigioniera dei gioghi di un potere che mi avrebbe incatenata a una ventura tragica e senza soluzione di continuità, secolo dopo secolo? Un giorno, nella primavera di molte ragazze io avrò finalmente consolazione e riscatto. Sarò una di loro e non mi volterò mai indietro”. Euridice, esprimendo la sua autoaffermazione di donna contro un potere invisibile che la vorrebbe sempre assoggettata, viaggia, se così si può dire, nel tempo fino a prefigurare le lotte femministe che verranno.

Bisogna infatti notare che tutti i personaggi femminili del libro possiedono in sé una forte carica di ribellione dalle connotazioni di genere, in quanto si oppongono costantemente al potere patriarcale rivestito e simboleggiato dalla controparte maschile della coppia. Penelope, sempre con le parole di Chemotti (che non a caso è una studiosa di letteratura di genere e delle donne), rivendica il suo diritto a raccontare la sua versione dei fatti perché ormai “stanca di essere additata a eroina del matrimonio consacrato”. Ebbene, secondo Penelope, Odisseo è tornato “per attuare la sua vendetta, non per raggiungere me”. E, sicuramente, nella rivisitazione del Giogo dei ruoli, l’eroina omerica avrebbe ceduto alla corte serrata dei pretendenti se avesse capito che l’intenzione di Odisseo era quella “di restare per una toccata e fuga capace di mettermi di nuovo incinta, cioè di imprimermi le stimmate del padrone”. L’eroe se n’è andato senza neanche salutarla: “egocentrico e avido di conoscenza se n’è andato alla ricerca dei confini del mondo”. Naturalmente, adesso non si tratta più del personaggio omerico ma di quello dantesco e, infatti, con spirito metaletterario, Penelope conclude che “si merita di finire all’inferno”. Ma non sono soltanto i personaggi femminili a rimproverare e, quasi, a maledire i propri uomini, in una sorta di libera rivisitazione delle Heroides di Ovidio; anche alcuni personaggi maschili sottolineano la condizione subalterna delle donne nella loro epoca. È il caso, ad esempio, di Alexandre Dumas figlio (non un personaggio letterario, quindi, ma uno reale, anche se legato all’immaginario della letteratura), a cui presta la voce Mario Coglitore. Quest’ultimo, attingendo alla sua vocazione di storico e studioso di dinamiche storico-sociali, dopo una digressione in cui descrive gli effetti nefasti della rivoluzione industriale (“L’età delle ciminiere. Che da giovane ho visto spuntare a una a una, sentinelle implacabili dell’economia di mercato e per converso dello sfruttamento indecente di uomini, donne e persino bambini”), pone l’accento su alcune dinamiche della “sessualità «vittoriana»”, in un periodo in cui le donne dovevano rivestire il ruolo di procreatrici “meglio se di maschi e non di femmine, naturalmente, specie nel caso dei primogeniti cui verrà affidato il patrimonio familiare”. Parlando di Alphonsine Plessis, la cortigiana divenuta amante dello scrittore al quale ha ispirato il personaggio di Marguerite Gautier per il suo romanzo La signora delle camelie, così Coglitore-Dumas figlio si esprime: “Lei, considerata né più né meno che una prostituta, ha preso tutto ciò che ha potuto dalla vita senza risparmiarsi, assaggiandone i frutti più dolci e soprattutto quelli più amari. Fino a che la malattia non ha spezzato l’insopportabile giogo che la teneva prigioniera di questi uomini dall’animo violento e dalla insaziabile bramosia. Gli stessi che la domenica frequentano la chiesa del quartiere o le grandi cattedrali, inginocchiandosi davanti agli altari e prendendo la comunione”.

Un altro personaggio letterario inchiodato al suo ruolo dalla tradizione è l’Angelica dell’Orlando furioso (la cui voce è quella di Chemotti) che giustifica la sua fuga continua dalla guerra (“Io scappo. Anche da questo scempio, ma lo tengo per me”) e da Orlando con il suo diritto ad innamorarsi: il cavaliere “non contempla neppure l’ipotesi che io mi sia finalmente innamorata, che in me sia sorto un sentimento sconosciuto e raro che mi spinge ad abbandonarmi senza l’aiuto di sortilegi”. Ciò che rifugge è, ancora una volta, il ruolo stereotipato: “Certo: alcuni dicono che io non ho davvero una vita mia propria, che sono un «sorridente fantasma» perché configuro un modello che è fin troppo facile convertire in stereotipo e destabilizzarlo”. Perché una donna non può essere un “soggetto del desiderio”. D’altra parte, Angelica conclude la sua ‘tirata’ appassionata con un appello alle donne musulmane, parole che valicano i confini del tempo per giungere fino ai giorni nostri, dense di significato politico e sociale se pensiamo ai tragici fatti che avvengono in Iran: “Perché allora noi, cristiane e mussulmane, non stringiamo un patto che ci sveli nella nostra essenza, con la pretesa di esser guardate oltre la pelle liscia o a rughe, i capelli al vento o sotto un velo, comunque sia?”. Una rivendicazione di sé e dei propri diritti che suona anche come una contestazione alla società tout court è anche quella che Mario Coglitore, dando la voce a Jane (nel ‘dialogo’, costruito dagli autori in un “ordine inverso”, dedicato a Tarzan e Jane, i personaggi inventati da Edgar Rice Burroughs nel suo romanzo Tarzan delle scimmie del 1914), fa risuonare con echi politici e sociali. La giovane, infatti, afferma che la società europea e occidentale ha da sempre avuto pregiudizi non solo nei confronti degli africani ma dell’Africa intera, vista come “il Continente Nero pieno di misteri, giungle soffocanti e umidità insopportabile, screpolata in alcune latitudini da un sole impietoso e da sabbie smosse dal Ghibli tormentoso”. E allora, l’inglese Jane, innamorandosi del misterioso “Tarzan delle scimmie”, riesce a spezzare “i vincoli opprimenti della società del mio tempo, ben poco seducente” e, finalmente, non sarà più costretta a “respirare i miasmi del carbone delle industrie della capitale che sbuffavano a pieno ritmo, nebbia puzzolente dentro alla nebbia che già saliva dal Tamigi”.

E i personaggi maschili? Anche loro, nonostante siano in alcuni casi staffilati ben bene dalla loro controparte femminile, riescono a liberarsi dal giogo che li vorrebbe imprigionati nel loro ruolo. Se, come abbiamo visto, Dumas figlio sottolinea la subalternità della condizione femminile, Tarzan, da parte sua, nelle parole di Saveria Chemotti, afferma che anche lui si sente un ‘diverso’ nella giungla e, alcune volte, è stato costretto a nascondersi perché cosciente della propria diversità rispetto alle scimmie. Forse, però, la figura maschile che viene presentata più slegata dal proprio ruolo è quella di Giacomo Casanova, irrigidito nello stereotipo del seduttore fino all’antonomasia. Mario Coglitore, da buon veneziano, ci presenta un Casanova vecchio e triste in una lontana Boemia, profondamente immalinconito dal ricordo della sua ormai irraggiungibile Venezia: “Venezia mi manca. Mi manca l’odore dell’acqua che ristagna, i rumori del remo che sciaborda, lo spettacolo della laguna in qualunque stagione”. In quest’immagine malinconica (che può ricordare il poetico finale del Casanova di Federico Fellini, in cui il personaggio sogna di danzare sulla laguna ghiacciata con una dama meccanica), Casanova si libera del suo ruolo, concedendosi finalmente un immaginario libero dagli stereotipi. Ed è lo stesso immaginario che ci regala Il giogo dei ruoli: un tentativo di resistenza – attuato per mezzo di una scrittura che valica i confini fra realtà e letteratura – ai gioghi imposti da qualsiasi potere.

]]>
Cercasi Cazzaro https://www.carmillaonline.com/2017/03/19/cercasi-cazzaro/ Sun, 19 Mar 2017 19:27:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37121 di Alessandra Daniele

renzi-dimezzatoDopo aver aver abolito i voucher solo per paura di un’altra disfatta referendaria, nella successiva partita delle nomine dei boiardi di Stato ai vertici delle società partecipate il governo Gentiloni è tornato a dimostrarsi un Renzi-Bis, che con un’altra faccia continua lo stesso gioco. Un Biscazzaro.

Intanto, s’è aperta la corsa per le primarie del PD. Ai blocchi di partenza King, Soldatino e D’Artagnan.

King Matteo Renzi è tornato dalla California gonfio come un tacchino all’ingrasso. “Vado a imparare dai più bravi” aveva detto. Evidentemente si riferiva [...]]]> di Alessandra Daniele

renzi-dimezzatoDopo aver aver abolito i voucher solo per paura di un’altra disfatta referendaria, nella successiva partita delle nomine dei boiardi di Stato ai vertici delle società partecipate il governo Gentiloni è tornato a dimostrarsi un Renzi-Bis, che con un’altra faccia continua lo stesso gioco.
Un Biscazzaro.

Intanto, s’è aperta la corsa per le primarie del PD. Ai blocchi di partenza King, Soldatino e D’Artagnan.

King
Matteo Renzi è tornato dalla California gonfio come un tacchino all’ingrasso. “Vado a imparare dai più bravi” aveva detto. Evidentemente si riferiva all’obesità.
All’assemblea del Lingotto ha cercato di nuovo di spacciarsi per una novità. Poi ha cominciato a insultare i comunisti e a lamentarsi del giustizialismo. Lo hanno portato via mentre giurava d’essere il nipote di Mubarak.
In realtà, la famiglia Renzi rispetta le leggi.
Di Mendel.
Parafrasando Neuromancer, si può dire che il renzismo sia stato un demenziale esperimento di darwinismo sociale ideato da un ricercatore annoiato che abbia tenuto costantemente il dito sul tasto fastforward.
Da rottamatore a rottame in tre anni. Matteo è davvero un recordman.

Soldatino 
OrlandoGelido, meccanico, monocorde, il ministro della Giustizia Andrea Orlando sembra un androide senza il chip emozionale.
Se Rick Deckard dovesse fargli il test di Voigt-Kampff, dopo un po’ darebbe una schicchera al rilevatore di reazioni emotive dicendo “Ma è spento?”
Orlando è l’ultimo drone del modello “Sobrietà” (che comprende Monti, Mattarella e Gentiloni) ed è stato attivato come fail-safe da quella stessa lobby di potere che aveva orchestrato l’ascesa di Renzi, e che adesso spera di frenare quella di Emiliano.
Se i robot che occupano posti di lavoro sono una minaccia, quelli che occupano posti di potere lo sono molto di più.

michele-emilianoD’Artagnan
Michele Emiliano s’è esplicitamente appellato all’ala sinistra degli elettori grillini affinché, votandolo alle primarie PD, lo aiutino a infilzare il Cazzaro allo spiedo una volta e per tutte.
In cambio Emiliano suggerisce che il suo PD renderebbe possibile l’unica alleanza di governo in grado di arrivare alla maggioranza col sistema proporzionale, cioè un’attualmente impensabile Grosse Grasse Coalition PD-5 Stelle. Tutti per uno, uno per tutti. Agile come uno spadaccino nonostante la mole, Emiliano promette contemporaneamente di riunificare il sedicente centrosinistra, riassorbendo gli scissionisti dei quali lui stesso s’è liberato con un’abile finta.
Benché Emiliano sia il solo dei tre candidati ad avere lo Zeitgeist dalla sua parte,  difficilmente l’establishment gli consentirà di vincere queste primarie, tenendoselo solo come extrema ratio.

Morto un Cazzaro se ne fa un altro? Non è più così facile.
Il PD ha definitivamente perso la faccia. Non gli basterà cambiare testimonial.
Neanche se arriva Patrick Dempsey.

]]>
Una trincea, molte prospettive: per una storia transnazionale della Grande guerra https://www.carmillaonline.com/2015/07/30/una-trincea-molte-prospettive-per-una-storia-transnazionale-della-grande-guerra/ Thu, 30 Jul 2015 21:00:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24134 di Armando Lancellotti

Labanca Uberegger grande guerraNicola Labanca, Oswald Überegger, a cura di, La guerra italo-austriaca (1915-18), il Mulino, Bologna, 2014, 379 pagine, € 25,00

La novità – per certi versi, l’originalità – del volume curato da Nicola Labanca e Oswald Überegger non consiste tanto nell’argomento – la guerra italo-austriaca del 1915-‘18, affrontata negli anni del suo centenario – e nemmeno nel titolo, che lo stesso Labanca nell’Introduzione definisce volutamente “desueto” e neppure nella periodizzazione «apparentemente superata (1915-‘18) per parlare di un conflitto che ormai la storiografia vede come una guerra totale [...]]]> di Armando Lancellotti

Labanca Uberegger grande guerraNicola Labanca, Oswald Überegger, a cura di, La guerra italo-austriaca (1915-18), il Mulino, Bologna, 2014, 379 pagine, € 25,00

La novità – per certi versi, l’originalità – del volume curato da Nicola Labanca e Oswald Überegger non consiste tanto nell’argomento – la guerra italo-austriaca del 1915-‘18, affrontata negli anni del suo centenario – e nemmeno nel titolo, che lo stesso Labanca nell’Introduzione definisce volutamente “desueto” e neppure nella periodizzazione «apparentemente superata (1915-‘18) per parlare di un conflitto che ormai la storiografia vede come una guerra totale e mondiale, se non addirittura globale, e dalla periodizzazione più ampia (la guerra combattuta 1914-1918 all’interno della più lunga crisi 1907/1911 – 1923)» (pp.14-15). Consiste piuttosto nell’approccio con cui il gruppo di storici italiani e austriaci, coordinato dai due curatori, ha affrontato il tema della Grande guerra sul fronte sud-occidentale e nelle finalità che si è proposto di conseguire.

Infatti il libro si prefigge di studiare il primo conflitto mondiale «da una prospettiva, se non inedita, certamente innovativa, e per la prima volta perseguita in maniera consapevolmente sistematica, quanto meno nelle intenzioni e nelle modalità» (p.15). La prospettiva è quella di “una storia transnazionale”, che sia in grado di abbandonare e oltrepassare gli approcci nazionali e soprattutto i nazionalismi che quegli approcci motivano e di cui si alimentano. Un punto di vista diverso non solo e non tanto perché mette a confronto voci di studiosi provenienti dalle due parti di un confine che fu un fronte della Grande guerra, ma soprattutto perché non intende tener conto dei confini nazionali, o degli steccati storiografici tradizionali, considerandoli irrilevanti e procedendo ad una ridefinizione dell’approccio e del campo di indagine affinché questi siano, insieme, italiani e austriaci, transnazionali appunto.
Ma, procedendo con ordine, per prima cosa la Grande guerra, sostiene Labanca sulla scorta della storiografia più recente, va intesa come un conflitto europeo, mondiale, globale e totale.
Europeo perché, nato da una crisi regionale (balcanica) sfociata – come è noto – nella dichiarazione di guerra di Vienna a Belgrado, si trasformò in poche settimane in una guerra europea e subito mondiale, disponendo le grandi potenze continentali immediatamente coinvolte – ad eccezione proprio dell’Austria-Ungheria – di estesissimi imperi coloniali. Ebbe così inizio «una guerra in cui i processi di globalizzazione e totalizzazione si fecero immediatamente evidenti» (p.9) e per cui è opportuno aggiungere al concetto di guerra mondiale quello di “guerra globale”, che non si limita a qualificare l’estensione quantitativa del conflitto a più continenti, ma definisce il tipo e la modalità del coinvolgimento dei paesi belligeranti, che fu appunto “totale”, riguardando ed attraversando in tutte le direzioni l’intera società, le istituzioni politiche e gli apparati economico produttivi come mai prima d’allora.
Per quel che riguarda la periodizzazione, il libro lascia intendere che la più corretta sia quella che vede il conflitto del 1914-1918 come il momento più tragico e cruento di una ben più lunga crisi che parte con la rivalità franco-tedesca per il Marocco (1905/1911) e prosegue con la crisi economica del 1907, con l’annessione austriaca della Bosnia Erzegovina del 1908, con la guerra italo-turca per la Libia del 1911 e le due guerre balcaniche del 1912 e 1913, con la corsa anglo-tedesca agli armamenti navali nel Mare del Nord e che non si conclude definitivamente con il novembre del 1918, ma solo con il trattato di Losanna del 1923 tra la Turchia e le potenze dell’Intesa.
Passando dalla periodizzazione generale a quella particolare, cioè italiana, per un verso risulta più corretto considerare anche per l’Italia la datazione 1914/’18; nonostante, infatti, il conflitto sul fronte carsico-alpino-trentino inizi solo il 23 maggio del ’15, l’Italia, pur non combattendo, era stata già in precedenza profondamente coinvolta nella guerra e l’aspro scontro interno al paese tra neutralisti ed interventisti che precedette la dichiarazione di guerra lo dimostra chiaramente. Per un altro verso, però, la datazione 1915/’18, che compare nel titolo del libro, risulta più efficace nel focalizzare l’attenzione sulla guerra degli italiani e degli austriaci sul fronte sud-occidentale, che ancora oggi è il più trascurato dalle grandi ricostruzioni storiche internazionali della prima guerra mondiale, prevalentemente concentrate sul fronte franco-tedesco. Inoltre, quella tra il 1915 e il 1918 fu per l’Italia “la guerra”, non essendo le truppe italiane impegnate, se non in misura limitatissima e trascurabile, su altri fronti, a differenza dei soldati degli altri più importanti paesi belligeranti, Austria-Ungheria compresa.
Così definito e delimitato il campo d’indagine, gli autori lo affrontano – lo si diceva sopra – con un approccio transnazionale, che vuole superare gli stereotipi, i pregiudizi e le deformazioni nazionali e più spesso nazionalistiche, ma anche le contrapposizioni, create proprio nel periodo bellico e poi conservate e rafforzate per molto tempo dopo la guerra. Inoltre, l’assunzione di un’ottica transnazionale passa attraverso la consapevolezza che nelle relazioni tra stati, istituzioni, popoli diversi, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra, esiste sempre una zona di scambio e di intreccio, come l’area comune tra due insiemi in parte sovrapposti e cioè un territorio che non è quello definito, diviso, circoscritto da frontiere, dogane e confini, poiché li trascende, in quanto essi risultano sostanzialmente irrilevanti per la mappatura di questa regione intermedia, su cui si esercita lo sforzo di indagine di questo volume di storia transnazionale.
Lavoro oltremodo necessario se è vero, come sostiene nelle Conclusioni l’altro curatore del volume, Oswald Überegger, che, sul piano degli studi storici, Italia e Austria vivono “schiena contro schiena” come due vicini che vicendevolmente si ignorano ed in particolare ciò accade per la storia contemporanea, preferendo gli italianisti austriaci occuparsi quasi esclusivamente dei territori italiani ex asburgici, trascurando lo studio della storia del resto del paese e privilegiando, invece, i contemporaneisti italiani lo studio della storia della Germania. La ricerca storica bilaterale o comparata, pertanto, non ha compiuto molti passi avanti negli ultimi decenni, rimanendo un interesse limitato quasi esclusivamente alle regioni di confine tra i due paesi e non andando al di là del format culturale tradizionale del convegno di esperti, poco capace di produrre effetti duraturi o interessi allargati ai non specialisti. Una reciproca ignoranza, quindi, che conserva e tramanda gli stessi stereotipi formatisi durante la guerra e che, per la parte austriaca, consistono nella lettura dell’intervento italiano a fianco dell’Intesa come un “tradimento”, nel mancato riconoscimento della vittoria italiana, che va a confluire nella leggenda dell’esercito imperial-regio “invitto sul campo” e della “pugnalata alle spalle”, distorsioni della realtà negli stessi termini prodotte e diffuse, durante e dopo la guerra, anche in Germania. Ovviamente alle storture e ai pregiudizi austriaci fanno da contraltare quelli italiani, che amplificano ed estremizzano l’astio di origine risorgimentale verso l’Austria eterno “nemico oppressore” e “carcere dei popoli” o che producono la leggenda per la quale i soldati italiani avrebbero sempre combattuto in condizioni di inferiorità numerica e di minore disponibilità di mezzi; luogo comune utile certamente per esaltare l’eroismo bellico, ma che capovolge la realtà dei fatti.
E ancora, risulterà forse quasi incomprensibile per un lettore italiano che questioni ampiamente trattate, anche nella semplice manualistica del nostro paese, come quella delle differenze interne e della complessità degli schieramenti interventista e neutralista, in termini di motivazioni e scopi dell’una o dell’altra scelta e come quella della netta prevalenza dei neutralisti, sia nella società sia tra le forze politiche, a fronte però di una scelta interventista del governo e della corona, continuino invece ad essere argomenti sostanzialmente ignorati dal lettore austriaco (il libro, infatti, è pubblicato in entrambe le lingue) e – secondo Überegger – anche da qualche storico.
Proprio nella rimozione di tali incrostazioni si esercita un approccio storico comparativo, multilaterale e transnazionale, che a seguito della convergenza, dell’intreccio e della integrazione di prospettive e sguardi diversi intende dare il via ad un lavoro che produca nuove e più complete letture di una materia che viene al contempo risagomata e ridefinita, grazie all’abbandono di confini e steccati nazionalistici, per troppo tempo rispettati e replicati.
Con questa metodologia e con questi obiettivi, si articolano e si susseguono le sei sezioni del libro, ognuna focalizzata su un aspetto particolare della Grande guerra e composta di due capitoli, uno “austriaco” ed uno “italiano”, per complessivi dodici contributi di altrettanti storici, specialisti del primo conflitto mondiale, i cui nomi vengono indicati solo nell’Indice, ma non in corrispondenza dei singoli capitoli, quasi che si intenda presentare il libro come il frutto del lavoro di un autore collettivo, di un vera e propria attività di équipe.
E così, di capitolo in capitolo, metaforicamente attraversando più volte il fronte ora in una direzione ora nell’altra, si conoscono analogie, parallelismi, divergenze o convergenze tra Italia e Austria-Ungheria riguardo alle scelte politiche e di governo, alle modalità di organizzazione e di mobilitazione bellica dell’economia, alle condizioni dei soldati, ai cambiamenti culturali e all’organizzazione della propaganda di guerra, ecc.
Per esempio, nella prima sezione (I governi e la politica) Martin Moll e Daniele Ceschin, rispettivamente per la parte austriaca e per quella italiana, affrontano il tema della deriva autoritaria e della militarizzazione della politica e dei governi verificatesi in entrambi i paesi, seppur con modalità e tempi diversi. Moll sostiene che fin dal 1914 sia stata imposta una vera e propria dittatura militare e governativa attraverso l’emanazione da parte dell’imperatore Francesco Giuseppe di numerose ordinanze speciali, che attribuivano immediatamente forza di legge agli atti dell’imperatore stesso, sospendendo l’attività legislativa del Reichsrat (il Parlamento), che limitavano le libertà fondamentali dei cittadini, che sottoponevano a stretto controllo le associazioni e i partiti politici, che comprimevano i diritti sindacali, che censuravano la stampa e la pubblicistica in genere. Ma tutto questo avvenne in Cisleitania, cioè la “parte austriaca” e sotto governo viennese dell’Impero austro-ungarico dopo l’Ausgleich dualistico del 1867, non in Transleitania, cioè la “parte ungherese” dell’impero, dove il governo continuò ad operare prevalentemente su base parlamentare. Un giro di vite repressivo che colpì anche gruppi etnici considerati inaffidabili, soprattutto in zone vicine al fronte: è il caso dei ruteni della Galizia, che sospettati di essere filorussi, vennero massacrati e degli sloveni della Bassa Stiria, che, nonostante la distanza della regione dal fronte, furono sottoposti ad arresti di massa, perché accusati di essere filoserbi. Da ciò si evince che i vertici militari e governativi austriaci nutrivano una sorta di aprioristica sfiducia nei confronti di certi segmenti della popolazione, nonostante la mobilitazione nell’estate del 1914 si fosse svolta senza difficoltà anche nelle regioni con minore presenza tedesca o ungherese.
Una pregiudiziale ed ottusa sfiducia che invece in Italia era provata dallo Stato maggiore del Regio Esercito e dagli alti ufficiali di carriera soprattutto nei confronti dei soldati, dei milioni di contadini coscritti e che portò all’adozione di misure repressive terroristiche da parte di Cadorna, come nella terza sezione del libro (I soldati e i combattimenti) spiega Federico Mazzini.
Quando il 21 novembre del 1916 l’ottantasettenne Francesco Giuseppe morì, lasciando il trono al pronipote Carlo I, la stretta autoritaria venne allentata. Il nuovo imperatore inaugurò un nuovo corso in politica interna che ridusse la censura sulla stampa, che fece riprendere le attività del Parlamento il 30 maggio 1917, che rivalutò il movimento dei lavoratori, nel tentativo di trovare nella socialdemocrazia austriaca una forza politica capace di contenere le crescenti proteste operaie o gli eventuali sussulti rivoluzionari. A questo si aggiungano i tentativi di Carlo I di addivenire ad un compromesso con i nemici e di negoziare la pace. Progetti questi, secondo la lettura di Moll, che fallirono sia per la scarsa disponibilità dei nemici, sia per le forti pressioni in direzione opposta dell’alleato tedesco, dagli aiuti militari ed economici del quale dipendeva la sopravvivenza dell’Austria-Ungheria. Il nuovo corso “liberale” di Carlo I, quindi, non riuscì a risolvere i gravissimi problemi da cui il paese era ormai schiacciato, né ad evitare la sconfitta e lo smembramento dell’impero.
Anche in Italia, spiega Ceschin, a seguito dell’entrata in guerra, come in generale in tutti i paesi coinvolti nel conflitto, si verificarono fenomeni analoghi a quelli austriaci di rafforzamento autoritario dell’esecutivo e parallelo indebolimento delle prerogative parlamentari, di militarizzazione sia della società sia della politica, di aumento esponenziale della repressione e del controllo sociali, il tutto preceduto dallo scontro tra interventisti e neutralisti, di cui si nutrirono le forze antisistema (liberale), che divennero capaci di condizionare le scelte politiche nazionali e che alla lunga, dopo la guerra, confluirono nel fascismo. Tuttavia, dall’integrazione delle due letture, austriaca ed italiana, degli stessi fenomeni, si deduce che in Italia fu meno forte, o forse ebbe meno successo, il tentativo di instaurare un “assolutismo bellico”, che invece si realizzò più efficacemente in Austria. Secondo Ceschin in Italia, una volta esautorato nella sostanza dei fatti il Parlamento, si formò una sorta di “diarchia imperfetta”, costituita dall’esecutivo e dallo Stato maggiore, cioè dal potere politico e dal potere militare, da Roma e Udine, sede del Comando Supremo Generale dal 1915. Una competizione tra due poteri, quindi, in cui quello militare progressivamente si impose su quello politico, come dimostra, per esempio, il fatto che dopo il successo austriaco della Strafexpedition nel 1916 il governo Salandra cadde, mentre Cadorna rimase al suo posto. L’esecutivo poi era internamente indebolito dalla volontà del ministro Sonnino di assicurare alla politica estera da lui guidata ampi spazi di autonomia o indipendenza dal resto del governo. E proprio Sonnino fu a tal punto l’uomo forte del governo durante l’intero conflitto – tanto da rimanere al suo posto di ministro degli Esteri nonostante l’avvicendarsi dei governi Salandra, Boselli, Orlando – che Ceschin parla di una sorta di “lungo governo Sonnino”. All’interno di questa “diarchia imperfetta” entrambi i poteri mostrarono velleità o “vocazioni totalitarie”, che sempre Ceschin legge come manifestazione di un fenomeno di ben più lungo corso: la repressione sociale e la militarizzazione della politica iniziate con quella “crisi di fine secolo” che proprio nel Sonnino di Torniamo allo Statuto aveva trovato uno dei principali teorici e che si sarebbero realizzate più tardi con il fascismo. Una svolta si verificò con Caporetto, sia a livello politico con la fine del governo Boselli, sia sul piano militare con l’allontanamento di Cadorna, sostituito da Diaz, ma soprattutto fu il Parlamento che provò a rientrare in possesso delle proprie prerogative e ad equilibrare il potere fino ad allora esercitato dalla diarchia formata dall’esecutivo e dallo Stato maggiore. Ma questo non comportò come conseguenza un allentamento della stretta repressiva: per quanto, come è noto, l’accorciamento della linea del fronte, dall’Isonzo ritornato sul Piave, permettesse un miglioramento delle condizioni dei soldati, per esempio con turni di licenza più frequenti, il controllo e la repressione politica e sociale contro i cosiddetti “caporettisti” e i “disfattisti” addirittura aumentarono, come testimoniano gli arresti dei socialisti massimalisti Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati, allora rispettivamente segretario del PSI e direttore dell’Avanti.
Come per l’argomento oggetto della prima parte, sommariamente ricostruito, così per gli altri cinque temi che compongono il libro il confronto e l’integrazione delle analisi e delle prospettive austriaca e italiana consentono la costruzione di un quadro ampio e molto ricco, come, per fare un ultimo esempio, nel caso della interessantissima terza parte (I soldati e i combattimenti), dove Christa Hämmerle e Federico Mazzini considerano e mettono a confronto le esperienze dei soldati dell’una e dell’altra parte del fronte. Numerosi sono gli elementi comuni ai due eserciti: la mobilitazione fino all’ultimo uomo disponibile, che portò l’Austria-Ungheria a coscrivere 9 milioni di soldati da schierare sui diversi fronti e l’Italia a mobilitarne 5 milioni, da impiegare sull’unico fronte su cui combatteva; la netta prevalenza dell’elemento contadino tra i soldati semplici, così come l’importanza degli ufficiali di complemento; lo spaesamento dei contadini-soldati che provavano un forte senso di «perdita del proprio ruolo sociale e la sensazione di venir meno ai propri doveri, in particolare verso gli anziani e le donne che dovevano sostituirsi al coscritto» e, per finire, altrettanto uguali erano le orribili condizioni in cui austriaci e italiani combattevano e vivevano (o sopravvivevano) sia sul Carso e basso Isonzo sia sull’alto Isonzo e sulle Alpi. Ma da un lato – per passare alle differenze – vi era un esercito composto da undici nazionalità (tedesca, ungherese, ceca, slovacca, slovena, croata, serba, rutena, polacca, rumena e italiana), che parlavano undici lingue diverse, per quanto il tedesco rimanesse la lingua ufficiale dei comandi militari, e che professavano religioni differenti, con i cattolici in maggioranza, a cui si aggiungevano evangelici, ortodossi, mussulmani ed ebrei. Differenze queste – nazionali, linguistiche e religiose – non presenti nell’esercito italiano. Di particolare interesse il confronto tra i sistemi di disciplina e repressione interni ai due eserciti, dal quale emerge come il rigore inflessibile, la severità estrema e la violenza o la brutalità delle punizione fossero elementi comuni ai due schieramenti – a questo proposito gli austriaci reintrodussero pene corporali come i “ceppi”, per un massimo di sei ore o i “lacci”, per tenere legato – per esempio ad un albero – un soldato per un massimo di due ore – ma fu proprio all’interno del Regio Esercito italiano che la ferocia punitiva fu esercitata nelle forme peggiori. In entrambi i casi la giustizia militare fu applicata in modo classista e si accanì principalmente sui soldati di estrazione sociale inferiore, contadini, operai e strati più bassi del ceto medio, ma se nel caso austriaco, scrive la Hämmerle, «tenuto conto delle possibilità offerte dal codice di procedura penale militare in tempo di guerra, i tribunali agirono con mano relativamente “leggera”, in molti casi anche differendo o sospendendo la pena» (p.161), altrettanto non può dirsi della giustizia militare italiana. Le cifre riportate da Mazzini parlano da sole: 4 mila condanne a morte, 15 mila all’ergastolo, 40 mila le pene superiori a sette anni. «Il numero di fucilati dopo regolare processo durante l’intero conflitto ammonta a circa 750, in proporzione più del doppio di quelli francesi […]. Ma ancora di più colpisce il fenomeno delle decimazioni […] almeno 290 furono le vittime documentate di questa giustizia sommaria italiana, applicata con maggiore frequenza, e con piglio quasi vendicativo, negli anni 1916 (dopo la Strafexpedition) e 1917 (dopo Caporetto)» (p.175). Ed infine, ad ulteriore conferma del disprezzo e del pregiudizio con cui il governo italiano e il Comando supremo consideravano i propri soldati, non va dimenticato che ai 600 mila prigionieri italiani, la metà dei quali catturati a seguito di Caporetto, venne negato dall’Italia qualsiasi tipo di aiuto, al fine di fare passare l’idea che il prigioniero fosse da equiparare ad un disertore o ad un disfattista o ad uno “scioperante di guerra” e per addossare alla sola Austria le colpe di un trattamento disumano o vendicativo. La conseguenza di questa scelta scellerata, insieme ad altri fattori come l’alto numero di internati e le difficoltà austriache a provvedere ad essi, fu la morte di circa 100 mila soldati italiani in prigionia.

]]>