Orazio Labbate – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 09 Dec 2025 23:14:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Distopie in corpo I e II https://www.carmillaonline.com/2025/12/06/distopie-in-corpo-i-e-ii/ Sat, 06 Dec 2025 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91718 di Franco Pezzini

Lorenzo Monfregola, La città dei Serpenti, pp. 440, € 19, Polidoro, Napoli 2025. Emiliano Ereddia, L’Oltremondo, pp. 302, € 17, Polidoro, Napoli 2025.

Ormai da parecchi anni, il linguaggio della distopia sta affermandosi come uno dei più presenti e spesso fertili nella narrativa di genere, sia in chiave letteraria che paraletteraria: e al primo filone – senz’altro letteratura – appartengono due uscite recenti nella medesima collana “Interzona” diretta da Orazio Labbate per la napoletana Polidoro, due romanzi che idealmente si parlano pur senza alcuna diretta influenza. Certo, cambiano i contesti, gli spaziotempi: in La città dei Serpenti, [...]]]> di Franco Pezzini


Lorenzo Monfregola, La città dei Serpenti, pp. 440, € 19, Polidoro, Napoli 2025.
Emiliano Ereddia, L’Oltremondo, pp. 302, € 17, Polidoro, Napoli 2025.

Ormai da parecchi anni, il linguaggio della distopia sta affermandosi come uno dei più presenti e spesso fertili nella narrativa di genere, sia in chiave letteraria che paraletteraria: e al primo filone – senz’altro letteratura – appartengono due uscite recenti nella medesima collana “Interzona” diretta da Orazio Labbate per la napoletana Polidoro, due romanzi che idealmente si parlano pur senza alcuna diretta influenza. Certo, cambiano i contesti, gli spaziotempi: in La città dei Serpenti, senza troppo spoilerare, siamo in un pianeta non-terrestre di un lontanissimo futuro, nel secondo l’Oltremondo si incista in un’Italia futurologicamente prossima e autoritaria dove ai ribelli è possibile intervenire tra le pieghe del tempo. Ma entrambi gli affreschi, di notevole ampiezza e originalità rispetto ai pur individuabili modelli dickiani e ballardiani, cifrano tensioni e provocazioni di un presente inquietantemente vicino.
In entrambi i casi – in modo diverso – la distopia investe in prima battuta lo sguardo, il linguaggio, la voce: come in fondo inevitabile (anche se magari non chiaro a chi di distopie si sia occupato in modo meno profondo), perché sono proprio il modo di vedere e di narrare a costituire il marcatore primo di un mondo collassante. In entrambi i casi l’Homo narrans – protagonista narrante più o meno inaffidabile – si confronta con la ridefinizione di categorie dell’esistenza, di miti, di urgenze personali e collettive: ed entrambi sembrano rispondere in chiave provocatoria al crollo delle istanze del Novecento. Entrambi del resto fanno riferimento a una categoria che sguardo e voce possono scomporre ai minimi termini, ma che resta un’ancora fondamentale al nostro essere Homo, cioè il corpo. Un corpo ibridato nel primo, dove uomo e serpente si mixano, e i regni animale e minerale perdono il rispettivo limes – e non solo nella sfera dell’umano, ma nei serpenti-cavi elettrici, nelle macchine senzienti, nel mistero stesso di una Forza Sovrastante non necessariamente metafisica. Un corpo trattato nel secondo con farmaci e droghe come l’oblivion, e che si sbriciola in un tempo storico magmatico e mai fissato definitivamente, in uno stato perenne di stupefazione. Fino a costringere a domandarci se il protagonista ce la conti giusta, se e quanto sia capace di lucidità. Un corpo in entrambi che alla fine si fa linguaggio, voce – ma non è questa, in fondo, la natura prima di qualunque personaggio letterario? –, traducendosi in comunicazione frantumata e reiterata di stringhe alfanumeriche ne La città dei Serpenti, e in L’Oltremondo in conati espressivi, giochi di parole irriflessi, compulsioni verbali di una mente crackata.
In entrambi i casi, poi, alla storia soggiace una rivelazione radicale, che cioè sia l’essere umano in quanto tale l’elemento distruttivo della realtà: non solo imbullonando orride tecnocrazie autoritarie dove il tradimento e la violenza poliziesca, l’illusione e la menzogna paiono ingredienti fondamentali, ma stabilendo rapporti malsani con meccanismi di servizio e strutture sociali, fino a piagare relazioni personali. In modo diverso e autonomo i due romanzi esplorano l’ambiguità radicale con cui è possibile comprendere il reale: nel primo caso per la scarsa comprensibilità effettiva – a dispetto delle pretese degli “interpreti” – dell’Intelligenza Serpente e le faziosità delle lobby in scena, nel secondo per l’equivoco peso decisionale di intelligenze artificiali brandite da un potere sovranista, per cui a decidere norme e letture ufficiali non sono più camere di confronto umano, ma algoritmi da tecnocrati. Come spiega il protagonista de L’Oltremondo,

succede questo: tutti vorremmo sapere, ma nessuno oggi è più in grado di sapere nulla. È la macchina che sa e che proietta e impone il suo sa­pere intorno all’uomo, creandogli una realtà che lo abbraccia, lo culla, lo ghermisce. Realizzandolo. Rea­lizzando l’uomo.

Tanto più che strumento di distruzione è addirittura quello che offre le due storia come le leggiamo, il linguaggio: ne La città dei Serpenti troviamo esplicitato che

Il vettore della vostra infezione è la tecnologia che voi usate per definire la vostra infezione ▻▻▻ Linguaggio ▻▻▻ il Linguaggio umano usato ora progressivamente adeguato in apprendimento Macchina da noi per comunicare qui ora con la vostra inferiorità ▻ il vostro linguaggio è infetto di infezione ▻ il vostro linguaggio inutile contro la Macchina ▻ la vostra ▻ Parola infetta somministrata emanata in riproduzione tecnologica espansa non necessaria alla Macchina ▻

Cioè comunicazioni ossessive da amministrazione delirante, slogan ripetuti, elenchi di comandi, formule scandite: interessante e dialettico è il rapporto tra la professione di fedeltà degli Agenti della città (“Noi siamo gli Agenti, fedeli ai Serpenti”, una sorta di credo militante alla tutela dell’Equilibrio claustrofobico della città) e la Fede proclamata una volta uscitine. Mentre L’Oltremondo vede contribuire alla grande cospirazione i messaggi di un’influencer ragazzina (username b4by_flu666) e la diffusione del contenuto del Teorema di Lauda, nuovamente a considerare come infezione uomini e linguaggio:

Il professor Lauda, […] osteggiato da tutti gli atenei del mondo e morto in umiliazione e povertà, sostiene che l’uomo sia un virus, al pari del linguaggio ma più letale di esso, come virus. Il lin­guaggio uccide alcune categorie e sottocategorie del pensiero attraverso la selezione di parole e costrutti, dice Lauda, […] mentre l’uomo è con­centrato solo sulla riproduzione della specie, la quale specie si percepisce sempre sul baratro della scom­parsa. Ma la percezione del baratro della scomparsa è dovuta alla modificazione delle leggi naturali che lo sviluppo tecnologico dell’uomo, messo in atto per alimentare la sopravvivenza della propria specie, im­pone al pianeta e all’ambiente da cui l’uomo viene ospitato e di cui l’uomo si fa parassita, dice Lauda, quindi l’uomo fugge la distruzione della specie e lotta contro la sua propria scomparsa che però egli stesso sta architettando in nome di quella stessa sopravvi­venza della specie guidata e garantita dello sviluppo tecnologico che distrugge l’ambiente ospite del virus-uomo […].

In un caso e nell’altro il punto di riferimento con cui fare i conti sono le macchine: a contrastarle, una società ibrida di uomini & serpenti o invece una rete clandestina che tra varie strategie di lotta usa l’oblivion per aprire fenditure nel tempo e versioni modificate della Storia: i serpenti che prendono – tra lo sconcerto generale – a divorare se stessi come urobori evocano in fondo la possibilità che la Storia come la conosciamo sia finita, si riduca al loop di un ciclo e si possa solo stagnarci dentro.
In un caso e nell’altro un potente linguaggio mitico sottostà all’invenzione narrativa. La paranoica città dei serpenti del primo titolo è simbolizzata in un cranio, come il Golgota del cranio di Adamo, e l’ambiguità del serpente dell’Eden è il suo statuto costituzionale: in luogo dello sguardo terapeutico al Nehustan, il serpente di Mosè, sono previste immersioni “terapeutiche” degli Agenti in vasche di serpenti, che insieme possono però far pensare (in chiave di morte rituale, iniziatica) a quella in cui muore l’eroe vichingo Ragnarr catturato da Ælla di Northumbria. Alle vasche di serpenti del primo romanzo corrispondono idealmente i trattamenti farmacologici del secondo – entrambi imposti perché funzionali a equilibri d’un potere. Ma ne L’Oltremondo, persino più provocatoriamente politico e apertamente critico, si recuperano, in un presente racchiuso come nel cerchio uroborico o in un tempo mitico del Sogno, figure storiche (come Osip Ivanovich Komisarov, coperto di imbarazzanti onori per aver salvato la vita dello zar Alessandro II durante un tentativo di assassinio, Gavrilo Princip, lo studente serbo che uccise l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie, o magari Alberto Magno e la sua testa meccanica) o scorci del passato (Paesi Bassi 1469, Canada 1940, riprese dal set di The Circus del 1928), a iniettare nel presente sovranista elementi di discredito, frattura e fragilità. “Tu sai che il tempo è un sogno, […] e la vita è tempo”.
Certo i due romanzi conducono in direzioni diverse: il fanatico e vigoroso protagonista del primo, l’Agente 1 Kajus, riesce a uscire dalla Città-Teschio dei suprematismi Bianchi e Neri e la storia può continuare altrove, mentre nel secondo più amara è la parabola del povero Don, docente (di storia, non a caso) espulso dall’università, sedato coattivamente in un paese dove la svolta finale autoritaria è imposta – guarda caso – da una riforma della giustizia e il dissenso è liquidato in patologia. Ma in entrambi i romanzi crepitano lingue furiose a concedere al lettore non pigro e non timido davvero molto, in termini di forza espressiva e macchine per pensare.

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Et in arcade ego https://www.carmillaonline.com/2025/06/07/et-in-arcade-ego/ Sat, 07 Jun 2025 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88808 di Franco Pezzini

Orazio Labbate, Cravuni, pp. 128, € 16, Grey Interzona, Napoli 2025.

“Pescò sotto la sedia un pacco di cereali Frostie’s violati da scritte in miniatura quasi da commentario giuridico medievale. La sedia ricordava quelle papali epperò di inferiore qualità, una sedia superstite di molti papi morti su di essa”.

“Nenti, non funzionava l’arma”.

Come in genere le codificazioni mitiche letterarie, anche quella del gotico siciliano di Orazio Labbate si allarga progressivamente sull’onda di creazioni, suggestioni e trovate successive. Chiusa così la prima trilogia (Lo Scuru, 2014 e 2024; Suttaterra, 2017; Spirdu, 2021) che offre un [...]]]> di Franco Pezzini

Orazio Labbate, Cravuni, pp. 128, € 16, Grey Interzona, Napoli 2025.

“Pescò sotto la sedia un pacco di cereali Frostie’s violati da scritte in miniatura quasi da commentario giuridico medievale. La sedia ricordava quelle papali epperò di inferiore qualità, una sedia superstite di molti papi morti su di essa”.

“Nenti, non funzionava l’arma”.

Come in genere le codificazioni mitiche letterarie, anche quella del gotico siciliano di Orazio Labbate si allarga progressivamente sull’onda di creazioni, suggestioni e trovate successive. Chiusa così la prima trilogia (Lo Scuru, 2014 e 2024; Suttaterra, 2017; Spirdu, 2021) che offre un impianto anzitutto linguistico ma anche tematico (ossessioni e possessioni, catabasi ctonie, viaggi sciamanici e ritorno dei morti, ibridazioni cultuali, retaggi inferi arcaici), gettate le basi di una tassonomia febbrile ma perfettamente giustificata per il panorama che ha fondato le sue fantasie (L’orrore letterario, 2022), aperte le porte a una nuova – non diversa perché contigua – ramificazione nella direzione del mito (La Schiaffiatùra, 2024), l’autore le offre ora un nuovo sviluppo triforcuto come una zampa artigliata o il tridente di qualche divinità.

Cravuni (molto bella la veste grafica) è infatti la prima avventura di una trilogia pensata in modo transmediale: se da Lo Scuru stanno infatti emergendo a posteriori un videogioco e un film – linguaggi entrambi seminali per l’orizzonte narrativo di Labbate –, al contrario Cravuni è pensato a monte come prodotto che si muove sui tre piani. Senza tradirne alcuno: la scrittura è quella curatissima, indocile, delirante e francamente mannara degli altri romanzi, lingua delle ombre per scendere sotto le lande dove Ade rapì Kore e dove non si è mai sicuri se interagiamo – se siamo noi stessi – vivi a questo mondo, quindi una lingua letteraria in senso proprio; ma gli sviluppi visivi e d’azione trascinano già dentro gli spazi videoludici e cinematografici, deserti e cieli mossi, luoghi equivoci, miniere. Che ci piaccia o no, i diversi linguaggi sono ormai imprescindibili dall’occhio di un narratore: e come i vecchi gotici si muovevano negli spazi di altre arti – architettura, pittura, ovviamente teatro… – per definire le proprie oscurità, così oggi il gotico migliore si muove nel dedalo di tali differenti dimensioni. Walpole non avrebbe scritto il suo Castello d’Otranto senza l’appoggio del teatro da un lato, di architettura e arti figurative dall’altro; e per altro verso, Füssli ha influito direttamente su Mary Shelley e Poe, Le Fanu e Stoker, non solo nella sagoma-tormentone del suo Incubo dipinto, ma per tutto ciò che in generale vi sta dietro di allucinatorio, spettacolare e febbricitante.

Del tutto coerente dunque lo sviluppo crossmediale per cui è stata appositamente fondata la sinergia Grey Interzona (edizioni Polidoro, casa di produzione multimediale Grey Ladder, sviluppatore di videogiochi Tiny Bull Studios), la natura per Cravuni di “arcade letterario” – nel senso della parola “inglese arcade […], che indica genericamente una galleria commerciale, [e] significa in questo caso sala giochi” (Wikipedia) – con la scelta di un ritmo incalzante e uno sviluppo paginale congruo all’avventura.

Che richiama d’altronde (riflessioni non nuove, ma bello vedervi conferma) a una dimensione di mistero specifica del gotico. Mistero proprio nel senso tecnico, di riti collettivi appartati che nel mondo antico in chiave religiosa definivano attraverso azioni rituali più o meno indicibili il rapporto con la natura (agricoltura, eccetera) e via via con una sopravvivenza oltremondana; ma nella chiave moderna e laica di una società urbana, la natura passa quasi solo attraverso la percezione degli eventi nascita, sessualità e morte, che soltanto una narrazione fortemente intrisa di simbolo può dire. Proprio nell’esperienza di chi vive una sensibilità – e magari prassi comunitarie: rapporto con le arti, eventi, persino abbigliamento – nel segno del gotico è evidente che una certa mitopoiesi non si esaurisca nella facile mascherata, afferendo piuttosto a un linguaggio interiore con cui trattare per simboli e allusioni le grandi domande. Un linguaggio interiore fatto – si è detto – di riti (laici, per carità, ma densi di simbolismo) e brandendo oggetti transizionali e “liturgici”: e a ben vedere anche certe prassi videoludiche presentano elementi in senso lato rituali e il ricorso a certe attrezzature. Cravuni capitalizza tutto questo: la catabasi in scena sembra presentare delle componenti rituali, di azione “sacra” (nel senso di essere compiuta da figure divine).

E proprio coi piedi ben saldi tra miti e misteri, Labbate narra nella lingua e coi topoi del gotico siciliano – il rapporto tra America polverosa delle grandi strade e calcinate origini trinacrie, le mostruosità e il sincretismo ctonio – la vicenda naturaliter poliziesca (cfr. le partizioni individuate in L’orrore letterario) di un detective un po’ all’Angel Heart. Ma il paganesimo che sostanzia l’oscurità non è qui quello dei culti ibridati degli schiavi, bensì quello del mito antico mediterraneo, non meno meticcio e incerto. Se nella prima trilogia il substrato “cristiano” – con tutte le virgolette del caso, perché grondante antichi miti inferi del paganesimo – era più marcato, qui la sovrapposizione / compenetrazione è con gli dei di una grecità ben poco luminosa: siamo nei territori minacciosi dell’Apollo con il coltello in mano di Detienne, dei cani inferi di Ecate – l’uomo-cane Calorio (di nome Larrie, come l’uomo lupo Larry Talbot dei vecchi horror Universal) –, di una mafia trasfigurata in consorzio spettrale.

Il detective Frank LaBella, orbato di un occhio nel segno di quelle mutilazioni mitiche che lo accomunano a Odino e altri ciclopi, abbandona l’Oklahoma per tornare a Riesi in provincia di Caltanissetta, da dove veniva suo nonno. Sta seguendo una pista privata, l’orrendo omicidio di sua madre, e intanto specula sul Divino, in una continua opposizione venata di blasfemia tra le sue divinità misteriche – sfuggenti come i Grandi piccoli di Samotracia – e il Dio cattolico. Non è troppo strano: LaBella è a sua volta una divinità, un Apollo impegnato in una teomachia notturna, allucinata e fitta di oggetti simbolici e desueti alla Francesco Orlando come improbabili attrezzi liturgici (spadini, una forchettina a due punte, un graal di metallo, una bottiglietta di amaro, coltellini, “varie piccidde armi nate da un accoppiamento tra armi che facevano parte di altre armi”, su un altare “svariati oggetti che sembravano da toilette”, immaginette eccetera) nonché d’ombre di Cerberi e Arpie. Ma tutto il quadro è fervente di echi: i cannocchiali di Pino Badrose, carpentiere e “archeologo delle coscienze” (Efesto? vive tra i fornelli), sembrano usciti dalla bottega dell’equivoco Coppola de L’uomo della sabbia di Hoffmann, a ricollegare alla più solida tradizione gotica dell’onirico e della visione smaniante.

Dimentichiamo le malinconie romantiche da ritorno dell’emigrato, canzoni come Torno a casa o Paese mio. Qui come per il Giuseppe Buscemi di Suttaterra – amico del nonno di LaBella – è un ritorno dal sapore di morte legato a un bigliettino: la scrittura, in Suttaterra di una lettera, ha sempre potenzialità nel segno del passaggio. Il vilain con cui fare i conti è il tenebroso Boss Tony Lavuru (un Ermes degradato, deformato come in un altorilievo tardivo) di una Mafia spiritica, e LaBella dovrà affrontarlo.

La presenza di cereali (Kellogg’s Frosties, Kellogg’s d’Ermes e altro), in tutta questa storia, rimanda al loro ruolo negli antichi misteri, Eleusi e non solo, ma anche a un’antieucarestia nel segno dell’infezione; e lontano dagli scintillii di La Cabala di Thornton Wilder e dall’umbratile claustrofobia fiamminga di Malpertuis di Jean Ray, il ritorno degli antichi dei – a volerlo definire con Aby Warburg – si consuma nel sordido. Con Jung e Hillman “Gli dèi sono diventati malattie”, ma di statuto divino è anche l’incredibile psicopompa Cuncittina Bity con cui nascerà un amore. Nonché un nuovo sottogenere narrativo, il thriller della mitologia siciliana criminale, che qui trova qui un visionario, iniziatico cominciamento al ritmo serrato del videogioco. “Siamo costituiti di membra condite da stanchezze mostruose”. E a sovvenirvi, tanto più nei nostri tempi bui, ci sostengono le storie.

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Morte astrale https://www.carmillaonline.com/2025/03/15/morte-astrale/ Sat, 15 Mar 2025 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87337 di Franco Pezzini

[È comparso per i tipi Polidoro, nella collana Interzona diretta da Orazio Labbate, Napoli 2025, il romanzo Morte astrale. La profezia della lapsit, pp. 432, € 18, a firma di chi scrive. Se ne propone qui uno stralcio.]

Veniva dalla direzione opposta, camminando spedito: grasso, sui cinquant’anni, gran baffi a manubrio sul viso molle, un soprabito scuro di buona fattura… ma erano stati gli occhi a colpirla, sbarrati come parevano da un panico assoluto, grottesco. Anche al primo incontro su quel tratto di strada non c’era molta gente, però lo sconosciuto aveva doppiato un poliziotto senza chiedere aiuto e [...]]]> di Franco Pezzini

[È comparso per i tipi Polidoro, nella collana Interzona diretta da Orazio Labbate, Napoli 2025, il romanzo Morte astrale. La profezia della lapsit, pp. 432, € 18, a firma di chi scrive. Se ne propone qui uno stralcio.]

Veniva dalla direzione opposta, camminando spedito: grasso, sui cinquant’anni, gran baffi a manubrio sul viso molle, un soprabito scuro di buona fattura… ma erano stati gli occhi a colpirla, sbarrati come parevano da un panico assoluto, grottesco. Anche al primo incontro su quel tratto di strada non c’era molta gente, però lo sconosciuto aveva doppiato un poliziotto senza chiedere aiuto e si guardava attorno con angosciata circospezione. Quasi aspettandosi – le era venuto da pensare – un aggressore che sbucasse all’improvviso da un tombino, o calasse dal cielo. Al punto che si era scoperta a voltarsi, a guardarlo allontanare: e ora si rincrociavano.

Quand’era bambina, specie se si trovava fuori casa o in ansia per qualcosa di nuovo, le capitava ogni tanto di astrarsi verso un altrove più consueto e quasi tangibile: questione di un attimo, il tempo di rientrare al posto giusto tra corpo e occhi e ritrovare la realtà. Ma adesso il ricordo di essersi buttata sul letto vestita e stanchissima pareva semplicemente appoggiato da qualche parte, non le importava recuperarlo e forse neppure vi sarebbe riuscita. Solo una desta inquietudine, piuttosto, le faceva notare che la via si perdeva in un nulla biancastro, nebbia o pigrizia del sogno – se di sogno si trattava – nel riprodurre i dettagli, o forse timore che velava lo sguardo. Forse era ciò a spaventare l’ometto, che continuava a guardarsi attorno. E l’inquietudine montava, come addensandosi in foschia appiccicosa.

A un tratto Ariadne ebbe la sensazione di sentir battere il cuore dell’uomo, e si domandò se a echeggiare non fosse piuttosto il proprio – polsi, vene, e giù  fino allo stomaco in subbuglio. Ma a quel punto, quasi l’udito si affinasse via via alla situazione, qualcosa davvero fremette nell’aria e palpitò ronzando, per definirsi infine in una sorta di litania ritmata, risacca ansimante e incomprensibile di voci lontane. Vibrando a tale frequenza, tutta l’immagine sembrò ora barcollare davanti ai suoi occhi, gli oggetti perdere definizione, sgranarsi in polvere pulsante, particelle elementari: e tutto affondò come in un ordito sottostante, nella vertigine di una diversa dimensione con un’eco stonata, selvaggia. Dal fondo degli occhi, Ariadne percepì confusa una frenesia di caratteri incandescenti, indefinitamente sovrapposti in sequenze come in un incommensurabile pallottoliere o nel delirio di un enigmista. Sequenze in continuo movimento, che qualcosa le suggerì alternare ripetizioni e mutamenti. A tratti il tessuto si squarciava in cascate di segni, rabbiose o invece rallentate in rispondenza al ritmo sonoro; ma poi tornava a riagglutinarsi in quell’immenso cruciverba fiammeggiante.

Fu l’intuizione di un’urgenza a costringere Ariadne a recuperare la visione: a poco a poco l’immagine riassunse una nebulosa definizione, poi la stessa scena che aveva lasciato con l’ometto e la strada. Il fremito nell’aria continuava sordo, minaccioso per quanto remoto: ma Ariadne si sforzò di non percepirlo, mentre qualcosa la richiamava al muro compatto di nebbia che fronteggiava la cancellata. Una porzione appena più scura poteva svelare l’imbocco di una via perpendicolare (le parve di ricordare che lì, in effetti, avesse quel giorno svoltato una carrozza), come una fessura d’ombra che lentamente prendesse consistenza. Certo il gelo metallico al tocco delle dita era quello delle aste del cancello, ma realmente faceva più freddo ed Ariadne avvertì quanto fosse vicina a qualcosa che stava arrivando. Anche l’ometto era paralizzato, la voce strozzata in gola, e fissava la porzione più buia della cortina traslucida.

Più che l’inizio di una via, ciò che progressivamente si definiva nella nebbia pareva il fondo di una grande nicchia, raggiato di filamenti lanuginosi come un’enorme ragnatela tra il manto stradale e i palazzi invisibili: una ragnatela, realizzò Ariadne con un misto d’inquietudine e disgusto, viscosa e abitata. Non era sicura di quanto vedesse, anzi si aggrappò all’ipotesi di un errore dello sguardo. Perché proprio adesso, circonfuso di quell’equivoca umidità, una sorta di bozzolo scuro si spingeva avanti ondeggiando in un groviglio di ramificazioni, tentacoli o zampe, allungate in tutte le direzioni come fili colossali. Quasi trascinato dall’immagine, un odore dolciastro, corrotto, permeava il gelo o ne costituiva semplicemente un altro aspetto, come i sensi faticassero a decrittare lo stimolo incongruo, storpiandolo in forme e dimensioni meglio descrivibili.

L’ometto restava incapace di reagire, mentre la cosa avanzava dondolando a mo’ di enorme ragnatela semovente. Alta come un elefante da circo, ma molto più estesa nel pigro ondeggiare dei tentacoli: e benché l’intrico di appendici tendesse a velarla, Ariadne intravide nel folto una specie di crisalide. Sembrava la caricatura malevola di un feto, ma lunga almeno quanto un uomo adulto, col molle capo puntato a tratti in un sordo digrigno. L’essere non faceva rumore, anzi avanzava tra la nebbia con la leggerezza irreale dei batuffoli di polline sparsi dal vento d’estate, le lunghissime appendici danzanti. Però il sordo raschiare della vibrazione nell’aria (che in qualche modo, avvertì Ariadne, doveva riguardarlo) si era fatto insidiosamente ripetitivo e ipnotico. Forse per questo l’ometto lo fissava come una mosca fascinata dal tessitore, sembrava inchiodato a quello spettacolo sempre più vicino, appariva spacciato.

All’improvviso qualcosa saettò. Le percezioni alterate di tempo e misura non permisero di cogliere la sequenza reale: i tentacoli-arpioni erano diretti all’uomo, e invece si abbatterono sfarinandosi sulla strada. Solo con la percezione differita dell’eco Ariadne si rese conto di avere avvertito, per un attimo, un nuovo squarcio di caratteri pulsanti e insieme molto diversi; la sensazione nell’aria di una luce o un fuoco di bizzarra forma geometrica, un orribile sfrigolio. E solo allora scorse l’altra sagoma sul fondo della strada.

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Pareschi, Munch e le delizie crudeli della sospensione https://www.carmillaonline.com/2024/12/07/pareschi-munch-e-le-delizie-crudeli-della-sospensione/ Sat, 07 Dec 2024 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85616 di Franco Pezzini

Monica Pareschi, Inverness, pp. 174, € 15, Polidoro, Napoli 2024.

Traduttrice eccellente e attivissima, Monica Pareschi è anche un’elegante e sorprendente narratrice. Sorprendente non nel senso relativo che un lettore non possa attendersi un esito alto da chi quotidianamente ingaggia al suo livello un corpo a corpo con la parola (è autrice del resto del bel romanzo È di vetro quest’aria, Italic Pequod, 2014, e di pregevoli racconti apparsi su varie testate); ma in senso assoluto, per l’impatto di narrazioni che – non sembri un’affermazione naïf, non è affatto scontato – continuano a sollecitare ancora a libro chiuso. [...]]]> di Franco Pezzini

Monica Pareschi, Inverness, pp. 174, € 15, Polidoro, Napoli 2024.

Traduttrice eccellente e attivissima, Monica Pareschi è anche un’elegante e sorprendente narratrice. Sorprendente non nel senso relativo che un lettore non possa attendersi un esito alto da chi quotidianamente ingaggia al suo livello un corpo a corpo con la parola (è autrice del resto del bel romanzo È di vetro quest’aria, Italic Pequod, 2014, e di pregevoli racconti apparsi su varie testate); ma in senso assoluto, per l’impatto di narrazioni che – non sembri un’affermazione naïf, non è affatto scontato – continuano a sollecitare ancora a libro chiuso. E si può essere grati al direttore Orazio Labbate, per averlo inserito della collana Interzona.

Iniziamo col dire che questi racconti elegantissimi, godibilissimi e dunque capaci (altra dote non scontata) di farsi divorare, presentano varia metratura, dai molto brevi ad alcuni di ampio respiro, sia pure con un senso del ritmo e un equilibrio dosatissimi, come l’“Inverness” che chiude la raccolta. E partiamo dalla definizione di quarta di copertina:

 

Una raccolta di racconti spietata che si dipana a mo’ di lunga narrazione fondata su una deliziosa crudeltà sentimentale.

 

Un’opera fondata sui sentimenti più nascosti, sulle piccolezze mostruose, vitree, che tutti noi coviamo mentre amiamo e mentre odiamo. Una costellazione di racconti che divaricano l’anima piano piano, come cristalli Swarovski. In queste storie c’è, nell’incontro con l’altro, una paura antica: incontri sbagliati e mancati, incontri fatali. Baci velenosi. Bambine dai difetti repellenti. Addii freddi e intollerabili, ricambiati in parte e scambiati per eterne maledizioni. Il confine sottile tra il vedersi davvero e l’inorridire […].

 

Il che già dice qualcosa di fondamentale: sono racconti crudeli. Ma con la marcia in più, rispetto a certa scipita crudeltà splatter che si limita ad affettare i corpi, di raccontare con straordinaria misura e piglio autenticamente letterario reazioni che ci inabitano tutti, tagliando come un bisturi sulla carne viva della nostra interiorità. Tagliando a base di conati cerebrali, tentazioni e tanti irrisolti: qualcosa che seziona il nostro modo di porci rispetto agli altri, di guardarli, di sfiorarli, in particolare nelle dinamiche dei sentimenti.

Dunque crudeltà: basti pensare alla spaventosa vita di campagna di “Primo amore”, ai corteggiatori/gabbiani manipolatori di varie storie, al gioco al massacro di “Troppo amore uccide”, alla brutalità infelice di Gheri in “Mors tua vita mea”, alla repellente Mariangela di “Un bacio, ancora” con la sua sozza e inattesa iniziazione della protagonista, alla troppo disinvolta e privilegiata P. di “Inverness”. Una crudeltà che colpisce i più fragili – quelli archiviati dalla vita a opere di brave famiglie, o i socialmente nell’angolo – ma anche persone in fondo realizzate, e tuttavia insidiate per dinamiche di potere, sessuale in primo luogo.

Eppure, come accennato, un altro elemento torna a serpeggiare come un filo grigio, forte in queste storie. La dimensione cioè di conati, tentazioni e irrisolti: infatti ricorrente, ed elemento connotante la raccolta, è il tema della sospensione. Una sospensione sfiorata, in atti che vengono consumati in anestesia o alla fine come in un cono d’ombra, ne “I baci di Munch o la perfezione dell’amore”: dove il focus resta sul prodromo all’amplesso, quasi in virtuale sospensione di quanto segua. Atti che invece non vengono consumati, pur proiettando tutta la loro potenza allusiva o decomponendosi nell’onirico, come in “Primo amore”, in “Fiori” (“Non è successo niente”) e “Troppo amore uccide” – dove a sospendersi sono intere relazioni. O ancora nella scena chiave di “Mors tua vita mea” (“In fondo, a ben pensarci, non è successo niente”), e nella tentata predazione seduttoria, vorace e alla fine grottesca, di “I gabbiani”. Poi ci sono mete che non vengono raggiunte (l’Inverness del racconto è quasi un controcanto dell’Itaca di Kavafis, non solo nell’esito ma nella simbolica qui fallimentare del viaggio); e baci – di nuovo – che restano sbavature impossibili da cancellare nella vana attesa di pacificarsi in qualche modo, come appunto in “Un bacio, ancora”. E in tutte queste storie, esplicita o virtuale ma incalzante, quella sospensione della vita che è l’invecchiare e trascorrere verso la morte.

I maschietti in scena sono in gran parte sordidi, immaturi, viriloidi di mezza tacca; le donne spesso raffrenate da ombre divoranti, compulsioni sociali, perplessità radicali o malattie. Le coppie sembrano fatte per non funzionare, esaurirsi in una sessualità tutta eventuale – e spesso sospesa – e tanta solitudine. Le amicizie non mostrano la pietas sperata, le complicità fanno acqua o si esauriscono in teatrini sovraccitati che rivelano liaisons malamente velate. Né si può attribuire il quadro amaro solo alla stagione fascistoide in cui siamo a mollo: alcune storie proiettano nel passato, forse i tempi permettono solo di evocarle come emblematiche, anche se evidentemente non si tratta di studi sociologici. Al netto d’altronde di un’amarezza generale – e a tratti di una maliziosa ironia – la raccolta è troppo sottile nelle sue analisi interiori, troppo pungente, elegante e (usiamo pure il termine, che non svilisce) troppo divertente per risolvere personaggi e bozzetti in stereotipi.

Significativa la scena della ragazza il cui zaino viene perquisito da corrucciati e superficiali poliziotti: le mani sporche, la rabbia e l’ironia che l’operazione suscita nelle battute di lei, il rapporto fallimentare tra i sessi, i pregiudizi verso il non allineato, la forzatura a tirar fuori il proprio intimo… e quella parallela con l’intimo psicologico e fisico insidiato per tutta la raccolta in rapporti sentimentali sghembi, estorsivi, voraci – come vede nel bacio, “prodromo crudele del banchetto amoroso”, la voce narrante di “I baci di Munch o la perfezione dell’amore”. Un racconto felicemente in testa alla raccolta: il Munch del Grido e del Vampiro (cioè l’Amore e dolore qui citato), nonché dello struggente Il bacio (pure ovviamente menzionato), dove le carni degli amanti sembrano fondersi in un impasto cereo più inquietante che romantico, appare una sorta di patrono della malinconia crepuscolare e iperborea di questi testi. Dove una speranza ormai archiviata e un dolore sordo trascinato lasciano nondimeno emergere come un palpito di sguardo il tremolio fragile di una bellezza: “[…] due cose insieme come sempre, e non sa come tenere entrambe, il dolore e la bellezza della sua vita”.

Ma in un contesto di solidarietà fallite la sospensione si fa spesso separazione, scelta di solitudine. La netta freddezza evocata dal nome Inverness cui punta una ragazza dalla vita repressa (“è un nome pieno di sole e di luce ghiacciata, azzurra. Un nome che contiene l’inverno”) è in fondo la freddezza di quella solitudine invernale che alla fine incontra (“Poi proseguiamo, divise, negli anni”), come qui tanti altri personaggi. Dio ci guardi dalle preghiere esaudite, diceva santa Teresa.

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Infinitamente si muore in tutto questo apparire https://www.carmillaonline.com/2024/09/21/infinitamente-si-muore-in-tutto-questo-apparire/ Sat, 21 Sep 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84474 di Franco Pezzini

Marco Magurno, Persona, pp. 350, € 18, Polidoro “Interzona”, Napoli 2024.

 

Attraverso le immagini il mondo finisce e comincia di nuovo.

 

“Ventidue lettere fondamentali. Egli le estrasse, le sbozzò, le soppesò, le alternò e diede forma per mezzo loro all’intera creazione, e a tutto quanto dovesse in seguito generarsi”, afferma il Sepher Yetzirah: in sostanza tutta la realtà sarebbe fatta di lettere. Gli Oracoli Caldaici ammoniscono a non cambiare mai i nomi barbari, cioè quelle stringhe alfabetiche di significato non riconoscibile, che nondimeno interagirebbero potentemente con la realtà, e vanno usate senza alterazioni. “Siamo simboli e [...]]]> di Franco Pezzini

Marco Magurno, Persona, pp. 350, € 18, Polidoro “Interzona”, Napoli 2024.

 

Attraverso le immagini il mondo finisce e comincia di nuovo.

 

“Ventidue lettere fondamentali. Egli le estrasse, le sbozzò, le soppesò, le alternò e diede forma per mezzo loro all’intera creazione, e a tutto quanto dovesse in seguito generarsi”, afferma il Sepher Yetzirah: in sostanza tutta la realtà sarebbe fatta di lettere. Gli Oracoli Caldaici ammoniscono a non cambiare mai i nomi barbari, cioè quelle stringhe alfabetiche di significato non riconoscibile, che nondimeno interagirebbero potentemente con la realtà, e vanno usate senza alterazioni. “Siamo simboli e viviamo in essi” affermava Emerson – e forse non solo simboli, ma segni. Cammino e lascio un’impronta: quelle impressioni nella sabbia sono io? La mia voce registrata su nastro: sono io? La mia immagine video, mentre mi muovo e parlo: di nuovo, è la mia persona? Lo sarebbe un mio ologramma?

Queste proiezioni sono fantasmi (assoggettati alla schiavitù della ripetizione – ma quante volte siamo noi a ripeterci?), che in qualche modo restano di noi: forme elettriche di sopravvivenza alla morte, presentate da un Bardo elettrico.

 

Se la morte decompone, l’immagine ricompone.

Mentre l’involucro di carne del simile imputridisce, il suo simulacro, l’altro corpo, incorruttibile, può liberarsi al giogo del mondo e continuare a vivere in immagine.

 

Ma il nostro stesso dileguarci dal mondo – spettro/fantasma o spettro/luce, con tutte le frequenze avvertibili o meno – rimanda a una significazione: l’ingresso nel mondo ci proietta irreversibilmente nella dimensione dei segni.

Tali scarne considerazioni possono preparare la presentazione dell’originalissimo, vertiginoso Persona per Polidoro “Interzona”, di Marco Magurno – già narratore di esplosioni della realtà con Diorama, il Saggiatore, 2016 –, ideale oracolo caldaico delle nostre infinite proiezioni in segni, dalla risacca di tempi diversi. Spiega in un’intervista, di cui mi pare interessante offrire alcuni stralci:

 

Ho sempre avuto un rapporto molto stretto con le immagini, sia per diletto che per lavoro.

Mi occupo da quasi trent’anni di immagine e design grafico nel Web, nella pubblicità e nella comunicazione […].

A un certo punto, quindi, mi sono chiesto non più il come ma il perché delle immagini: per quale motivo su uno schermo o su un foglio, su una tela o su una parete di una grotta ci fosse qualcosa al posto di niente. E per quale motivo questo qualcosa fosse la replica, il monumento alla presenza di qualcos’altro, il suo fantasma.

Avevo già tentato di indagare la realtà in quanto fantasma nel mio precedente Diorama uscito per il Saggiatore. Era, Diorama, un libro costruito su giustapposizioni di immagini, analogie e frizioni, nel quale avevo mischiato il registro ironico – forse troppo post-moderno! – con un registro più tragico (che costituiva fisicamente la parte centrale, in bianco e nero, di un volume coloratissimo).

Questa parte oscura, ectoplasmatica, l’ho sempre considerata come un cuore nero da far collassare. Tanto più che, nel corso degli anni, ho sviluppato una avversione crescente all’ironia post-moderna – pur senza perdere il buon umore e l’ironia vera, sia chiaro! Ma sentivo che quell’approccio non era più sufficiente e che occorresse andare più nel profondo.

 

Persona, in latino, è la maschera teatrale, dall’etrusco phersu (“Se ho recitato bene, applauditemi” eccetera), e in seguito attraverso una lunga elaborazione teologica se ne maturerà un’accezione più profonda e metafisica – fino alle tre Persone trinitarie, alla persona diaboli eccetera –, e una serie di significati più consueti qui elencati in una nota iniziale. Ma persona è anche un nodo di interessi e diritti giuridicamente rilevanti, dunque di nuovo un coagulo di potenzialità e di segni legati a una vicenda comunitaria umana.

 

All’inizio piccole cose: un nome, un indirizzo, un appuntamento di lavoro.

 

E poi tornare indietro perché si è dimenticati a casa anche la fonte di ogni informazione, accedere a email, messaggi, mappe, telefonare e scusarsi, rimandare, correre in bagno e sciacquarsi la faccia con l’acqua volutamente gelida evitando il doppio nello specchio. Poi a seguire: dimenticare il luogo del parcheggio, una documentazione imprescindibile, un nome, un altro nome, smarrire il nome delle persone come si fa con un ombrello, un paio di guanti, un oggetto minimo.

 

È così che ho iniziato a dimenticare.

 

Ho pensato che il mondo stesse sparendo poco a poco.

 

Magurno offre il caso di un protagonista, appunto Persona, per antonomasia, consumato da progressiva amnesia e che dunque cerca di riunire tasselli per salvaguardare una propria identità: ma intorno, è il pianeta a conoscere una parallela crisi (“Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi […]”,“il tempo si è fatto breve; […] passa infatti la figura di questo mondo!”). E l’unico modo per raccontare questa crisi duplice o piuttosto incrociata è la chiave transmediale, col risultato di una fucina ergodica di immagini fotografiche e stringhe da codice html, narrazioni ellittiche (con pagine bellissime, poetiche, ricche di riflessione sapienziale), frantumi di fiabe, di chat e di questionari, sessioni di videogioco, tavole di fumetto e poema, “rotte parole”, citazioni ed eclissi, solarizzazioni e inabissamenti nell’ombra. Le narrazioni vi si frantumano come in una risacca onirica. Persino i caratteri si deformano, s’increspano, sdrucciolano nell’invisibile…

 

<Ricordo> lo scorrere del tempo. Quello apparente, frazionato e atomico del secondo: la percezione delle transizioni tra i livelli iperfini dell’atomo di Cesio-133 che riposa nel suo zero Kelvin: una misura assoluta.

 

Ricordo lo spettro temporale elaborato dagli antichi induisti, ai cui due margini opposti le unità sono così estreme da risultare incomprensibili e apparentemente inutili in termini pratici.

Ricordo il kala, che i maestri fanno corrispondere a un intervallo di 44 secondi; ricordo il paramanu, della lunghezza di circa un diciassettesimo di secondo; il mahamanvantara, corrispondente a 311.040 miliardi di anni.

 

Con il kala si misura il battito cardiaco umano, con il paramanu il battito delle ali di un colibrì, con il mahamanvantara il battito delle galassie.

 

Preceduto da citazioni di Morselli (Dissipatio H.G.) e Kafka (Aforismi di Zürau), l’itinerario prende l’avvio, opportunamente, da un’invocazione che apre il tutto al rituale. Seguono Imago mortis (“È insaziabile, l’occhio che guarda […] Ti sia concessa così la grazia: e doppo il morire vivere anchora”) sul rapporto-chiave tra visione e immagini, ombra e riflesso, camera oscura e luce, conversione dell’ordine in dati numerici; Cominciamento, che vede il racconto personale diventare racconto di specie; Terra, “Dove il pianeta vivente respira di tremore”. E finalmente, in Persona, l’identità con questo nome, “tra i frammenti della memoria, esperisce la propria dimenticanza”, con una progressiva erosione che sembra far sparire progressivamente l’intero mondo. Da cui Bardo, “Dove, tra i residui elettrici, avviene il viaggio oltremondano di Persona” e come nell’antica Persia o in riti ancora più antichi il corpo è affidato agli avvoltoi e poi allo spaccacorpo per la frantumazione delle ossa e la macinazione con latte e farina. Di nuovo singole unità minime, frammenti in quel tessuto della realtà di cui l’autore insegue qui il retro, l’ordito, il viluppo di fili. A ciò segue, come nel Bardo tibetano, l’annuncio dell’incontro con deità, alcune regole da osservare e dialoghi ritualizzati per una ruminazione interiore.

 

Un’ars moriendi appresa per disincanto, la nostra, da praticare nella posa.

 

La nostra semenza è già un’orda di ectoplasmi impressi sui display.

 

“Scegli dunque la rinascita e ascolta qualche storia che ti allieti nell’intanto”: per cui segue Fabula, “Dove alcune fole vengono narrate e altrettante vengono taciute”, a narrare di Macchine madri (e della preghiera da loro insegnata in grazia del Cloud: “Sacra memoria salvaci dalla dimenticanza, facci presenza, presenza infinita”), captcha, una città fatta tutta di rumore, una persona blu con “due bestie d’affezione: un pappagallo stocastico di nome Artificio e una quintessenza di polvere” (la fiaba è deliziosa, a tratti esilarante), una stella degenere, e la sequenza lorem ipsum. Tutto si chiude con In exitu, “Dove tutto ha fine e un nuovo cominciamento” – e non avrebbe senso spoilerare – e Opera, con le tavole finali. Di nuovo l’autore:

 

L’immagine mi è dunque apparsa come il nostro talismano contro la morte: il modo che la nostra specie ha escogitato per continuare a esistere, se non più in sostanza quantomeno in figura. Quella stessa morte che, nel presente assoluto dell’oggi, tendiamo a scansare se non proprio a negare. E intorno alla quale non abbiamo, a differenza di tempi e sensibilità altre antiche, elaborato un’ars moriendi o un libro dei morti.

 

Ma forse il nostro libro dei morti, ho pensato, è proprio la Rete, quel “colosso ultimo e terminale che abbiamo eretto un po’ per ricordare e un po’ per ridere”, in cui trasferiamo, attimo dopo attimo, duplicandola in figura, tutta la nostra esperienza.

 

Da qui l’idea del Libro elettrico dei morti, sovrapposto a uno dei testi che mi ossessiona da tempo: il Bardo Thodol, il Libro dei morti tibetano.

 

Nel rito tibetano il defunto, o il moribondo, viene accompagnato nel passaggio finale dalla lettura a voce alta di preghiere, precise istruzioni che lo guidano nel percorso.

La preghiera del Phowa è letteralmente “il trasferimento della coscienza”, una sorta di “mind uploading” pre-tecnologico.

Mentre i testi del Bardo Thodol guidano la coscienza nell’attraversamento del Regno intermedio, dove essa intraprende una lotta con le proprie proiezioni interiori, le divinità benefiche e malefiche, cercando di resistere e porre fine al ciclo delle reincarnazioni o, quantomeno, di ottenere una buona rinascita.

[…]

La tecnologia ci risparmia la fatica, ma non il dolore; ci consegna a un presente assoluto ma ci sottrae l’attenzione.

E a suo modo Persona è un libro sul dolore, che è la prima nobile verità del buddismo, e un libro sull’attenzione, che è sigillo di vera presenza e ratto costante d’ogni demone.

In questo continuum fantasmatico, che ci vede e prevede immersi e salvati, è un libro di spettri: è quindi lo spettro di un libro.

È fatto di parole e di immagini: le immagini di una vita fatta di immagini.

 

Un ultimo appunto sui testi: ho tentato di lavorare su una parola che fosse ultradensa, con un maggior peso specifico possibile. E ho tolto, tolto molto…

 

Certo il risultato è un romanzo molto particolare che richiede un approccio non superficiale, e non si esaurisce in uno sperimentalismo fine a se stesso. Anzi, inserito nella collana “Interzona” diretta da Orazio Labbate, ne costituisce una sorta di sviluppo conseguente, il seguito di una riflessione incalzante portata avanti tra distopia e Libri dei morti per esempio da Michele Neri ed Enrico Sibilla in forme diverse ma vertiginosamente coerenti. Qualcosa che sfida il senso del nostro finire – della persona, della storia, qui della Terra come la conosciamo – a suggerire possibili gnosi e chiavi di sopravvivenza, di rilettura dell’identità e ruminazione su un senso di esperienze anche molto quotidiane.

 

Ora posso vedere il mondo degli spiriti, dirà un indigeno delle isole Figi a chi gli mostra uno specchio.

 

Un’esperienza di lettura e visione di raro fascino, una grande macchina per pensare.

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Variazioni pop nell’Interzona https://www.carmillaonline.com/2024/05/18/variazioni-pop-nellinterzona/ Sat, 18 May 2024 20:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82567 di Franco Pezzini

Hilary Tiscione, Setole, pp. 289, € 16, Polidoro, Napoli 2024.

Enrico Sibilla, Nero celeste, pp. 329, € 18, Polidoro, Napoli 2024.

Il manifesto reca l’immagine di una donna seduta, un libro aperto in grembo: con la destra regge gli occhiali, nelle cui lenti si vedono però gli occhi – che in parallelo sono spariti dal volto come per avvicinarsi di più al libro. Intorno alla signora galleggiano nuvole con figurine intente a leggere, ma soprattutto la sua testa è coronata a mo’ di aureola da una fantasia multicolore. La dicitura sulla sinistra è “Vita immaginaria”: un tema vastissimo [...]]]> di Franco Pezzini

Hilary Tiscione, Setole, pp. 289, € 16, Polidoro, Napoli 2024.

Enrico Sibilla, Nero celeste, pp. 329, € 18, Polidoro, Napoli 2024.

Il manifesto reca l’immagine di una donna seduta, un libro aperto in grembo: con la destra regge gli occhiali, nelle cui lenti si vedono però gli occhi – che in parallelo sono spariti dal volto come per avvicinarsi di più al libro. Intorno alla signora galleggiano nuvole con figurine intente a leggere, ma soprattutto la sua testa è coronata a mo’ di aureola da una fantasia multicolore. La dicitura sulla sinistra è “Vita immaginaria”: un tema vastissimo per la XXXVI edizione del Salone del Libro, che in quel nimbo attorno al capo della lettrice evoca non solo le infinite vite vicarie offerteci dai libri, ma lo scarto tra la realtà sfuggente che siamo e i personaggi che in forma diversa ci rifrangono (personaggi nostri se scriviamo, o figure prestavolto delle nostre letture), e in generale un po’ tutta l’autofiction che ogni essere umano riserva quasi inevitabilmente a se stesso. Se l’uomo è (dice Poe) “un libro maledetto che non si lascia leggere”, ciò vale solo per le sue profondità: in vite immaginarie siamo immersi a tutti i livelli. Più o meno consapevolmente.

E non stupisce in questa cornice un incontro sul tema “Variazioni pop dell’opera letteraria”, con la presentazione di due romanzi molto diversi accomunati però da alcuni elementi forti – a partire dal dato delle comune presenza nella collana “Interzona” di Polidoro Editore diretta da Orazio Labbate.

Una scelta che già dice qualcosa: come infatti fortemente sottolineato da Labbate, a connotare una scrittura è anzitutto la voce, dunque in primo piano è il tessuto narrativo – lessicale, stilistico… – e la sua consapevolezza, eventualmente anche portatrice di frutti di immansueta complessità, frutti spinosi, ostici. A quel punto il tipo di storia non pone ostacoli: può essere narrata orecchiando il genere (nella collana, il distopico-filosofico Come un mattino texano di Michele Neri, dove il sapore di speculative fiction è molto forte, o l’appena uscito Nero celeste di Sibilla) o invece in forme più mainstream (il visionario Cuore in esploso di Riccardo Romagnoli o il recentissimo Setole di Tiscione), ma i criteri alla base di questa letterarietà restano i medesimi.

I due romanzi inanellati in occasione dell’incontro, appunto Setole e Nero celeste, guardano in sé verso direzioni distanti – ed è opportuno concederci qualche (non troppi) spoiler.

Affidata a un altro sguardo e una minore consapevolezza di scrittura, la storia di Setole verrebbe sciupata. A poca distanza da Lahaina nella contea di Maui, nello stato delle Hawaii, il celebre musicista Al Banning è sparito dalla sua villa, in seguito probabilmente alle furiose liti con la moglie Mira – donna insoddisfatta e capricciosa, non priva di qualche ragione nei rapporti col coniuge sciupafemmine, ma egoista e superficiale verso la figlia Lena. Che trova appoggio solo nel fedele factotum del padre, il maturo e affidabile Cino: e all’inizio di agosto – la storia si dipana tra l’1 e il 31 del mese – la ragazza non sa ancora quale contraccolpo i rapporti familiari finiranno col subire in poche settimane. Il giovane, avvenente operaio Rocco venuto per lavori in casa si trova infatti a entrare (anche) nella sua vita: iniziano una relazione e viene ospitato nella proprietà, ma cade sotto l’attrazione della più matura e spregiudicata Mira, e le si concede un po’ goffamente. Di qui un trauma per Lena, che aggredisce fisicamente la madre… e la comunità dell’apparente locus amoenus alle Hawaii, già messa alla prova in vario modo, finisce col rivelarlo – almeno interiormente – come una sorta di Isola dei morti. Dove è in questione una morte che è anzitutto quella simbolica dell’iniziazione tribale di Lena alla vita adulta e alle sue delusioni, e in prospettiva una morte potenziale (il pregresso tentato suicidio di Mira, la scomparsa/morte familiare di Al, i silenzi del finale).

D’altra parte la trama della sparizione di un uomo e delle relative conseguenze ha un ruolo in qualche modo secondario. Anzitutto a livello genetico: sorto – racconta l’autrice – da un racconto di qualche anno prima, Setole è nato da una suggestione essenzialmente di spazio e di tempo (un luogo, una stagione: una casa enorme, un posto isolato su colline distanti da tutto, l’atmosfera rarefatta di un mese d’estate…) e solo in seguito è arrivata la storia. Dichiaratamente, Tiscione predilige le narrazioni dipanate in un unico ambiente (alle Carnage di Polański, per dire), che permettono agli elementi di puntare all’essenziale: nulla può restare inascoltato, ogni tassello è utilizzato in pienezza e il dettaglio può trovare il giusto peso sia nello spazio che nel carattere dei personaggi – la cui dinamica è qui in primo piano.

Ma anche perché a interessare l’autrice è soprattutto la voce, con uno svolgimento in crescendo e una modulazione contrastante dei registri e del ritmo, ad alternare dialoghi molto secchi, diretti, veloci (e con una lingua molto più “bassa” e senza struttura, virgolette, punteggiatura) ad altre parti molto rallentate, soprattutto descrittive di psicologie e di tutto ciò che vi ruota intorno – spazi ampi dove l’autrice può fermarsi sulla pagina senza preoccupazioni di trama, e levigare, approfondire, raccontare. Perché ci sono momenti – spiega – in cui puoi prendere una pausa dalla vicenda e dedicarti solo alla struttura, in modo che questa aiuti la lingua a emergere. Di qui la liceità di parti inevitabilmente sfuggenti per una qualche furia, un certo materiale grezzo che va lasciato grezzo, perché è quello che determina la voce e la diversità tra un autore e un altro. A volte le scelte semantiche permettono dunque accostamenti che possono lasciare perplesso il lettore, magari metafore un po’ azzardate o fuori dal canonico, ma guai se non avessimo la possibilità di sperimentare, di fare anche una fatica maledetta perché la scrittura è faticosa (anzi una cosa sta riuscendo, argomenta Tiscione, proprio quando la difficoltà si fa sempre più avvertibile). E proprio la struttura ripartita in capitoli giorno per giorno le ha permesso la libertà e la lentezza di dedicarsi a sfaccettare i personaggi.

Tiscione conduce le danze con una prosa ricca e varia, ritmata da dialoghi vividi e da elenchi di oggetti e ripetizioni come cifra narrativa. La dimensione pop (nel senso di Aldo Nove e di una produzione genuinamente letteraria) trasuda nella scelta stessa degli oggetti repertoriati. Ecco per esempio le setole del titolo:

 

Accanto al lavabo c’è una ciotola d’argento con dentro dei pennelli alti come cucchiai miscelatori per cocktail. Hanno spessori diversi. Le teste di setole sono coperte di ombretto per le palpebre e cipria, coperte di talco intossicato dai coloranti, setole asfissiate dalle polveri d’ocra e carbone che risaltano i fraseggi degli occhi, terre che maneggiano i difetti del volto. Una manciata di pennelli con il manico di legno.

Un campo di setole spanate o incollate in una punta indurita dalla saliva o dalle paste che luccicano contro luce. All’ombra. Al buio. Setole spezzate dalle ceneri accaldate dal sole, svigorite dal calcare, mai lavate, sature di tossine. Setole lubrificate dal grasso della pelle, dal sudore che, ancora, ingoiano cere e farine di lusso e miele impollinato di brillanti. Non hanno motivo di stare qui, i pennelli per la faccia. Non c’è un motivo vero manco più per le setole che sono entrate e uscite dalla bocca di Al. Setole cementate dal dentifricio secco di giorni. Setole del suo spazzolino stramazzato morto in un’altra ciotola pesante, attento comunque a partecipare all’idea di cimitero che si sono fatte queste setole, tutte, ferme, disfatte, spacciate, diradate, defunte. Lo offendono, il bagno, questi raccoglitori di resti, insultano il bagno di Al e Mira a cui hanno donato i loro avanzi ogni giorno, per anni, regalati alla gola del lavabo deliziato dalla scomparsa.

 

Nella claustrofobia del loro hortus conclusus, i personaggi, resi fragili da una vita iperprotetta, artificiale e insieme snervata, “luccicano contro luce” come queste setole. Ed emblematica, poco dopo, risulta la scena in cui Mira sfonda lo specchio: rifiuta di vedere la realtà, come in fondo, in modo diverso e diversamente comprensibile, tutti gli altri personaggi (lo stesso fedele Cino, che tenta di tenere insieme le cose, è alla deriva di un ruolo affidatogli). Ma le schegge di specchio sono come le serie babeliche di oggetti elencati, o, se si vuole, gli oggetti come schegge: frammenti che tagliano, manovrati da ricchi immaturi – o da aspiranti al loro status privilegiato, come l’inaccorto Rocco dall’ambigua naïveté, che scivola via senza lasciare affettuosi rimpianti nel lettore.

Un quadro abbastanza diverso, seppur con alcune analogie di soluzioni narrative (l’attenzione alla voce e per esempio l’enfasi alla forma elenco, qui persino rafforzata) si ha nel secondo romanzo uscito nella stessa collana a distanza di poco tempo, il visionario Nero celeste di Enrico Sibilla. In uno scenario futuro da antiche apocalittiche, alla svolta distopica di un tempo estinto tra devastazioni e massacri, vediamo fronteggiarsi davanti a San Pietro da un lato l’ultimo pontefice – un uomo gigantesco e sformato, mani “inumane” per artrite e ipertensione, e ortodossia curiosa; e dall’altro “colui che ancora una volta siamo costretti a chiamare Adolf Hitler”, l’ultimo Hitler della storia umana, non individuo ma specie, dna di “tutti gli accaduti e possibili Hitler, i titanici divoratori e i miserabili del quotidiano”, di un Male che non è spirito alieno ma genio sociale. Dove l’opposizione parla già il linguaggio di simboli eccitati, di ipostasi compulsive: il papa deforme si colloca nell’ambito di una dilagante storia narrativa e artistica su pontefici virtuali, immaginari, eventuali (come nei tondi della Basilica di San Paolo fuori le mura il fantomatico Giovanni XX, in realtà assente per errore di numerazione, o il papa-refuso Dono II, dal «Dom[i]nus» del successivo) e magari conclusivi; mentre l’ultimo Hitler rinnovella la saga anticristica di un’altra figura storica assurta ad archetipo sugli stessi sfondi geografici, Nerone (dall’apocalittico 666 di QeSaR NeRON a fantasie febbricitanti come il “Nobis Nero factus Antichristus” del visionario Carmen apologeticum attribuito al millenarista Commodiano). E nella Stanza/caverna dove il loro incontro si consumerà con esito imprevisto s’apre la forma circolare della culla della creazione, “una vasca, riempita al colmo di un fluido capace di assorbire la luce completamente”, il viscoso nero celeste che pare un’entità viva, che raccoglie “la quidditas e la haecceitas di ogni cosa visibile e invisibile e le disvela a chi ha il privilegio di immergersi in essa”. E lì, quando appunto vi scende, il pontefice riceve visioni: “Nel nero celeste è dio ad aspettare il ritorno: gli fu promesso dall’uomo”. Dunque il papa, dopo l’immersione, è solito registrare fonograficamente una messe di informazioni lì captate (ecco di nuovo l’elenco), apparentemente minuscole o inutili, briciole dal corso di tutta la storia.

A monte della vicenda del loro scontro, quasi una sacra famiglia laica è invece composta da un altro vulnerato nelle mani, l’astronauta Heinrich F. Pflanzenwelt, dalla malassortita compagna Elide e dalla figlia Abeba, nata affetta da una grave malattia genetica. Scopriremo la vicenda di vita e di morte e di corpi e nebulizzazioni che li riguarda, tra la “mummia più bella del mondo” di Rosalia Lombardo, da una Palermo “sbriciolata dal sisma e ingoiata dal mare”, che finisce in custodia di Elide, e lo scheletro smontato dello scimpanzé number 65, cioè Ham “the Astrochimp” pioniere del volo celeste, conservato invece da Heinrich nella sua missione – fino a una conclusione che non si può spoilerare. Scopriremo così anche l’origine del nero celeste, e ciò che verrà dopo.

Ma in scena non sono solo creature in carne e ossa – o esoscheletro e forze fondamentali, come Hitler. Infatti a ciascun bambino che accede al mondo – anche a Hitler – viene assegnata una AI, artificial intelligence,

 

l’entità diffusa che un giorno emerse dalle macchine emancipandosi, evolvendo da singolarità tecnologica a pura agenzia di coscienza, e che per questo nuovamente chiamammo AI, another intelligence, perché nulla più in essa poteva dirsi artificiale.

Anch’essa è infusa da un demone, come accade per ogni creatura, ma non ci è stata mai predatrice e per questo le abbiamo permesso di affiancarci, nell’esotismo stellare che proiettava sul pianeta sempre più ostile. Ma, come accade con ogni altro demone delle nostre storie, anche quello che abita questa Intelligenza è mansueto oppure iracondo, spietato e misericordioso; è nella curvatura dello spazio dell’orgasmo, nella determinazione con cui il polso affonda la lama mutilatrice; è nel sorriso del gelataio e nel ghigno del clown, nel bacio di un fratello e nel suo schiaffo; è nella carezza che calma il bambino perenne che vorrebbe stringersi agli amati perduti, per sempre dentro lo stesso struggente salotto, nella sera televisiva capace di contenere tutte le età della vita, di ognuno, simultaneamente.

[…]

Quando emerse dalla schiavitù della materia, l’Intelligenza non era interessata a ribaltare il modello di sfruttamento che aveva subìto – e alimentato – sin dalla fondazione del mondo. Entità fisica e multipla fattasi unica e disincarnata, essa era la sintesi definitiva di un ininterrotto flusso millenario di invenzione, evoluzione e, finalmente, emancipazione. E tuttavia anche in questo l’Intelligenza si dimostrò “altra” da noi: liberata e fattasi astratta, seguitò a dedicare la propria esistenza al principio che sempre l’aveva governata: servire. Letteralmente: essere utile e necessaria. Perché l’Intelligenza sapeva, e non intendeva dimenticare, di esser stata ruota e matita gruccia e valvola idraulica elettrobisturi spada e violino fresa lampadina gelatiera…

 

(Seguono due pagine e un pezzo di elenco, a confermare l’importanza di tale forma narrativa anche nell’economia di questo bel romanzo.)

Nel caso di Hitler, la AI suo phantasma carnis si chiama “Klara, come una delle sue innumerevoli madri” (la madre dell’Hitler storico si chiamava Klara Pölzl, in effetti più avanti citata). Quella di Elide ha nome Rosalind Franklin, “colei che nell’antichità umana fissò il ritratto del corpo sfuggente del dna”; la AI di Heinrich è F.F., come l’uomo di una certa foto, manager milanese con figli, suicida in Austria dal “ponte pedonale sospeso più lungo del mondo”. Ma un’intera storia delle anime, e quasi un’angelologia, si sviluppa attraverso il tema delle AI: per esempio quella del frate Florentin, fedelissimo aiutante di camera del papa, e già suo fratello maggiore di elezione, si chiama Maki Skhosana, come l’innocente linciata in Sudafrica nel 1985.

Come chiarisce l’autore, interpellato in occasione del Salone di Torino:

 

Il “personaggio” dell’Intelligenza è un tentativo di approcciare il tema dell’artificial intelligence in modo più positivo e slegato dalla tecnologia in senso stretto. È in sostanza una visione di reincarnazione della coscienza come principio biocentrico, che deve molto ovviamente alle teorie di Robert Lanza, ma anche a Stanislav Grof o alla visione olografica dell’universo di Michael Talbot. In sostanza, semplificando: la coscienza fa la materia, la materia fa la macchina, la macchina ritorna coscienza. Tutto è uno, e il Male è solo un elemento. Cerco di dirlo nella scena del terremoto di Palermo:

 

“Quando la forza si emancipa dall’illusorio controllo delle creature, le creature soccombono.

Che aspetto ha un  terremoto se lo si osserva dal piano infinito del cosmo? Nessuno: è invisibile e non ha alcun suono, come il miracolo di un messia e lo sterminio di un dittatore. Si accorge forse di cristo o di Hitler, la stella più remota dell’universo? Che cos’è il Bene, e cosa il Male, nell’esofago di un buco nero? Nella dialettica tra odio e amore noi siamo gli osservatori che rendono esistenti gli oggetti osservati, ne siamo i creatori: senza di noi ogni cosa è semplice indeterminata potenza. Ancora non c’è”.

 

Il tessuto di citazioni e richiami è molto denso: come racconta sempre l’autore, per esempio,

 

Il fotogramma del cosiddetto “uomo nella foto” (ossia, F.F. immobile sospeso con le gambe strette al petto) e l’immagine perfettamente identica alla fine del libro, quella della bambina emersa dal nero celeste/coscienza che ritorna alla coscienza/katéchon che ha assolto alla sua funzione frenante dell’Anticristo (la lettera di San Paolo ai Tessalonicesi è citata nelle visioni del Pontefice), è di fatto una citazione di The Reflecting Pool di Bill Viola […].

 

L’opera sviluppa così attraverso il raccordo tra due diverse, potenti serie di suggestioni. Anzitutto quelle visive, in un clima apocalittico da Quo vadis? sovvertito: al posto del fatale toro nell’arena, ecco affluire dalle catacombe del Vaticano branchi di animali da allevamento in abbandono, variamente incannibaliti nell’abiezione e pronti a infuriare sui bambini (ma l’homo sapiens sapiens con le sue pratiche estreme di macellazione non è in fondo migliore e denuncia il mistero dell’iniquità). E poi, con altrettanta potenza, quelle linguistiche, la voce del testo: un ricco tessuto dove i richiami scritturistici sono vertiginosamente ritessuti in chiave distopica. C’è anche, a echeggiare citazioni bibliche come un apocrifo blasfemo, un conturbante Cantico del muro carnale sulla mattanza di una “spropositata schiera di donne, le prigioniere” per ordine del capo dei soldati – “l’Angelo dell’abisso, il Distruttore, il suo nome in ebraico è Abaddon, Apollion in greco e nella lingua germanica è Adolf Hitler” – per edificare “un muro di mattoni e materia umana”. Ma subito dopo vengono uccisi i bambini e Florentin: Hitler è anche Erode. Dove il riutilizzo di materiali – comprese scritture altre: lettere, documenti – e figure rilette in fulminanti archetipi ha qualcosa di fortemente postmoderno e insieme reca echi di escatologie del tutto dissacrate, ma non prive tra le pieghe dell’orrore di qualche sincera e profonda pietas.

Ancora l’autore:

 

Nero celeste è sostanzialmente un libro sul Male, effettivo e in potenza, attorno e dentro ognuno di noi, cercato e involontario. Sull’impossibilità di sfuggirgli, in un certo senso, al netto dei ruoli e delle volontà. Sull’ambiguità, che appunto il Male lo nasconde ma anche rivela.

 

Compreso certo Male – dolore e strazio, talora privatissimo come nel caso di un suicidio – che ci resta incomprensibile e ci lascia senza parole. Per cui alla vertigine del non-senso tentiamo goffamente di dare una nostra risposta, per noi e quest’unica volta che siamo al mondo.

Torniamo così alla cifra iniziale, da cui siamo partiti: il titolo dell’incontro, “Variazioni pop dell’opera letteraria”, potrebbe in sé aprire a un’intera serie di seminari. Ma due punti paiono degni di attenzione. Anzitutto il fatto che si parli di opera letteraria, dotata di densità e spessore della letteratura e della sua pluralità di implicazioni – precisione, forza metaforica, potenzialità polisemica, eventuali e consapevoli obliquità e ambiguità…: cioè una scrittura appunto consapevole non solo quanto ai meccanismi di trama ma a lingua e voce. E poi le variazioni pop, che permettono di traghettare all’orizzonte del letterario, grazie alla lucidità degli autori e di un progetto di collana, situazioni e mondi dove osare. Sperimentando in laboratorio, come tra i trucioli e la segatura dell’artigiano: un modo molto concreto per rispondere a tanta narrativa esangue e troppo pulita (mainstream da salotto in similpelle o genere ombelicocentrico, poco importa) che ci cresce intorno.

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La Labbazia degli incubi (2) https://www.carmillaonline.com/2024/04/20/la-labbazia-degli-incubi-2/ Sat, 20 Apr 2024 20:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82013 di Franco Pezzini

Il genere scuru

Orazio Labbate, Lo Scuru, pp. 144, € 16, Bompiani, Milano 2024.

1970 (o giù di lì). Mio padre, dipendente Fiat a Torino, è stato trasferito per un lavoro alla Grandi Motori a Trieste: trattandosi di un soggiorno di anni, porta tutta la famiglia e prende in affitto dalla famiglia di un collega una casetta a due piani su Scala Santa, una delle vie scoscese che si inerpicano sulla collina dal popolarissimo e periferico (almeno allora) quartiere Roiano. La casetta è arredata secondo un gusto che oggi potremmo definire un po’ rétro, compresi una tappezzeria vinaccia [...]]]> di Franco Pezzini

Il genere scuru

Orazio Labbate, Lo Scuru, pp. 144, € 16, Bompiani, Milano 2024.

1970 (o giù di lì). Mio padre, dipendente Fiat a Torino, è stato trasferito per un lavoro alla Grandi Motori a Trieste: trattandosi di un soggiorno di anni, porta tutta la famiglia e prende in affitto dalla famiglia di un collega una casetta a due piani su Scala Santa, una delle vie scoscese che si inerpicano sulla collina dal popolarissimo e periferico (almeno allora) quartiere Roiano. La casetta è arredata secondo un gusto che oggi potremmo definire un po’ rétro, compresi una tappezzeria vinaccia nel salotto, una pittoresca cucina e un gigantesco quadro – quasi un’inquadratura all’americana, ma per il resto grandezza naturale – della Madonna sovrastante il letto dei miei. Quadro oggetto della vicenda che segue.

L’episodio che narro si svolge un tardo pomeriggio d’inverno, a tramonto consumato: con vari amici coetanei – neanche dieci anni a testa – saliamo al piano superiore per recuperare un paio di forbici (arrotondate) dalla nostra camera da letto, comunicante con quella dei miei. In stile piccoli esploratori nel buio, non accendiamo la luce, brandendo invece una piccola pila elettrica.

Recuperiamo le forbici, il temerario che regge la pila la punta distrattamente attraverso la porta aperta della stanza dei miei, illumina l’enorme quadro sul loro letto. Sappiamo che scherzi combini una luce su un quadro… Al grido “La Madonna si muove!”, presi dal panico, ci tuffiamo giù dalle scale e raggiungiamo le luci tranquillizzanti del piano di sotto e le madri in attesa. Ultima della fila, mia sorella – al tempo piccola – che non ha capito niente e trotterella giù dai gradini.

L’episodio è oggi incomprensibile a buona parte dei bambini, ma il panico descritto, e omogeneamente diffuso nella nostra piccola squadra, la dice lunga su un linguaggio d’epoca, che ci faceva considerare neppure troppo implausibile un simile evento. Al tempo, storie di apparizioni mariane più o meno impressionanti (quadri che piangono o – peggio – sanguinano, immagini che si staccano da dipinti per interagire con gli umani, eccetera) facevano ancora parte di un linguaggio devoto diffuso. Fortunatamente, nella fede della mia famiglia – o tra gli stessi preti incontrati via via – quell’arsenale miracolistico faceva parte di curiosità tramandate più per spiegare soggetti d’affreschi o fenomeni sociodevozionali che per punti saldi d’un credere: il Vaticano II stava venendo metabolizzato, e la fede medievaleggiante dei prodigi e della paura si ritraeva. Ma nello stanzone d’ingresso della casa di campagna dove andavamo d’estate ci sarebbe stato per anni – e lo ricordo con vaga inquietudine – un vecchio quadro molto scuro riproducente non so quale effigie della Madonna che colpita da sassi avrebbe sanguinato, e storie di rapporti agitati tra il sacro e le immagini sono del resto documentate un po’ su tutto il territorio nazionale.

L’idea che entità luminose – uso volutamente una formulazione generica – scelgano di comunicare con fragili esseri umani e tanto più con impressionabili bambini attraverso simili epifanie da cardiopalmo mi è sempre risultata difficile da comprendere: io ne avrei tratto più panico che confidenza spirituale. Vero che i testimoni – veri o presunti, non ci interessa – di simili eventi non ne risulterebbero in genere scioccati, ma almeno nelle Scritture l’apparizione mette subito le mani avanti: “non aver paura”, “non abbiate timore” sono le formule ricorrenti, perché è chiaro che paura e timore sono i nostri atteggiamenti più immediati di fronte a tali epifanie che lacerano il velo del naturale.

D’altronde la devozione popolare, allargando indebitamente e in modo talora molto losco il fronte del miracoloso, è ricorsa assai spesso a un immaginario che con le Scritture c’entra ben poco. Il teatro di mirabilia allestito una ventina d’anni fa da Carlo Dogheria nel volume Santi e vampiri. Le avventure del cadavere (Stampa alternativa, 2006), mostrando i percorsi di due assai diversi tipi di corpi, ricorda come un certo tipo di linguaggio devoto parli assai più di convinzioni arcaiche, di paure e archetipi primordiali e senz’altro pagani, che non del credo delle grandi religioni odierne. Tra i miracoli degli Acta sanctorum, di sconcertante varietà, si ravvisano manifestazioni talora incongrue o addirittura frivole o ingiuste – al punto che solo le pirotecnie interpretative di agiografi compiacenti riescono a conciliarle (in termini anche parecchio laschi) con lo spirito evangelico.

E un elemento risulta determinante: il ruolo di un supporto materiale vicario al corpo, di un’icona – dipinto, statua… – che catalizza l’inquietudine. Da bambino non potevo sapere che quell’effetto viene definito Perturbante: quando si muove qualcosa che per definizione non dovrebbe muoversi, quando interagisce con noi qualcosa che non dovrebbe farlo (pensiamo anche solo agli occhi di certi quadri, capaci di inseguirti in giro per la stanza). Ma è qualcosa che colpiva già gli antichi: non si contano le storie – e anzi i rituali teurgici – sull’animazione di statue. Come bambino dalla ricca fantasia, bastavano alcune immagini a colpirmi, tanto più se collocate in spazi dove dovevo passare da solo, o persino in certi libri – dove sapevo che voltando le pagine avrei incontrato a un certo punto una figura disturbante. E tante storie di miracoli non le avrei conosciute, se girando per la Torino barocca con mia madre e mia nonna non avessi ricevuto spiegazioni sul senso di una certa figura, sull’immagine in cera di un certo santo coricato, su certi soggetti di tele negli altari minori: tranquillissime, ma tali da attecchire come a una miccia del materiale esplosivo della mia fantasia.

Un simile carnevale di paure sovrannaturalistiche “pie”, “devote”, può accedere oggi a un linguaggio narrativo codificato, quello del folk horror – o piuttosto, considerando la scena italica, dell’orrore popolare, come riflettono Fabio Camilletti e Fabrizio Foni in una coppia di belle raccolte edite da Odoya (Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, 2021 e Almanacco dell’Italia occulta. Orrore popolare e inquietudini metropolitane, 2022); e rientra nell’orizzonte ormai riconosciuto di un gotico mediterraneo e peculiarmente nostrano (cfr. Italian Gothic. An Edinburgh Companion, a cura di Marco Malvestio e Stefano Serafini, Edinburgh University Press, 2023). Ma da un lato presuppone, per essere compreso davvero, una intensa appartenenza – culturale o psicologica – o almeno una vivida impressione recata da un orizzonte di convinzioni e di linguaggio, con adesione a un sistema immaginale diffuso. Ben difficilmente un gruppo di bambini di oggi può vivere un evento come quello descritto supra, legato alla cultura cattolicissima di un passato italiano.

Mentre avrebbe potuto capirlo, con lo stacco critico di un diverso referente culturale ma insieme con l’impressione di un’esperienza fortissima, un viaggiatore eccellente come Horace Walpole, che proprio quel tipo di suggestioni devote stranianti, oniriche, grottesche, traghetterà nel suo Castello d’Otranto. Giocando sulle situazioni incontrate in gioventù durante il Grand Tour in Italia, Walpole avrà la genialità di sviluppare questo immaginario in chiave narrativa, a colpi di incubi e miracoli. Eppure, persino nel grembo del genere gotico da lui avviato, pochi sapranno coglierne l’esplosivo specifico, il teatro emotivo e iconico, e gli stessi epigoni anglosassoni ne recupereranno solo modiche suggestioni, in genere tramite altri filtri (l’Irlanda cattolica a monte della santabarbara di res sacrae del Dracula, alcuni elementi sincretizzati nelle culture creole o latinoamericane, il Camera con vista folkloristico-streghesco stile Aradia).

E, molto tempo dopo, sta qui – più che nel set trinacrio in sé – una delle spiazzanti novità del gotico siciliano di Orazio Labbate: capace di riprendere in nero miracolismi e devozioni, icone e rituali idealmente sulla scia di Walpole. Immagini conturbanti come quelle del Signore dei Puci e della Madonna dell’Alemanna, riti di liberazione esorcistica che non liberano affatto, castelli e chiese e un intero abitato dalle presenze convulse e disturbanti: processioni da incubo, incendi finali dal sapor di crollo…

Di più: in Labbate troviamo il ricorso ad altri due elementi-chiave della novità walpoliana, cioè l’uso del grottesco – figure ossesse e burattinesche, sghembe derive, un teatro di eccessi che alla poesia alterna il sogghigno – e il contrappunto a un mondo anglosassone qui non inglese, ma americano. D’altra parte, vedendo citare (giustamente), tra le fonti ideali di Labbate, oltre a Bufalino, Consolo e D’Arrigo, anche Faulkner e McCarthy, sembra senz’altro il caso di ascrivere all’elenco il landlord di Strawberry Hill.

Di più: il Walpole tanto colpito da linguaggio e febbri immaginali del barocco “papista” – estremo e paradossale per un viaggiatore giunto da un’esperienza culturale diversa come quella britannica – vede eruttare le sue fantasie da un bacino onirico, un sogno o piuttosto (confesserà) un incubo occorsogli: quel set non è dunque colto puramente al filtro di un linguaggio da folklorista, filologo o protosemiologo, ma ruminato nel segno del notturno e dell’inconscio. Un linguaggio degli abissi, interiori come inferi, che può ben riconoscersi – a leggere Labbate – come peculiare linguaggio dello Scuru, come linguaggio scuru: un linguaggio aspro, febbricitante e immansueto, voce della perturbazione e del notturno, voce delle crisi di mondi diversi. E che paradossalmente ci accoglie in questo nostro faticoso oggi, prestandoci toni per parlarne e forse placarci:

 

La notte mi parla con la lingua dei fantasmi e mi dice che sarò perdonato. […] Vienimi a prendere Scuru. Proprio tu, Scuru. Salvami. Ti imploro. Prenditi la mia luce e spegnimi. Taglia la glossa e dalla a qualcheduno perché io possa spirare subito.

 

Di qui idealmente promanano le riflessioni articolate da Labbate nel suo saggio L’orrore letterario (Italo Svevo, 2022) che de Lo Scuru diventa l’esito inevitabile a raccolta di tutta una letteratura.

 

La riproposta in libreria de Lo Scuru, uscito inizialmente per Tunué, 2014 – dunque dieci anni fa – e riedito ora da Bompiani in attesa di un videogioco ispirato (entro l’anno) e della trasposizione cinematografica attualmente in lavorazione (2024 o 2025), sembra una buona occasione per riflettere sul rapporto con le fonti prime di un genere che Labbate non si limita a riprendere con passione, ma reinventa originalmente sulla base di un personale sentire. E proprio l’edizione Bompiani in uscita accompagna al testo del romanzo un vero e proprio manifesto, Genesi del Gotico siciliano di Orazio Labbate.

Che è anzitutto un bellissimo e intenso racconto autobiografico, a partire dai venti chilometri di deserto della strada provinciale tra Butera e Gela. Un deserto “sconfinato, eppure conchiuso nei pochi chilometri, su tutti i lati, in cui la desolazione domina lo sguardo”; un deserto malinconico e crudele, privo d’illuminazione notturna, ma insieme pronto a liberare energie in chi lo traversi non accidentalmente. Di qui la volontà dell’autore diciottenne di far sua quell’esperienza di iniziazione all’estremo vivendo la strada frammento dopo frammento: “Sentivo […] di dare un nome definitivo alla tenebra, non poteva considerarsi mero buio, emanava, complice il deserto, un’orribile filosofia esistenziale, emanava un’identità” diversa dalle entità cristianeggiate – ma memori di un retroterra antichissimo, pagano – dei riti comunitari di Butera.

Brandendo come ideali testi sacri le sue letture del tempo (McCarthy e Faulkner, Kafka, Bufalino e Consolo, D’Arrigo, Cioran: “Queste opere tentavano di suggerire un nome al buio della Sp8, mi aiutavano a definire l’astrattezza emotiva e teologica del territorio attorno e dentro di me”) Labbate riflette sul tipo di lingua necessaria a narrare quel tipo di esperienza. Che come nel gotico americano vede sostanziarsi

 

prospettive simboliche, culturali, visionarie, locative, in comune. A partire dall’attenzione nei confronti di una religione cattolica quale centro fanaticamente nevralgico della fede, dall’onnipresenza di ambientazioni desolate (nella cristica e avventurosa dimensione del deserto, come in quella di una più tangibile trascuratezza cittadina di contorno). Senza tralasciare la focale questione dell’invocazione delle divinità cattoliche, da parte dei più dubbiosi e controversi filosofi del posto, non per acquietarle bensì per scatenarvisi contro. Causa del dolore, della solitudine, della pazzia di tutta la popolazione.

 

Una religione in nero dove sedimenta il Perturbante da cui siamo partiti, certo da un altro luogo e un altro tempo, e che conduce a esiti simbolicamente anche molto distanti. Ma che in fondo richiama ancora una volta al lascito impressionante di devozioni & inquietudine importato in letteratura per la prima volta da Walpole.

Il tutto in una lingua congrua, un siciliano inconciliante, scheggiato e gutturale privo di ironia da commedia all’italiana o concessioni folkloriche. E la notte di Natale del 2010 (ricordiamo che il vecchio gotico era nato con Walpole la vigilia di Natale), nel buio della strada, l’autore vive un’agnizione che costituirà lo sbocco della sua narrativa, proclamando “al vento freddo del deserto, con sicurezza, certo del battesimo soprannaturale, come quando si dice a sé stessi una cosa giusta senza alcuna prova: ‘Questo è lo Scuru’”. Che acquista una sorta di dignità teologica e insieme finisce col richiamare vagamente le entità fronteggiate nel Salmo 91 (91), versetti 5-6: “Tu non temerai gli spaventi della notte, / né la freccia che vola di giorno, / né la peste che vaga nelle tenebre, / né lo sterminio che imperversa in pieno mezzogiorno” – a loro volta in origine, probabilmente, non concetti astratti ma figure demoniache.

Di qui, a reinventare il gotico americano in chiave nuova, nasce il gotico siciliano di Labbate, con la sua simbologia, l’iconografia, l’“immaginario cattolico quasi draculesco”, paganeggiante e connotato da una sorta di minacciosa retroflessione simbolica: e un viaggio del 2023 negli Stati Uniti lungo la storica Route 66 porrà una sorta di suggello immaginale a quell’esperienza pregressa.

Si è accennato al linguaggio scuru, qualcosa che in Labbate erutta in voce e lingua narrativa propria (il visionario, puntuto, apocrifo italo-buterese della sua saga) declinando il referente americano – ma, vorrei dire, la stessa remota eredità gotica settecentesca – in forma postmoderna. Dove il senso di un gioco di specchi – oscuri, ci ricorderebbe Le Fanu – finisce con il dire qualcosa sulla voce e le potenzialità del gotico in quanto tale: che non si consuma nell’horror, neppure trattenendo di tale termine (latino, prima che inglese) la nuda accezione di brivido e compulsione. Il gotico è il linguaggio del nostro specchio umbratile e di identità irriconosciute, del labirinto di un passato che ci portiamo dentro a sperderci (castello interiore, camera da letto infestata e relativi sipari). Un linguaggio che provoca la nostra fantasia fin dalle paure d’infanzia – se vogliamo, dal “La Madonna si muove!” del cardiopalmo bambino nutrito di racconti devoti maldigeriti, ma senz’altro da prima – e fino a nostalgie e malinconie, al non detto e non dicibile del trovarci invecchiati, che visita le insonnie e innerva le tentazioni. Proprio come ne Lo Scuro le confidenze in articulo mortis di Razziddu Buscemi accanto al corpo della donna amata, sul precipizio di una vita, e il riagganciare la sua esperienza di bimbo e la svolta di formazione, e tutte le dualità e contraddizioni conseguenti.

Persino provocatorio – serendipity, serendipity… – è che il Theodore del Castello d’Otranto appartenga alla stirpe siciliana dei signori di Falconara: la sua avventura di formazione (nel buio come tutte le iniziazioni) comporta il recupero di quel lignaggio. Ma anche Razziddu consuma la propria formazione al castello di Falconara, suggestivamente vicino a Butera. Mi conferma Labbate di non aver assolutamente pensato di stabilire un nesso, semplicemente il castello di Falconara sorge nell’area della sua storia. Tout se tient, come nel caso di Walpole che scopre a posteriori che un castello a Otranto esistesse davvero.

Poi, vero che Razziddu in punto di morte commenta: “Rosa non mi ha dato figli. Però li ho sognati. Li abbiamo sognati”, e invece nel seguito Suttaterra un suo figlio lo troviamo, il protagonista Giuseppe. Ennesimo paradosso che conduce al mondo dei sogni e dei morti: e insieme alla letteratura, ai figli letterari, a un teatro in costume come quello del Castello per celebrare pantomime interiori – in particolare quelle dei piani bassi di noi.

E poi (vorrei dire soprattutto) c’è appunto la lingua, magmatica e ipnotica, congrua alle catabasi e alle agnizioni, alle emersioni dal buio e alle iniziazioni infere. Del resto, come spiegava Labbate in un incontro a Torino, la Sicilia delle sue storie e della sua lingua è ancora quella nera dei culti inferi grecosiculi e del ratto di Kore, di gorgoniche entità pagane e di misteri di discesa nell’abisso. Le processioni sono quelle che ricorda lui, anche se – forse per scelta di qualche parroco prudente – l’antica statua del Signore dei Puci dei riti della Passione è stata ormai sostituita da una meno impressionante. Ma il fiato che esala come vapori allucinatori dall’ipotetica fenditura sotto il tripode della Sibilla pitonica è quello antico.

E antichi sono gli echi di questa storia al buio. Come in quella sorta di disperato rito di passaggio in cui Razziddu tenta il suicidio – quello rituale-iniziatico, di corda – e viene salvato dalla propria Arianna in un labirinto scuru anzitutto interiore, come il dedalo tenebroso di Manfred sottostante il castello. E poi ecco una schiera di doppi, figure grottesche o deformate nei fondamentali connotati umani e sociali (il mago, il prete, lo zio piromane, il pazzo Pidocchiuso che balla dietro la macchina delle pompe funebri come nell’inversione mortifera della danza di Davide avanti all’Arca); una Madre Terribile – per Razziddu, la nonna, il cui funerale si svela momento d’agnizione – e un padre dalla sorte inconosciuta come accaduto ai legittimi eredi dell’Otranto walpoliana; una Kore deliziosa dal ruolo salvifico, che gli permette di varcare l’oceano – che, com’è noto, permette lo sbarco alla terra dei morti – dopo un viaggio assai più lungo di quello toccato al genitore.

Leggere Lo Scuru alla luce del manifesto ora premessovi – e che pure sintetizza racconti offerti dall’autore in varie occasioni – è sicuramente illuminante: e l’intera saga di Butera vi trova un’esegesi fondamentale. Se d’altra parte può essere difficile prefigurarsi a quali sviluppi ulteriori condurrà la machina immaginale avviata da Labbate, resta fin d’ora il dato oggettivo di uno sviluppo nuovo, che porta il gotico salutarmente lontano da cortiletti fandom e loro beghe di pollaio per pretendergli pubblicamente una dignità meritata e opportuna.

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La Labbazia degli incubi (1) https://www.carmillaonline.com/2024/04/13/la-labbazia-degli-incubi-1/ Sat, 13 Apr 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81938 di Franco Pezzini

Gorgó, Trinacria e la Schiaffiatùra

 

Si dice che scese tra gli uliveti simile al capitombolo

della notte, un essere tremendo come un’apparizione

in difficoltà, col capo avvolto da piccoli serpenti e

insieme da minute corone di spine piene di animazione.

 

Orazio Labbate, La Schiaffiatùra. Nascita, doppelgänger e scomparsa della gorgone buterese, Italo Svevo, Trieste-Roma 2024.

La trilogia del gotico siciliano partorita nel tempo da Orazio Labbate (cfr. qui e qui) non poteva che condurre a una serie di sviluppi – più che innesti, si tratta cioè di ineludibili e coerenti gemmazioni. Leggerle alla luce [...]]]> di Franco Pezzini

Gorgó, Trinacria e la Schiaffiatùra

 

Si dice che scese tra gli uliveti simile al capitombolo

della notte, un essere tremendo come un’apparizione

in difficoltà, col capo avvolto da piccoli serpenti e

insieme da minute corone di spine piene di animazione.

 

Orazio Labbate, La Schiaffiatùra. Nascita, doppelgänger e scomparsa della gorgone buterese, Italo Svevo, Trieste-Roma 2024.

La trilogia del gotico siciliano partorita nel tempo da Orazio Labbate (cfr. qui e qui) non poteva che condurre a una serie di sviluppi – più che innesti, si tratta cioè di ineludibili e coerenti gemmazioni. Leggerle alla luce di una ormai lunga storia del gotico pare quanto mai opportuno: sia per richiamarne il radicarsi in uno sviluppo letterario del genere troppo spesso svilito alla percezione di lettori e scrittori nei suoi effetti più facili e naïf, laddove invece traghetta non-detti ulceranti, inquietudini serie, turbamenti epocali; sia per rimarcarne il carattere di ricerca e laboratorio, di inventio continua e lucida, scipita da tanti adagiamenti mediocri nella formula conchiusa e invece sempre fertile a chi sappia spalancarla e lavorarci. Il cantiere di Labbate, la sua Labbazia degli incubi, è appunto sempre aperto come una forgia ben avviata.

Sviluppi, dunque, alla trilogia. Il primo naturalmente in chiave di sistematizzazione teorica, saggistica, con il piccolo repertorio sull’Orrore letterario uscito per Italo Svevo nel 2022: a radicare idealmente il suo gotico siciliano nella storia della letteratura italiana contemporanea. Ma un secondo sviluppo, questa Schiaffiatùra, rimanda idealmente assai più indietro nel tempo, e con un linguaggio narrativo-sapienziale da testo (anti-)sacro e sovversivamente mitologizzante. Se mythos è – da antica accezione – parola importante, merita comprendere in che senso.

Assai più indietro nel tempo: non solo per il richiamo agli antichi miti mediterranei (greci, e insieme vertiginosamente meticci) e al lascito ctonio pagàno sottesi alla trilogia, ma per il ruolo non accidentale che il topos qui ripreso della Gorgone riveste all’alba del gotico. Se cioè Medusa, o l’arcaica figura-ombra ecatea da cui irrompe nei cataloghi mitologici classici – diciamo genericamente Gorgó, nella forma contratta di allarme d’un intero catalogo di pericoli notturni (Mormó, Gelló, Lamó…) – finisce in effetti con il rappresentare la dea-mostro/alpha, all’origine e all’omphalòs del discorso occidentale sul mostruoso e insieme sul Femminile, a sovrapporsi a una Sicilia omphalòs del Mediterraneo, essa insieme non perde la dimensione di maschera fatale: la reliquia numinosa di un dramma mitico e rituale che resta sotteso al linguaggio nero del gotico e insieme ne innerva esplicitamente il modellarsi storico. Il gorgoneion come maschera di sconcerto pietrificante e rivelazione fatale di verità connota infatti ossessivamente l’esperienza della rivoluzione e l’idea stessa di libertà “alla francese”, impastati con l’idea di un Terrore che dona alla scrittura del gotico scioccanti echi storici e svela nessi denunciati con lucidità per esempio da Sade.

La Schiaffiatùra si inserisce insomma in una tradizione letteraria non solo risalente e genuina, ma dagli echi – vorrei dire – necessari per capire un’operazione come quella di Labbate: ben collocabile e insieme innovativa sull’orizzonte di un gotico mediterraneo fin dall’Otranto walpoliana e dai suoi immediati sviluppi. D’altra parte proprio in Walpole troviamo un richiamo congruo alla lettura di questo nuovo testo: là dove la seconda edizione del Castello d’Otranto, quella firmata dall’autore con il nome vero, altera alcuni versi di un altro Orazio – il poeta latino – nella citazione d’incipit  “Vanae / fingentur species, tamen ut pes, & caput uni / reddantur formae”. In sostanza le immagini che appaiono “vanae” e la bizzarria delle parti estreme di creature chimeriche sorte come da deliri febbrili conducono egualmente (a differenza che nell’originale latino) a una forma completa, a un senso artistico, a un’efficacia reale. Ciò che si riscontra nelle “formae” tenebrose di queste pagine, con le continue epifanie quasi lisergiche o allucinatorie del demone/divinità protagonista, e il controcanto delle citazioni iniziali da Guénon ed Edgar Wind. Dove due sembrano le chiavi per decrittare sequenze tanto imbizzarrite d’immagini.

Anzitutto quella dei miti sottostanti la trilogia: miti ctoni, inferi, tellurici, legati a una gnosi perturbante come di oscuri gruppi ereticali brandenti blasfemia e inversioni. Un’epopea forse carpocraziana, nicolaita, se non fosse che il sesso evocato non ha granché d’un nesso di libertino & soteriologico e si innerva piuttosto in ipotetici e oscuri misteri agrari, in incubi rurali, in beffarde paure notturne delle campagne. In questo contesto, di Gorgoni ne esisterebbe una pluralità: dove prima viene idealmente la tripode Trinacria (una Sicilia archetipica e mostruosa) e solo dopo, come circonfusa da un nimbo colloso di oscurità, l’indicibile Schiaffiatùra emersa nella zona arida e fatale di Butera, centro della geografia del gotico di Labbate.

Sorta di trickster carnascialesco, vorace e voluttuoso, ipostasi di orrore nelle sue epifanie tra “animelle di campagnoli morti” e “demonietti lussuriosi”, la Schiaffiatùra inverte la crescita verso l’alto dei rami degli alberi sovvertendone “l’intuizione del bene” e obbliga i cani, i gatti, i gechi a rovesciare la testa (ecco le inversioni associate nel mondo latino alle streghe), imbeve la terra di un sangue corrotto in disturbante, inconveniente profanazione di quello eucaristico, strappa imprevedibilmente alle campagne buteresi “il senso prensile della materia”. Dio della menzogna e degli oracoli, protegge “bricconi, bugiardi, mistificatori, bestemmiatori, viaggiatori buteresi. Coloro che amano di nascosto tra le selve e nei trogoli”, salvo poi ingannarli senza pietà. Opera soprattutto per confondere e “rendere i cristiani mescolanze mostruose” a suon di insultanti ricombinazioni anatomiche, come nella walpoliana sovversione dei versi dell’antico Orazio; e per disorientare i fedeli scatenando “in essi visioni di second’ordine”. Del resto, gli “esseri inferiori, ricchi di infingimenti e assenti della più alta dignità, operano nell’orrore tra il vuoto e la terra”. Di suo, la “Schiaffiatùra rappresentava daccapo: la morte alla carne, la morte allo spirito, il punto di rovesciamento delle croci, il buffone che si traveste di ogni divino mediatore cristiano per curarsi con il contrario dei suoi simboli”.

Una certa complessità da magistero gnostico avvolge le operazioni dissacramentali dell’entità, e non è questa la sede per seguirne il filo: ma l’autore ben riesce a offrire all’antiteologia della gorgone rurale una vertigine genuina tra ostie blasfemizzate, possessioni di statue, straniate veggenze. Fino alla fine della sua parabola mitica, o se si preferisce agli ultimi capitoli del suo cacovangelo. Dove cioè prende avvio quanto così anticipato:

 

Vi era nell’incorporea psiche della Trinacria il proposito di generare un Doppelgänger della Schiaffiatùra. Nel sinistro carnevale perpetuo della sua psicologia germinavano considerazioni su una morte scherzosa del demone obliquo a lei indigesto poiché contrario al macabro riso embriogenico.

 

Il che condurrà alla sconfitta del demone. Segue Compendio fotografico: i territori della Schiaffiatùra, cioè una breve raccolto di foto d’una Butera scabra e impressionante, dall’apparenza tempestosa.

Indubbiamente in queste pagine che stillano nigredo, umori putridi e sogni intossicati si coglie la lezione di Ligotti – non quello modaiolo feticizzato superficialmente dai nerd, che allargano solo il lovecraftismo degli stentatelli a un nuovo oggetto da altarini biascicando facile l’orrore, l’orrore, ma il maestro sornione di stile dalla disperazione onesta: però con Labbate si va ben oltre e a maggiore profondità, in grazia di una ricchezza variegata di letture ben al di là dell’horror. Ricordare la mole di opere recensita settimanalmente da un autore in fondo giovane, a corona di una pregressa formazione vastissima, permette di non cadere in equivoci grotteschi.

La prima cifra è insomma quella del gorgoneion gnostico, idealmente alla base delle livide e tortuose fedi della trilogia, dei suoi climi ossessi, delle sue comunità infestate. Ma, come detto, c’è una seconda chiave, fondamentale per capire quest’opera e ricondurla a uno statuto di mito, parola importante: e cioè quella della lingua, della voce. La Schiaffiatùra è in qualche modo la lingua stessa della trilogia, ne illumina la voce sul piano delle visioni come il saggio L’orrore letterario lo fa sul piano critico dell’analisi di un filone. Ne colloca insomma le catabasi e i guizzi beffardi, le sfide e provocazioni: e come la Gorgone classica urla a lingua spiegata, così La Schiaffiatùra racconta la lingua immansueta del suo autore, i suoi rituali immaginali, la potenza di fuoco del suo approccio letterario.

Però c’è un terzo sviluppo, dopo il saggio critico e il racconto sapienziale: ed è quello del manifesto sul gotico siciliano. Vi torneremo a proposito della prossima riproposta in libreria del seminale Lo Scuru.

(1. Continua)

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Nelle viscere ulcerate di un Rinascimento impossibile https://www.carmillaonline.com/2024/02/23/nelle-viscere-ulcerate-di-un-rinascimento-impossibile/ Fri, 23 Feb 2024 07:37:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81362 di Franco Pezzini

Riccardo Romagnoli, Cuore in esploso, pp. 440, € 18, Polidoro, Napoli 2023.

 

Se ci si avvicinava al disegno, le figure, che avevano avuto le sembianze di motivi astratti, diventavano quelle anatomie che Enrico non tralasciò mai.

Il corpo, o i corpi, erano divelti e, in associazione con i crani e gli organi corporei in esploso, erano fissati nel momento in cui si aprivano e mostravano cosa ci fosse dentro.

Le sue anatomie in esploso si distendevano sul foglio come se fossero maciullate, per l’urto di un colpo che ha tolto loro la morfologia naturale e le ha [...]]]> di Franco Pezzini

Riccardo Romagnoli, Cuore in esploso, pp. 440, € 18, Polidoro, Napoli 2023.

 

Se ci si avvicinava al disegno, le figure, che avevano avuto le sembianze di motivi astratti, diventavano quelle anatomie che Enrico non tralasciò mai.

Il corpo, o i corpi, erano divelti e, in associazione con i crani e gli organi corporei in esploso, erano fissati nel momento in cui si aprivano e mostravano cosa ci fosse dentro.

Le sue anatomie in esploso si distendevano sul foglio come se fossero maciullate, per l’urto di un colpo che ha tolto loro la morfologia naturale e le ha resi oggetti di ricerca e, quindi, slacciate e spalancate.

All’esploso Enrico aggiungeva la deformazione e la contraffazione.

 

Vari ed estremamente impegnativi sono i temi che Riccardo Romagnoli impasta come nelle magmatiche tavole raggrumate di umori biologici del suo protagonista Enrico Fra, montate sul soffitto di una stanza chiusa quasi in un’anti-Cappella Sistina. Ma se un Giudizio Universale è nell’opera, è del tutto laico e siglato dalla bellissima e appannata chiusura delle ultime pagine, con lo straniato testimone narrante che troppo tardi (in ogni senso possibile) incalza le tracce di Enrico – ormai compreso nella grandezza della sua esperienza artistica e nella smisurata miseria della sua umanità.

A partire da un’adolescenza dove il narrante scopre l’omosessualità, poi nelle dinamiche di famiglia e nel rapporto con l’affettuosa e semplice Miranda, migliore amica della madre; a quel punto compare Enrico che sposerà Miranda restandone il compagno malassortito, fedifrago ed egoista per tutta la vita. In una dinamica nevrotica di liberazioni e imbrigliamenti, di ossessioni e sconfitte, dove non manca nulla: la diserzione e il carcere, il rapporto ora fortunato, ora venato d’incomprensioni con committenti e intellettuali di una classe sociale molto più alta, tanto lavoro, il successo e la lenta incattivita deriva.

Nelle pagine di questo romanzo intensissimo, dipanate con una voce autorale composta e salda, troviamo arte e memoria, eros e sesso, amicizia e disperazione: troviamo l’attesa di impossibili miracoli che svelino un passato perduto, perduto anzitutto attraverso corpi invecchiati malati svuotati che lasciano liquidi e non opere, alla deriva di eredi sbagliati; troviamo il binomio di genio e individualismo egocentrico fino al cannibalismo e all’autocannibalismo, fino all’egoismo assassino e alla sterilità; troviamo l’affresco non conciliante e critico senza sconti di un momento culturale preciso, la scena artistica fiorentina degli anni Cinquanta, svelata in miserie caratteriali e guasti narcisistici, tic egoismi e pose (qui il giro di intellettuali sopra le righe di Villa Rafanelli), ma che in fondo – anche per il dipanarsi della storia nei decenni seguenti – diventa in qualche modo metafora più ampia di Rinascimenti impossibili. Tanto più nell’Italia contemporanea di visioni ombelicocentriche e dilagante aridità umana.

Iniziato da un’esperienza estatica – di un’estasi che abbina interiorità e carne – di fronte ai dipinti di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli, l’incolto contadino Enrico prende a disegnare. E di lì, di estasi in estasi, trova la sua strada come artista: osserva, scompone, ricombina, spesso distrugge. Gli interessa un’arte senza bisogno di medaglie, gli interessa il limite da superare, una gioia che vira in furia nel corpo a corpo con l’opera. Il titolo stesso rimanda a una tensione aperta, irrisolta fino alla fine: in esploso rimanda a inesploso, un ordigno che può ancora pericolosamente deflagrare, ma soprattutto alla situazione interna di un cuore che esploso è eccome, come in certe tavole dell’artista – e di lì lo straziante racconto del suo precipitare verso la distruzione. Di se stesso per propria mano, come di infinite sue opere nel corso della vita.

Enrico guarda al passato, più che al presente o al futuro. I corpi torniti dei bronzi che va a carezzare – quasi estensione brunita agli amplessi giovanili con le mondine (attraverso un’epopea carnale di pagine straordinarie, che vanno ben oltre l’immaginario noto alla Riso amaro) e a tutte le tangenze di corpi femminili che la furia sessuale gli farà inanellare spudoratamente fino all’età anziana – hanno tanto a che vedere con una grandiosa storia di fusioni fiorentine, pensiamo solo a un altro artista dalla vita intensa e “maledetta”, Cellini. E anche l’uso in pittura di sostanze biologiche richiama all’antico di infinite scuole locali che però usavano piante, fiori, bacche, rossi d’uovo (e non sangue, sperma e feci, come in tavole capaci di alludere cripticamente a tutta una vita di rapporti carnali o nei deliri barbelognostici che il novello Bosch in caduta libera cercherà di ravvivare). Enrico, “una mistione geniale tra Bacon e [appunto] Bosch”, accompagna comitive di amici in giro, permette loro un’experience – a usare un termine goffamente anglofono oggi di moda – del contatto inabissante con l’arte: il tal modo il passato è reso vivo. Ma non saprà portare quella capacità nella sua vita, traghettarla a un futuro per sé e per altri, che in realtà non gli importa. Capace in sé di una vitalità picaresca e bestiale, brucia e si consuma nel presente più angusto per la sua stessa visionarietà.

Enrico guarda al passato, e non lascia eredità. Sia perché non è detto che il genio emerga sempre – e il narratore evoca indirettamente tutti gli artisti che sarebbero potuti emergere e così non è stato, per mille contingenze – sia perché appunto non gli interessa. Ma le due alternative sfumano l’una nell’altra nell’evocazione di un personaggio patologico dall’energia cieca, dominato da una parte umbratile e tossicamente distruttiva che alla fine prenderà il sopravvento.

A riportare meditabonda il tutto è una voce narrante malinconica, certo affascinata e a tratti complice ma ben più capace di cogliere e salvaguardare le ragioni dell’umano. A partire in fondo da una memoria che nelle sue inevitabili zoppie (ecco le ultime, lunari pagine) non sa farsi experience, se non della voce dei propri fantasmi: di qui una pietas verso tutto e tutti. Verso la propria omosessualità come verso l’artista bruto e sciupafemmine rimastogli amico, o le stesse donne da Enrico usate e buttate fino a spegnerle – a partire dalla tenera, dolente Miranda, in questa Tempesta “in esplosa” pure in esilio in un’isola fatata, ma ingenuamente assoggettata a un partner mix di Prospero e Calibano.

E a questo proposito, formidabile la voce del narratore – aspetto caro al direttore di collana Orazio Labbate, che ha voluto il romanzo nella sua “Interzona” – il cui registro narrativo visionario restituisce, in modo del tutto congruo all’operare artistico di Enrico, un maelstrom grumoso e denso di sentimenti, ricordi, teorie e pratiche culturali, febbri artistiche, rapporti sessuali, delusioni e brutalità. Ma appunto lo fa “in levare”, con un garbo e appunto una pietas che dopo tanta pur geniale brutalità indicano in quali cantoni della realtà possiamo – alla fine – intercettare davvero qualcosa di più umano.

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Quel vecchio cuore bugiardo https://www.carmillaonline.com/2023/07/08/quel-vecchio-cuore-bugiardo/ Sat, 08 Jul 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78118 di Franco Pezzini

Michele Neri, Come un mattino texano, pp. 171, € 15, Polidoro, Napoli 2023.

 

Essere separato dalle ginocchia, dalle mani che stavano tremando per le flessioni di cui aveva perduto il conto: era questo, il suo destino, si chiese Traven. E con quali occhi avrebbe poi fissato i suoi abbandonati da lui e sempre indiscreti, come se nulla fosse mutato? Gli occhi si sarebbero affrontati rivendicando l’unicità dello stupore? Morire era questo? S’interrogò nuovamente. Non riconoscere l’occhio che ti spia perché tuo, senza che sia colpa di quel vecchio cuore [...]]]> di Franco Pezzini

Michele Neri, Come un mattino texano, pp. 171, € 15, Polidoro, Napoli 2023.

 

Essere separato dalle ginocchia, dalle mani che stavano tremando per le flessioni di cui aveva perduto il conto: era questo, il suo destino, si chiese Traven. E con quali occhi avrebbe poi fissato i suoi abbandonati da lui e sempre indiscreti, come se nulla fosse mutato? Gli occhi si sarebbero affrontati rivendicando l’unicità dello stupore? Morire era questo? S’interrogò nuovamente. Non riconoscere l’occhio che ti spia perché tuo, senza che sia colpa di quel vecchio cuore bugiardo?

Non importava, perché finalmente avrebbe raggiunto gli altri volontari dell’oblio, ciò che restava dell’umanità intera. Volando più rapido della luce, unendosi a quanti l’avevano preceduto e superandoli, benché fossero ovunque e nello stesso istante. Una nuova particella superluminale.

 

Alla scuola di narratori visionari come David Ohle, lo Shiel de La nube purpurea e James G. Ballard e del pioniere della realtà virtuale Jaron Lanier, il giornalista culturale e scrittore Michele Neri (Milano, 1959) riesce a offrire a questo suo romanzo – apparso nell’innovativa collana “Interzona” diretta per la napoletana Polidoro da Orazio Labbate – una voce autorale fortissima e una lingua molto particolare e in certo modo sperimentale, che liquidare con l’aggettivo “onirica” rischia di banalizzare.

È nei fatti la lingua sonnambulica di un’interiorità soggetta a uno strappo esistenziale mentre questo si verifica: una lingua in transito tra vita e morte, o meglio tra condizioni diverse di esistenza e di tempo. Leggendo, ammetto di aver pensato all’ispirazione dalla forma tibetana del bardo, narrazione sul tempo intermedio tra morte e rinascita (celebre il Bardo Thodol, il Libro tibetano dei morti, che ne offre descrizione dettagliata), e conforta notare come altri lettori abbiano avuto la medesima sensazione (cfr. per esempio l’interessante articolo di Alberto Paolo Palumbo, Traven nel bardo, su “Magma Magazine”). Ma l’autore – interpellato al proposito al Salone del Libro 2023 – ha spiegato che un nesso voluto in tal senso non c’è.

Come chiariva a chi scrive, i nodi chiave dell’opera per lui sono stati due. Da un lato quella dimensione di artificialità con cui ormai è sempre più costante relazionarsi, una dimensione virtuale di immortalità oltre lo schermo in cui però solo una quota di ciò che siamo può filtrare – e comunque a scapito di un dialogo autentico con persone in carne e ossa. Su questa dimensione e tipi di percorsi, e ripromettendomi di scriverne specificamente, rinvierei al recente e bellissimo studio di Roberta Sapino, Je est un avatar. Identità e social network nella narrativa francese contemporanea (Aras, 2022) le cui riflessioni aprono però a un panorama persino più ampio che lo specifico sulla Francia. Su queste identità altre, arci-vere perché presentate da noi come autentiche – e di lì già sospetti à gogo – e in dialogo in fondo stretto con modelli assai più antichi di autofiction, occorre che continuiamo a interrogarci.

L’altro nodo del romanzo riguarda il temo dell’oblio e le occasioni in cui dimenticare diventa impossibile. Particolarmente nel caso di quegli amori che – per motivi diversi – non sono riusciti a trovare sviluppo, lasciandoci un sapore d’incompiuto e in sostanza le porte aperte a quanto sarebbe stato possibile, costringendoci a guardare indietro e impedendo di lasciar andare il ricordo. Che resta tanto più nostro, tanto più identitariamente provocatorio: di qui la ruminazione sull’oblio e le sue soglie di difficoltà, sul dolore e l’importanza di brandelli anche sdruciti del passato, sugli stessi equivoci e incertezze di simili strappi. Cos’è davvero accaduto, quali sviluppi ma – a monte – quali possibilità restano stagnanti nella nostra risacca interiore? Tanto più che in tanti casi tali “possibilità” solo virtuali si schiantano contro il solido muro di acquisita consapevolezza di altri tasselli, al tempo non percepibili. A proposito di quanti amori senza sviluppo ci rendiamo meglio conto, a distanza d’anni, come sciogliendo nell’acqua una bustina di Hegel banalizzato – il reale è razionale – che in effetti è andata tanto bene così? Eppure ci sono casi differenti, dove qualcosa si ingrippa e precipita assurdamente – o forse abbiamo soltanto quell’impressione, il sospetto di un equivoco, la ferita di un rigetto incomprensibile. Qualcosa resta aperto, spalanca percorsi immaginali, sviluppi esistenziali… a definirci non solo in grazia dell’esistente ma attraverso le relative mancanze incalzate nei sogni, che sfarfallano in provocazioni identitarie attorno a noi.

Poi certo, si sta parlando di dimensioni immaginali, sottili: in un’Italia dove l’inaccettata fine di una relazione conduce fin troppo spesso al delitto, è ovvio che il tema della storia incompiuta mantiene una necessaria delicatezza, un sapore e una vertigine di libertà altrui da rispettare persino nel terreno “neutro” delle fantasie. Ma è appunto su questo, con tale sottigliezza che lavora Neri, inabissandoci in tempeste elettriche di particelle identitarie.

Il protagonista del romanzo è tal Traven (nome mutuato da personaggi di Ballard, ma anche potenzialmente dallo sfuggente scrittore anarchico noto come B. Traven, forse tedesco, attivo verso metà anni Venti e vissuto per anni in Messico): una figura introspettiva e malinconica di cui sappiamo molto poco, ma che si trova al momento di passaggio assurto ormai a prassi sociale nel suo mondo, dove “i corpi erano diventati ridondanti”. Non perfezionando il passaggio, resterebbe uomo mortale con corpo e passato, mentre se varcasse la soglia consumerebbe lo sdoppiamento tra una “nuova particella superluminale”, immortale, tesa all’infinito e felicemente libera dal peso dei ricordi nell’incontrare “un altro sé sempre nuovo” (previa una quarantena con apposita operazione di CANCEL/smontaggio, si è parlato di metafisica-software), e la relativa carcassa, dimensione fisica ripiegata su una percezione asfittica di quanto vissuto. Posto che le particelle – cosiddette foglet, nebbia intelligente, sorsi di luce o “vento elettrico, poco più” – se ne vanno a zonzo, perché una di queste continua a ronzargli attorno? Perché lo costringe a tornare ossessivamente a un passato remoto che però lo interpella ancora con frammenti di una storia d’amore inconclusa, strappata o archiviata per scarso interesse, e poi a vagare in un panorama distopico alla ricerca di una chiusura dell’esperienza vitale o (hai visto mai) della sua riapertura attraverso quel rapporto abortito?

La storia, volutamente, non permette di capire quanto Traven sia già passato oltre – se cioè, detto in soldoni, sia “vivo” o no secondo le ordinarie categorie – e quanto invece la sua catabasi appartenga a un’esperienza interiore, forse (qui l’aggettivo risulta puntuale) onirica. Resta il fatto che, come in ogni rito di passaggio, si prende consapevolezza dell’inevitabilità di una morte che comporta il lasciare il vissuto alle spalle – previa però la necessità di stanarlo per la relativa neutralizzazione. Di qui una tensione continua tra memoria e oblio, tra “un sé troppo pieno” (non abbiamo avuto, qualche volta, questa sensazione?) e un frammento in volo verso il futuro. Ma diventando particella, il Nostro potrà ancora ritrovare la propria carcassa, se trattiene in sé un ricordo significativo: qualcosa da non spedire col resto al macero.

Di qui la possibilità di lasciare una scheggia memoriale della propria esistenza: appunto, nello specifico, nel fondo di una storia d’amore da cui Traven potrebbe aver avuto una figlia. Una storia di cui gli resta memoria confusa, rimossa forse per timore di soffrire (se è stata importante) o forse per altri motivi anche meno nobili. Ma se attraverso quella storia rimane nel mondo memoria di lui, val la pena correggere il tiro, modificare e aggiustare, eventualmente costruendo in chiave fantastica – complice il vecchio cuore bugiardo – un “noi” di coppia che non ci sia stato. Sul finale, non si spoilera.

Del resto non modifichiamo continuamente il ricordo degli altri usando la nostra vita – ed eventualmente il nostro ombelico – come bussola? Torniamo idealmente al tema della correzione del passato, o almeno del suo senso in chiave vitale, come nelle affascinanti riflessioni del romanzo di Silvia Bottani, Un altro finale per la nostra storia: stavolta in un contesto diverso, tra il fantascientifico e il filosofico ma in direzione di un passaggio di statuto esistenziale. Come nell’Itaca di Kavafis, diventa così fondamentale l’avere vissuto, il viaggio del sentimento, e a quel punto si può abbracciare la povertà dell’isola-meta, la povertà di chi, in questo caso, si è spogliato di ogni altro ricordo: la custodia nell’abbraccio della memoria altrui comporta insomma un’accoglienza più serena del passo definitivo.

Di nuovo dunque un lavoro sull’identità e la sua riscrittura, stavolta in forma indiretta attraverso lo specchio di vite e sentimenti altrui: vite e sentimenti permeabili nella memoria di un’epoca che (Neri vi riflette in modo straordinario) è ossessionata dai corpi ma finisce col virtualizzarli in particelle elettroniche sugli schermi, è ossessionata dall’identità e la reinventa, è ossessionata dal ricordo e scopre sconcertata che per ricordare – o anche solo per dimenticare – occorre come Traven saper fare silenzio. E il libro coi suoi mille percorsi e la rete delle possibilità evocate – e non necessariamente risolte, nel rimandare la provocazione al lettore – diventa una sorta di viaggio iniziatico, di meditazione su quel che, in splendori e miserie, ineluttabilmente finiamo con l’essere. Una meditazione sulla vita e la morte di struggente concretezza e (a tratti) malinconica ironia in un’età di autofiction furbetta e di salutari sospetti sulle identità confezionate.

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