Omosessualità – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 08 May 2025 14:47:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Vite brevi ed esemplari delle spie / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/08/14/vite-brevi-ed-esemplari-delle-spie-2/ Mon, 14 Aug 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78009 di Diego Gabutti

Donald Maclean, quarta storia

Inglese di rango, sapendo d’aver perduto un Impero, Donald Maclean non trova di meglio che sostituirlo con la più nobile delle cause: l’imperialcomunismo. Verso i vent’anni, con una mascherina sul viso e il conforto di pochi compagni e di molte bottiglie di whisky, comincia a battersi nell’ombra in favore del Soviet supremo. Troncata da un tumore nel 1983 a Mosca, dove fugge nel 1951 insieme al suo amico Guy Burgess, la sua carriera spionistica è cominciata a Cambridge alla fine anni venti.

È a [...]]]> di Diego Gabutti

Donald Maclean, quarta storia

Inglese di rango, sapendo d’aver perduto un Impero, Donald Maclean non trova di meglio che sostituirlo con la più nobile delle cause: l’imperialcomunismo. Verso i vent’anni, con una mascherina sul viso e il conforto di pochi compagni e di molte bottiglie di whisky, comincia a battersi nell’ombra in favore del Soviet supremo. Troncata da un tumore nel 1983 a Mosca, dove fugge nel 1951 insieme al suo amico Guy Burgess, la sua carriera spionistica è cominciata a Cambridge alla fine anni venti.

È a Cambridge, prestigiosa fucina della classe dirigente britannica, che Mclean e i suoi amici (Burgess, Philby, il consigliere artistico della Regina Sir Anthony Blunt) vengono reclutati da un misterioso arruolatore sovietico. È costui il vero eroe della storia: ingaggia esclusivamente gentlemen, la grande aristocrazia del tradimento, e semina talpe che potranno raccogliere informazioni utili, sempre che la fortuna e il talento li assistano, soltanto molti anni più tardi. Costui insinua un gruppo di sabotatori, tra cui Maclean, nel cuore stesso del sistema nemico, poi rientra nell’ombra.

Figlio d’un baronetto scozzese, morto nel 1932, che ha dedicato tutta la vita alla comunità presbiteriana e al partito liberale, la futura spia cresce in un ambiente nutrito di puritanesimo e buone maniere. Vive la sua omosessualità con vergogna e senso di colpa, a differenza di Guy Burgess, che invece l’ostenta, e buona parte del suo odio contro l’Occidente è forse dovuto al fatto che i suoi compagni di college, tra i quali gli omosessuali suicidi erano stati parecchi, lo chiamavano «Lady Maclean», cosa effettivamente poco simpatica.

Il gruppo dei marxisti segreti di Cambridge, dopo l’università, si separa con una strizzatina d’occhi e, ciascuno secondo la propria vocazione, comincia ad aprirsi una strada verso le casseforti che custodiscono i segreti della nazione. Kim Philby passa al Times e si guadagna un’onorificenza franchista come corrispondente durante la guerra civile spagnola, Anthony Blunt si rende indispensabile presso i curatori delle collezioni d’arte della Real Casa e Guy Burgess infiltra per primo l’Intelligence grazie alle sue entrature omosex con alcuni politici francesi.

Maclean, che tutti giudicano un perfetto tipo fisico da Foreign Office per via dei capelli biondi e dei gelidi occhi azzurri, abbraccia la carriera diplomatica a Parigi dove si segnala, in breve tempo, come una delle speranze diplomatiche del Regno. Il Grande Gioco è cominciato: gli assi truccati sono stati introdotti nel mazzo. Gli anni della guerra, per Maclean, sono operosi e silenziosi. Si sposa (un diplomatico dev’essere sposato, specie se la gente mormora). Come un alpinista che punta alla cima del monte, scala le pareti del Foreign Office fino a raggiungere la suprema vetta del Dipartimento di Stato americano a Washington: esattamente dove i russi pregano di poter infiltrare un loro uomo. Di lassù il suo sguardo spazia tranquillo sulla valle misteriosa della ricerca atomica americana.

Ma è un alcolista, soffre di depressione, e gli cedono d’un tratto i nervi. Maltratta la moglie in pubblico, fa aperta professione d’antiamericanismo senza lacrime per la sua copertura e passa le giornate a sbronzarsi. Washington è irritata dal suo comportamento e la Cia comincia a tenerlo d’occhio. Alla fine, il Foreign Office lo trasferisce al Cairo affinché smaltisca la sbornia e si curi le paturnie. Al Cairo Maclean s’immerge in un’atmosfera di scandalo e una volta tenta persino di strozzare la moglie durante una gita sul Nilo. Sa il cielo perché, in queste condizioni, abbia ancora accesso alle carte segrete.

È proprio allora, quando sbraita e ulula al Cairo, che Maclean prende visione del foglio ultrariservato, da tenersi a tutti i costi lontano da occhi indiscreti, col quale gli americani comunicano agli alleati la loro decisione di non allargare il conflitto coreano neppure in caso di sconfinamento delle truppe cinesi. Proprio l’idea che il conflitto potesse essere allargato ha tenuto a freno, fino a quel momento, l’esercito maoista. Maclean rifischia il documento al suo controllo sovietico e, non appena i cinesi sono informati, subito si lanciano al salvataggio dei fratelli coreani. Tutta l’Asia, ahinoi, sta ancora piangendo lacrime di sangue.

Alla fine, inevitabilmente, c’è il punto di rottura. Ubriaco fradicio, reduce da una rissa, senza scarpe e con gli abiti stracciati, Maclean viene arrestato dalla polizia egiziana. Un paio di giorni più tardi, appena scarcerato, lo caricano su un aereo per Londra. Melinda, sua moglie, s’invola con un principe egiziano e lui, sotto inchiesta da parte dell’Intelligence, si mette in cura da una psicoanalista che, dopo averlo ascoltato per una mezz’ora, gli consiglia d’accettare la sua omosessualità senza scalmanarsi tanto. Dice a tutti di lavorare per Baffone e i più ormai gli credono senz’altro. Melinda, finito l’idillio col bel principe, lo raggiunge in Inghilterra mentre il cerchio degli inquisitori gli si stringe intorno.

A quel punto, ridotto com’è, anche se le prove a suo carico sono solo indiziarie, Maclean sta mettendo a rischio l’intera rete sovietica in Inghilterra. Così deve sparire. Non si capisce bene perché anche Guy Burgess, la cui copertura regge ancora, decide di espatriare con lui. I mastini del Mi5, per ragioni sindacali, smantellano le guardie durante i week end e le due talpe, la sera del 25 maggio 1951, prendono il volo da Southampton per ricomparire a Mosca tre giorni dopo. Philby ammette d’aver messo sull’avviso Maclean «perché, maledizione, dopotutto siamo stati compagni d’università». Poco ci manca che la sua correttezza venga premiata con una medaglia.

A Mosca Maclean è nominato redattore capo d’una rivista scientifica e ogni tanto, in compagnia di Burgess, tiene qualche conferenza stampa per le gazzette occidentali. Melinda lo raggiunse a Mosca: dal che si deduce che l’utopia sovietica ha contagiato anche lei. Philby la scampa fino al 1963 e Anthony Blunt viene individuato solo nel 1979 (ma può darsi che sia stato smascherato insieme a Philby e che in seguito l’Mi5 lo abbia usato come agente doppio). Maclean muore a settant’anni, trenta dei quali trascorsi in un appartamento del centro di Mosca, lontano dai clubs eleganti di Regent’s Park, a un’infinita distanza da Berkeley Square e dal bel mondo londinese.

Trent’anni così, trascorsi a fissare dalla finestra le cupole del Cremlino, senza un amico al mondo. Burgess era morto di cirrosi epatica verso il 1960. Quanto a Philby, col quale avrebbe almeno potuto commentare i risultati del cricket vuotando una bottiglia ogni tanto, gli aveva soffiato la moglie non appena era giunto a Mosca nel 1963, anche lui braccato dagli antichi colleghi, e così non erano più molto amici.

Wystam Hugh Auden

C’era probabilmente un quinto uomo nella banda dei «Cambridge Four», i quattro agenti segreti usciti dalla prestigiosa università inglese, che negli anni Cinquanta fuggirono in Unione Sovietica dopo avere fatto a lungo il «doppio gioco» per Mosca. Come complice o perlomeno «compagno di strada» ebbero uno dei più grandi poeti del Regno Unito: Wystan Hugh Auden, caposcuola di una generazione di scrittori accomunati dall’ impegno politico e dall’interesse per le dottrine di Marx.

Documenti resi noti per la prima volta dagli Archivi di Stato di Kew Gardens, a Londra, rivelano i frequenti contatti che Auden ebbe con Guy Burgess e Donald McLean, due dei «quattro di Cambridge», in particolare nei giorni precedenti la loro defezione in Urss; e descrivono i febbrili tentativi dell’ MI5, il servizio di controspionaggio britannico, e dell’Fbi, suo equivalente americano, per pedinare, intercettare, interrogare il poeta. È un thriller che si conclude senza una soluzione chiara: alla fine il caso viene chiuso, senza che Auden riveli nulla e che i sospetti nei suoi confronti vengano suffragati da fatti.

Ma il dossier ora reso pubblico aggiunge un’altra pagina al romanzo della «Guerra Fredda». Una pagina, va precisato, più nello stile ironico dei libri di Evelyn Waugh che in quello dei thriller di Graham Greene o Le Carrè. Lo interpretano, certo, alcuni dei protagonisti del conflitto a colpi di spionaggio tra Occidente e blocco comunista: Kim Philby, Anthony Blunt e gli altri succitati membri dei «Cambridge Four». Ma sullo sfondo c’è il jet set degli artisti e degli intellettuali di sinistra: salotti letterari, circoli accademici, fino alla villa che Auden aveva a Ischia, dove a un certo punto il poeta va in vacanza, per ritrovarsi assediato dai giornalisti e seguito dalla polizia, anche quella italiana, che lo interroga, alla fine di giugno del 1951, apparentemente su richiesta di Londra.

Un colpo di scena lascia intravedere una sorta di «tradimento», volontario o involontario, da parte di un altro scrittore, Stephen Spender, grande amico di Auden: sarebbe stato proprio Spender a confidare a un giornalista le telefonate intercorse tra Auden e Burgess, uno dei «quattro di Cambridge», pochi giorni prima della defezione in Urss. Omosessuale dichiarato ma sposato con la figlia di Thomas Mann, volontario con le forze repubblicane nella guerra civile spagnola, Auden si trasferì poi negli Stati Uniti e prese la cittadinanza americana. Con Philby e gli altri non si rivide più. «Un intellettuale comunista fortemente idealista», lo descriveva un dispaccio dello spionaggio britannico. Morì a Vienna nel 1973. (Enrico Franceschini, la Repubblica, 2007).

Sentimentalismo progressista

Si potrebbe scrivere un pezzo interessante sul mutamento delle mode e sull’autenticità del sentimentalismo progressista della classe media. Negli anni Trenta abbiamo avuto Mister W.H. Auden, l’idolo dei giovani, che inneggiava alla gloria dei lavoratori per rovesciare il capitalismo con la forza. […] Nonostante il colore politico dominante nelle opere di Spender, Auden e Cecil Day Lewis, va detto che non vi era alcuna profondità politica in esse. Perfino in un lavoro relativamente banale come The Dog Beneath the Skin di Auden e Christopher Isherwood il contenuto politico effettivo, perfino il significato antifascista, è risibile. Il desiderio di fondo di Auden & Co. pare quello di denunciare e ridicolizzare la borghesia di Flaubert più che quella di Marx, dal cui vocabolario si limitano a mimare qualche termine, qualche vago concetto. In un certo senso, questi scrittori conducono in pubblico una vendetta personale contro i propri genitori – vedi The Ascent of F6 [da noi L’ascesa dell’F6, Tararà 2004] del duo Auden-Isherwood ­– o contro le autorità che stanno loro antipatiche. Questa nozione di scrittura politica, dunque, è una specie di terapia per superare alcune difficoltà personali più che un contributo alla riforma della società: una chiave importante per capire l’intero approccio intellettuale alla politica, non solo negli anni Trenta. In effetti, a volte penso che l’intero ceto medio britannico prediliga la politica per una questione, diciamo così, di temperamento. Chi ama la consuetudine e la regola è attratto a destra; chi la odia opta per la sinistra. Lo stesso accade con la famiglia: ad alcuni pare un caldo nido, ad altri, come Isherwood, «l’enorme pipistrello sulla casa», qualcosa da cui fuggire. (Kingsley Amis, Socialism and the Intellectuals).

(Fine seconda partecontinua)

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“Gli omosessuali e altri scritti” di André Baudry https://www.carmillaonline.com/2023/06/13/gli-omosessuali-e-altri-scritti-di-andre-baudry/ Tue, 13 Jun 2023 20:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77635 di Alessio Barettini

André Baudry, Gli omosessuali e altri scritti, Wojtek Edizioni, Pomigliano D’Arco, 2022, pp. 343, euro 16,00.

Gli omosessuali e altri scritti, di André Baudry, pubblicato da Wojtek edizioni, raccoglie il lavoro del filosofo francese fondatore della rivista «Arcadie», attiva in Francia dal 1954 al 1982. Sin dalla prefazione scritta da Eduardo Savarese in cui si racconta la genesi di questa ripubblicazione concepita insieme a Giuseppe Girimonti Greco, si comprende la capacità anticipatrice in termini di diritti e di riconoscimento di questo volume, con le idee che emergono dalla vita stessa di Baudry [...]]]> di Alessio Barettini

André Baudry, Gli omosessuali e altri scritti, Wojtek Edizioni, Pomigliano D’Arco, 2022, pp. 343, euro 16,00.

Gli omosessuali e altri scritti, di André Baudry, pubblicato da Wojtek edizioni, raccoglie il lavoro del filosofo francese fondatore della rivista «Arcadie», attiva in Francia dal 1954 al 1982. Sin dalla prefazione scritta da Eduardo Savarese in cui si racconta la genesi di questa ripubblicazione concepita insieme a Giuseppe Girimonti Greco, si comprende la capacità anticipatrice in termini di diritti e di riconoscimento di questo volume, con le idee che emergono dalla vita stessa di Baudry e Marc Daniel (coautore della parte centrale qui proposta), che hanno lavorato per «l’integrazione degli omosessuali nella vita sociale della Francia degli anni Settanta per renderne l’esistenza individuale, se non felice, almeno meno infelice, e sempre meno infelice…» (p.11)

La prima parte si compone degli articoli pubblicati da Baudry sulla rivista. Si tratta di otto pezzi, programmatici, che muovono dal motto di Terenzio “Sono un uomo, e niente di ciò che è umano mi è estraneo” e dall’intenzione che la rivista si propone, cioè di contribuire al benessere degli uomini. Baudry preferisce al termine “omosessuale” quello di “omofilo”, un lemma perlopiù caduto in disuso, oggi, che ben si ritaglia sulla posizione di Baudry, che propone un approccio molto legato alle potenzialità del logos come strumento per modificare la società. Il filosofo racconta di aver accettato presto il proprio “io” autentico, ma di non aver voluto mai, sin da subito, omologarsi a chi per le strade di Parigi avesse scelto di farsi notare per ragioni di eccentricità. La sua intenzione di voler stare accanto agli altri, non fuori ma parte della società, rispondeva alla logica di gruppi già esistenti all’epoca in altre nazioni europee, più che altro del centro e del Nord Europa, non ancora della Francia, ma soprattutto a quella di accedervi come a una forma di apostolato, solidale e faticoso, volto al riconoscimento sociale di una categoria che dovrebbe prima di tutto uscire da ogni categoria, per poter essere riconosciuta solo in quella di esseri umani. Colpisce indubbiamente, in giorni in cui il dibattito è ancora acceso su questi stessi temi, l’affermazione: «Noi crediamo quindi di servire gli uomini, omofili e non, ribadendo che sempre e dovunque l’”io” è sacro» (p. 39)

La posizione all’interno del dibattito di «Arcadie» si fa più netta negli articoli successivi: si passa da un omaggio al candore di Sandro Penna alla spinosa questione degli scandali, non di chi accusa l’omofilia di indegnità, ma di chi usa questa bandiera per cercare visibilità: Baudry giunge alla conclusione che l’esperienza di Oscar Wilde sia in questo caso emblematica di questa contraddizione, essendo stato il dandy inglese una vittima indubbia del sistema sociale inglese per il processo, lo scandalo e la prigione subiti, fratello nella sofferenza e nella speranza, ma mai abbastanza consapevole della sua posizione potenzialmente esemplare. Wilde non è mai stato un teorico né un moralista, e se è diventato suo malgrado un simbolo è successo per la sua abitudine all’eccesso e all’eccezione, non per la consapevolezza di un’appartenenza a un gruppo umano e sociale che allora avrebbe sicuramente avuto bisogno di figure simboliche.

È un umanesimo sociale, quello di Baudry, che vuole rendere conto del «destino di milioni di esseri umani… un destino impossibile e al tempo stesso meraviglioso.. .di cui, da millenni, nessuno è riuscito a dar conto in modo adeguato» (p. 77)

La seconda parte di questo agile volume, quella centrale e più consistente, è proprio il saggio Les homosexuels, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1973. Questa parte è introdotta da un brano degli stessi autori in cui, preso atto del miglioramento crescente e progressivo dell’opinione comune nei confronti dell’omosessualità, si fa subito notare quanto meno la dissonanza, che fa sì che non si accetta che possano essere gli omosessuali a parlare di omosessualità, come se la loro esistenza stessa debba in qualche modo e in ogni senso rimanere ghettizzata. Il saggio si pone dunque in prima linea per mostrare un approccio sociologico e culturale, il solo possibile per spiegarne e dichiararne l’umanità. Il presupposto ineliminabile di Baudry e Daniel, espresso nel primo capitolo, è di distinguere l’omosessualità dalle interpretazioni sull’omosessualità. Per farlo i due si arrampicano su un lungo declivio che passa in analisi le varie definizioni del lessico usato in società per riferirsi alle sfumature dell’omofilia e le situazioni storiche e geografiche con cui avvicinare i lettori a una maggiore acquisizione di modi e tempi di tale condizione, che ovviamente vanno messi in relazione con i diversi atteggiamenti della società nei suoi confronti, che più in generale corrispondono alle posizioni che la società ha nei confronti della sessualità in generale e della donna più nello specifico, mostrando dunque che l’omosessualità è una sorta di campione e di cavia allo stesso tempo. Baudry distingue le società favorevoli all’omosessualità (Grecia antica su tutte, ma anche Romani, Giappone feudale, Arabi, Italia del Rinascimento e molte altre), indifferenti all’omosessualità (società antiche come Egitto, Babilonesi, Assiri, Indiani) e apertamente ostili. Quest’ultima è ovviamente la categoria spinosa per eccellenza, dove ostilità è equivalsa anche a illegalità e nei casi peggiori a condanna a morte. In questa rientrano soprattutto l’antica società giudaica, la cui tradizione omofoba si è trasmessa al cristianesimo e quindi a tutte le società moderne che su quella base, su quei precetti, loro malgrado, continuano a vivere dentro specifiche definizioni di virilità e femminilità, che appunto l’omosessualità metterebbe del tutto in dubbio rientrando in una logica di accettazione del diverso che non si addice a società di tipo totalitario e oppressivo.

Lo stile di Baudry è piano, lento, analitico. Con pazienza e precisione scandaglia termini come “contro natura”, “anormalità”, “deviazione” e “perversione”, ne illustra il carattere fondato su ipocrisie storiche, gli usi che sottendono a una logica precisa e che alimentano confusione intorno alla questione. Gli omosessuali è suddiviso in 5 capitoli: Il fatto omosessuale e le sue interpretazioni, Che cos’è un omosessuale?, La vita degli omosessuali, La rivoluzione omosessuale e L’omosessualità femminile.

Nel secondo capitolo il tentativo di definire chi sia l’omosessuale passa attraverso il rapporto Kinsey (1948), un sessuologo che ha delineato incontestabilmente il “continuum etero-omosessuale” nelle persone secondo 6 gradi, che Baudry si affretta a spiegare chiarendo però come si possa facilmente sfuggire a ogni classificazione, pur sempre il frutto di una ricerca di chiarezza e mai di una acquisizione di verità assolute. Va da sé che è pertanto molto difficile se non impossibile sapere quanti siano gli omosessuali. Incrociando dati in suo possesso con altri reperiti da ricerche personali, Baudry arriva alla conclusione che una quota tra il 6 e il 7% della popolazione francese potrebbe essere omosessuale. In questa direzione si muove anche una delle questioni più ricorrenti, ovvero se l’omosessualità sia un fatto innato o acquisito.

Anche in questo caso le spiegazioni procedono nello stesso modo, all’interno di una teoria gnoseologica secondo cui non c’è differenza nelle modalità con cui l’uomo ha voluto provare a darsi risposte. Pertanto Baudry nota come prima delle spiegazioni scientifiche ci fossero dei miti a costituire il corpus della risposta: già Platone e Aristotele avevano tentato di costruirne uno. La disamina continua con l’idea che nella storia più radicalmente si è consolidata, per mezzo del cristianesimo, secondo cui l’omosessuale viene ritenuto responsabile del suo stato. Le teorie più moderne in ambito scientifico non hanno ancora saputo trovare una spiegazione di ordine fisico che sia condivisibile, e anche se in ambito psicoanalitico la voce di Freud è certamente stata illuminante, essa non ha pero sciolto il nodo del carattere “regressivo” dell’omosessualità, che non è, ovviamente, qualcosa da cui guarire. Neanche cercare le cause nell’educazione familiare può bastare, essendo decine i casi diversi che ne creano altri, esponenzialmente. Infine, intelligentemente, Baudry esclude la spiegazione del carattere nevrotico dell’omosessualità, ritenendo al contrario che la condizione sociale in cui gli omosessuali vivono conduca, semmai, alla nevrosi.

Appare chiaro come questa importante parte del saggio sia rivolta a sottolineare come l’omosessualità non potrà essere considerata alla stregua della normalità fino a quando saranno diffusi quei preconcetti che costringono gli omosessuali a una vita di rimozioni, di infingimenti, di nascondigli, di vergogna. Gli autori sostengono convintamente infatti che il ritratto, l’analisi della vita degli omosessuali e dunque una conoscenza reale, non edulcorata né annacquata da alcuno stereotipo, siano necessarie per comprendere meglio quale sia la ricaduta sociale dell’intero fenomeno e quali siano le possibilità di crescita umana.

Il metodo può sembrare paradossale, ma sicuramente non meno della contraddittorietà di quello insito di chi da sempre affibbia giudizi sociali sulla categoria. Se si afferma, pretenziosamente, che non ci dovrebbe essere nessun “caso”, è però evidente che esistono persone inserite in contesti, e questa stessa realtà plurale si rivela essere necessaria a qualunque intenzione ritrattistica, che quindi stravolgerebbe ogni tipo di definizione. I tratti che si riconoscono costanti sono la tendenza alla clandestinità, alla dissimulazione, all’isolamento, condizioni, queste, diffuse, sì, ma solo a causa della centralità eterosessuale della nostra società. Anche per questo, spiega Baudry, la contestazione omosessuale raggiunge a volte tratti definiti “rivoluzionari”.

Negli ultimi anni, il diffondersi di Gay Pride, iniziative arcobaleno, l’aumento della visibilità dei fenomeni LGBTQ+ sono senz’altro segnali positivi, ma ancorati in un modello sociale che di tanto in tanto riporta ancora in auge certi problemi facendo apparire il carattere retrogrado di una società che forse non si è mai evoluta. Non di rado si arriva a futili discussioni in Parlamento o sui media. La tentazione dell’esibizionismo è alta. Baudry andrebbe ripreso oggi proprio in questa chiave, con il suo modello di una scrittura e di una conoscenza pluralistiche, capace persino di inghiottire i “miti” creati ad hoc dalla sociologia, di superare certi atteggiamenti oppositivi. La sua è un’opera che oscilla largamente fra sociologia e psicologia. Baudry infatti costruisce il corpus del suo testo su una logica ramificata su tutte le possibilità che si manifestano nella vita di un essere umano sin dal suo primo impulso omosessuale, da quando dovrà, più o meno trasparentemente, confrontarsi con la realtà, di cui è sin dall’inizio un’emanazione diversa, la cui condizione potrà accettare o rifiutare in un delicato equilibrio fra peso psicologico, integrazione, legge, costume, educazione, posizione sociale.

Baudry sottolinea quanto sia importante il ruolo dell’opinione pubblica, che nasce da posizioni stantie di mass-media, radio e stampa, televisione e letteratura, che è alla base del più generale sentimento di rifiuto o di vero e proprio razzismo nei confronti degli omosessuali. I pregiudizi più diffusi vanno dall’idea che il mondo omosessuale sia una massoneria, che debba essere ghettizzato (pratica usuale negli Stati Uniti), che sia pericoloso e degradato, nozioni false che la dicono lunga su quanto il mondo omosessuale sia perlopiù invisibile, negato alla conoscenza dei più e soggetto a ogni tipo di equivoci, fra i quali anche quelli dannosi per la vita del singolo individuo. Ancora una volta la conclusione del capitolo è incentrata sulla morale, sulla necessità di una morale omosessuale, difficile da raggiungere anche perché molti omosessuali preferiscono rifuggire dal rigore morale preferendogli un atteggiamento “rivoluzionario”, che è il tema del quarto capitolo del saggio. Qui Baudry illustra i tratti comuni ai movimenti omofili sorti in varie città europee fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Questa prima ondata puntava indistintamente a un più ampio riconoscimento dei diritti, di integrazione, di ricerca di dialogo con ogni parte della società, al progetto di istituire locali adatti a raccogliere persone altrimenti senza punti di riferimento. Il ’68 ha accelerato la storia e alcune rivendicazioni più recenti sono state segnate da maggiore chiasso e talvolta violenza. Il carattere burrascoso di questi movimenti ha avuto senza dubbio il merito di far prendere coscienza del problema al grande pubblico. Questo Baudry lo riconosce, ma è senz’altro uno dei nodi più problematici: quello di rivendicare (da parte per esempio del FHAR, il gruppo francese legato all’estrema sinistra) il diritto assoluto alla diversità fino agli estremi, con il risultato di porsi in controtendenza a tutto ciò che movimenti come Arcadie hanno propugnato lavorando sull’integrazione. Qui è interessante non stigmatizzare Baudry come semplice conservatore né separare del tutto le due posizioni, pur difficilmente conciliabili. A onor del vero Baudry ricorda come la sinistra marxista si rifiuti di considerare l’omosessualità un fenomeno rivoluzionario. E forse ha senso considerare la causa come un fine, non come un mezzo.

L’omosessualità femminile trova spazio autonomo alla fine del saggio per ragioni già illustrate nell’introduzione dallo stesso Baudry: «il problema sociale rappresentato dall’omosessualità femminile è molto meno drammatico di quello dell’omosessualità maschile» (p. 218)
In ogni caso gli autori riconoscono qui lo stesso tipo di cause e di categorie possibili, ritrovano gli stessi riflessi, le medesime caratteristiche già espresse lungo le precedenti dissertazioni, ma se possibili ancor più nascoste, più “piccole”, comunque meno notate in società.

Decisamente interessante la terza parte del volume, una pièce teatrale ideata dallo stesso Baudry, nella quale si delineano tutte le problematiche sollevate nel saggio. Il procuratore, questo il titolo dell’opera, è incentrata sulla figura di Morienval, un uomo nominato procuratore a cui il Ministero chiede il pugno di ferro contro i reati contro la morale. Ma l’uomo ha sempre mentito alla società, alla famiglia: è omosessuale, marito di una donna vendicativa con la quale non ha mai potuto consumare il matrimonio, padre di Jean-François, un ragazzo volitivo che non conosce la verità ma la comprende e la accoglie, incarnando un’idea di rivoluzione ma anche di speranza, che si completa grazie al rapporto con il padre che si consolida durante questa storia: un primo caso esemplare, la causa di un parricida (René Blaise) che ha ucciso perché portato dal padre all’esaurimento dopo anni di accuse e offese causate dalla sua incapacità di riconoscere l’omosessualità del figlio. Un’opera in quattro atti molto intensa dove il cammino verso la verità è rapido e certamente non indolore, ma che vuole essere un richiamo alla speranza in un mondo dove le rivoluzioni portino davvero a qualcosa.

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Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente / 1 https://www.carmillaonline.com/2022/09/06/esclusione-sociale-e-capitalismo-globale-per-una-discussione-su-lotte-e-organizzazione-nel-presente-1/ Tue, 06 Sep 2022 20:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73685 di Emilio Quadrelli

«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, [...]]]> di Emilio Quadrelli

«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.» (K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista»)

Genealogia di un concetto

Tra i motivi che ci hanno portato alla stesura di queste note il ricorso al parlamentarismo, sia di gran parte della residualità comunista sia della galassia antagonista, ha giocato un ruolo non secondario. Attraverso la formazione di liste partitiche autonome o identificando, come nel caso dei 5 Stelle, un interlocutore dai decisi tratti “antisistema” il parlamentarismo continua a essere considerato un ambito importante, o perlomeno utile, per le masse subalterne.

Notoriamente il tema del parlamentarismo è stato oggetto di non poche contrapposizioni all’interno del movimento operaio e comunista. A partire da Lenin e dal suo Estremismo, malattia infantile del comunismo il “dogma” della partecipazione alle elezioni è stato moneta corrente per la maggior parte delle pur diverse anime del movimento comunista rispetto alle quali facevano eccezione le frazioni dei “comunisti di sinistra” e dei “comunisti consiliari” che con Lenin avevano rotto sin dai tempi del III Congresso dell’Internazionale comunista. In Italia, anche se non in chiave antileninista, il rifiuto del parlamentarismo può vantare una lunga, ancorché assai minoritaria”, tradizione grazie a Bordiga e all’area politica definitasi “sinistra comunista”.

Sull’utilità di presentarsi o meno alle elezioni si sono consumati fiumi di inchiostro all’interno di quella “nuova sinistra” sorta sull’onda del ’68. Proprio il ’68 e le sue pratiche avevano pesantemente posto sotto critica il parlamentarismo e le logiche che si portava appresso. È la lotta/non il voto/è la lotta che decide era stata la “linea di condotta” dell’altro movimento operaio il quale, insieme al parlamentarismo, aveva posto in archivio per intero la logica della delega e di tutte le forme di rappresentanza dal sapore istituzionale. Con ciò il parlamentarismo diventava qualcosa di superfluo non tanto per una questione di principio ma perché superato dalla materialità dei fatti. In questo, a ben vedere, vi era una totale adesione proprio alle argomentazioni di Lenin il quale non assolutizzava il parlamentarismo, ma lo giocava dentro la concretezza della fase politica. In un momento di ripiego partecipare alle elezioni aveva un senso ma, in una fase di attacco, non solo era insensato ma assumeva i tratti di un autentico tradimento, poiché non la Duma bensì la strada diventava il solo e vero ambito di lotta.

Con il ripiegamento del movimento di classe la questione del parlamentarismo tornò a farsi viva tanto da protrarsi sino ai giorni nostri. A nostro avviso questo dibattito si mostra del tutto privo di fondamento poiché non considera le differenze storiche tra la fase imperialista affrontata da Lenin e la fase imperialista contemporanea. Lenin agisce in un contesto nel quale è la borghesia stessa a includere i subalterni all’interno dei perimetri politici e statuali mentre, nel presente, assistiamo esattamente all’opposto. Per il potere politico le masse e il loro inserimento nel gioco istituzionale si è fatto del tutto privo di un qualche interesse tanto che gli elevati indici di astensione non sono forieri di alcuna preoccupazione. A differenza dell’epoca di Lenin, tutta incentrata sull’inclusione politica e sociale delle masse subalterne, oggi siamo dentro uno scenario completamente rovesciato: l’esclusione è la cornice entro la quale il potere politico ascrive classe operaia e proletariato ed è esattamente da ciò che occorre partire.

Il tema dell’esclusione sociale conosce oggi una fortuna inaspettata tanto da emanciparlo dagli angusti e ristretti ambiti disciplinari in cui, tradizionalmente, è stato ascritto. Mentre, classicamente, a occuparsi di esclusione sociale sono state discipline quali l’antropologia culturale, la sociologia della devianza e, in particolare negli ultimi anni, la sociologia della cultura oggi questa è diventata tema non secondario della teoria politica1.

Tutto ciò, già di per sé, è indicativo di quanto l’era attuale sia attraversata da un insieme di trasformazioni in grado di scompaginare per intero le coordinate concettuali di un’intera epoca. Non a caso gli stessi movimenti operai, proletari e comunisti che nei confronti dei temi dell’esclusione sociale hanno sempre nutrito interessi a dir poco vaghi, oggi sono costretti ad assumerla come uno degli aspetti centrali della condizione dei subalterni. Legittimo, quindi, domandarsi che cosa sia accaduto. Occorre, pur sommariamente, ricostruire la storia di un concetto.

Obiettivamente l’esclusione sociale ha sempre rimandato ai mondi della marginalità. Una marginalità che poteva essere ascritta a due ambiti. Il primo riconducibile direttamente al mondo dei poveri, il secondo a quello degli “anormali”. Per quanto, in non pochi casi, i due ambiti abbiano finito spesso con l’incontrarsi analiticamente occorre tenerli separati. Partiamo, pertanto, a definire l’ambito della povertà e a domandarci per quali motivi, i movimenti operai e comunisti, si siano sostanzialmente disinteressati dei poveri. Chi sono i poveri e in che cosa si distinguono dagli operai e dai proletari? Fondamentalmente in una cosa: questi non sono una classe sociale e, il che ne è l’aspetto decisivo, non sono, e né possono esserlo, una classe storica2.

A differenza del proletariato deputato a diventare agente della storia universale in quanto classe in grado di incarnare l’interesse generale, il povero consuma la sua esistenza dentro una dimensione mesta sia sul piano empirico sia su quello della scena storico–politica. Il povero, il marginale, l’escluso non sono in grado di rovesciare alcun rapporto di forza poiché, si potrebbe dire, la loro condizione si colloca fuori da una relazione dialettica ancorché nella dimensione servo – padrone3. Del resto, mentre è pensabile la dittatura operaia, proletaria e contadina, come forma statuale in grado di organizzare il potere di classe in un determinato territorio, a dir poco dadaista sarebbe un’ipotesi politica che fondasse la sua prospettiva sulla dittatura rivoluzionaria dei poveri4.

In poche parole, il marginale, il povero, il socialmente escluso incarnano sempre, almeno sotto il profilo economico e sociale, una disgregazione seguita ai processi di modernizzazione. Ciò che lo caratterizza è un sostanziale declassamento che lo fa precipitare ai margini della vita sociale5. Non a caso, il socialmente escluso, è per lo più estraneo all’ambito della produzione e la sua vita si dipana tra assistenza pubblica e/o religiosa o attività illegali di piccolo cabotaggio. Lo stesso disoccupato, in quanto esercito industriale di riserva6, ha ben poco a che spartire, indipendentemente dalle condizioni empiriche nelle quali può ritrovarsi, con il povero e il marginale. Solo nel caso in cui, in seguito al prolungato stato di disoccupazione, l’operaio vive un oggettivo processo di declassamento la sua iscrizione al mondo della marginalità diventa un fatto acquisito ma, per l’appunto, ciò è il frutto di un passaggio dentro un ambito sociale completamente diverso7. In quel caso, l’operaio declassato, si ritroverà in mezzo ad altri declassati provenienti dalle più svariate classi sociali. In poche parole l’esclusione sociale, classicamente, sembrava porsi fuori dai rapporti capitalistici di produzione.

Sotto tale profilo il capolavoro di Hugo è quanto mai esemplificativo. Il mondo dei miserabili raccoglie, al contempo, tutti i residui delle ere passate e le “vite di scarto”8 del presente, poiché escluse definitivamente dal ciclo di produzione capitalista. Questo mondo, sempre propenso a compiere un colpo di stato dal basso, non mira alla presa del Palazzo d’Inverno ma, ben più prosaicamente, al portafoglio di qualche malaugurato passante o, nella migliore delle ipotesi, agli arredi di qualche abitazione o negozio momentaneamente non custodito. In non pochi casi, il colpo di stato, è tentato o realizzato verso i propri simili per sottrargli le piccole fortune momentaneamente acquisite.

Nei confronti del potere politico e della polizia in particolare questi ambiti si mostrano a dir poco ossequiosi e sempre pronti a vendere qualcuno in cambio di un momentaneo salvacondotto, qualche moneta o per acquisire un piccolo credito da consumare in una futura occasione. In non poche occasioni, inoltre, i socialmente esclusi non si sono fatti problemi a svolgere il “lavoro sporco” per conto del potere legittimo, in funzione antioperaia e antiproletaria. Più modestamente come crumiri o con qualche pretesa in più in veste di novelli pretoriani, per l’insieme di questi motivi, agli occhi della classe operaia e del proletariato, sono sempre stati percepiti come corpo estraneo se non come veri e propri avversari del fronte di classe. Dalla Brigata dei Macellai sino ai mazzieri fascisti il rapporto tra movimento operaio e marginalità sociale non è mai stato particolarmente amorevole9.

Il secondo ambito tipico del socialmente escluso, come si è detto, è riconducibile a quell’insieme di comportamenti ascrivibili ai mondi dei cosiddetti anormali10. Un mondo quanto mai variegato che, attraverso i secoli, ha accolto nel suo grembo dal folle11 all’omosessuale. Il socialmente escluso, in questo caso, è sempre il frutto di un ordine discorsivo e di un effetto di potere dal duplice scopo: sperimentare in vitro tecniche di controllo e di disciplinamento il cui utilizzo, in un processo a cascata, può essere esteso ai più svariati ambiti sociali; uniformare i comportamenti e i costumi della popolazione al fine di rendere la nazione più forte e più sana12. Per sua natura il termine “anormale” è talmente polisemico da potersi, volta per volta, applicare a qualunque comportamento socialmente non convenzionale, in un preciso svolto storico. Come esempio non secondario può essere assunto l’ordine discorsivo che si è prodotto intorno all’omosessualità.

La messa al bando dell’omosessualità ha attraversato l’intera epopea in cui la potenza statuale coincideva con la forza della nazione. Epoca in cui, produzione ed esercito, potere economico e forza militare si fondano prevalentemente sul numero. In tale contesto la forza di una potenza statuale sarà direttamente proporzionata alla sua capacità industriale, quindi alla quantità di forza – lavoro salariata messa al lavoro, unita alla vastità della mobilitazione militare che il numero rende possibile. In tale scenario la necessità di una nazione ricca, per non dire abbondante, di prole rappresenta per il potere politico un obiettivo strategico irrinunciabile. L’omosessuale, suo malgrado, diventa colui che “oggettivamente” compie un atto di sabotaggio nei confronti del potere. Non procreando, l’omosessuale, depotenzia il patrimonio nazionale e statuale limitando obiettivamente le capacità di riserva, economica e militare, dello stato13.

Significativamente, nel momento in cui il paradigma industriale della guerra14 viene meno, l’ordine discorsivo intorno all’omosessualità comincerà a mutare15. L’emancipazione alla quale, nelle nostre società, la pratica omosessuale sembra andare incontro più che l’effetto di un improbabile processo di civilizzazione appare come l’effetto del mutamento di paradigma intervenuto dentro la forma guerra. Non è un caso, infatti, che l’ostracismo a cui l’omosessualità è tuttora sottoposta in determinate aree del mondo sia opera di sistemi statuali ancora pervasi dal paradigma della guerra industriale. Nelle nostre società “civilizzate”, tuttavia, l’ordine discorsivo intorno agli “anormali” non si è estinto ma ha semplicemente cambiato indirizzo o indirizzi cogliendo l’anormalità in quei comportamenti, come ad esempio nel caso degli ultras16, in qualche modo turbativi di un ordine sociale che, per definizione, è dato per pacificato.

Ma torniamo a occuparci della dimensione “strutturale” dell’emarginazione sociale. Andando al sodo se, come si è detto, non è il reddito in quanto tale a definire gli ambiti della marginalità e dell’esclusione, attraverso quale criterio diventa definibile l’ambito dell’esclusione sociale? Rispondere che la dimensione del lavoro, e in particolare del lavoro salariato, è stata a lungo la condizione necessaria e sufficiente al contempo per delimitare il campo dell’esclusione e della marginalità è certamente vero ma, a sua volta, tale condizione era il frutto di una reciprocità che ha fatto da sfondo alla modernità, ossia alla nascita del modo di produzione capitalista.

Parafrasando Schimtt potremmo facilmente sostenere che il rapporto borghesia e proletariato, per quanto improntato oggettivamente su un criterio di inimicizia, si è sempre dato dentro una relazione di eguaglianza: nemici sì, ma di pari grado e dignità. Ciò in qualche modo, del resto, era già presente in Marx. Che cosa significa, infatti, la nota affermazione presente nel paragrafo dedicato alla giornata lavorativa del primo libro de Il capitale: “Fra diritti eguali decide la forza”17, se non che la relazione tra capitale e lavoro salariato, sul piano storico, si pone dentro una cornice di eguaglianza e reciprocità? Nel rapporto tra proletariato e borghesia sembra rivivere quello jus publicum che aveva regolarizzato la guerra tra stati legittimi, ossia europei, sino al delinearsi della guerra imperialista18. Del resto la dialettica propria del modo di produzione capitalista non poteva che porre la questione esattamente in questi termini19.

(fine prima parte – continua)


  1. Nel Novecento l’interesse nei confronti degli ambiti dell’esclusione e della marginalità è stato un tema particolarmente coltivato dalla sociologia nordamericana e in particolare dalla “scuola etnografica” di Chicago, al proposito di veda R. Rauty, Società e metropoli. La scuola sociologica di Chicago, Donzelli, Roma 1995. Questo non è un caso poiché la presenza non secondaria di immigrati, estranei al ceppo bianco, protestante e anglosassone dominante negli USA, forniva al fenomeno dell’esclusione sociale e della marginalità numeri e consistenze di gran lunga superiori, e quindi socialmente interessanti, rispetto alle società europee la cui costituzione e formazione poggiava su delle popolazioni maggiormente omogenee. Inoltre, proprio nel Novecento statunitense, era presente un fenomeno come quello di una classe operaia mobile e flessibile che rappresentava un problema sociale e politico, molti di questi lavoratori erano infatti legati agli IWW, al proposito si veda F. Manganaro, Senza patto né legge. Antagonismo operaio negli Stati Uniti, Odradek, Roma 2004 ma anche, benché collocato in una panoramica temporale più ampia, J. Brecher, Sciopero! Storia delle rivolte di massa nell’America dell’ultimo secolo, Derive Approdi, Roma 1999, che doveva essere affrontato non solo in termini di ordine pubblico ma anche analizzati da un punto di vista sociale e culturale. Proprio intorno a questa figura sociale, non per caso, è stata costruita una delle opere di maggior rilievo della “scuola di Chicago”, N. Anderson, Hobo. Sociologia dell’uomo senza dimora, Donzelli, Roma 1996. Un insieme di lavori che, pur assumendo il conflitto come parte costitutiva della vita sociale, ne perimetravano gli effetti dentro una cornice puramente antropologica e culturale glissando bellamente sulla sua dimensione politica. Sotto il profilo politico, invece, la questione dell’esclusione sociale è stata posta come semplice problema di governance delimitata agli ambiti della povertà. Al proposito si veda: G. Procacci, Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale, Il Mulino, Bologna 1998  

  2. Sul concetto di classe storica si veda in particolare G. Lukács, “La reificazione e la coscienza del proletariato”, in Id., Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973  

  3. Oltre allo scontato riferimento al famoso passaggio hegeliano, G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1973 si vedano al proposito le argomentazioni weberiane, M. Weber, Economia e società, Vol. II, Edizioni di Comunità, Torino 1995, in relazione ai vincoli che legano, in un abbraccio mortale, servo e padrone nelle società preindustriali. Vincolo che, in ogni caso, è determinato da un determinato modo di produzione. Solo la rivoluzione industriale, l’avvento dell’economia monetaria e la relazione capitale lavoro salariato hanno sciolto i vincoli propri di un’era dominata, indipendentemente dall’odio o dall’amore che legava le parti, dalla gabbia del rapporto comunitario.  

  4. Significativa, al proposito, è l’alleanza tra proletariato e contadini poveri inaugurata, in quanto forma di governo, nel corso della rivoluzione russa. Il partito bolscevico, al fine di mantenere il potere dei soviet, cerca l’alleanza con una classe sociale che, in virtù della postazione che occupa dentro il ciclo produttivo, è classe economica e sociale a tutti gli effetti mentre del tutto inessenziali risultano, ancorché quantitativamente non irrilevanti, le masse impoverite presenti soprattutto nelle città. Ciò che diventa decisivo, per stipulare una politica di alleanza, è il ruolo e la funzione produttiva che una classe sociale è in grado di vantare ed esercitare. L’estraneità dei poveri al mondo delle produzione li rende, obiettivamente, privi di potere contrattuale nei confronti di qualunque forma di governo. Sull’alleanza del proletariato con i contadini poveri si veda, V. I. Lenin, “Tesi per il rapporto sulla tattica del partito comunista di Russia al III Congresso dell’Internazionale Comunista”, in Id., Opere, Vol. 32, Editori Riuniti, Roma 1967; “La Nuova Politica Economica e i compiti dei Centri di educazione politica. Rapporto al II Congresso dei Centri di educazione politica di tutta la Russia”, in Id., Opere, Vol. 33, Editori Riuniti, Roma 1967.  

  5. Cfr. G. Simmel, “Il povero”, in Id., Sociologia, Edizioni di Comunità, Milano 1989.  

  6. K. Marx, “Produzione progressiva di una sovrappopolazione relativa ossia di un esercito industriale di riserva”, in Id., Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1994  

  7. Il mondo dell’esclusione sociale e della marginalità, pertanto, raccoglie in maniera indistinta resti e frattaglie di ambiti sociali che hanno perso qualunque tipo di identità. Il nobile decaduto, il commerciante fallito, il disoccupato cronico al pari del contadino sradicato e così via diventano le figure abituali dei mondi dell’esclusione. Ciò che li unisce, oltre a un comune risentimento nei confronti del mondo, è la perdita di ogni prospettiva storica. L’unico tempo in cui diventa possibile abitare è il presente mentre del tutto assente diventa la dimensione del tempo storico. Con ogni probabilità chi ha colto con maggiore lucidità il rapporto tra proletariato e tempo storico è stato Paul Nizan in I cani da guardia, La Nuova Italia, Firenze 1970.  

  8. Un’espressione che, nel presente, nei confronti soprattutto delle masse migranti ha conosciuto una certa notorietà, cfr. Z. Bauman, Vite di scarto, Editori Laterza, Roma – Bari 2005. Si tratta, almeno questa è l’opinione di chi scrive, di un ipotesi decisamente fuorviante poiché, a differenza dei miserabili di Hugo, a tutti gli effetti scarti delle ere passate, le masse migranti attuali più che a una storia di ieri rimandano a una storia di un futuro divenuto in gran parte già presente. Queste, infatti, prefigurano al meglio la condizione proletaria media e necessaria a cui l’attuale modello di produzione capitalista aspira. Ben distanti dall’essere scarti queste rappresentano il corpo operaio massimamente produttivo e, grazie alle pratiche e ai dispositivi di segregazione, maggiormente docile. La loro salvezza ed emancipazione non sta in un “nuovo umanesimo” del quale l’intellighenzia progressista si fa paladina bensì nella loro organizzazione politica autonoma su basi classiste. Così come mai la merce sfamerà l’uomo, mai il culturalismo emanciperà i nuovi dannati delle metropoli.  

  9. Le vicende tedesche tra le due guerre, cfr. W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1962, sotto tale profilo ne rappresentano una più che significativa esemplificazione. Il problema che queste masse ponevano alle organizzazioni proletarie e di classe non è sfuggito al movimento comunista internazionale che, proprio nella Germania weimariana, si mostrò in tutta la sua complessità dando vita a un dibattito quanto mai vivo e intenso tra le menti più lucide e attente del movimento comunista internazionale. Una buona ricostruzione del dibattito che attraversò per intero il KPD e l’Internazionale comunista è reperibile nei capitoli che formano la seconda parte del testo di E. H. Carr, La morte di Lenin. L’interregno 1923 – 1924, Einaudi, Torino 1965.  

  10. M. Foucault, Gli anormali, Feltrinelli, Milano 2000.  

  11. Al proposito si vedano M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1992; Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004  

  12. Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1988  

  13. Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998  

  14. Per una buona discussione di questo tema si veda R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009  

  15. Rispetto al passato, oggi, le nazioni più ricche e potenti si pongono il problema del controllo e della limitazione delle nascite invece che del loro incremento esponenziale. Non è secondario notare come, nelle società contemporanee, il grado di ricchezza, forza e potenza, avendo a mente come parametro la popolazione, sia dato dalla longevità piuttosto che dal numero delle nascite.  

  16. Cfr. AA. VV., Stadio Italia. I conflitti del calcio moderno, La casa Usher, Firenze 2010  

  17. K. Marx, Il capitale, Libro primo, pag. 269, cit.  

  18. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991.  

  19. Mentre la borghesia, nei confronti delle classi aristocratiche, aveva potuto svilupparsi in maniera indipendente da queste tanto che, nel momento in cui decapita l’antico regime, la sua presa sul mondo, in senso economico, sociale e amministrativo può vantare uno stadio più che avanzato, paradigmatico al proposito il noto libello di E – J Sieyès, Che cos’è il terzo stato? Editori Riuniti, Roma 1992 nonché il classico, A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, Rizzoli, Milano 1990, per cui la “rivoluzione politica” diventa l’atto conclusivo di un processo che, sul piano economico e sociale, aveva conosciuto una lunga gestazione nel corso della quale, le vecchie classi dominanti, avevano potuto “ignorare” la borghesia e considerarla come ceto sociale di grado inferiore, la natura del modo di produzione capitalista obbliga a una relazione di natura completamente diversa. Il proletariato, infatti, non è esterno ed estraneo alla borghesia poiché, in veste di capitale variabile, è la vera fonte del plusvalore. Non per caso, mentre l’estinzione delle classi nobiliari spalancano le porte al dominio della borghesia, il proletariato emancipandosi, ossia negandosi come classe, decreta la morte del modo di produzione capitalista e della borghesia.  

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Le Cubane *3 – Plaza de la Revolución omosexual https://www.carmillaonline.com/2017/02/11/le-cubane-3-plaza-de-la-revolucion-omosexual/ Fri, 10 Feb 2017 23:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35933 di Simone Scaffidi

Plaza de la RevolucionL’Avana. Plaza de la Revolución. Eloy ci serve la colazione: latte, caffè, goiaba, uovo con pancetta. Poi ci dà qualche consiglio per visitare il quartiere Vedado. Alla modica cifra di dieci pesos moneda nacional, ovvero meno di quaranta centesimi di euro, arriviamo fino a Plaza de la Revolución in taxi. Qui osserviamo le solenni effigi di Ernesto Che Guevara e Camilo Cienfuegos che dominano la piazza, l’una sulla parete del Ministerio del Interior e l’altra sulla facciata del Ministerio de Informática [...]]]> di Simone Scaffidi

Plaza de la RevolucionL’Avana. Plaza de la Revolución. Eloy ci serve la colazione: latte, caffè, goiaba, uovo con pancetta. Poi ci dà qualche consiglio per visitare il quartiere Vedado. Alla modica cifra di dieci pesos moneda nacional, ovvero meno di quaranta centesimi di euro, arriviamo fino a Plaza de la Revolución in taxi. Qui osserviamo le solenni effigi di Ernesto Che Guevara e Camilo Cienfuegos che dominano la piazza, l’una sulla parete del Ministerio del Interior e l’altra sulla facciata del Ministerio de Informática y Comunicaciones. I loro faccioni dai contorni metallici non sorridono e se per Guevara possiamo pure in parte accettarlo, per Camilo no. L’imponente monumento dedicato al padre della patria José Marti si erge altissimo davanti ai due comandanti. Ai suoi piedi un museo a lui dedicato e su lato occidentale della piazza la biblioteca che porta il suo nome. Grazie a un ascensore raggiungiamo la cima del monumento e scopriamo L’Avana da una prospettiva nuova. Le facce di Guevara e Cienfuegos si sono rimpicciolite, e da quassù ora è la piazza a dominarle. Riconosciamo l’inconfondibile architteturra dell’Hotel Nacional e col dito tracciamo nell’aria il profilo del Malecon. Ci ritornano in mente il tramonto di ieri e i pescatori. Il sole batte forte. La piazza è grigia. Il mare azzurrissimo. L’Avana dall’alto è un’esplosione di contrasti che si tuffano nell’oceano.

P1110272Università. Da Plaza de la Revolución ci spostiamo verso l’università, una delle più antiche delle Americhe. Ci arriviamo da una prospettiva inaspettata, dall’alto e di lato, non da sotto risalendo la grande scalinata. Rimaniamo piacevolmente colpiti dalla sua vivacità. Nell’edificio della facoltà di filosofia c’è un ritratto coloratissimo di Simón Bolívar donato a Cuba dal presidente venezuelano Hugo Chavez, stroncato pochi giorni fa da un tumore. Nella stanza d’ingresso sono appesi i ritratti di Fidel, Raul, Camilo ed Ernesto. Ci stupiamo, è molto raro incontrare fotografie del Lider Maximo. Chiedo a un bidello se conosce lo scrittore Daniel Chavarría e se ci sono possibilità di incontrarlo per di là. L’uomo mi guarda perplesso, si dispiace, sembra non conoscerlo. Scendiamo l’imponente scalinata dell’università e ci dirigiamo verso l’Hotel Habana Libre, ex Hotel Hilton espropriato dai guerriglieri all’indomani del 1° gennaio 1959  e diventato il quartier generale dei ribelli e di Fidel. Era stato inaugurato appena nove mesi prima della Rivoluzione. Riusciamo a entrarci, non sappiamo neanche noi bene come, prendiamo un ascensore e arriviamo all’ultimo piano. Nessuno ci ferma. E ora non so più se quello che sto raccontando è accaduto davvero. E non lo sa neppure la persona che ho accanto. C’è una stanza aperta, sembra una suite, la porta socchiusa. Sbrirciamo, esitiamo, poi entriamo. E lì li vedo seduti sui divani, sarà il 6 o 7 gennaio del 1959, ci sono i comandanti, c’è Fidel, c’è Celia. Fumano. Ridono. Ma sono risate tese. La vittoria eccita, l’impazienza regna, la paura. Sento la paura. Mi avvicino al vetro, siamo altissimi. Come possiamo restare quassù?

P1110303L’incontro con il figlio di Raul. Passeggiamo per il quartiere del Vedado, compriamo il quotidiano Granma da un signore che grida per la strada e saltiamo su un taxi colectivo per raggiungere Camilo. Ci aspetta all’incrocio tra Avenida 10 de Octubre e Calle Dolores. Insieme compriamo gli ingredienti essenziali per l’aperitivo: rum, cola e patatine. Affacciandomi dall’entrata sopraelevata del negozio, alla vista del parcheggio adiacente, gli occhi mi si colorano. Una decina di auto d’epoca color pastello sono ordinate una accanto all’altra a spine di pesce. Dentro quale film hollywoodiano mi trovo? Camilo ci tiene a farci conoscere la sua famiglia. Incontriamo sua moglie, le sue due figlie e il caro amico Socrates. Socrates è molto simpatico. Ci racconta di sua moglie, dice che lavora come infermiera ma nella vita privata è una vera e propria poliziotta, perché lo controlla sempre. Ha la battuta sempre pronta e una risata grassa e calorosa. Camilo ci racconta un po’ delle sue esperienze in Italia, della sua scuola di arti marziali por la izquierda (in nero), dei suoi incontri illegali di pugilato per farsi qualche soldo e soprattutto del suo ormai ex lavoro per lo Stato cubano. Faceva parte di un dipartimento speciale, ancora attivo, che aveva l’obiettivo di portare capitali stranieri a Cuba. Camilo lavorava quindi legalmente in Italia e in Svizzera ma convinceva i suoi pazienti a recarsi a Cuba per continuare a farsi curare da lui por la izquierda. Buona parte di quello che guadagnava in Italia e in Svizzera andava allo stato cubano. Prima di questo impiego lavorava per la sicurezza del corpo diplomatico all’estero e ha operato in Angola, Congo ed Etiopia. È un invasato di arti marziali e difesa personale. Racconta che una volta ha litigato con il figlio di Raul, e per risolvere i dissidi hanno deciso di sfidarsi in un incontro di boxe. E lui lo ha battuto. Il suo obiettivo nella vita, lo dice con orgoglio, è allenarsi, per essere sempre pronto a difendere la sua famiglia e la sua casa.

Omosessualità. La figlia di Raul Castro ha preso posizione in favore dei diritti degli omosessuali. Camilo e Socrates riconoscono con una certa umiltà di essere indietro su questi argomenti ma non accettano comunque la sua posizione. «Non è possibile che un gay valga più di un uomo che ha servito lo Stato e ha rischiato la sua vita per lo Stato, e per cosa poi..» sbotta Camilo. Sembrano ricorrere le lamentele di chi ha lavorato per il regime e non vede riconosciuto il proprio servizio dato allo Stato. Oggi Camilo ha deciso di evitare che la sua strada s’incroci con quella del regime. La sua vita, afferma, non è migliorata servendo lo Stato e quelli che non hanno mai fatto niente gli sono passati davanti. Lo dice alludendo agli omosessuali. Afferma di essere fortunato perché sua sorella è fuori, lavora in Spagna, a Murcia, e gli invia spesso dei soldi per mantenere al meglio le sue due bambine. La immagini di Fresa y Chocolate scorrono sotto le sue parole. È solo il terzo giorno che siamo sull’isola e già c’imbattiamo in una interessante conversazione sull’omosessualità con due cubani. Anche Socrates, come Eloy, ha studiato in URSS. Lui è stato cinque anni a Odessa in Ucraina, ha lavorato come ingegnere idroqualcosa e dice che il freddo e la neve gli sono piaciuti molto. La moglie di Camilo è in cucina, ci prepara delle patatine fritte buonissime. Le due bambine corrono a portarcele, scambiano qualche battuta con noi forestieri, e ritornano velocemente in casa. Siamo seduti in giardino, solo noi quattro, di giorno questo quadrato di cemento contornato dal verde si trasforma in palestra, qui Camilo allena se stesso e i suoi allievi a essere sempre pronti a difendersi dai nemici. Guardo la moglie e le figlie di Ernesto, ci conosciamo troppo bene, basta un lieve movimento degli occhi per leggerci i pensieri. Noi siamo spaparanzati a bere e chiacchierare di politica, Europa e omosessualità. Loro sono in cucina. Non si siederanno mai con noi, come nelle migliori famiglie italiane.

Fidel Castro affacciato dal balcone dell'Hotel Habana Libre, ex Hotel Hilton

Fidel Castro affacciato dal balcone dell’Hotel Habana Libre, ex Hotel Hilton

L’alcool scende e il rum sale. Il telefono di Socrates squilla e ho il piacere di parlare al telefono con la poliziotta, sua moglie, assicurandogli che il marito entro pochi minuti rientrerà a casa. Grasse risate. Salutiamo Socrates e lui appena arrivato a casa ci richiama. Abbiamo passato una bella serata ma non è finita qui. Ora dobbiamo conoscere la vera casa di Camilo, quella della madre. Saltiamo in macchina. Sulla soglia della porta ci accolgono sorrisi e calorosi abbracci di una donnona nera che non perde tempo ad offrirci un refresco all’arancia. Poi Camilo inizia il suo show e si mette a fare il mago. Non ha grandi doti e lo smascheriamo immediatamente. Nonostante il rum salga ai piani alti della testa ho ancora le forze di controbattere all’egocentrismo di Camilo con le stesse futili armi. I miei cavalli di battaglia sono il trucco di carte più stupido della terra e quello della moneta che entra nel gomito. La mamma di Camilo è felice, ci abbraccia, ci tocca e ride di gusto. Mentre ce ne stiamo per andare, in ingresso, ci accorgiamo dell’altare dedicato a Yemayà, la dea del mare e di tutti gli dei. Vorremmo stare tutta la notte a ridere nel bianco degli occhi di questa donna grassa e nera, ascoltare i suoi racconti sulla Santeria cubana, ma Camilo deve riportarci da Eloy. E proprio mentre apriamo la porta, un forte acquazzone tropicale ci sorprende.

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