Olimpiadi di Berlino – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 13 Oct 2025 21:50:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Eroi dello sport https://www.carmillaonline.com/2016/06/13/30867/ Mon, 13 Jun 2016 21:30:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30867 di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano [...]]]> di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano Bonetta, Sergio Giuntini, Daniele Marchesini.

Marchesini ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Parma e da molti anni si dedica all’analisi dello sport come fenomeno sociale e culturale, indagando svariati temi (Coppi e Bartali, le Mille Miglia, il Giro d’Italia, il ruolo dello sport nella formazione di un’identità nazionale, la relazione tra sport e totalitarismi). Il saggio più recente di Marchesini è uscito in una collana del Mulino, diretta da Carlo Galli, dedicata al tema dell’eroe in diversi ambiti e discipline.

Nelle prime pagine del volume Eroi dello sport Marchesini definisce l’oggetto della sua ricerca distinguendo tra il campione e l’eroe. Entrambi si caratterizzano per l’assoluta eccellenza delle loro prestazioni che suscitano ammirazione, ma questo non basta per fare di un campione un eroe. Oltre alle numerose promesse mancate, anche grandi protagonisti dello sport – come Indurain nel ciclismo o Phelps nel nuoto – pur accumulando vittorie e medaglie si sono fermati prima della soglia che si apre sullo spazio dell’eroismo sportivo. A differenza dei campioni, gli eroi sportivi assumono una rilevanza che esula dall’originario ambito di appartenenza, entrano nella memoria collettiva, ispirano ideali, rispecchiano valori e attese, costituiscono riferimenti culturali.
D’altronde, si può diventare eroi senza essere vincitori, come nel caso di Dorando Pietri. Il maratoneta carpigiano nel 1908 taglia per primo il traguardo nella gara dei giochi olimpici di Londra ma “perde la vittoria” (sono parole dello stesso Pietri, squalificato a causa dell’aiuto di medici, giudici e assistenti che lo sostengono in prossimità dell’arrivo). Tuttavia mentre Hayes, il vincitore della maratona, cade nell’anonimato, lo sconfitto Pietri “vince” sul piano dell’immaginario collettivo grazie alla trasfigurazione mitica dell’evento. La dimensione dell’eroe è infatti quella del mito, cioè di un sistema di comunicazione «definito non tanto dal suo oggetto, quanto dal modo in cui lo si costruisce e lo si trasmette» (p. 230).

pietriDeterminante nella costruzione dell’eroe sportivo è anzitutto la presenza di un pubblico che segue con grande passione le prodezze del campione e instaura una relazione stabile e fiduciaria con lui, identificandosi con le vicende che, nel bene e nel male, in campo sportivo e extrasportivo, punteggiano la sua carriera e la sua vita. L’eroicizzazione implica inoltre la presenza di un “cantore” capace di narrare le imprese del campione. Nel caso di Pietri è Arthur Conan Doyle – appassionato di sport e presente all’evento come cronista del “Daily Mail” – a celebrare la vicenda in un articolo che rappresenta il corrispettivo scritto della celebre immagine del maratoneta barcollante e distrutto dalla fatica: «Avvenne allora una cosa meravigliosa. Col viso d’un morto, Dorando si rialza, barcolla, le gambe riprendono lo strano incedere automatico: ricadrà? No. Oscilla, tentenna un istante, ed eccolo tagliare il traguardo, raccolto da venti braccia amiche! E’ arrivato all’estremo limite delle forze umane! Mai alcun romano dei primi giorni gloriosi si comportò meglio di Dorando alle Olimpiadi del 1908» (p. 233). Con il suo articolo, il creatore di Scherlock Holmes perfeziona e universalizza l’eroicizzazione di Pietri, trasformandolo in una celebrità mondiale ingaggiata, e profumatamente pagata, per le sue esibizioni in Europa e in America. I maggiori giornali scrivono di lui, il personaggio è acclamato ovunque e il pubblico accorre per vederlo in azione.

Passando in rassegna numerose esperienze sportive, Marchesini analizza gli aspetti culturali, i registri espressivi e i codici comunicativi che alimentano le retoriche della mitografia sportiva, in relazione ai contesti politici e sociali, alle dinamiche specifiche degli sport, al loro carattere individuale o collettivo, alle modalità della loro narrazione.
Un capitolo del saggio è dedicato al mondo classico, nel quale lo sport assume già una dimensione strutturata e caratteri tipici dei fenomeni sportivi moderni (professionismo, tifo, ideologia atletica, celebrazione dei vincitori ecc.). L’attenzione è rivolta però prevalentemente alla contemporaneità in quanto è la società di massa a favorire il radicamento, la diffusione e la spettacolarizzazione del fenomeno sportivo, in un processo di «familiarizzazione» (p. 8) che lo rende sempre più pervasivo e che si intreccia con la vita quotidiana, con la dimensione politica, le dinamiche sociali, la sfera economica.

Nel primo scorcio del Novecento, i temi che fondano la rappresentazione eroica di figure come Pietri, impegnate in corse di fondo che comportano grande sofferenza, e dell’epopea degli albori del ciclismo, lo sport allora più popolare, sono legati alla fatica e al coraggio, alla volontà di portare a compimento un impegno attingendo fino all’estremo della forze, al mito delle origini oscure, difficili, povere, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale. Al pubblico che segue il Giro d’Italia o la Grande Boucle, su strade sterrate in tappe impervie e interminabili, il ciclismo «appare come una variante della lotta per la vita che coinvolge la maggioranza dei lavoratori che, in quegli anni, faticano “da sole a sole” nelle campagne (cioè dall’alba al tramonto), 12-14 ore nelle fabbriche, sette giorni su sette la settimana, in attesa di un avvio di legislazione sociale che interviene solo al principio del Novecento a disciplinare i casi più clamorosi di sfruttamento selvaggio» (pp. 78-79).

coppi-bartaliNel secondo dopoguerra, sono Gino Bartali e Fausto Coppi ad incarnare nuovamente lo sport della fatica come metafora della ricostruzione dopo le tragedie del conflitto mondiale. La rivalità che si instaura tra i due ne accresce la popolarità e definisce i meccanismi di identificazione degli italiani in personaggi dalle caratteristiche opposte, tanto tecnicamente e caratterialmente quanto, almeno nella rappresentazione popolare alimentata dai mezzi di comunicazione, ideologicamente (il “pio” Bartali e il laico e “razionalista” Coppi).
In un contesto profondamente mutato – quello di un’Europa che sembra «appagata dai risultati di un benessere in continua espansione, che rende la bicicletta un oggetto antiquato» (p. 126) – occorrono altri ingredienti per costruire il mito. Se la grandezza di Coppi veniva esaltata con toni epici e favolistici dai radiocronisti e giornalisti dell’epoca (nel linguaggio sportivo prevaleva il campo metaforico del “volo” o della “regalità”, con espressioni come “dominare”, “librarsi”, “aquila”), le immagini utilizzate per descrivere Eddy Merckx – il ciclista in assoluto più vincente nella storia del suo sport: 445 vittorie tra il 1966 e il 1978 – esaltano invece la potenza atletica pura, con iperboli quali “mostro”, “robot”, “marziano”, «tendenti a suscitare ammirazione e sorpresa nell’ordine dei valori “tecnico-avveniristici”» (p. 126).
Anni dopo, sarà Marco Pantani a riproporre l’immagine del ciclista come eroe della fatica, refrattario alle tattiche, imprevedibile, capace di illuminare improvvisamente una gara con i suoi scatti improvvisi sulle montagne del Giro o del Tour.

Oltre al ciclismo, lo sport più popolare nella prima metà del Novecento è il pugilato. Progressivamente addomesticata nella sua originaria carica di violenza e caratterizzata da contenuti di grande raffinatezza tecnica, nell’immaginario collettivo la boxe rimane comunque prevalentemente legata alla «messinscena del corpo forte» (p. 95). Se nel ciclismo il corpo si espone senza nascondimenti sul “cavallo di ferro”, nella boxe il corpo dell’atleta viene portato in prima scena, in uno scontro da solo a solo. Definito da Albert Camus come «lo sport assolutamente manicheo», un rito che semplifica tutto, il bene e il male, il vincente e il perdente, il pugilato mantiene un seguito popolare sino agli anni Sessanta-Settanta, segnati in Italia dalle figure di Sandro Mazzinghi e Nino Benvenuti. Come ricorda Marchesini, il 17 aprile 1967 la sfida mondiale tra Benvenuti e Griffith al Madison Square Garden, titolo dei pesi medi in palio, fu trasmessa dalla RAI in diretta solo radiofonica «per non compromettere, a causa dei fusi orari, il sonno degli italiani e le loro capacità lavorative dell’indomani. Il miracolo economico da un po’ di tempo scricchiola e bisogna evitare di incentivare l’assenteismo in fabbrica e negli uffici. Nonostante le preoccupazioni educative e moralizzatrici della RAI monopolista, in più di 15 milioni quella notte puntano la sveglia e si alzano per ascoltare la radiocronaca del trionfo dell’italiano condotta da Paolo Valenti» (p. 98).
L’autore dedica ampio spazio anche alla figura di Cassius Clay, dai primi successi, all’adesione alla fede islamica, al rifiuto di arruolarsi nell’esercito e di partire per la guerra in Vietnam, sino all’incontro con Foreman per il titolo mondiale dei massimi: il 30 ottobre 1974 il pubblico che segue il match (60 mila persone) è tutto con lui «così come i neri di tutto il mondo, in una diretta televisiva che per l’epoca riuniva una platea infinita: 700 milioni di persone». All’ottavo round Muhammad Ali atterra Foreman e si conferma l’eroe non solo di uno sport che quel giorno «tocca vertici mai prima e mai più in seguito raggiunti di partecipazione emotiva, ma anche di ideali di libertà e giustizia» (pp. 219-220).

Quarant’anni prima, era stato il fascismo a utilizzare politicamente le potenzialità del pugilato, sfruttando l’immagine eroica di un altro peso massimo, il friulano Primo Carnera, «capace di sedurre affascinare eccitare il pubblico come una star del sistema divistico» (p. 159). Un capitolo del saggio di Marchesini è dedicato al rapporto tra lo sport e i regimi totalitari, i primi a cogliere le opportunità di controllo delle masse offerte dalla loro passione per lo sport. Il fascismo dà forma all’ideologia dell’“atletismo politico”: il coraggio, la lotta, la forza, l’agonismo sono valori che vengono piegati alla logica del regime e riassunti in una rappresentazione del corpo che mira alla definizione dell’“uomo nuovo” fascista. Oltre a Carnera, che esemplifica in modo evidente l’uso dello sport a fini propagandistici e di ricerca del consenso, altre figure che corrispondono alle aspettative del regime acquisiscono profili eroici: ciclisti come Bottecchia e Binda; Beccali, che trionfa nei 1.500 metri alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932; piloti come Nuvolari e Varzi; i calciatori guidati da Pozzo che conquistano il titolo mondiale nel 1934 e nel 1938.

jesse_owens_berlino_1936Anche la Germania nazista imbocca la strada della mistica sportiva. Ma all’esaltazione dello sport come arena nella quale dimostrare la potenza del regime e la superiorità della razza ariana, culminata nelle Olimpiadi di Berlino del 1936, tocca una micidiale eterogenesi dei fini: come è noto, a Berlino Jesse Owens – con le sue quattro medaglie d’oro – si afferma come “contro mito”, il “lampo d’ebano” che contraddice col suo stesso corpo, il colore della pelle e una straordinaria forza atletica i principi dell’ideologia hitleriana. Qualche anno dopo, al tempo dell’occupazione della Francia, il nazismo andrà incontro ad un altro inatteso fallimento nel tentativo di umiliare i francesi, oltre che sul piano militare, su quello della simbologia sportiva. Marchesini dedica pagine dense e appassionate alla vicenda del pugile Marcel Cerdan, un francese figlio di pieds-noir. Il 20 settembre 1942 i nazisti organizzano un incontro tra Cerdan e lo spagnolo Josè Ferrer, campione in carica dei welter: «Ferrer sale sul ring avvolto in una bandiera nazista e i suoi secondi indossano l’uniforme della gioventù franchista», «mentre i 16 mila spettatori, quasi in un mormorio, intonano la marsigliese nonostante la presenza di molti alti ufficiali nazisti a bordo ring»; Cerdan domina l’incontro e viene «acclamato come un liberatore dalla folla in delirio» (p. 102).

Nel campo opposto, l’Unione Sovietica non esprime in quegli anni una significativa mitologia sportiva, anche per la diffidenza diffusa nel movimento socialista, sin dalle origini, verso lo sport, considerato un fenomeno borghese, destinato a “distrarre” le masse e a ostacolare la loro presa di coscienza politica. Negli anni dello stalinismo è il lavoro che assurge a mito nella esemplificazione estrema di Stachanov e Marchesini coglie giustamente il nesso tra lo stachanovismo e l’interesse per lo sport manifestato nel dopoguerra dall’Urss e dai paesi satelliti. Attraverso Stachanov «si fa strada nell’immaginario collettivo sovietico l’idea che il primato in quanto tale è possibile e accettabile, se inserito nel progetto di educazione e formazione dello spirito pubblico nazionale, e se obbedisce al ruolo di dimostrazione dei risultati che il socialismo reale rende concreti a vantaggio della comunità». Dopo Stachanov e attraverso la guerra, «nel pantheon d’oltrecortina» il testimone passa dal campione del lavoro al campione dello sport: «tramonta lo stachanovismo ma si afferma il culto dell’individualità straordinaria» (p. 164). Un culto tanto più importante nel momento in cui l’Urss viene ammessa alle Olimpiadi (per la prima volta a Helsinki nel 1952) e deve quindi dimostrare, anche sul piano sportivo, di saper competere con il capitalismo. Gli eroi sportivi sovietici o di altri paesi dell’Est (come Zatopek, Brumel, Bubka, Borzov e molti altri delle discipline olimpiche, nominati da Marchesini, ai quali si dovrebbero aggiungere alcuni calciatori come Jascin) vincendo e stabilendo primati difendono la causa del proprio paese, secondo quanto teorizzato dai dirigenti del movimento sovietico.

Tommie Smith John CarlosMolti altri esempi di “eroismo sportivo”, descritti in modo puntuale da Marchesini, mostrano le diverse sfaccettature del fenomeno e dei personaggi che lo hanno incarnato.
Le olimpiadi sono il palcoscenico di imprese che danno vita a nuovi eroi. A Roma nel 1960 Livio Berruti è un ragazzo “normale” che nulla ha dell’eroe, ma si trova vincere in una contingenza particolare (l’Italia del miracolo economico) che consente la trasfigurazione mitica; Abebe Bikila, primo africano a vincere un oro olimpico, diventa simbolo del «riscatto da condizioni di povertà e di emarginazione» di un continente «più di ogni altro brutalmente saccheggiato» dal colonialismo (p. 91). Nel 1968 a Città del Messico, in un contesto infiammato dai movimenti di contestazione, sul podio dei 200 metri Tommie Smith e John Carlos levano il braccio col pugno guantato del Black Power, un gesto che denuncia le intollerabili condizioni in cui vivono gli afroamericani. Tuttavia, secondo Marchesini, sono “eroi perdenti”: sanzionati pesantemente dai vertici olimpici, subiscono l’oblio istituzionale e l’emarginazione in una «società disposta a garantire rispetto solo in cambio di successi sportivi e sottomissione all’ideologia dominante» (p. 217).

In alcuni casi, la dimensione eroica non è connessa alla forza ma all’estro e alla fragilità. In Brasile, il paese che ha fatto del calcio una religione laica, al mito di Pelè (il calciatore «”apollineo”, cioè perfetto, esemplare, da manuale») si contrappone quello di Garrincha, soprannominato «torto» o «zoppo» a causa del «bacino visibilmente deviato» e della «deformità delle ginocchia»: il suo calcio è «”dionisiaco”, sovrabbondante, tutto genio e sregolatezza», basato sul dribbling con il quale irride l’avversario grazie a una finta che sembra quasi favorita dal suo difetto fisico. Dopo una lunga decadenza «fatta di depressione, alcol, ostinazione a giocare ancora in squadre sempre meno titolate», la sua morte «è annunciata come la scomparsa della “gioia del popolo” (a alegria do povo), secondo il titolo del film girato nel 1962 su di lui […] da Jaquin Pedro de Andrade, uno dei capofila del cinema novo» (pp. 187-188).

Oltre alle individualità, nel saggio di Marchesini spicca la dimensione eroica collettiva legata in particolare ad alcuni sport, come il rugby (è il caso ad esempio degli All Blacks neozelandesi, capaci di suscitare una forma di riconoscimento collettivo che supera le barriere razziali) e il calcio, dal “Grande Torino” che, all’apice delle vittorie, va incontro alla tragedia a Superga nella notte del 4 maggio 1949 (per la tifoseria granata Superga rimane il tempio di una sorta di culto civile) alla squadra del Manchester United che precipita in aereo il 6 febbraio 1958 (non a caso Bobby Charlton, miracolosamente sopravvissuto all’incidente, diventerà l’eroe non solo dell’Old Trafford, lo stadio della squadra, ma dell’intero paese, guidando la nazionale inglese alla vittoria nei mondiali del 1966).

oldtrafford113In diverse pagine del saggio l’autore ritorna sul tema della morte precoce che contribuisce ad eternizzare la grandezza dell’eroe, evidente negli sport motoristici, in cui il rischio è più presente (si pensi a Ayrton Senna, idolo nazionale in Brasile e pilota più amato dagli appassionati di automobilismo), o nelle vicende di campioni del ciclismo come Coppi e Pantani e del calcio come George Best (l’anno dopo la sua morte, avvenuta nel 2005 in seguito a una cirrosi epatica per alcolismo, gli è intitolato l’aeroporto di Belfast e la sua immagine viene stampata su una serie limitata di banconote emessa dalla Ulster Bank). A non dimenticare i campioni morti servono stele, colonne votive, lapidi, busti che punteggiano le strade percorse o campeggiano nei luoghi che hanno conosciuto le loro vittorie. A questa “statuolatria”, come la definisce Marchesini, si accompagna la “stadiolatria” ovvero la rilevanza assunta nei contesti urbani del “monumentale sportivo”: stadi, piscine, palasport, villaggi degli atleti «sono i templi indispensabili all’eroicizzazione dell’atleta vincente, i luoghi sacri in cui celebrare i rituali del culto che ogni quattro anni trova nelle olimpiadi la sua massima espressione» (p. 8).

Attraverso queste ed altre storie si snoda il racconto di Marchesini che si apprezza per la qualità della scrittura, per i puntali ritratti di personaggi noti e di figure inconsuete (almeno per il lettore italiano, si veda tra l’altro il capitolo dedicato al cricket), per la ricchezza di riferimenti storici. Il taglio della ricerca, attenta agli intrecci tra la dimensione sportiva e quella sociale, tende a privilegiare figure assunte come modelli di identificazione collettiva con una funzione unificante di carattere nazionale. Si tratta di fenomeni di indubbia rilevanza, che lasciano però in ombra altri processi di “eroicizzazione” sportiva, costruiti e vissuti come modelli alternativi rispetto alle narrazioni condivise, o figure di “antieroi” riconducibili ad una dialettica con la dimensione epica dello sport, meritevoli di ulteriori approfondimenti. Anche sul ruolo delle donne, che secondo Marchesini in ambito sportivo raramente innescano dinamiche di identificazione e mitografie (tema discusso nel capitolo dedicato all’“eroismo al femminile”) rimangono aperti percorsi di ricerca in una prospettiva di genere.

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Estetiche del potere. Cinema, sport e propaganda. Olympia di Leni Riefensthal https://www.carmillaonline.com/2015/11/05/estetiche-del-potere-cinema-sport-e-propaganda-olympia-di-leni-riefensthal/ Thu, 05 Nov 2015 22:35:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24438 di Gioacchino Toni

studer_olympiaMassimiliano Studer, Olympia, Mimesis, Milano-Udine, 2014, 187 pagine + DVD del film Olympia (Germania, 1938) di Leni Riefensthal, € 19,90

Ancora oggi in Germania è in vigore una lista di film messi all’indice dagli Alleati al termine del Secondo conflitto mondiale. Sul suolo tedesco, i film di Leni Riefensthal possono essere proiettati in pubblico soltanto se affiancati da un intervento di contestualizzazione storica e politica. Senza aver mai rinnegato il suo entusiasmo per Hitler, a distanza di molti anni dalla fine della guerra, la cineasta tedesca viene assolta dall’accusa [...]]]> di Gioacchino Toni

studer_olympiaMassimiliano Studer, Olympia, Mimesis, Milano-Udine, 2014, 187 pagine + DVD del film Olympia (Germania, 1938) di Leni Riefensthal, € 19,90

Ancora oggi in Germania è in vigore una lista di film messi all’indice dagli Alleati al termine del Secondo conflitto mondiale. Sul suolo tedesco, i film di Leni Riefensthal possono essere proiettati in pubblico soltanto se affiancati da un intervento di contestualizzazione storica e politica. Senza aver mai rinnegato il suo entusiasmo per Hitler, a distanza di molti anni dalla fine della guerra, la cineasta tedesca viene assolta dall’accusa di collaborazionismo e giudicata “fiancheggiatrice del nazismo”. Il processo di denazificazione ha calato il sipario sull’attività cinematografica di una delle figure più importanti della storia del cinema a livello internazionale ma non ha certo fermato quel processo di spettacolarizzazione, da lei introdotto, dei grandi eventi di massa, soprattutto sportivi. Olimpiadi, Mondiali di calcio ecc. sono ancora oggi organizzati tanto a livello logistico, quanto a livello di copertura audiovisiva, sull’esempio di Olympia e Apoteosi di Olympia (Olympia. Teil I: Fest der Völker. Olympia. Teil II: Fest der Schönheit, 1938). Se sia possibile estrapolare dall’opera della Riefensthal esclusivamente l’aspetto spettacolare in cui la massa diventa ornamento, dal retroterra storico in cui tale estetica nasce, con implicazioni ideologiche ben precise, è davvero tutto da verificare.
Studer si chiede quanto si possano rintracciare nella nostra quotidianità quegli elementi cardine della modernità celebrata dal nazismo e dai film della regista; “burocrazia, efficienza organizzativa, tecnologia avanzata e perseguimento incondizionato e instancabile verso l’obiettivo sono le caratteristiche del progetto sulle Olimpiadi di Berlino. (…) Ma sono anche le caratteristiche del pensiero moderno e della prassi nazista”. Quanti di questi elementi permangono nella civiltà contemporanea dopo che il sipario sembra essere calato sull’epopea nazista e sulla sua cinematografia propagandistica? Dallo studio sull’immaginario contemporaneo veicolato dall’organizzazione e dalla copertura mediatica dei grandi eventi, soprattutto sportivi, si possono ricavare informazioni importanti su quanto, forse, non si è disposti ad ammettere circa il permanere di tracce di quel mondo che si vorrebbe celare dietro al sipario abbassato. Attraverso l’analisi di opere come Olympia è possibile comprendere meglio quanto il mondo degli audiovisivi sia in grado di produrre sull’immaginario collettivo.

Il saggio di Studer si apre con un’interessante intervista a Leonardo Quaresima, vera e propria autorità in fatto di cinema tedesco ed autore di quella che, ancora oggi, è l’unica monografia pubblicata in Italia sulla cineasta tedesca (Castoro cinema, La Nuova Italia, 1984). Nel corso dell’intervista, Quaresima introduce alcune caratteristiche proprie della poetica audiovisiva della Riefensthal che poi saranno riprese da Studer nel corso della trattazione. Le prove cinematografiche della cineasta riescono, con maestria assoluta, a miscelare, in continuità con i fondamenti ideologici e politici del nazionalsocialismo, l’elemento völkisch della tradizione culturale legata ai valori delle radici della provincia con l’estetica neoclassica ma, a tutto ciò, la regista tedesca, aggiunge anche elementi estetici desunti dalle sperimentazioni d’avanguardia degli anni ’20 e ’30, solitamente non amate dal regime.
In Olympia la cineasta non rispetta la fedeltà documentaria nel mostrare i giochi olimpici, tanto che le cronologie delle performance sportive spesso non sono veritiere e gli eventi tendo ad essere mescolati. A tal proposito, Quaresima, nell’intervista, parla di “sinfonia audiovisiva”, della costruzione di un’opera “che, grazie alle risorse linguistiche del nuovo mezzo, e a soluzioni di cinema sperimentale, riesce davvero a coinvolgere lo spettatore e perfino emozionarlo”. Nell’opera della cineasta, continua Quaresima, “ci si allontana quasi completamente dal valore tecnico e agonistico per costruire configurazioni formali la cui materia è composta sì da alcune gare sportive, ma la cui utilizzabilità, in termini di valutazione della performance sportiva, è assolutamente nulla. Il valore è solo e squisitamente cinematografico: altissimo e di grande fascino. (…) A lei interessa la resa estetica dell’evento”. Si tratti, dunque, di un lungometraggio che “documenta le straordinarie capacità del linguaggio cinematografico”.

olympia003Il saggio di Massimiliano Studer ricostruisce la formazione cinematografica della Riefensthal a partire dall’incontro con il cineasta tedesco Arnold Frank. Recitando in alcuni lavori del regista, la Riefensthal apprende i segreti della regia, del montaggio e delle inquadrature. In un’epoca in cui il cinema tedesco, e non solo, viene girato quasi esclusivamente in studio, Frank si cimenta con i cosiddetti “film della montagna”, opere che, girate in esterno, si confrontano con scenari montuosi in cui il fascino del paesaggio deve fare i conti con le difficoltà tecniche legate alle difficili condizioni ambientali ed alla variabilità della luce atmosferica. Da queste esperienze la cineasta impara l’uso espressivo del paesaggio naturale, oltre che elementi di sperimentazione tecnica e visiva ben presenti in Frank, nonostante le tematiche tradizionali. Altro cineasta a cui la Riefensthal deve molto è Walter Ruttmann, autore di vere e proprie “sinfonie visive”, votate all’astrazione, di grande originalità tecnico-espressiva. Il primo film realizzato dalla Riefensthal, La bella maledetta (Das blaue Licht. Eine Berglegende aus den Dolomiten, 1932), ottiene un buon successo in Germania ed in tale opera-prima, sostiene Studer, “le atmosfere magico-oniriche e gli scenari naturali in cui sono immersi i personaggi condensano in maniera eccellente le tematiche della Volkskultur che il nazismo e la visione nazionalistica hitleriana esalteranno negli anni successivi”. Si tratta dell’unico film di fiction; a questo seguono opere di carattere documentario commissionate direttamente dal regime a fini propagandistici. Vittoria della fede (Der Sieg des Glaubens. Der Film von Reichsparteitag der NSDAP, 1933), nonostante il successo di pubblico, viene fatto sparire perché in diverse scene, al fianco di Hitler, compare Ernst Röhm, capo delle SA, che poi verrà ucciso nel giugno del 1934 durante la Notte dei lunghi coltelli. Nella seconda opera documentaria, Il trionfo della volontà (Triumph des Willens, 1935), tutto sembra ormai “funzionale alla rappresentazione filmica della nuova liturgia nazista” e, stilisticamente, risulta caratterizzato dalla presenza ossessiva della geometria, probabilmente di ispirazione ruttmanniana, in una vera e propria celebrazione della precisione e del rigore delle sfilate e della gestione delle masse. A testimonianza della potenza espressa dalle modalità utilizzate dalla cineasta tedesca, Studer sottolinea come a questa si rifacciano palesemente, nelle inquadrature e nei movimenti di macchina, diverse opere hollywoodiane, anche recenti. Ne Il trionfo della volontà, la cineasta si rivela particolarmente capace nel dare immagine all’idea di “comunità organica” strettamente subordinata a un capo. La realizzazione successiva, Giornata della libertà! La nostra Whermacht! (Tag der Freiheit! – Unsere Whermacht, 1935), dedicata alle parate militari riprese durante il Congresso Nazionalsocialista di Norimberga del settembre 1935, rappresenta la celebrazione dell’efficienza delle macchine da guerra della Whermacht. L’elogio della “tecnologia della velocità” intende promuovere il concetto di Blitzkrieg. Forte di queste premesse cinematografiche la Riefensthal inizia a lavorare al lungometraggio che intende celebrare quelle che passeranno alla storia come le “Olimpiadi dei nazisti” del 1936 e, con esse, nuovamente, il regime hitleriano.

L’opera Olympia deve essere collocata all’interno dello sforzo compiuto dal III Reich di sfruttare l’occasione dell’olimpiadi berlinesi, ottenute nel 1931, prima dell’avvento di Hitler al potere, per mostrare le capacità organizzative del regime sia ad uso interno, in termini autocelebrativi, che ad uso propagandistico esterno. Per tale motivo l’investimento economico-organizzativo per la realizzazione dei giochi olimpici e della relativa celebrazione audiovisiva dell’evento è esorbitante. Nelle vicinanze del monumentale nuovo impianto dell’Olympiastadion da centomila posti, viene individuato un castello come quartier generale in grado di alloggiare ben centoventi posti letto per la troupe addetta al documentario. Alla Riefensthal viene concessa un macchinario in grado di sviluppare e stampare 1200 metri di pellicola all’ora al fine di far fronte ad un progetto di riprese che prevede 15.000 metri di riprese quotidiane. Ben prima dell’inizio dei giochi, gli operatori iniziano ad esercitarsi ed a provare i macchinari costruiti appositamente, come cinecamere in grado di seguire lateralmente ed a velocità variabile le corse, cineprese insonorizzate per non infastidire gli atleti e persino a tenuta stagna per le riprese sott’acqua. Vengono anche scelte, direttamente dalla regista, le pellicole per le diverse riprese in base alle caratteristiche in termini di resa fotografica: Pellicole Kodak per i volti degli spettatori, Agfa per architetture marmoree e Petruz per i soggetti con gli sfondi verdi. Nulla viene lasciato al caso anche se, nei giorni delle gare, i problemi non mancano.

olympia 11La prima parte di Olympia (Fest der Völker) prende il via con un prologo realizzato dal regista sperimentale Willy Otto Zielke, vero e proprio genio della fotografia in movimento, come dimostrato da un suo precedente film girato per le ferrovie tedesche, vero e proprio inno al mondo delle machine e del lavoro operaio (film poi proibito per l’eccessivo sperimentalismo, oltre che per la mancanza di celebrazione del nazionalsocialismo). Il prologo di Zielke viene girato in buona parte in Grecia, culla delle olimpiadi antiche e le prime immagini insistono sulle nuvole che, diradandosi, lasciano il posto, tramite una dissolvenza, alle rovine dei templi antichi. Dunque si passa a statue greche e via via agli atleti in carne ed ossa che riprendono le gesta dei marmi. Le caratteristiche stilistiche dei quindici minuti d’apertura di Zielke, sono ben analizzati dal saggio, in particolare si descrive la sua abilità nell’uso delle dissolvenze incrociate e nel rendere un effetto dinamico alle statue attraverso sapienti movimenti di macchina e di luce, oltre che al ricorso al “principio ėjzenštejniano del conflitto” ed al montaggio ellittico.

Una volta iniziati i giochi berlinesi, la Riefensthal inizia a ricorrere a riprese dai punti di vista insoliti; nel salto in alto, ad esempio, parte delle riprese vengono effettuate da buche interrate. Spesso si ricorre a riprese slow motion “in grado di esaltare il gesto atletico e le capacità espressive del cinema”, oltre che di dilatare il tempo del racconto permettendo all’osservatore di indagare i dettagli del gesto atletico. Altro elemento di sicuro effetto, ripetuto più volte, nel corso del lungometraggio, è dato dalla ripresa delle ombre degli atleti. Molto contenuta risulta la cronaca della gara del commentatore che si limita a presentare i nomi degli atleti, la nazionalità ed il risultato conseguito in termini numerici. Quel che interessa alla cineasta è “filmare e montare la gara in modo da cogliere gli elementi più spettacolari della disciplina, soprattutto mediante inquadrature che esaltino i corpi in movimento e i volti che esprimono la tensione agonistica e lo sforzo fisico”. Particolarmente interessante l’analisi della maratona che chiude la prima parte dell’opera, Festa dei popoli, dedicata alle gara d’atletica.

olympia099La seconda parte del documentario, Apoteosi di Olympia (così nella versione italiana, anche se la traduzione letterale del titolo tedesco Fest der Schönheit sarebbe Festa della bellezza) è dedicata alle discipline più moderne e popolari come la ginnastica, la vela, la scherma, il pugilato e sport d’acqua. Anche la seconda parte di Olympia ha un prologo che, secondo Studer, “racchiude una perfetta sintesi di quanto è stato definito ‘ideologia völkisch’”, dalle immagini di una natura che pare incantata, fuori dal tempo, “radice mitica del Volk”, sbucano gli atleti che si stanno allenando. Con le immagini dell’armonia della ginnastica artistica prendono il via le varie gare; corpo libero, cavallo con maniglie, anelli parallele simmetriche ecc. Interessante il passaggio dagli spazi aperti e luminosi della gara di vela (con macchine da presa collocate su imbarcazioni che seguono le gare) e lo stacco, attraverso dissolvenza nera in chiusura, che porta nel buio dell’ambiente della gara di sciabola ove, nuovamente, parte della gara è mostrata attraverso le riprese delle ombre. Le gare dei tuffi rappresentano, forse, il pezzo forte della seconda parte del lungometraggio. Qua i punti di osservazione degli atleti diventano sempre più insoliti, tanto che le riprese “mettono in evidenza una prospettiva di visione che strabilia lo spettatore cinematografico perché lo mette in condizione di vedere un gesto atletico come mai nessuno è riuscito a fare, nemmeno durante l’effettivo svolgimento della gara nella piscina olimpica di Berlino”. I tuffi maschili, grazie al cielo plumbeo da cui compare qualche bagliore di sole, sono ripresi quasi in controluce tanto che gli atleti si trasformano in piccole sagome nere che volteggiano nell’aria con geometrie armoniose e perfette. “La gara dei tuffi diventa, grazie alla tecnica e alla sua capacità moderna di manipolare il reale, una rappresentazione, inspiegabile, di come sia possibile sospendere o infrangere le leggi fisiche del movimento: lo spettatore, infatti, non assiste mai in questo sintagma alla conclusione del tuffo e nessun atleta viene ripreso mentre penetra l’acqua della piscina”.

olympia 15Il film ottiene un grande successo europeo e viene premiato con la Coppa Mussolini alla Mostra del cinema di Venezia del 1938. Il Ministero della Propaganda stanzia una cifra considerevole per inviare la Riefensthal, tra il novembre del 1938 ed il gennaio del 1939, negli Stati Uniti per procedere ad una sorta di tour promozionale di Olympia. L’obiettivo del viaggio non è, ancor oggi, del tutto chiaro; la regista viene infatti fatta viaggiare sotto pseudonimo, in un paese in cui il sentimento antinazista blocca sul nascere la possibilità di ottenere la distribuzione nelle sale. Il tour potrebbe rispondere alla necessità di mostrare al paese che esercita, grazie al sistema hollywoodiano, una sorta di egemonia culturale anche in ambito europeo, un potente esempio di cultura tedesca, in grado di essere competitiva anche in terra americana. In altri termini, più che ad ambire ad una, decisamente improbabile, se non impossibile, distribuzione americana, l’obbiettivo vero può avere a che fare con il desiderio di mostrare, almeno agli ambienti hollywoodiani, la potenza di fuoco tedesca in termini audiovisivi. La questione di quanto, a prescindere da caso Olympia, la cultura popolare americana sia stata influenzata dalla cultura tedesca non è di poco conto. Quanto “germanesimo nascosto”, per dirla con Quaresima, è presente in moti aspetti della cultura occidentale contemporanea? E, soprattutto, verrebbe da aggiungere, quanto nazismo è presente nell’occidente contemporaneo?

 

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