Old Trafford – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Linee di fuga. La scia di zolfo del sublime Éric Cantona https://www.carmillaonline.com/2018/02/13/la-scia-zolfo-del-sublime-eric-cantona/ Mon, 12 Feb 2018 23:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43597 di Gioacchino Toni

Je so’ pazzo je so’ pazzo / e vogl’essere chi vogl’io / ascite fora d’a casa mia / je so’ pazzo je so’ pazzo / c’ho il popolo che mi aspetta / e scusate vado di fretta / non mi date sempre ragione / io lo so che sono un errore / nella vita voglio vivere / almeno un giorno da leone / e lo Stato questa volta / non mi deve condannare / pecché so’ pazzo / je so’ pazzo / e oggi voglio parlare (Pino Daniele)

L’11 maggio del 1997 si è vista in campo per [...]]]> di Gioacchino Toni

Je so’ pazzo je so’ pazzo / e vogl’essere chi vogl’io / ascite fora d’a casa mia / je so’ pazzo je so’ pazzo / c’ho il popolo che mi aspetta / e scusate vado di fretta / non mi date sempre ragione / io lo so che sono un errore / nella vita voglio vivere / almeno un giorno da leone / e lo Stato questa volta / non mi deve condannare / pecché so’ pazzo / je so’ pazzo / e oggi voglio parlare (Pino Daniele)

L’11 maggio del 1997 si è vista in campo per l’ultima volta la maglia numero 7 del Manchester United recante sulla schiena il nome di Cantona. Quel giorno un groppo alla gola si è diffuso non soltanto sugli spalti dell’Old Trafford ma anche tra molti appassionati di calcio che, indipendentemente dalla maglia tifata, hanno avuto la fortuna di assistere alle gesta di Éric Daniel Pierre Cantona e non importa se da avversario. Se le scarpette del francese alla fine della partita giocata contro il West Ham in quel giorno di maggio hanno smesso di dare spettacolo, l’aura di Cantona è sopravvissuta e se i supporter dello United, che hanno visto indossare la maglia rossa da leggende del calcio del calibro di Best, Law e Charlton, lo hanno eletto “calciatore del secolo” deve esserci qualcosa di speciale in quello scontroso calciatore nato nel 1966 a Les Caillols, un sobborgo di Marsiglia, da madre catalana e padre sardo.

Per certi versi Cantona è stato uno degli ultimi grandi personaggi di un calcio ormai avviato a trasformarsi da sport popolare affogato tra le pietre rosse delle abitazioni e dei pub nel borgo di Trafford, nella Greater Manchester, a spettacolo televisivo diffuso dalle parabole a livello mondiale. A questo artista del calcio che non disdegna di cimentarsi con la pittura e con il cinema, il giornalista francese Philippe Auclair dedica il monumentale libro Cantona. Il ribelle che volle diventare re, pubblicato nel 2017 in italiano dall’editore Le Milieu.

Éric Cantona è qualcosa in più di un semplice calciatore: è un’anima inquieta che vive il calcio come un’arte tra le altre, come uno strumento con cui esprimere la sensibilità e la follia che fanno parte dell’uomo e che non dovrebbero mai essere soffocate. Così si esprime Cantona in un’intervista rilasciata alla rivista «France Football» nell’autunno del 1987: «Ho bisogno di avere reazioni folli per essere felice – e anche per rendere in campo. Devi avere la forza per essere pazzo. Non sul momento, quando la sincerità è fondamentale, ma dopo, per reclamare la propria originalità. Il calcio non accetta le differenze, ed è questo l’aspetto che più mi delude. I giocatori sono troppo banali. Sono macchine costruite per giocare, non hanno il diritto di pensare con la propria testa. […] Sono troppo deluso dall’ambiente del calcio. La gente che viene a vedere le partite non ha alcuna sensibilità, alcuna follia, nessuna capacità di pensare. È un contesto in cui non vivo la vita che vorrei vivere. Mi sto solamente avvicinando a un’altra vita, a un’altra vita che sto aspettando […] Il calcio è un’arte minore. A me interessa l’arte maggiore […] lo sanno tutti che dipingo. Ma ho altre passioni. Voglio vivere nella follia dell’artista creativo» (pp. 74-75). «C’è un confine sottile tra libertà e caos. Per certi versi, abbraccio l’idea dell’anarchia. Ciò che cerco realmente, è un’anarchia di pensiero, una liberazione della mente da tutte le convenzioni» (p. 267).

È sicuramente insolito trovare un calciatore che dichiara di essere attratto da figure di banditi che hanno scosso la Francia degli anni Settanta. «I nomi di Mesrine e Spaggiari per i francesi hanno una risonanza profonda e cupa. Erano entrambi famosi banditi degli anni Settanta, diventati eroi per alcuni settori della società per aver assalito in maniera audace i simboli dell’establishment borghese […]. Per loro, o almeno è ciò che affermavano, il crimine era anche un atto di rivolta, un discorso morale e politico che, per certi versi, li portava al di là dei confini stabiliti tra bene e male. Spaggiari aveva qualche giustificazione per affermarlo. Fu l’autore di una delle rapine più sbalorditive di sempre, il furto di cinquanta milioni di franchi dalla Société Générale di Nizza del 1976, lasciando lo slogan “Sans armes, ni haine, ni violence” (senza armi, né odio, né violenza) su una cassaforte. Mesrine, che nella sua autobiografia di successo scritta in carcere (L’Istinto di morte) si vantava di aver commesso non meno di trentanove omicidi, incarnò una sorta di discutibile Robin Hood dei tempi moderni. Dopo un’inverosimile fuga da una stanza per gli interrogatori, Spaggiari passò alla macchia gli ultimi dodici anni della sua vita, prima di morire in Italia per un tumore alla gola. Mesrine, un delinquente dotato di grande carisma che, col sigaro tra le labbra, offrì dello champagne al poliziotto che aveva rintracciato il suo nascondiglio, morì trivellato da una pioggia di proiettili nel 1979, con delle granate a mano e delle armi automatiche ai suoi piedi. Sarebbe facile pensare che il riferimento di Cantona a quei famosi criminali fosse legato alle convenzioni nella società francese – ricordo i nomi di Spaggiari e Mesrine venire citati con una certa ammirazione a cena nella mia famiglia al tempo delle loro imprese – ma, oltre a tradire un’identificazione con l’avventuriero dissidente, la cosa rivelava anche un nichilismo politico che per più di un secolo è stato una costante tentazione per gli individualisti. L’inclinazione politica di Éric non può essere definita secondo la classica dicotomia destra-sinistra. […] Ciò che univa Mesrine e Spaggiari – e che deve aver sedotto Cantona – era il rifiuto dell’autorità, qualunque essa fosse. Éric non si è mai schierato con nessun partito, ma era piuttosto felice di alzarsi in piedi e rispondere quando veniva chiamato in causa (dagli amici o dalle circostanze) a esprimersi contro i politici o le idee che odiava. Il “sistema”. Il razzismo. Gli errori giudiziari (a un certo punto ha manifestato il suo sostegno al pastore corso Yvan Colonna, condannato per l’uccisione del prefetto Érignac). È lui […] ad aver dichiarato in diretta alla televisione: “Napoleone è osannato, anche se ha restaurato la schiavitù. Un gigante, mentre invece era un nano che oggi è stato rimpiazzato da un Le Pen con indosso una maschera: Sarkozy”. Rileggendo alcuni passaggi delle memorie di Mesrine, mi sono imbattuto in questa frase: “Se vivete nell’ombra, non vi avvicinerete mai al sole”. E ho pensato che avrebbe potuto essere di Cantona. La sfrontatezza di quell’affermazione, senza fioriture, mi ha ricordato molte delle massime date in pasto ai giornalisti quando era una giovane promessa ad Auxerre: mostrando teatralmente la sua inclinazione per la verità e rivelando tuttavia un desiderio e un bisogno di essere visto come un révolté, una parola di cui non riesco a trovare un corrispondente in inglese. Un “ribelle” forse, ma la cui ribellione deriva da un’innata sete di giustizia, che sa di non poter placare» (p. 265).

Philippe Auclair ricostruisce la vita di “King Éric”, come ancora oggi viene definito dai supporter dei red devils, vistando i luoghi in cui ha vissuto e intervistando più di duecento testimoni delle sue gesta dentro e fuori il rettangolo verde, dai primi allenatori ai compagni di squadra. Insofferente all’autorità, in campo e fuori, estroso e imprevedibile, Cantona brucia velocemente le tappe calpestando i campi francesi di Auxerre, Marsiglia, Bordeaux, Montpellier e Nîmes per poi attraversare la Manica e passare da Leeds fino a calcare, da assoluto protagonista, il palcoscenico dell’Old Trafford di Manchester.

Il libro, che si apre con un affresco della natia periferia meticcia marsigliese, non manca di mettere in luce aspetti di Cantona che il mondo pallonaro considera semplicemente vezzi stravaganti di chi intende essere originale a tutti i costi, come nel caso della passione per la pittura di Éric, passione che nel rude ambiente calcistico gli procura più di qualche presa in giro. «Un calciatore che dipinge? Che ridere, un’assurdità. Nell’universo machista del calcio, e in particolare di quello inglese, tra i motivi di ostracismo, un’inclinazione artistica, specie se un’inclinazione genuina come quella di Cantona, si classifica appena dopo l’omosessualità. Per i suoi nemici, il suo interesse per l’arte non era altro che l’ennesima prova della sua insopportabile arroganza. “Dipingo” significava: “Sono migliore di voi”. Il che voleva dire conoscere davvero poco l’uomo (cosa che sarebbe accaduta spesso). La vanità non c’entrava nulla in quel bisogno di introspezione» (pp. 29-30). «L’idea che le persone hanno di me non mi interessa. Quando sono sulla passerella di Paco Rabanne, per esempio, non bisogna andare a cercare un altro motivo, sto soltanto dando piacere al mio corpo. La cosa più importante è sentirsi a proprio agio con il proprio corpo, senza barare. Posare per un grande fotografo è un piacere egoistico – ma nella vita non c’è nulla di innocente. “Tout est égoïsme”» (p. 223).

Il primo contratto professionistico Cantona lo firma con l’Auxerre ed i buoni risultati conseguiti lo portano presto allo Stade Vélodrome del suo Olympique Marsiglia ove però, anche a causa del suo difficile carattere, non ottiene i risultati sperati e finisce col vestire a fasi alterne le maglie del Bordeaux, del Montpellier e del Nîmes. Risse e liti furibonde con i compagni di squadra e con gli arbitri, feroci critiche nei confronti del ct della Nazionale francese finiscono per procurargli diversi grattacapi a cui reagisce con la solita sbruffoneria.
Il 7 dicembre del 1991 nel corso della partita del Nîmes con il Saint-Étienne, all’ennesimo fallo subito e non fischiato, Cantona mette in scena uno dei suoi memorabili coup de théâtre: tira il pallone contro l’arbitro e si avvia direttamente verso gli spogliatoi senza girarsi verso il malcapitato che sventola goffamente al suo indirizzo un cartellino rosso. Alla commissione disciplinare Cantona si dice pronto a pagare il conto in termini di squalifica ma chiede di essere trattato come qualsiasi altro calciatore. Ma Cantona non è un giocatore come gli altri, perdio! «Non la possiamo giudicare come qualunque altro giocatore. Quando passa, lascia sempre una scia di zolfo. Da gente come lei ci si può aspettare di tutto» (p. 128). Così si esprime il presidente della disciplinare. La reazione di Cantona? Passa in rassegna uno ad uno i membri della commissione ripetendo a ciascuno un unico secco e inequivocabile termine: «Idiot!», guadagnando così altri due mesi di squalifica oltre alle quattro gare di sospensione appena ricevute. Un suicidio, calcisticamente parlando. Anzi, un primo suicidio calcistico, perché il nostro si suiciderà, sempre calcisticamente parlando, una seconda volta.

Il clima in Francia si è fatto pesante per lui, dunque capisce che forse è meglio cambiare aria e decide di trasferirsi nel West Yorkshire, al mitico Elland Road del Leeds United, lo stadio indicato da Alex Ferguson come il più intimidatorio sui cui abbia mai giocato o allenato. Nel ricostruire la situazione del calcio inglese nel momento in cui il giovane marsigliese mette piede a Leeds il giornalista Philippe Auclair scrive: «Il bando dalle competizioni europee post Heysel aveva spinto il calcio ad accartocciarsi sulla sua parte peggiore, un perverso miscuglio di paura – degli altri, degli stranieri, degli eccentrici – e di glorificazione delle virtù “virili” nelle quali un osservatore imparziale poteva vedere solo rozzezza e brutalità. Lo spettacolo in campo rifletteva quanto accadeva sulle tribune. Il calcio tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta offriva uno spettacolo scialbo, e a volte violento. C’era un’abbondanza di centrocampisti con un piede solo che correvano da un’area all’altra del rettangolo di gioco, capaci solo di sgobbare, contrastare e fare lanci lunghi. Quasi tutte le squadre annoveravano il cosiddetto centravanti “tipico” o “vecchia maniera”, tutto colpi di testa e gomitate. Alcuni erano buoni professionisti […]. Ma molti altri erano solo bulli che sul Continente sarebbero stati espulsi su due piedi. I difensori centrali scaraventavano i palloni lontano dalla zona pericolosa con la benedizione dei propri allenatori. Correvano tutti a cento all’ora, inzuppando le maglie con un sudore onesto, dando calci, ricevendone, sacrificando il loro eventuale talento nell’incessante ricerca della vittoria […] Nel corso degli otto anni intercorsi tra la carneficina dell’Heysel e il primo titolo del Manchester United dal 1967, il calcio inglese diede l’impressione di essere giocato nel cuore dell’inverno, su campi spazzati dal vento e infangati per la pioggia. Poteva avere ancora un certo fascino per gli habitué del sabato, che però erano sempre meno numerosi, malgrado i prezzi popolari dei biglietti, e non solo perché i tifosi cosiddetti normali volevano evitare problemi. L’hooliganismo era il sintomo, e non per forza una causa, di quel triste declino» (pp. 164-165).

Per certi versi, sostiene Auclair, la fortuna di Cantona è quella di giungere in Inghilterra proprio in un momento in cui il calcio locale è l’opposto del suo gioco votato al “beau geste”: in caso di fallimento la colpa potrebbe facilmente essere fatta cadere sull’incompatibilità tra le due filosofie calcistiche, in caso di successo, invece, il merito andrebbe tutto al calciatore capace di imporsi nonostante tutto e tutti. Le differenze tra le due modalità di vivere il calcio sono ben spiegate dall’autore del libro a partire da alcune espressioni calcistiche francesi che non hanno un corrispettivo immediato inglese. «Il primo problema lo riscontrai cercando l’equivalente di l’amour du geste, un espressione che Éric ha sempre amato usare. “Geste” non ha un equivalente in inglese, a meno che non si decida di prendere per buono “gesto tecnico”, a cui manca però la nobiltà (forse eccessiva) del sostantivo francese, la cui storia semantica racchiude al tempo stesso la finzione e la letteratura cavalleresca (che in Francia chiamiamo chanson de geste – Cantona nei panni di Lancillotto, ecco una bella idea per un film). I britannici avevano “noce moscata” per pétit pont (piccolo tunnel, un’espressione che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni) ma niente per grand pont, che in Francia usiamo quando un giocatore aggira l’avversario toccando il pallone da una parte e lanciandosi dall’altra per recuperarlo dopo averlo superato. Tutto il resto lo chiamavano tocco. Non ho mai trovato nulla che assomigliasse a “aile de pigeon” (ala di piccione, ovviamente), una meravigliosa scorciatoia semantica per uno dei “gestes” più eleganti nel calcio: il colpo di tacco volante, con cui ci si porta avanti la palla, dopo averla ricevuta troppo arretrata, o si serve un compagno. Noi abbiamo anche il “madjer”, dal giocatore marocchino Rabah Madjer, per descrivere un gesto simile usato per segnare una rete. E il “coup du sombrero”, una specialità di Patrick Vieira, con cui il pallone, di solito subito dopo lo stop, viene fatto passare sopra la testa dell’avversario e poi recuperato. Per trovarne un esempio calzante, guardate il capolavoro di Cantona con la maglia del Leeds contro il Chelsea verso la fine della stagione 1991-1992, quando il malcapitato Paul Elliot fece – due volte di seguito – una perfetta imitazione dell’attaccapanni. O Paul Gascoigne che irride Colin Hendry prima di mettere a segno una delle sue reti più belle in nazionale a Wembley. Esistono numerose altre parole del genere, di cui “feuille morte” – la foglia morta, ossia un tiro, di solito su punizione, calciato con pochissima forza e che, grazie alla sua precisione e all’effetto sorpresa, cade lentamente sotto l’incrocio dei pali ingannando il portiere – e il “coup du foulard” – la rabona – sono soltanto due dei più noti nel mio paese. Anche per un gesto elementare come una “déviation” in Inghilterra si utilizza sempre il termine “tocco”. Ciò che mi sorprende di più è che questi “pezzi di bravura” non vengono da un pianeta sconosciuto ai giocatori britannici. Facevano tutti parte del repertorio di George Best, di Robin Friday e Chris Waddle. […] Il fatto sorprendente è che gli inglesi non hanno mai creato un vocabolario che permettesse loro di riferirsi (in allenamento, nei resoconti sulle partite o nei discorsi da pub) ad alcune delle manifestazioni più armoniose e a volte più efficaci del talento di un calciatore su un terreno di gioco. Forse perché quei tocchi fantasiosi erano e sono tuttora considerati sleali? O perché erano troppo arroganti e andavano contro il vero spirito del gioco?» (pp. 220-221).

Tornando alla permanenza di Cantona a Leeds, seppur breve è sufficiente per vederlo fare le valige dopo essere stato tra i protagonisti della stagione della vittoria del titolo del 1992 e aver rifilato una storica tripletta al Liverpool nella vittoria per 4 a 3 nel Charity Shield. Alla notizia del suo addio alla squadra il centralino del «Post» di Leeds è sommerso da 1337 telefonate di tifosi e ben 1065 di questi sono infuriati per la sua cessione, si sentono traditi dalla sua partenza in direzione di un club odiato ma diversi personaggi che gravitano attorno al club della città del West Yorkshire tirano un sospiro di sollievo per essersi liberati di un personaggio ingombrante, arrogante e, per di più, francese. Il tradimento è una brutta bestia nel calcio e in un istante l’adulazione degli spalti dell’Elland Road per Cantona si trasforma in odio. Nel frattempo a livello di nazionale francese gli europei del 1992, poi vinti dalla Danimarca, sono un disastro: nonostante la qualità dei giocatori la Francia esce malconcia dalla competizione e l’apporto di Cantona si rivela inconsistente. Le valige chiuse a Leeds vengono riaperte nella città di Manchester ove il calciatore approda allo United di Alex Ferguson ed è lì che il calciatore si consacra come leggenda. «Se è mai esistito sulla terra un giocatore perfetto per il Manchester United, quello era Cantona. Penso che per tutta la vita avesse cercato qualcuno che lo guardasse e lo facesse sentire a casa. Aveva viaggiato molto: alcune persone hanno una certa tendenza al nomadismo. Ma quando è arrivato qui, lo ha capito immediatamente: questa è casa mia» Alex Ferguson (p. 200).

Le clip che si trovano in internet e che pretendono in pochi minuti di mostrare l’amour du geste messo in scena da Cantona con la maglia del Manchester United offrono soltanto una pallida idea di quello che i tifosi hanno vissuto in diretta sugli spalti e che ad libitum si sono raccontati tra una pinta e l’altra nei pub. Il 25 gennaio del 1995 “King Éric”, calcisticamente parlando, si suicida una seconda volta: espulso, nell’abbandonare il terreno di gioco sferra uno sciagurato colpo di kung-fu nei confronti di un tifoso del Crystal Palace in vena di insulti. Questa follia costa al giocatore nove mesi di squalifica. Alla conferenza stampa, sotto agli occhi di decine di macchine fotografiche e di telecamere Cantona non trova di meglio che affrontare quanto accaduto uscendosene con una frase destinata a restare nella storia: «Quando i gabbiani [sorso d’acqua] seguono un peschereccio [la “o” quasi impercettibile, allungandosi all’indietro, sorridendo e fermandosi un’altra volta], è perché pensano che [altra pausa] delle sardine stiano per essere gettate in [piccola esitazione] mare (un sorriso e un cenno col capo). Grazie, davvero» (p. 309). Le interpretazioni della stampa sportiva si sprecano, invano. «Il mio avvocato e i dirigenti volevano che parlassi. Così ho fatto. Non è stato niente di che, non voleva dire nulla. Avrei potuto dire: “Le tende sono rosa ma mi piacciono lo stesso”» (p. 309). Il primo di ottobre 1995 Cantona torna in campo contro il Liverpool e fino all’11 maggio del 1997 torna a deliziare i tifosi con l’amour du geste.

Successivamente la storia diventa altra, o forse no. Tra mille contraddizioni l’inquietudine di Cantona continua a conquistare il palcoscenico, tra campagne per far crollare il sistema bancario, redditizie pubblicità per multinazionali e partecipazioni cinematografiche. Tra tutto ciò occorre almeno ricordare l’uscita nel 2009 del film Looking for Eric (Il mio amico Eric) diretto da Ken Loach, tratto da un’idea dello stesso Cantona con sceneggiatura di Paul Laverty.

 

 


Linee di fuga: serie completa

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Eroi dello sport https://www.carmillaonline.com/2016/06/13/30867/ Mon, 13 Jun 2016 21:30:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30867 di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano [...]]]> di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano Bonetta, Sergio Giuntini, Daniele Marchesini.

Marchesini ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Parma e da molti anni si dedica all’analisi dello sport come fenomeno sociale e culturale, indagando svariati temi (Coppi e Bartali, le Mille Miglia, il Giro d’Italia, il ruolo dello sport nella formazione di un’identità nazionale, la relazione tra sport e totalitarismi). Il saggio più recente di Marchesini è uscito in una collana del Mulino, diretta da Carlo Galli, dedicata al tema dell’eroe in diversi ambiti e discipline.

Nelle prime pagine del volume Eroi dello sport Marchesini definisce l’oggetto della sua ricerca distinguendo tra il campione e l’eroe. Entrambi si caratterizzano per l’assoluta eccellenza delle loro prestazioni che suscitano ammirazione, ma questo non basta per fare di un campione un eroe. Oltre alle numerose promesse mancate, anche grandi protagonisti dello sport – come Indurain nel ciclismo o Phelps nel nuoto – pur accumulando vittorie e medaglie si sono fermati prima della soglia che si apre sullo spazio dell’eroismo sportivo. A differenza dei campioni, gli eroi sportivi assumono una rilevanza che esula dall’originario ambito di appartenenza, entrano nella memoria collettiva, ispirano ideali, rispecchiano valori e attese, costituiscono riferimenti culturali.
D’altronde, si può diventare eroi senza essere vincitori, come nel caso di Dorando Pietri. Il maratoneta carpigiano nel 1908 taglia per primo il traguardo nella gara dei giochi olimpici di Londra ma “perde la vittoria” (sono parole dello stesso Pietri, squalificato a causa dell’aiuto di medici, giudici e assistenti che lo sostengono in prossimità dell’arrivo). Tuttavia mentre Hayes, il vincitore della maratona, cade nell’anonimato, lo sconfitto Pietri “vince” sul piano dell’immaginario collettivo grazie alla trasfigurazione mitica dell’evento. La dimensione dell’eroe è infatti quella del mito, cioè di un sistema di comunicazione «definito non tanto dal suo oggetto, quanto dal modo in cui lo si costruisce e lo si trasmette» (p. 230).

pietriDeterminante nella costruzione dell’eroe sportivo è anzitutto la presenza di un pubblico che segue con grande passione le prodezze del campione e instaura una relazione stabile e fiduciaria con lui, identificandosi con le vicende che, nel bene e nel male, in campo sportivo e extrasportivo, punteggiano la sua carriera e la sua vita. L’eroicizzazione implica inoltre la presenza di un “cantore” capace di narrare le imprese del campione. Nel caso di Pietri è Arthur Conan Doyle – appassionato di sport e presente all’evento come cronista del “Daily Mail” – a celebrare la vicenda in un articolo che rappresenta il corrispettivo scritto della celebre immagine del maratoneta barcollante e distrutto dalla fatica: «Avvenne allora una cosa meravigliosa. Col viso d’un morto, Dorando si rialza, barcolla, le gambe riprendono lo strano incedere automatico: ricadrà? No. Oscilla, tentenna un istante, ed eccolo tagliare il traguardo, raccolto da venti braccia amiche! E’ arrivato all’estremo limite delle forze umane! Mai alcun romano dei primi giorni gloriosi si comportò meglio di Dorando alle Olimpiadi del 1908» (p. 233). Con il suo articolo, il creatore di Scherlock Holmes perfeziona e universalizza l’eroicizzazione di Pietri, trasformandolo in una celebrità mondiale ingaggiata, e profumatamente pagata, per le sue esibizioni in Europa e in America. I maggiori giornali scrivono di lui, il personaggio è acclamato ovunque e il pubblico accorre per vederlo in azione.

Passando in rassegna numerose esperienze sportive, Marchesini analizza gli aspetti culturali, i registri espressivi e i codici comunicativi che alimentano le retoriche della mitografia sportiva, in relazione ai contesti politici e sociali, alle dinamiche specifiche degli sport, al loro carattere individuale o collettivo, alle modalità della loro narrazione.
Un capitolo del saggio è dedicato al mondo classico, nel quale lo sport assume già una dimensione strutturata e caratteri tipici dei fenomeni sportivi moderni (professionismo, tifo, ideologia atletica, celebrazione dei vincitori ecc.). L’attenzione è rivolta però prevalentemente alla contemporaneità in quanto è la società di massa a favorire il radicamento, la diffusione e la spettacolarizzazione del fenomeno sportivo, in un processo di «familiarizzazione» (p. 8) che lo rende sempre più pervasivo e che si intreccia con la vita quotidiana, con la dimensione politica, le dinamiche sociali, la sfera economica.

Nel primo scorcio del Novecento, i temi che fondano la rappresentazione eroica di figure come Pietri, impegnate in corse di fondo che comportano grande sofferenza, e dell’epopea degli albori del ciclismo, lo sport allora più popolare, sono legati alla fatica e al coraggio, alla volontà di portare a compimento un impegno attingendo fino all’estremo della forze, al mito delle origini oscure, difficili, povere, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale. Al pubblico che segue il Giro d’Italia o la Grande Boucle, su strade sterrate in tappe impervie e interminabili, il ciclismo «appare come una variante della lotta per la vita che coinvolge la maggioranza dei lavoratori che, in quegli anni, faticano “da sole a sole” nelle campagne (cioè dall’alba al tramonto), 12-14 ore nelle fabbriche, sette giorni su sette la settimana, in attesa di un avvio di legislazione sociale che interviene solo al principio del Novecento a disciplinare i casi più clamorosi di sfruttamento selvaggio» (pp. 78-79).

coppi-bartaliNel secondo dopoguerra, sono Gino Bartali e Fausto Coppi ad incarnare nuovamente lo sport della fatica come metafora della ricostruzione dopo le tragedie del conflitto mondiale. La rivalità che si instaura tra i due ne accresce la popolarità e definisce i meccanismi di identificazione degli italiani in personaggi dalle caratteristiche opposte, tanto tecnicamente e caratterialmente quanto, almeno nella rappresentazione popolare alimentata dai mezzi di comunicazione, ideologicamente (il “pio” Bartali e il laico e “razionalista” Coppi).
In un contesto profondamente mutato – quello di un’Europa che sembra «appagata dai risultati di un benessere in continua espansione, che rende la bicicletta un oggetto antiquato» (p. 126) – occorrono altri ingredienti per costruire il mito. Se la grandezza di Coppi veniva esaltata con toni epici e favolistici dai radiocronisti e giornalisti dell’epoca (nel linguaggio sportivo prevaleva il campo metaforico del “volo” o della “regalità”, con espressioni come “dominare”, “librarsi”, “aquila”), le immagini utilizzate per descrivere Eddy Merckx – il ciclista in assoluto più vincente nella storia del suo sport: 445 vittorie tra il 1966 e il 1978 – esaltano invece la potenza atletica pura, con iperboli quali “mostro”, “robot”, “marziano”, «tendenti a suscitare ammirazione e sorpresa nell’ordine dei valori “tecnico-avveniristici”» (p. 126).
Anni dopo, sarà Marco Pantani a riproporre l’immagine del ciclista come eroe della fatica, refrattario alle tattiche, imprevedibile, capace di illuminare improvvisamente una gara con i suoi scatti improvvisi sulle montagne del Giro o del Tour.

Oltre al ciclismo, lo sport più popolare nella prima metà del Novecento è il pugilato. Progressivamente addomesticata nella sua originaria carica di violenza e caratterizzata da contenuti di grande raffinatezza tecnica, nell’immaginario collettivo la boxe rimane comunque prevalentemente legata alla «messinscena del corpo forte» (p. 95). Se nel ciclismo il corpo si espone senza nascondimenti sul “cavallo di ferro”, nella boxe il corpo dell’atleta viene portato in prima scena, in uno scontro da solo a solo. Definito da Albert Camus come «lo sport assolutamente manicheo», un rito che semplifica tutto, il bene e il male, il vincente e il perdente, il pugilato mantiene un seguito popolare sino agli anni Sessanta-Settanta, segnati in Italia dalle figure di Sandro Mazzinghi e Nino Benvenuti. Come ricorda Marchesini, il 17 aprile 1967 la sfida mondiale tra Benvenuti e Griffith al Madison Square Garden, titolo dei pesi medi in palio, fu trasmessa dalla RAI in diretta solo radiofonica «per non compromettere, a causa dei fusi orari, il sonno degli italiani e le loro capacità lavorative dell’indomani. Il miracolo economico da un po’ di tempo scricchiola e bisogna evitare di incentivare l’assenteismo in fabbrica e negli uffici. Nonostante le preoccupazioni educative e moralizzatrici della RAI monopolista, in più di 15 milioni quella notte puntano la sveglia e si alzano per ascoltare la radiocronaca del trionfo dell’italiano condotta da Paolo Valenti» (p. 98).
L’autore dedica ampio spazio anche alla figura di Cassius Clay, dai primi successi, all’adesione alla fede islamica, al rifiuto di arruolarsi nell’esercito e di partire per la guerra in Vietnam, sino all’incontro con Foreman per il titolo mondiale dei massimi: il 30 ottobre 1974 il pubblico che segue il match (60 mila persone) è tutto con lui «così come i neri di tutto il mondo, in una diretta televisiva che per l’epoca riuniva una platea infinita: 700 milioni di persone». All’ottavo round Muhammad Ali atterra Foreman e si conferma l’eroe non solo di uno sport che quel giorno «tocca vertici mai prima e mai più in seguito raggiunti di partecipazione emotiva, ma anche di ideali di libertà e giustizia» (pp. 219-220).

Quarant’anni prima, era stato il fascismo a utilizzare politicamente le potenzialità del pugilato, sfruttando l’immagine eroica di un altro peso massimo, il friulano Primo Carnera, «capace di sedurre affascinare eccitare il pubblico come una star del sistema divistico» (p. 159). Un capitolo del saggio di Marchesini è dedicato al rapporto tra lo sport e i regimi totalitari, i primi a cogliere le opportunità di controllo delle masse offerte dalla loro passione per lo sport. Il fascismo dà forma all’ideologia dell’“atletismo politico”: il coraggio, la lotta, la forza, l’agonismo sono valori che vengono piegati alla logica del regime e riassunti in una rappresentazione del corpo che mira alla definizione dell’“uomo nuovo” fascista. Oltre a Carnera, che esemplifica in modo evidente l’uso dello sport a fini propagandistici e di ricerca del consenso, altre figure che corrispondono alle aspettative del regime acquisiscono profili eroici: ciclisti come Bottecchia e Binda; Beccali, che trionfa nei 1.500 metri alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932; piloti come Nuvolari e Varzi; i calciatori guidati da Pozzo che conquistano il titolo mondiale nel 1934 e nel 1938.

jesse_owens_berlino_1936Anche la Germania nazista imbocca la strada della mistica sportiva. Ma all’esaltazione dello sport come arena nella quale dimostrare la potenza del regime e la superiorità della razza ariana, culminata nelle Olimpiadi di Berlino del 1936, tocca una micidiale eterogenesi dei fini: come è noto, a Berlino Jesse Owens – con le sue quattro medaglie d’oro – si afferma come “contro mito”, il “lampo d’ebano” che contraddice col suo stesso corpo, il colore della pelle e una straordinaria forza atletica i principi dell’ideologia hitleriana. Qualche anno dopo, al tempo dell’occupazione della Francia, il nazismo andrà incontro ad un altro inatteso fallimento nel tentativo di umiliare i francesi, oltre che sul piano militare, su quello della simbologia sportiva. Marchesini dedica pagine dense e appassionate alla vicenda del pugile Marcel Cerdan, un francese figlio di pieds-noir. Il 20 settembre 1942 i nazisti organizzano un incontro tra Cerdan e lo spagnolo Josè Ferrer, campione in carica dei welter: «Ferrer sale sul ring avvolto in una bandiera nazista e i suoi secondi indossano l’uniforme della gioventù franchista», «mentre i 16 mila spettatori, quasi in un mormorio, intonano la marsigliese nonostante la presenza di molti alti ufficiali nazisti a bordo ring»; Cerdan domina l’incontro e viene «acclamato come un liberatore dalla folla in delirio» (p. 102).

Nel campo opposto, l’Unione Sovietica non esprime in quegli anni una significativa mitologia sportiva, anche per la diffidenza diffusa nel movimento socialista, sin dalle origini, verso lo sport, considerato un fenomeno borghese, destinato a “distrarre” le masse e a ostacolare la loro presa di coscienza politica. Negli anni dello stalinismo è il lavoro che assurge a mito nella esemplificazione estrema di Stachanov e Marchesini coglie giustamente il nesso tra lo stachanovismo e l’interesse per lo sport manifestato nel dopoguerra dall’Urss e dai paesi satelliti. Attraverso Stachanov «si fa strada nell’immaginario collettivo sovietico l’idea che il primato in quanto tale è possibile e accettabile, se inserito nel progetto di educazione e formazione dello spirito pubblico nazionale, e se obbedisce al ruolo di dimostrazione dei risultati che il socialismo reale rende concreti a vantaggio della comunità». Dopo Stachanov e attraverso la guerra, «nel pantheon d’oltrecortina» il testimone passa dal campione del lavoro al campione dello sport: «tramonta lo stachanovismo ma si afferma il culto dell’individualità straordinaria» (p. 164). Un culto tanto più importante nel momento in cui l’Urss viene ammessa alle Olimpiadi (per la prima volta a Helsinki nel 1952) e deve quindi dimostrare, anche sul piano sportivo, di saper competere con il capitalismo. Gli eroi sportivi sovietici o di altri paesi dell’Est (come Zatopek, Brumel, Bubka, Borzov e molti altri delle discipline olimpiche, nominati da Marchesini, ai quali si dovrebbero aggiungere alcuni calciatori come Jascin) vincendo e stabilendo primati difendono la causa del proprio paese, secondo quanto teorizzato dai dirigenti del movimento sovietico.

Tommie Smith John CarlosMolti altri esempi di “eroismo sportivo”, descritti in modo puntuale da Marchesini, mostrano le diverse sfaccettature del fenomeno e dei personaggi che lo hanno incarnato.
Le olimpiadi sono il palcoscenico di imprese che danno vita a nuovi eroi. A Roma nel 1960 Livio Berruti è un ragazzo “normale” che nulla ha dell’eroe, ma si trova vincere in una contingenza particolare (l’Italia del miracolo economico) che consente la trasfigurazione mitica; Abebe Bikila, primo africano a vincere un oro olimpico, diventa simbolo del «riscatto da condizioni di povertà e di emarginazione» di un continente «più di ogni altro brutalmente saccheggiato» dal colonialismo (p. 91). Nel 1968 a Città del Messico, in un contesto infiammato dai movimenti di contestazione, sul podio dei 200 metri Tommie Smith e John Carlos levano il braccio col pugno guantato del Black Power, un gesto che denuncia le intollerabili condizioni in cui vivono gli afroamericani. Tuttavia, secondo Marchesini, sono “eroi perdenti”: sanzionati pesantemente dai vertici olimpici, subiscono l’oblio istituzionale e l’emarginazione in una «società disposta a garantire rispetto solo in cambio di successi sportivi e sottomissione all’ideologia dominante» (p. 217).

In alcuni casi, la dimensione eroica non è connessa alla forza ma all’estro e alla fragilità. In Brasile, il paese che ha fatto del calcio una religione laica, al mito di Pelè (il calciatore «”apollineo”, cioè perfetto, esemplare, da manuale») si contrappone quello di Garrincha, soprannominato «torto» o «zoppo» a causa del «bacino visibilmente deviato» e della «deformità delle ginocchia»: il suo calcio è «”dionisiaco”, sovrabbondante, tutto genio e sregolatezza», basato sul dribbling con il quale irride l’avversario grazie a una finta che sembra quasi favorita dal suo difetto fisico. Dopo una lunga decadenza «fatta di depressione, alcol, ostinazione a giocare ancora in squadre sempre meno titolate», la sua morte «è annunciata come la scomparsa della “gioia del popolo” (a alegria do povo), secondo il titolo del film girato nel 1962 su di lui […] da Jaquin Pedro de Andrade, uno dei capofila del cinema novo» (pp. 187-188).

Oltre alle individualità, nel saggio di Marchesini spicca la dimensione eroica collettiva legata in particolare ad alcuni sport, come il rugby (è il caso ad esempio degli All Blacks neozelandesi, capaci di suscitare una forma di riconoscimento collettivo che supera le barriere razziali) e il calcio, dal “Grande Torino” che, all’apice delle vittorie, va incontro alla tragedia a Superga nella notte del 4 maggio 1949 (per la tifoseria granata Superga rimane il tempio di una sorta di culto civile) alla squadra del Manchester United che precipita in aereo il 6 febbraio 1958 (non a caso Bobby Charlton, miracolosamente sopravvissuto all’incidente, diventerà l’eroe non solo dell’Old Trafford, lo stadio della squadra, ma dell’intero paese, guidando la nazionale inglese alla vittoria nei mondiali del 1966).

oldtrafford113In diverse pagine del saggio l’autore ritorna sul tema della morte precoce che contribuisce ad eternizzare la grandezza dell’eroe, evidente negli sport motoristici, in cui il rischio è più presente (si pensi a Ayrton Senna, idolo nazionale in Brasile e pilota più amato dagli appassionati di automobilismo), o nelle vicende di campioni del ciclismo come Coppi e Pantani e del calcio come George Best (l’anno dopo la sua morte, avvenuta nel 2005 in seguito a una cirrosi epatica per alcolismo, gli è intitolato l’aeroporto di Belfast e la sua immagine viene stampata su una serie limitata di banconote emessa dalla Ulster Bank). A non dimenticare i campioni morti servono stele, colonne votive, lapidi, busti che punteggiano le strade percorse o campeggiano nei luoghi che hanno conosciuto le loro vittorie. A questa “statuolatria”, come la definisce Marchesini, si accompagna la “stadiolatria” ovvero la rilevanza assunta nei contesti urbani del “monumentale sportivo”: stadi, piscine, palasport, villaggi degli atleti «sono i templi indispensabili all’eroicizzazione dell’atleta vincente, i luoghi sacri in cui celebrare i rituali del culto che ogni quattro anni trova nelle olimpiadi la sua massima espressione» (p. 8).

Attraverso queste ed altre storie si snoda il racconto di Marchesini che si apprezza per la qualità della scrittura, per i puntali ritratti di personaggi noti e di figure inconsuete (almeno per il lettore italiano, si veda tra l’altro il capitolo dedicato al cricket), per la ricchezza di riferimenti storici. Il taglio della ricerca, attenta agli intrecci tra la dimensione sportiva e quella sociale, tende a privilegiare figure assunte come modelli di identificazione collettiva con una funzione unificante di carattere nazionale. Si tratta di fenomeni di indubbia rilevanza, che lasciano però in ombra altri processi di “eroicizzazione” sportiva, costruiti e vissuti come modelli alternativi rispetto alle narrazioni condivise, o figure di “antieroi” riconducibili ad una dialettica con la dimensione epica dello sport, meritevoli di ulteriori approfondimenti. Anche sul ruolo delle donne, che secondo Marchesini in ambito sportivo raramente innescano dinamiche di identificazione e mitografie (tema discusso nel capitolo dedicato all’“eroismo al femminile”) rimangono aperti percorsi di ricerca in una prospettiva di genere.

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