Occidente – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Elogio dell’eccesso / 8 – L’atlante del dolore di William T. Vollmann https://www.carmillaonline.com/2025/04/23/elogio-delleccesso-7-latlante-del-dolore-di-william-t-vollmann/ Wed, 23 Apr 2025 19:20:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87979 di Sandro Moiso

Wulliam T. Vollmann, L’atlante, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 545, 20 euro

Alcune puttane lo fissarono immobili. Altre in stivaloni gli fecero ciao e gli fischiarono dietro allegramente. Andò da tre di loro e disse: Scusate, non ho più soldi, ma potrei baciare una di voi? Va bene, caro, disse una rossa. Ti bacio io. Succhiò un attimo la gomma da masticare, andò da lui, lo prese per la testa e gli sputò in faccia (W.T. Vollmann – Cinque notti solitarie. Berlino, Germania 1992)

Se c’è un tratto che colpisce nei maggiori autori nordamericani degli ultimi decenni [...]]]> di Sandro Moiso

Wulliam T. Vollmann, L’atlante, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 545, 20 euro

Alcune puttane lo fissarono immobili. Altre in stivaloni gli fecero ciao e gli fischiarono dietro allegramente. Andò da tre di loro e disse: Scusate, non ho più soldi, ma potrei baciare una di voi?
Va bene, caro, disse una rossa. Ti bacio io. Succhiò un attimo la gomma da masticare, andò da lui, lo prese per la testa e gli sputò in faccia (W.T. Vollmann – Cinque notti solitarie. Berlino, Germania 1992)

Se c’è un tratto che colpisce nei maggiori autori nordamericani degli ultimi decenni (Auster, De Lillo, Wallace, Pynchon) è sicuramente quello di aver indirizzato la loro letteratura verso una sorta di smaterializzazione, in cui la realtà è spesso rappresentata più da simboli che dalla concretezza dei fatti cui ci aveva abituato il realismo di tanti autori statunitensi precedenti.

Un risultato che sembra dovuto, più che alle riflessioni sulla “leggerezza” contenute nelle Lezioni americane di Italo Calvino1, all’inevitabile influenza culturale esercitata sulla stessa letteratura dal processo, avvenuto in Occidente nel corso degli ultimi quattro decenni in ambito economico e produttivo, che ha portato al trionfo della produzione immateriale su quella concretamente industriale e del capitale fittizio su quello investito nella produzione industriale di beni materiali.

Una sorta di guerra che vede simbolicamente, ma non soltanto, scontrarsi, da un lato, la “volatilità” finanziaria dei giganti del NASDAQ2 e, dall’altro, l’industria manifatturiera che l’attuale presidente statunitense sta cercando di riportare, non senza difficoltà, negli Stati Uniti, insieme al lavoro, da anni in caduta libera nel settore un tempo sviluppatosi in quella che oggi viene ancora definita Rust Belt.

Una “guerra” in cui lo scrittore e saggista americano William T. Vollman sembra aver scelto di schierarsi dalla parte della Rust Belt, non tanto per il contenuto dei suoi scritti, quanto piuttosto per essersi messo, fin dalle sue prime opere, sulle tracce della concretezza del mondo, convinto che dovesse ancora esistere e che ha saputo ritrovare in ogni occasione possibile. Seguendo percorsi allo stesso tempo simili eppure molto diversi da quelli di Hemingway, Faulkner, Dos Passos, Steinbeck e dello stesso Kerouac, i cui viaggi on the road rappresentavano una scusa per incontrare le varietà di una società sospesa tra il benessere del dopoguerra e il desiderio di fuggirlo.

Occorre partire da Kerouac, infatti, per comprendere i viaggi, spesso pericolosi, intrapresi da Vollmann in ogni angolo degli Stati Uniti e del mondo: da San Francsco a New York e dal Madagascar all’Afghanstan fino alla Thailandia e alla Cambogia. A differenza del più significativo scrittore della beat generation, però, i suoi viaggi non avvengono solo nel tempo sincronico del presente della sua scrittura, ma anche lungo diverse coordinate temporali.

Ripercorrere il passato e le origini degli attuali States, o dei fatti che condussero e accompagnarono il secondo conflitto mondiale oppure, ancora, la lunga onda della violenza che sembra aver accompagnato la storia della specie umana, costituisce il nerbo di tutta la sua letteratura in cui il presente non può esistere senza il passato, mentre il passato non avrebbe senso alcun se non ne si ritrovasse ancora traccia nella contemporaneità.

Ma il filo rosso che attraversa crudelmente tutte le sue opere, sempre sospese tra cronaca, autobiografia e invenzione, è rappresentato dal dolore che sembra accompagnare l’esistenza in ogni suo attimo. Che si tratti dei nugoli di zanzare che tormentano selvaggiamente i viaggiatori nelle terre del Nord americano, oppure di quello mascherato da sorrisi delle giovani prostitute dell’estremo oriente oppure malgasce e tedesche, o, ancora, la solitudine di uomini che cercano nel sesso a pagamento un amore perduto o forse mai incontrato, il dolore sembra non abbandonare mai gli esseri umani durante la loro esistenza.

Le storie dei soldati, guerriglieri, nativi americani soppressi con le armi e con il vaiolo, oltre che di esploratori destinati soltanto ad affacciarsi sul nulla dell’esistenza, si accompagnano anche a quelle dei danni, e quindi metaforicamente al dolore, subiti dall’ambiente e dalle altre specie animali. Che si tratti delle zone colpite dal disastro nucleare di Fukushima o delle foche uccise dagli Inuit oppure dai ben più avidi e scellerati cacciatori “bianchi”, le manifestazioni del dolore, fisico e psichico, non cessano mai. In una sorta di muto colloquio dell’autore con un fato che non veste nemmeno i panni razionali della Natura dialogante con un islandese di una delle più note Operette morali di Giacomo Leopardi.

Però, più che Leopardi che, per l’epoca in cui visse, seppe leggere in senso materialistico lo strazio delle vicende umane, individuali e collettive, in Vollmann a trionfare è lo sguardo addolorato, spesso rabbioso, di Louis-Ferdinand Céline. Quello dell’uomo che si rivolta contro le sue condizioni di esistenza, senza però mai intravedere un filo di speranza, impossibilitato a ritrovare il filo di quell’umana social catena che nella Ginestra leopardiana poteva, almeno, fungere da possibile, e forse unica, consolazione.

Nei testi di William T. Vollmann siamo quindi lontani anni luce da qualsiasi forma di leggerezza o immaterialità mentre i suoi simboli sono sempre estremamente concreti, fatti di carne e di sangue, poiché su un altro versante della letteratura si pone l’autore, lontano sia dalla ricerca del sensazionalismo politico e sociale ricercato dagli scrittori muckraker della fine del XIX secolo che dal distacco della scrittura dall'”oggetto” narrato.

Vollmann, invece, guarda in faccia il dolore e ce lo sbatte sul muso, senza inutili pietismi e senza mai risparmiarci il sangue, la merda, la puzza, lo sperma che spesso lo accompagnano. Come per Cèline, l’invito rivolto al lettore è lo stesso: accomodati al mio desco e consuma con me questo piatto indigesto e quasi sempre ripugnante oppure lasciami perdere a vai a farti fottere da chi immagina e parla di un mondo migliore. Magari anche divertente.

Roba per stomaci forti, per proseguire con la metafora gastronomica, di cui il testo pubblicato nel 2023 da minimum fax rappresenta il menù sostanzialmente completo, dagli antipasti ai secondi piatti, dolci assolutamente esclusi. Dall’estremo Nord alla Jugoslavia devastata dalla guerra civile; dalla Somalia alle autostrade americane, dalla Thailandia a Pompei: come si è già detto, non c’è quasi terra o contesto umano che William Vollmann non abbia esplorato e raccontato.

L’atlante costituisce così il diario di viaggio di questa erranza continua e irrequieta, ricostruita attraverso cinquantadue “capitoli” diseguali per lunghezza e per tono, ma accomunati dallo stesso brutale incontro/scontro con la vita concreta. I frammenti e i racconti sono organizzati in una struttura palindroma: il primo testo viene ripreso dall’ultimo, il secondo dal penultimo, e il racconto centrale contiene tutti gli altri, come una silloge ideale. Alcuni testi rappresentano una versione compressa dei libri che Vollmann al momento della pubblicazione aveva già scritto. Mentre altri anticipano, in qualche modo, quelli ancora non scritti all’epoca della loro stesura.

William Tanner Vollmann è nato a Santa Monica, California, il 28 luglio 1959 e ha vissuto in seguito nel New Hampshire, a New York e San Francisco. Quando aveva nove anni, la sorella di sei anni annegò in uno stagno e lui si sentì responsabile della sua morte e, secondo lo scrittore, questa perdita avrebbe finito con l’influenzare gran parte del suo lavoro.

Dopo l’università, frequentata alla Cornell di Ithaca, lavorò come segretario in una piccola compagnia di assicurazioni, a San Francisco, per alcuni mesi e con i soldi ricavati da questo impiego, partì per l’Afghanistan durante l’invasione sovietica, scrivendo poi le sue esperienze in An Afghanistan Picture Show, or, How I Saved the World (Afghanistan picture show. Ovvero, come ho salvato il mondo, Alet, Padova 2005 e minimum fax, Roma 2020) pubblicato nel 1992, quasi dieci anni dopo quel primo viaggio.

Libro in cui racconta a posteriori un’esperienza sostanzialmente fallimentare, attraverso uno sguardo più adulto e disincantato, capace di guardare senza nostalgia al proprio io più giovane e ingenuo, che riusciva a porre le domande più sbagliate alle persone sbagliate, mentre si contorceva tra i dolori della dissenteria. Tra conversazioni piene di equivoci ed estenuanti camminate nell’impervio territorio afgano, trascinato e talvolta trasportato pietosamente dai mujahiddin, lo scrittore mette in scena l’idealismo ingenuo e il colonialismo dello sguardo americano sul mondo, in un’opera ibrida che si muove già, come molte altre successivamente, tra romanzo e diario, saggio storico e reportage. Che è per molti versi assimilabile agli scritti raccolti da Mark Twain sotto il titolo Gli innocenti all’estero in cui lo scrittore, più che ai paesi visitati durante diversi viaggi intorno al mondo, guardava ai comportamenti dei suoi concittadini messi al cospetto di una realtà molto diversa da quella della madrepatria da cui provenivano.

Successivamente Vollmann avrebbe pubblicato scritti di viaggio e articoli per la rivista «Spin», per il «New Yorker» e nella «New York Times Book Review», mentre all’inizio del 2003, dopo molti rinvii, ha pubblicato Rising Up and Rising Down: Some Thoughts on Violence, Freedom and Urgent Means (San Francisco, McSweeney’s Books, 2003), un trattato sulla violenza in sette volumi di 3.300 pagine, di cui una versione ridotta a un solo volume, di circa mille pagine, è stata pubblicata l’anno seguente da Eco Press (Come un’onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure d’emergenza, Mondadori, Milano 2007; nuova edizione minimum fax, Roma 2022).

Elaborato nel corso di vent’anni, il testo si basa da un lato su un colossale lavoro sulle fonti (filosofia, teologia, biografie di tiranni, signori della guerra, criminali, attivisti e pacifisti), dall’altro su una serie di esperienze dirette, spesso estreme, che hanno portato l’autore nel cuore dei conflitti di fine Novecento e nelle zone più degradate delle grandi metropoli. Con l’attenzione rivolta sia a figure storiche che a persone comuni che della violenza hanno fatto un metodo, di difesa o di offesa: tutti abbracciati da uno sguardo profondo e partecipe.

Opera cui è possibile avvicinare anche Europe Central, che tratta di un ampio gruppo di personaggi coinvolti nella guerra tra Germania nazista e Unione Sovietica nel corso del secondo conflitto mondiale, che ha vinto nel 2005 il National Book Award per la narrativa (Mondadori, Milano 2010.). Romanzo che può ricordare, per molti versi, Vita e destino (in russo Жизнь и судьба, Žizn’ i sud’ba) di Vasilij Semënovič Grossman, scritto in Russia nel 1959 e pubblicato in Svizzera soltanto nel 1980, sedici anni dopo la scomparsa dell’autore (ed. italiane: Jaca Book, Milano 1982; Adelphi, Milano 2008), drammaticamente incentrato sugli avvenimenti ruotanti intorno alla battaglia di Stalingrado e di cui si parlerà nel prossimo futuro in questa stessa serie di articoli.

Sempre di carattere storico è un’altra opera monumentale di Vollmann, ovvero il ciclo di romanzi I sette sogni: un libro di paesaggi nordamericani, previsto in sette volumi, di cui pubblicati fino ad ora soltanto cinque e del quale in Italia sono stati tradotti tre titoli: La camicia di ghiaccio (The Ice-Shirt, New York, Viking, 1990; trad. italiana Alet, Padova 2007), Venga il tuo regno (Fathers and Crows, New York, Viking, 1992; Alet, Padova 2011) e I fucili (The Rifles, New York, Viking, 1994); Minimum Fax, Roma 2018) I due titoli non ancora pubblicati in Italia sono Argall: The True Story of Pocahontas and Captain John Smith (New York, Viking, 2001) e The Dying Grass (New York, Viking, 2015). Mentre i due annunciati e mai pubblicati sarebbero: The Poison Shirt e The Cloud-Shirt.

Si tratta, com’è facilmente intuibile dai titoli, di una lunga e sofferta narrazione della conquista europea del continente nord-americano e della fine delle società native conseguita a ciò, dai tempi dell’arrivo dei Vichinghi alla fine degli Indiani delle pianure, passando per la cristianizzazione dei nativi canadesi e la colonizzazione tecnologica degli Inuit. Raccontando un mondo che è scomparso non soltanto per quanto riguarda le differenti etnie e le loro tradizioni e forme di organizzazione sociale, ma anche, e talvolta soprattutto, dal punto di vista ambientale.

Ad uno dei romanzi, I fucili, rimanda uno dei racconti pubblicati sull’Atlante: Un vecchio dai vecchi kamik grigi – Coral Harbour, isola di Southampton, Territori del Nordovest, Canada (1993).
Tutti accompagnati dalla precisazione della località in cui sono ambientati e, in un apposito dizionario geografico posto all’inizio dell’antologia, dalle precise coordinate spaziali e geografiche, che le indicano in termini di longitudine e latitudine. In questo caso specifico: 64.10 Nord – 83.15 Ovest. Una precisione che non è pedanteria, ma attenzione a mappare esistenze, storie e drammi destinati a costruire un autentico reticolo del dolore sulla superficie terrestre e a penetrare più in profondità nella coscienza del lettore.

Ma l’opera che, per quanto riguarda chi stende queste note, pare più adatta a riassumere la visione del mondo dello scrittore nordamericano è la cosiddetta Trilogia della prostituzione, composta da tre testi di cui soltanto due pubblicati per ora in Italia: Puttane per Gloria (Whores for Gloria, New York, Pantheon Books, 1991; Mondadori, Milano 2000 e minimum fax, Roma 2024), Storie della farfalla (Butterfly Stories: A Novel, New York, Grove Press, 1993; Fanucci, Roma 1999 e minimum fax, Roma 2019) e The Royal Family (New York, Viking, 2000).

Storie e cronache in cui la ricerca della soddisfazione sessuale e la delusione che deriva dai rapporti con donne obbligate ad “offrirla” permette a Vollmann di esplorare fino in fondo i danni provocati dalla concezione spesso superficiale che un Occidente ricco e colonialista ha del mondo, anche quando questo sembra assumere sembianze innocue, turistiche, umanitarie o, peggio ancora, romantiche. Storie di emarginazione, abbrutimento, miseria e ignoranza che alcuni racconti contenuti nell’antologia sottolineano con vigore, anche se magari in poche pagine: Inutile piangere – Bangkok, provincia di Phra Nakhon-Thumburi (1993); Cinque notti solitarie – San Francisco, California, Usa (1984) – New York, Usa (1990) – Berlino, Germania (1992) – Antananarivo, Madagascar (1992) – Nairobi, Kenya (1993; Storie della farfalla (1 e 2). Queste ultime quasi tutte ambientate a Phnom Penh, Cambogia oltre che a Bangkok, Thailandia e a Sacramento, California tra il 1991 e il 1994.

Nella vita privata, Vollmann rifiuta la fama letteraria e l’utilizzo di dispositivi moderni quali cellulari e carte di credito e viene talvolta descritto come misantropo e schivo, tanto che in un saggio del 2023, intitolato Life as a Terrorist, Vollmann ha rivelato quanto l’attenzione ai temi di “anti-progresso” e “anti-industrializzazione” dei primi lavori abbia cambiato la sua vita, descrivendo, utilizzando proprio i file ufficiali, ottenuti attraverso il Freedom of Information Act, l’inchiesta a suo carico condotta dal Federal Bureau of Investigation alla metà negli anni novanta, ritenendolo sospettato nel caso Unabomber.

Oltre a diversi romanzi, spesso ancora inediti in Italia, Vollmann ha pubblicato varie raccolte di racconti: I racconti dell’arcobaleno (The Rainbow Stories, New York, Atheneum, 1989 – Fanucci, Roma 2001); Tredici storie per tredici epitaffi (Thirteen Stories and Thirteen Epitaphs, New York, Pantheon Books, 1991- Fanucci, Roma 2005 e minimum fax, Roma 2025) e Ultime storie e altre storie (Last Stories and Other Stories, New York, Viking, 2014– Mondadori, Milano.2016).

Tra le opere lontane dalla fiction vanno segnalate almeno quelle pubblicate in Italia che, oltre a Come un’onda che sale e che scende, comprendono I poveri (Poor People, New York, Ecco, 2007- Minimum Fax, Roma 2020) e Zona proibita. Un viaggio nell’inferno e nell’acqua alta del Giappone dopo il terremoto (Into the Forbidden Zone, New York, Byliner, 2011– Mondadori, Milano 2012). quest’ultimo recensito qui su Carmillaonline.


  1. Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (Garzanti 1993) è un libro di Italo Calvino basato su una serie di lezioni preparate in vista di un ciclo di sei discorsi da tenere all’Università di Harvard per l’anno accademico 1985-1986. Fu pubblicato postumo nel 1988, vista la morte improvvisa dell’autore prima della partenza per gli States.  

  2. National Association of Securities Dealers Automated Quotation, ovvero Associazione nazionale degli operatori in titoli con quotazione automatizzata, primo esempio al mondo di mercato borsistico elettronico, che costituisce, essenzialmente, l’indice dei principali titoli tecnologici della borsa americana in cui sono quotate compagnie di molteplici settori, tra cui quelle informatiche come Microsoft, Cisco Systems, Apple, Googl, Facebook, Amazon e Yahoo, basato esclusivamente su una rete di computer e sulla capitalizzazione in borsa dei medesimi titoli.  

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Africa nera, rossa e “bianca” https://www.carmillaonline.com/2024/12/11/africa-nera-rossa-e-bianca/ Wed, 11 Dec 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85662 di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts [...]]]> di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts of Blackness. Brazil is Not Quite the United States… And Racial Politics in Brazil?”, marzo 1998 )

Il testo, appena pubblicato nella collana «Visioni eretiche» della casa editrice Meltemi, ha sicuramente diversi meriti, ma mostra anche alcuni limiti di carattere politico, anche se, per iniziarne la lettura, conviene sicuramente illustrare i primi e presentare l’autore.

Kevin Ochieng Okoth è uno scrittore e ricercatore afro-inglese, fino ad ora mai pubblicato in Italia. Fa parte del Salvage Editorial Collective e collabora con il «London Review of Books». Ha conseguito un PhD in Teoria politica presso l’Università di Oxford e partecipa a conferenze, intervenendo su temi legati all’antimperialismo e ai movimenti anticoloniali del ventesimo secolo. Oltre a ciò, è uno dei fondatori di «Nommo Magazine» e, come si può intendere, fin dalle prime pagine del testo uscito il 22 novembre, il suo intento è principalmente quello di riportare il dibattito e la riflessione sulla moderna “tradizione” dei Black Studies e la Blackness, non soltanto afro-americana, sui binari della lotta di classe, dell’anti-imperialismo e dell’interpretazione marxista delle medesime, enormi e per troppo tempo sottostimate contraddizioni derivanti dalla differenziazione razziale insita nella società capitalistica fin dalle sue origini.

Per raggiungere il suo scopo, l’autore inizia dal “tramonto” dello “spirito di Bandung” – la conferenza tenutasi sull’isola di Giava nell’aprile del 1955, che mirava a costruire un fronte unito dei popoli africani, asiatici e latinoamericani per l’emancipazione dall’oppressione e dallo sfruttamento capitalistici – e dalle susseguenti illusioni create dalla decolonizzazione e i danni provocati dal dominio postcoloniale, per capire se resta oggi ancora una cultura rivoluzionaria nei paesi africani e delle condizioni di un suo possibile rilancio. Anche in un Occidente in cui un certo afro-pessimismo, di origine intellettuale e cattedratica, sembra voler negare qualsiasi possibile risoluzione dei problemi creati da una società profondamente razzializzata.

Infatti, a giudizio di chi qui scrive, è proprio la parte riguardante la critica di certi studi accademici condotti da universitari afro-americani e della concezione ontologica della blackness a costituire il contributo migliore dello studioso afro-inglese tra quelli contenuti nel testo, costituendone la parte forse più ampia. In cui viene sottolineata l’originaria idea di negritudine che ebbe origine tra gli intellettuali africani e antillani o caraibici di lingua francese, emigrati in Francia intorno alla metà del XIX secolo, come base della successiva riflessione sulla condizione “nera”.

Ispirati inizialmente dall’esistenzialismo e amati dagli intellettuali “bianchi” francesi, quasi tutti, dai surrealisti come i coniugi Cesaire fino a Frantz Fanon, dovettero fare i conti con una società che, pur nata sulle basi della Grande Rivoluzione, li trattava o li vedeva ancora e di fatto come ex-schiavi o rappresentanti di una società altra e primitiva, forse ancora pericolosa.

Da quelle annotazioni, che attraversano l’esperienza e la produzione dei teorici dell’iniziale negritudine, uscirono parole di odio e rivolta contro l’ordine “bianco” di cui si erano inizialmente, almeno intellettualmente, fidati. Ma, tutto sommato, escluso forse il caso di Fanon, non la rivolta materiale che toccò sempre, come fin dai tempi della rivoluzione haitiana condotta da Toussaint Loverture contro i dominatori francesi in epoca rivoluzionaria, alle masse sottomesse e sfruttate, uomini e donne che in quanto sauvages per l’ordine costituito riuscivano mettere in crisi l’ordine del discorso dei savants, sviluppatosi a partire dall’illuminismo.

Ed è proprio questo il filo rosso che, dalle origini del colonialismo bianco ed europeo fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento e ancora fino ad oggi, si dipana attraverso le tesi di Kevin Ochieng Okoth, distinguendo lo sforzo di rovesciare materialmente il mondo che ha creato e usato la differenziazione razziale per il proprio ineguale sviluppo da certi pruriti intellettuali, lungamente elencati e le cui tesi sono dettagliatamente illustrate, che vedono nella condizione Nera e nella contraddizione Nero/Bianco un elemento di irreparabile condizione schiavile del popolo africano e delle sue diaspore nei vari continenti in cui fu inizialmente e brutalmente deportato.

Finendo nella maggioranza dei casi col far sì che la protesta intellettuale finisca di rinchiudersi in quello che l’autore definisce come un nuovo afro-pessimismo (AP2.0) oppure di riscoprire in sé una nostalgia per un’Africa idealizzata e mai realmente esistita. Entrambe concezioni a-storiche che non sanno e, forse, non vogliono fare i conti con la Storia e con lo sfruttamento di classe, razza e genere che nella stessa affonda le sue radici.

Il rischio attuale, per l’autore, è infatti costituto dal fatto che il rimuginio di frange consistenti dell’intellettualità accademica, soprattutto afro-americana, sulle proprie condizioni all’interno delle istituzioni e sulle radici schiavistiche del proprio essere sociale e storico, assolutizzate una volta per tutte, finisca col rimuovere, più o meno coscientemente, qualsiasi ipotesi di rovesciamento dell’esistente in nome di una condizione, di fatto, monumentalizzata e resa astratta.

Una posizione lontana sia dall’esperienza del Black Panther Party che da quelle dei movimenti anticoloniali e antimperialisti che tra gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, misero fino al dominio coloniale europeo in Africa e diedero inizio a esperimenti, solo e sempre presuntamente, socialisti all’interno dei nuovi stati sorti da quelle feroci battaglie, politiche e militari, per il raggiungimento dell’indipendenza “nazionale”. L’esperienza, insomma, di tutte quelle iniziative rivoluzionarie che da Kevin Ochieng Okoth sono raccolte sotto la definizione di Red Africa.

Ed è in questa seconda parte del discorso che l’autore mostra una debolezza, propria, nella promozione di una concezione nazionalistica del socialismo “possibile”, che sorge, purtroppo, proprio dalle esperienze e analisi politiche di quel periodo, ancora fortemente influenzato dalla esperienza dei due blocchi, dalla Guerra Fredda e dalla persistente influenza dell’URSS e della Cina su un marxismo che si definì, sull’onda di Stalin degli anni Trenta, marxismo-leninismo e affezionato ancora all’idea del “socialismo in un paese solo”.

Esperienza che servì a travestire delle malferme rivoluzioni borghesi e nazionali da esperimenti socialisti, ma che, nei fatti, deluse e tradì le aspirazioni di liberazione collettiva e uguaglianza economica che avevano spinto gli appartenenti alle classi sociali e ai gruppi etnici meno favoriti ad una lotta che richiese, troppo spesso, grandi sacrifici e contributi di sangue.

Una sorta di illusione che non è possibile attribuire del tutto ad un marxismo originario, non marxista-leninista, che era rimasto troppo spesso all’interno di un’ottica eurocentrica non avendo fatto abbastanza i conti con la condizione coloniale dei popoli sfruttati dall’imperialismo e colonialismo occidentale, poiché sia per Marx, soprattutto, ma anche per altri rappresentanti del pensiero rivoluzionario materialista, la questione era stata tutt’altro che secondaria1.

Certo, come notano oggi gli studiosi, la rigida interpretazione del susseguirsi dei modi di produzione aveva spinto spesso il marxismo verso una concezione unilineare della Storia in cui un’autentica teleologia dello sviluppo e del progresso aveva spinto nel dimenticatoio le forme di produzione, sociali ed economiche, che contro quel modello di sviluppo si erano battute, talvolta con un certo successo. Ma, in fin dei conti, proprio in quella concezione affondavano le loro radici le rivoluzioni degli anni delle grandi lotte anticoloniali, facendo rientrare dalla finestra (lo sviluppo nazionale del mercato e delle attività economiche) ciò che era uscito dalla porta (attraverso la promessa di un’economia più egualitaria basata sulle tradizioni locali).

Kevin Ochieng Okoth fa molto bene a rimarcare più volte come ogni tratto culturale, sociale ed economico-politico, compreso quello delle differenti forme di schiavitù e delle loro conseguenze in ambiti diversi, siano state e siano tutt’ora conseguenza di diversi fattori storici e sociali, ma finire col rinchiudere tale giusta prospettiva in una sorta di rimpianto per il periodo dei paesi non allineati successivo alla conferenza di Bandung, cui si accennava all’inizio, e far ricader ogni responsabilità per i tradimenti delle rivoluzioni sulla pervasività dell’imperialismo americano e occidentale significa chiudere gli occhi su elementi altrettanto importanti per comprendere le successive sconfitte di quei progetti.

Intanto Bandung fu una conferenza di fatto a guida indonesiana e di un Sukarno che giusto dieci anni dopo, nel 1965, avrebbe dato vita ad uno dei più feroci massacri di civili e militanti comunisti dell’intero continente asiatico, certo con l’aiuto americano ma anche per sfrenato interesse nel mantenere il potere proprio e della borghesia indonesiana2.

Inoltre l’autore non fa cenno al fatto che gran parte delle rivoluzioni nazionali africane avvennero nei limiti dei confini geografici imposti fin dalla conferenza di Berlino del 1884/1885 che di fatto regolò la spartizione dei poteri e dei commerci occidentali nell’Africa Sub-sahariana. Confini che non tenevano conto delle divisioni tra lingue, culture ed etnie che caratterizzavano il continente e su cui spesso, ancora negli ultimi decenni gli interessi imperialistici occidentali, ma non solo, hanno potuto giocare.

L’unico rivoluzionario a cercare, forse, di superare tali limiti in un paese, il Congo belga, che prima di raggiungere l’indipendenza nel 1960 e denominarsi Repubblica democratica del Congo, copriva una superficie di 2.344.858 km quadrati pari o superiore a quella dell’Europa occidentale dal Portogallo alla Germani e dalla Gran Bretagna all’Italia, fu Patrice Lumumba con la sua idea di indipendenza e di unità africana che fu brutalmente soppressa, insieme a lui nel 1961 quando era primo ministro, liberamente eletto, di un paese di cui i belgi non volevano certo la piena indipendenza, vista anche l’enorme quantità di materie prime, minerali e metalli preziosi di cui era, e rimane, depositario.

Era toccato a Lumumba, il 30 giugno 1960, pronunciare lo storico “discorso dell’indipendenza” per un paese in cui una buona parte dell’amministrazione e i quadri dell’esercito restavano belgi, ma sfidò l’ex potenza coloniale decretando l’africanizzazione dell’esercito. Il Belgio rispose inviando truppe in Katanga (la regione mineraria) e sostenendo la secessione di questa regione. A settembre il presidente Joseph Kasa-Vubu revocò Lumumba e gli altri ministri nazionalisti. Lumumba dichiarò che sarebbe rimasto in carica e su sua richiesta il parlamento, acquisito alla sua causa, revocò il presidente Kasa-Vubu. La politica di Lumumba era antisecessionista, anticolonialista, antimperialista, filocomunista e mirava a diminuire il potere e l’influenza delle tribù ed a una maggiore giustizia sociale e autonomia del paese. In dicembre il generale Mobutu, succeduto a Kasa-Vubu, con un colpo di Stato fece arrestare Lumumba che il 17 gennaio1961 insieme a due suoi fedeli (Maurice Mpolo, ministro degli Interni, e Joseph Okito, presidente del Senato) fu giustiziato la sera stessa alla presenza di tutti i dirigenti del Katanga secessionista, mentre a partire dall’indomani molti dei suoi sostenitori furono eliminati con l’aiuto dei mercenari belgi3.

L’autore delle presenti righe si scusa per essersi dilungato su una vicenda che nell’economia del libro occupa poco spazio ed è narrata soltanto attraverso la testimonianza negativa della femminista anticoloniale Andrée Blouin, che svolse un importante lavoro come guida di organizzazioni femminili e come collaboratrice di vari governi del continente, tra cui quello di Lumumba, diventando una figura chiave nel movimento indipendentista congolese come stretta consigliera dello stesso Lumumba.

Verso la fine della sua autobiografia, ripercorre gli eventi che rappresentano il climax della sua vita politica: la crisi congolese, in particolare l’assassinio di Lumumba nel gennaio del 1961, che pose fine alle speranze di liberazione nazionale del paese. Blouin è al centro dell’azione mentre tenta di superare i dissidi fra le diverse fazioni per aiutarle a collaborare alla realizzazione di obiettivi comuni. Ma presto si rende conto che “i nostri fratelli lavoravano per il tradimento dell’Africa”: il rivale di Lumumba, il centrista filo-occidentale Joseph Kasavubu, che era strettamente legato agli Stati Uniti, ignora il mandato di Lumumba per formare il governo, tentando invece di formarne uno guidato da lui.

[…] Questo è, in qualche modo, un racconto scontato del tramonto della liberazione nazionale. Ma ciò che è interessante nell’analisi di Blouin sulla crisi congolese è il duro giudizio su Lumumba, che descrive spesso come troppo accomodante, timido e talvolta ingenuo. Il suo ritratto di Lumumba lo fa apparire sotto una nuova luce. Descrive vividamente il momento in cui Lumumba si costituisce dopo l’arresto della moglie – un momento drammatico non solo per la sua famiglia ma per i neri radicali del mondo intero. Per Blouin, la sua incapacità di mettere le esigenze della nazione al di sopra di quelle famigliari, come lei aveva spesso fatto, rappresenta niente di meno che un tradimento della liberazione nazionale. Blouin trasmette decisamente la sensazione che la rivoluzione africana, per usare una frase di Fanon, sarebbe stata più radicale se le donne che l’avevano innescata avessero trovato spazio nei governi post-coloniali, o se fossero state più intimamente coinvolte nel processo formale di decolonizzazione4.

Ma al di là di queste interessanti considerazioni sul ruolo che le donne avrebbero potuto avere nel processo di liberazione africana che il tentativo di Lumumba di limitare il potere delle tribù in un contesto, quello africano, in cui sono presenti almeno ottocento lingue diverse di cui soltanto due scritte (il copto e lo swahili), lasciando libero spazio alle lingue dei dominatori (inglese, francese, portoghese, spagnolo e arabo moderno), considerate lingue di lavoro, avrebbe sicuramente contribuito ad aumentare e definire con più forza dal punto di vista dell’autonomia politico-culturale e che invece l’esaltazione della “tradizione” contribuì a limitare.

Una politica che i differenti leader delle varie rivoluzioni africane quasi mai perseguirono pienamente, rivendicando invece tradizioni nazionali spesso in conflitto tra di loro e delle cui divisioni approfittarono non soltanto l’imperialismo occidentale ma anche le politiche espansive dei rivali russi e cinesi, come ancora oggi si può rilevare in tutta l’Africa Sub-shariana. Politiche che in alcuni casi, come nelle colonie portoghesi e soprattutto in Angola, misero a dura prova l’esistenza dei neonati governi a causa delle rivalità tra russi e cinesi. Alla faccia della comune causa marxista -leninista.

Una confusione per cui, ancora oggi, una volta dimenticato il semplice fatto che sono le contraddizioni di classe ad essere trasversali sia alle questioni di “razza” che di nazione e genere, i paesi dei Brics, potenzialmente antagonisti economico-politici e militari dell’imperialismo occidentale, possono essere scambiati per non allineati e “socialisti”, negando nei fatti la storia degli ultimi settant’anni e le contraddizioni che ne sono conseguite.


  1. Si vedano in proposito gli scritti antropologici di Marx e sul colonialismo in India e in Cina oltre che sulla guerra civile americana, così come quelli sicuramente più tardivi di Amadeo Bordiga, pubblicati su «Prometeo» e «Battaglia comunista» e, dopo la scissione del Partito comunista internazionalista nel 1952, su «Il programma comunista» sulle questioni, come si diceva allora, “di razza e nazione” (qui).  

  2. Si veda: V. Bevins, Il metodo Giacarta, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021.  

  3. Sulla figura e sulle idee di Patrice Lumumba si vedano: A. Aruffo, Lumumba e il panafricanismo, Erre emme edizioni, Roma 1991; D. Van Reybrouck, Congo, Feltrinelli Editore, Milano 2014 e G. F. Venè, Uccidete Lumumba, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1973.  

  4. K. Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 135-137.  

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L’Occidente dal trionfo alla cannibalizzazione https://www.carmillaonline.com/2024/11/27/occidente-carnevalizzato-e-cannibalizzato/ Wed, 27 Nov 2024 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85470 di Sandro Moiso

Jean Baudrillard, Carnevale e cannibale / Il male ventriloquo, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 110, 10 euro.

Jean Baudrillard (1929-2007), sempre in bilico tra filosofia, sociologia e critica (rivisitata) dell’economia politica, è stato sicuramente uno dei punti di riferimento della critica radicale dell’esistente dai primi anni Settanta fino alla sua morte. Affascinato dalla patafisica di Alfred Jarry, egli ha applicato, spesso ribaltandoli e rivisitandoli funambolicamente, alcuni aspetti della critica marxiana del valore applicandoli alla critica della società dei consumi, dell’alienazione e del simulacro rappresentato dalla promessa di democrazia e libertà all’interno di un organismo sociale interamente sottomesso, [...]]]> di Sandro Moiso

Jean Baudrillard, Carnevale e cannibale / Il male ventriloquo, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 110, 10 euro.

Jean Baudrillard (1929-2007), sempre in bilico tra filosofia, sociologia e critica (rivisitata) dell’economia politica, è stato sicuramente uno dei punti di riferimento della critica radicale dell’esistente dai primi anni Settanta fino alla sua morte. Affascinato dalla patafisica di Alfred Jarry, egli ha applicato, spesso ribaltandoli e rivisitandoli funambolicamente, alcuni aspetti della critica marxiana del valore applicandoli alla critica della società dei consumi, dell’alienazione e del simulacro rappresentato dalla promessa di democrazia e libertà all’interno di un organismo sociale interamente sottomesso, in realtà, all’imperativo categorico della produzione di merci,

Anche se è stato considerato vicino a Edgar Morin e a Roland Barthes, soprattutto per la sua attenzione critica ai differenti aspetti della semiologia, in realtà ha dato vita ad una critica irrimediabile della società capitalistica, negandone qualsiasi valore assoluto e qualsiasi bisogno (valore d’uso) che non sia artefatto e finalizzato soltanto al consumo di massa1, che ha ritenuto l’autentico fondamento della medesima a differenza del marxismo che lo ha, invece, sempre individuato nella produzione. Motivo per cui è possibile avvicinarlo, per molti versi, all’analisi della società dello spettacolo teorizzata da Guy Debord fin dal 1967.

Una critica che dalla iniziale critica dalla merce lo ha portato2 progressivamente a destrutturare l’intero impero dei segni che regola la società, che rimarrà nella sua visione solo e sempre luogo di apparenze e simulacri.

I due brevi testi appena pubblicati da Meltemi nella collana Melusine, entrambi inediti in lingua italiana, sono stati originariamente pubblicati in Francia nel 2004 il primo come saggio e nel 2008 il secondo, come trascrizione di una conferenza tenuta dall’autore. In entrambi, come afferma il traduttore Dario Altobelli:

lo straordinario percorso intellettuale dello studioso trova in questi due testi una brillante e si direbbe memorabile dimostrazione di quanto egli fosse stato acuto interprete del tempo corrente, fieramente e caparbiamente sempre contro ogni conformismo intellettuale e politico, soprattutto liberal-progressista, ma non solo, e più ampiamente delle varie forme della “Sinistra divina” e del “politically correct”3.

Appartenenti, come si è visto, all’ultima parte della produzione di Jean Baudrillard i due interventi si caratterizzano per un taglio polemico e provocatorio di estrema attualità. In cui l’analisi impietosa della società globale dei consumi e dello spettacolo, giunta allo stadio estremo e simulacrale, e la critica serrata al conformismo intellettuale e politico di ogni colore – vere e proprie cifre dell’opera dell’autore francese –, sono gettati come sassi nelle acque apparentemente rassicuranti del dominio politico e tecnoscientifico di un Occidente in fase terminale.

Cosa rimarcata con forza soprattutto nel primo dei due interventi, in cui l’Occidente, pensatosi all’apice del suo successo per il tramite della globalizzazione non coglie la semplice verità rappresentata dal fatto che la diffusione dei suoi valori e idealili consumistici non contribuisce a null’altro che alla sua carnevalizzazione e cannibalizzazione da parte dei suoi concorrenti, un tempo “sottosviluppati”.

Si può cominciare dalla famosa formula di Marx sulla storia che si produce una prima volta come evento autentico per ripetersi poi come farsa. Si può concepire così la modernità come l’avventura iniziale dell’Occidente europeo, poi come un’immensa farsa che si ripete su scala planetaria, a tutte le latitudini dove si esportano i valori occidentali, religiosi, tecnici, economici e politici. Questa “carnevalizzazione” passa per gli stadi, essi stessi storici, dell’evangelizzazione, della colonizzazione, della decolonizzazione e della globalizzazione. Ciò che si vede meno è che questa egemonia, questa impresa di un ordine mondiale i cui modelli – non solamente tecnici irresistibili, si accompagna a una reversione straordinaria da cui questa potenza è lentamente minata, divorata, “cannibalizzata” proprio da quelli che essa carnevalizza. Il prototipo di questa cannibalizzazione silenziosa, la sua scena primordiale per così dire, sarebbe questa messa solenne a Recife, in Brasile, nel XVI secolo, dove i vescovi venuti espressamente dal Portogallo per celebrare la conversione passiva degli Indiani sono da questi divorati – per eccesso di amore evangelico (il cannibalismo come forma estrema dell’ospitalità). Prime vittime di questa mascherata evangelica, gli Indiani si spingono spontaneamente al limite e oltre: essi assorbono fisicamente coloro che li hanno assorbiti spiritualmente.

È questa doppia forma carnevalesca e cannibalesca che vediamo riverberata ovunque su scala globale, con l’esportazione dei nostri valori morali (diritti umani, democrazia), dei nostri principi di razionalità economica, di crescita, di performance e di spettacolo. Ovunque ripresi con più o meno entusiasmo, ma in una totale ambiguità, da tutti questi popoli sfuggiti alla buona parola dell’universale, “sottosviluppati”, dunque fertile terreno di missione e di conversione forzata alla modernità, ma molto più che sfruttati e oppressi: ridicolizzati, trasfigurati in una caricatura dei Bianchi – come quelle scimmie che un tempo venivano mostrate alle fiere in costume da ammiraglio.

[…] Ma c’è da chiedersi se questi Bianchi qui, il principale, la guardia, il generale, questi Bianchi “originali” non siano già figure mascherate, se non siano già una caricatura di sé stessi –confondendosi con le loro maschere. I Bianchi si sarebbero così carnevalizzati, e quindi cannibalizzati, molto prima di esportare tutto questo nel mondo. È la grande parata di una cultura in preda a uno spreco di risorse e che si offre alla propria consumazione: divoramento di se stessa, di cui il consumo di massa e di tutti i beni possibili è la forma più attuale.

[…] Che tutte le popolazioni adornate dei segni del biancore e di tutte le tecniche venute da altrove ne siano al contempo la parodia vivente e la derisione: è questo che è semplicemente ridicolo, ma che noi non possiamo più vedere. È nella loro estensione su scala globale che si svela la frode dei valori universali. Se davvero c’è stato un primo evento, storico e occidentale, della modernità, noi ne abbiamo esaurito le conseguenze, ed essa ha preso per noi una svolta fatale, una svolta da farsa. Ma la logica della modernità ha voluto che l’imponessimo al mondo intero, che il fatum dei Bianchi fosse quello della razza di Caino, e che nessuno sfuggisse a questa omogeneizzazione, a questa mistificazione della specie.

Quando i Neri tentano di sbiancarsi, non sono che lo specchio distorto della negrificazione dei Bianchi, automistificati fin dall’inizio dalla propria maestria. Così l’intero arredo della moderna civiltà multirazziale non è altro che un universo in trompe l’oeil in cui tutte le singolarità di razza, di sesso, di cultura saranno state falsificate fino a diventare una parodia di se stesse.
Tanto che è l’intera specie che, attraverso la colonizzazione e la decolonizzazione, si autoparodia e si autodistrugge in un gigantesco dispositivo di simulazione, di violenza mimetica in cui si esauriscono sia le culture indigene che quella occidentale. Perché quella occidentale non trionfa in alcun modo: ha perso la sua anima molto tempo fa. Essa stessa si è carnevalizzata, aggiungendovi ancora il ridicolo di organizzare con grandi spese il museo mondiale degli orpelli di tutte le culture 4.


  1. Valore di scambio che domina sul primo di fatto annullandone l’importanza attribuitagli sia nell’opera di Marx che in quella di Adam Smith.  

  2. Si vedano in proposito alcune delle sue opere più importanti: Le Système des objets (1968) tradotto in Italia come Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano1972; Pour une critique de l’économie politique du signe (1972) trad. it. di Mario Spinella, Per una critica dell’economia politica del segno, Mazzotta, Milano 1974 e, in seguito a cura di Pierre Dalla Vigna, Per una critica dell’economia politica del segno, Mimesis, Milano-Udine 2012; La Société de consommation (1970) trad. it. La società dei consumi, il Mulino, Bologna 1976 e L’Échange symbolique et la mort (1976) trad. it. di Girolamo Mancuso, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979. Solo per citare le più importanti.  

  3. D. Altobelli, Nota del traduttore in J. Baudrillard, Carnevale e cannibale / Il male ventriloquo, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 8-9.  

  4. J.Baudrillard, Carnevale e Cannibale, ovvero il gioco dell’antagonismo globale, in J. Baudrillard, op. cit., pp. 45–50.  

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Avanti barbari! https://www.carmillaonline.com/2024/08/07/avanti-barbari/ Wed, 07 Aug 2024 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83798 di Sandro Moiso

Louisa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 96, 12 euro

Alle 22 in punto la radio della polizia penitenziaria gracchia frasi in arabo. Carcere minorile Ferrante Aporti di Torino: la rivolta iniziata poco dopo le 20 è in atto ormai da più di due ore. Incendio nelle celle, negli uffici, nei corridoi. Botte agli agenti. «Si sono presi una nostra radio, attenti alle comunicazioni: sentono tutto» dice quello della penitenziaria. No, è peggio. I detenuti del minorile – una cinquantina, forse appena di più – si sono impossessati di gran parte [...]]]> di Sandro Moiso

Louisa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 96, 12 euro

Alle 22 in punto la radio della polizia penitenziaria gracchia frasi in arabo. Carcere minorile Ferrante Aporti di Torino: la rivolta iniziata poco dopo le 20 è in atto ormai da più di due ore. Incendio nelle celle, negli uffici, nei corridoi. Botte agli agenti. «Si sono presi una nostra radio, attenti alle comunicazioni: sentono tutto» dice quello della penitenziaria. No, è peggio. I detenuti del minorile – una cinquantina, forse appena di più – si sono impossessati di gran parte del carcere. (Notte tra i 1° e il 2 agosto 2024, da un articolo di Federico Femia e Caterina Stamin su “La Stampa”)

Come sempre, ad essere sinceri, le recensioni di libri altrui non possono che costituire dei pretesti per parlare di argomenti che premono ai recensori. Tale osservazione vale anche in questa occasione, in cui il bel saggio di Louisa Yusufi, pubblicato lo scorso anno da DeriveApprodi in Italia, ma uscito originariamente in Francia nel 2022, permette a chi scrive di trattare un problema che travalica la “linea del colore” e della “barbarie” inclusa nei confini delle banlieue francesi per mettere in discussione il concetto di civiltà tout-court, all’interno di tutto il modo di produzione e riproduzione basato sui principi del capitale e dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta.

Il titolo del testo della Yousfi rinvia, inevitabilmente, al motto “rimanere umani” che da anni accompagna manifestazioni e proposizioni ricollegabili alla rivendicazione in difesa dei diritti delle fasce più deboli e povere della popolazione e, in particolare, delle condizioni di vita dei migranti e degli immigrati, accompagnandosi spesso anche ai discorsi sulla guerra e le sue cruente e spietate logiche di violenza e sterminio. Non a caso il suo presunto ideatore, Vittorio Arrigoni noto come Vik, proprio a Gaza era stato ucciso nell’aprile del 2011 da una cellula jihadista salafita che si opponeva a qualsiasi tipo di intervento umanitario occidentale nell’enclave palestinese.

Quell’atto, per molta parte della sinistra, aveva finito col confondersi con una sorta di frattura tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è dell’azione dei popoli in rivolta e delle loro, spesso squinternate e ambigue, milizie. Un episodio drammatico che, certamente, ha contribuito ad approfondire il solco tra coloro che contestano l’attuale modo di produzione senza peraltro uscirne dai limiti delle leggi e dei “diritti” e coloro che che in quei limiti non sono compresi in quanto esclusi per ragioni di classe mascherate da colore della pelle, etnia, religione e quant’altro finisce col contribuire a definire una condizione di “barbarie”, sia nell’agire politico e quotidiano che nella formulazione delle idee che l’accompagnano.

Una separazione che ha finito col rafforzare l’idea che soltanto l’accettazione di certe regole e una certa visione del mondo di stampo liberale e occidentale possa far sì che l’altro sia accettato sul piano della comunicazione e dell’inserimento nella comunità degli “individui aventi diritto”. Una superficiale e opportunistica valutazione in cui può essere considerato umano soltanto chi accetta le regole dettate dal migliore dei mondi possibili, quello bianco, occidentale e liberale, e dalle sue leggi “universali”. Obiettivo per cui, come afferma l’autrice, “i civilizzati” si sforzano di creare dei ponti.

Ah, i ponti… […] vediamo un’intera cricca di sociologi che annuisce con aria di intesa. Sono coloro che lavorano sulla questione […] Il nostro sudiciume, le nostre depravazioni, la nostra presunta predisposizione ad accumulare tutti i vizi dell’umanità, a cedere i nostri atavismi bellicosi, a picchiare coloro che amiamo, donne e bambini, ad andare in cerca di crimini, a sparare in mezzo alla folla, a linciare gli omosessuali e sputare sugli ebrei, non sarebbe altro che la storia di una mancanza. Tutte le cose che abbiamo perso, tutte le opportunità che non ci si sono presentate, tutti i riconoscimenti di cui siamo stati privati, tutto l’amore che non abbiamo ricevuto. Sgocciolano compassione quando credono di restituirci la nostra dignità, quando tremano di commozione nel recitare la triste storia che raccontano di noi: come se non fossimo mai stati abbastanza amati […] Asciugate le lacrime. I barbari non sono selvaggi che si sarebbe dovuto frustare di meno, umiliare di meno e coccolare di più; selvaggi maltrattati dalla civilizzazione […] Questa è la loro grande scoperta: il nostro «imbarbarimento» è il fallimento dell’integrazione1.

Ma Louisa Yousfi, giovane giornalista francese di origine algerina, dopo aver ironizzato sulle condizioni dell’oppressione che contribuiscono a definire la barbarie, come ha già avuto modo di sottolineare su Carmilla Jack Orlando, coglie ancora nel segno:

seguendo le liriche dei trapper Booba e PNL, per aprire uno squarcio nella cattiva coscienza francese e farne sgorgare il sangue delle banlieue, del lato cattivo.
Tutta questa roba, questa poesia trucida, ha un unico scopo: restare barbari. Laddove la cosiddetta integrazione non solo ha fallito, ma ha scientemente prodotto una specifica forma di colonizzazione interna alle metropoli democratiche e generato una subalternità cui si imputa quotidianamente un’inferiorità colpevole e, paradossalmente, congenita; ribaltare l’accusa è una pratica di resistenza, risignificare la propria mostruosità vuol dire aumentare la propria potenza, sottolineare l’alterità è ricomporre i pezzi smembrati della propria anima.
È una vendetta contro la dominazione e un assalto alla conquista della propria condizione umana2.

Restare barbari, sola e unica condizione per rimanere umani. Questa la sfida lanciata dalla riflessione della giovane autrice che, nelle settimane scorse, ha avuto modo di partecipare al dibattito promosso dall’Intifada studentesca di Torino al Festival Alta Felicità svoltosi a Venaus dal 26 al 28 luglio e che ha dedicato il suo libro: «ai barbari contemporanei la cui vita e opere ci spiegano, più di qualsiasi altro resoconto, ciò che l’Impero chiama “imbarbarimento”. Si comincia dalla strada e dai suoi profeti. Perché tutti i racconti sul presente […] ci arrivano dai margini dell’impero e dai suoi recalcitranti abitanti»3.

Rovesciare, dunque, l’umanitarismo occidentale dell’integrazione e dell’accettazione delle sue regole del buon viver civile nel suo contrario, dimostrandone l’implicita disumanità e, allo stesso tempo, rovesciando lo stereotipo del barbaro in quello dell’unica forma residua di umanità possibile. «Il trucco della civilizzazione riproduce continuamente l’illusione. Francamente, per cosa vuoi competere con l’Occidente? Hanno inventato l’innocenza. Hanno massacrato interi popoli e, nel frattempo, inventato Walt Disney»4.

Stiamo però ben attenti; non si tratta di una battaglia di civiltà, come la peggiore saggistica filo-occidentale vorrebbe; qui si tratta proprio di stabilire ciò che permetterà alla specie di mantenere la sua umanità. Indipendentemente dal colore della pelle o delle tradizioni passate e delle aree di provenienza geografica e sociale. Come sostiene ancora l’autrice:

L’imbarbarimento è un processo di integrazione […] i nostri mostri non nascono da una mancanza di voi, ma da un eccesso di voi […] Nulla di questo mondo può salvarci, non solo perché una cosa non può essere al contempo il veleno e la sua cura, ma anche perché non siamo noi a dover essere salvati […] Che i civilizzati evitino dunque di insistere sul nostro destino. Siamo noi che dovremmo piangere per loro. Siamo noi che possiamo salvarli. Non è mai successo il contrario, in nessun modo e in nessun momento della storia5.

Soprattutto in un’epoca in cui un ciclo, quello del dominio occidentale sul resto del mondo, ha iniziato a venir meno e a veder disgregarsi le sue forme politiche e militari. Spingendo spesso gli osservatori a tracciare paragoni con la fine dell’Impero Romano.
Impero che, come ebbe modo di osservare lo stesso Marx, finì «con la comune rovina delle classi in lotta», incapaci entrambe sia di mantenere che di rovesciare le strutture economiche e sociali su cui lo stesso si fondava. Entrambe travolte dall’arrivo dei “barbari”, destinati a destrutturare definitivamente e a rifondare quelle stesse basi sociali e legislative su cui si erano retti i rapporti di forza fino ad allora.

Ecco allora che come unica soluzione possibile, anche, per il proletariato bianco ci sarebbe quella di farsi, più che rimanere, barbaro. Criticando e contribuendo a distruggere quella presunta civiltà di cui troppo spesso la Sinistra, anche radicale, ha sposato le intrinseche ragioni. Ancora una volta è Amadeo Bordiga, con un articolo del 1951, a permetterci di riallacciare il filo di un ragionamento non estraneo ma soltanto interrotto all’interno del movimento antagonista di classe, affermando, con Friedrich Engels, che la civiltà, in fin dei conti, non si riassume in altro che:

“nello Stato che, in tutti i periodi tipici, è, senza eccezione, lo Stato della classe dominante ed in ogni caso rimane essenzialmente una macchina per tenere sottomessa la classe oppressa e sfruttata”. Questa civiltà […] deve vedere la sua apocalisse prima di noi. Socialismo e comunismo, sono oltre e dopo la civiltà […] Essi non sono una nuova forma di civiltà. “Poiché la base della civiltà è lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, l’intero sviluppo della civiltà si muove in una contraddizione permanente”. [Così] con Marx Engels e Lenin noi ultimi ne stiamo fuori.
Può essere conturbante che dalla caduta della civiltà non sia ancora sgorgato il comunismo, ma è ridicolo voler conturbare la soddisfazione capitalistica con la minaccia di alternative barbare6.

Ritornando, poco dopo, a fare la seguente affermazione a proposito della fine dell’ordine imperiale romano:

Furono le giovani forze barbare ad uccidere una marcia burocrazia. “Lo Stato romano era diventato una macchina gigantesca e complicata, esclusivamente per lo sfruttamento dei sudditi. Al di là dei limiti della sopportazione fu spinta l’oppressione con le estorsioni di governatori, di esattori di imposte, di soldati. Lo Stato romano fondava il suo diritto ad esistere sulla difesa dell’ordine all’interno, sulla difesa contro i barbari dall’esterno. Ma il suo ordine era peggiore del peggiore disordine, e i barbari, da cui pretendeva difendere i cittadini, erano da questi considerati come salvatori!”. Sembrò con le vittoriose invasioni, che per quattro secoli, ordinandosi l’Europa strappata a Roma nelle forme della teutonica costituzione di gentes, la storia si fosse fermata, e con essa la civiltà e la cultura. Ma così non fu. […] “Le classi sociali del IX secolo si erano formate non nella putrefazione di una società in decadenza, ma nelle doglie del parto di una civiltà nuova. La nuova generazione, sia padroni che servi, era una generazione di uomini, paragonata a quella dei suoi predecessori romani”.
“Ma che cosa fu quel misterioso incanto con cui i barbari infusero nuova vita all’Europa morente? Era forse un potere miracoloso innato nella stirpe tedesca, come ci vengono predicando i nostri storici sciovinisti? In nessun modo. Non furono le specifiche qualità nazionali dei popoli germanici a ringiovanire l’Europa, ma semplicemente la loro costituzione delle gentes, la loro barbarie”.
“Tutto ciò che di forte e vitale i Tedeschi innestarono nel mondo romano fu la barbarie. Solo dei barbari sono in grado di ringiovanire un mondo, che soffre di civiltà morente”7.

Resta evidente che il pericolo del ritorno alla barbarie insito in tante minacce contenute nei discorsi in difesa della civiltà e del liberalismo, non è costituito da altro che dal ritorno ad una lotta di classe in grado di porre fine al più spietato modo di produzione e appropriazione mai comparso sulla faccia della terra. L’unico ad avere domato prima i propri barbari interni per poi trasformarli in carnefici di quelli esterni con l’avventura colonialista, la promessa del benessere egualitario per i bianchi e l’illusione del mantenimento di un unico impero permanentemente al comando degli affari del mondo.

Nessuna società decade per le sue leggi interne, per le sue interne necessità, se queste leggi e queste necessità non conducono – e noi lo sappiamo e attendiamo – a far levare una moltitudine di uomini, organizzata con armi in pugno. Non vi è per nessuna “civiltà di classe”, per corrotta e schifosa che essa sia, morte senza traumi.
Quanto alla barbarie, che a tale morte del capitalismo per dissoluzione spontanea andrebbe a succedere, se la sua scomparsa fu da noi considerata una necessaria premessa dell’ulteriore sviluppo, che inevitabilmente doveva passare per gli errori delle successive civiltà, i suoi caratteri come forma umana di convivenza non hanno nulla di orribile, che ne faccia temere un impensabile ritorno.
Come occorrevano a Roma, perché non si disperdesse il contributo di tanti e tanto grandi apporti alla organizzazione degli uomini e delle cose, le orde selvagge che calassero apportatrici inconsce di una lontana e più grande rivoluzione, così vorremmo che alle porte di questo mondo borghese di profittatori oppressori e sterminatori urgesse poderosa un’onda barbarica capace di travolgerla.
[…] Ben venga dunque, per il socialismo, una nuova e feconda barbarie, come quella che calò per le Alpi e rinnovò l’Europa8.

Un passo lungo e audace, ancora ben distante dall’essere accettato e fatto proprio sia dagli oppressi delle periferie razzializzate che da quelli che si illudevano di aver toccato con mano il sogno capitalista del benessere “per tutti”, senza dover abolire proprietà privata e interesse individuale, ma che può costituire un valido strumento per la rimozione delle barriere del perbenismo e del tradizionalismo e della sfiducia, quest’ultima più che motivata, che ancora separano in parti diverse, e spesso nemiche, il corpo unico e pericoloso della moderna creatura proletaria e prometeica creata dal Frankenstein imperialista.

Proprio per questo motivo opere come quella di Louisa Yousfi e Houria Bouteldja9, che l’ha direttamente ispirata, dovrebbero trovare spazio nella biblioteca di chiunque voglia davvero contribuire al superamento di questo mondo orrendo anche se travestito di democrazia elettoralistica e umanitarismo.


  1. L. Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 24-25.  

  2. J. Orlando, Gang gang gang! Immaginari e tensioni della metropoli – Ep. 1, «Carmillaonline», 10 maggio 2023.  

  3. L. Yousfi, op. cit., pp.19-20.  

  4. Ibidem, p.27.  

  5. Ivi, pp. 29-31.  

  6. A. Bordiga, Avanti Barbari!, «Battaglia Comunista», n. 22 del 1951.  

  7. Ibidem, le citazioni tra virgolette sono da F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884.  

  8. Ivi. 

  9. H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie 2017.  

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Nostalgia di un Occidente, forse, mai esistito https://www.carmillaonline.com/2024/05/15/nostalgia-di-un-occidente-forse-mai-esistito/ Wed, 15 May 2024 20:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82446 di Sandro Moiso

Milan Kundera, Praga, poesia che scompare. Seguito da Ottantanove parole, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 102, 12 euro

Nel libello appena pubblicato da Adelphi, nella collana «Piccola Biblioteca» con il numero 803, è impossibile non riconoscere nel ritratto culturale e letterario di Praga che ne scaturisce, attraversato da un fremito di commossa nostalgia, un autoritratto, che rivela, forse meglio di qualsiasi saggio critico, la genealogia segreta da cui scaturisce l’intera opera di Kundera. Dentro a quello stesso laboratorio ci conduce anche Ottantanove parole, un dizionario personale nato nel 1985 dall’esigenza, per l’autore che ancora scriveva in ceco ma [...]]]> di Sandro Moiso

Milan Kundera, Praga, poesia che scompare. Seguito da Ottantanove parole, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 102, 12 euro

Nel libello appena pubblicato da Adelphi, nella collana «Piccola Biblioteca» con il numero 803, è impossibile non riconoscere nel ritratto culturale e letterario di Praga che ne scaturisce, attraversato da un fremito di commossa nostalgia, un autoritratto, che rivela, forse meglio di qualsiasi saggio critico, la genealogia segreta da cui scaturisce l’intera opera di Kundera. Dentro a quello stesso laboratorio ci conduce anche Ottantanove parole, un dizionario personale nato nel 1985 dall’esigenza, per l’autore che ancora scriveva in ceco ma pensava a come ogni frase sarebbe suonata in francese, di chiarire al suo pubblico le « parole chiave », le « parole trabocchetto », le « parole d’amore » attorno alle quali erano costruiti i suoi romanzi.

Dalla riunione dei due testi, entrambi usciti in origine su « Le Débat », risulta evidente la volontà di rivendicare un’appartenenza occidentale per la città e la cultura letteraria, ma non soltanto, del paese d’origine di un autore di cui Adelphi è stata la prima e fortunatissima casa editrice in Italia, mentre la Francia, che lo aveva ospitato fin dal 1975, costituiva la seconda patria. Se non la prima, considerato che Kundera è stato spesso indicato come «scrittore, poeta, saggista e drammaturgo francese di origine cecoslovacca e etnia ceca». Una rivendicazione e una forma di nostalgia che derivavano sia da una forma di riconoscenza nei confronti del “nuovo mondo” che lo aveva accolto nell’esilio e, contemporaneamente, dalla nostalgia tipica del profugo nei confronti della patria lasciata alle spalle.

Una rivendicazione ostentata di accostamento, se non di appartenenza, non solo della sua opera ma di un’intera cultura nazionale che si scontra però, in maniera paradossale, con la storia di una città che, come altre ai “confini orientali” d’Europa e un tempo integrate nell’impero asburgico o austro-ungarico, ha visto incrociarsi sul suo territorio e nel suo background culturale lingue, religioni, popoli e culture spesso profondamente diverse. Sicuramente la lingua tedesca, quella ebraica e yiddish, quella slava insieme alle rispettive religioni di appartenenza (cattolica, protestante, ortodossa ed ebraica). Cosa che se da un lato può aver dato vita a conflitti e divisioni in numerosi momenti storici (si pensi soltanto alla defenestrazione dei delegati cattolici a Praga del 1618 che di fatto diede vita alla guerra dei Trent’anni e che, invece, l’autore nel testo in questione sembra voler far coincidere con la rivendicazione dell’occidentalità della cultura praghese, mentre quello fu proprio l’inizio di una divisione interna all’Europa che, di fatto, sembra non essersi chiusa ancora adesso nonostante la leggenda dell’unità europea e delle sue radici cristiane), dall’altro ha creato quelle condizioni di ricchezza culturale e linguistica che ha caratterizzato la sua letteratura.

Basti far riferimento a Franz Kafka e alla sua famiglia, in cui le origini e le tradizioni ebraiche del padre in qualche modo si scontravano con quelle “tedesche” della madre. Anche a livello linguistico. Motivo per cui lo scrittore scrisse le sue opere in tedesco, risultando poi essere il principale esponente della letteratura ebraica in quella lingua.

E’ soltanto un esempio, tra i tanti che si potrebbero fare, per riportare sui giusti binari la polemica a favore dell’identità culturale ceca che anima l’opera e l’intento di Milan Kundera (Brno, 1929 – Parigi, 2023). Ma è anche chiaro, però, che la polemica e la rivendicazione ceco-occidentale di uno dei più conosciuti autori praghesi della contemporaneità, contenuta in un testo scritto nel 1980, è dovuta soprattutto alla pesante e massiccia azione di rimozione e risistemazione culturale e politica operata dall’Unione Sovietica a seguito della spartizione territoriale d’Europa seguita al secondo conflitto mondiale e alla Conferenza di Yalta.

Una forma di sudditanza agli interessi sovietici che, anche se fatta rispettare direttamente dagli scagnozzi in divisa e dai burocrati di Stalin e degli altri segretari del PCUS fin quasi alla caduta del muro di Berlino, derivò proprio dalle scelte politiche e militari di quell’Occidente liberale e democratico che troppo spesso l’autore sembra idealizzare. In fin dei conti quella spartizione conveniva ad entrambi i reggitori del mondo, come la fine del condomino russo-americano sul pianeta ha finito con il dimostrare anche a danno dell’immagine statunitense, cosicché i popoli che ne furono vittime nell’Europa Orientale (dai lavoratori in rivolta a Berlino Est nel 1953 agli insorti ungheresi del 1956, fino agli studenti praghesi del 1968 e gli operai polacchi degli anni Settanta e Ottanta) possono ancora “ringraziare” tutt’ora sia i carri armati sovietici che le fasulle promesse democratiche americane per la repressione, quasi sempre durissima, che li colpì ripetutamente ad ogni tentativo di rialzare la testa.

Così il nazionalismo culturale di Kundera, perché è di questo che si parla in sostanza, rinvia a quell’immagine delle piccole patrie già così ben descritta, nel loro livore e nelle loro divisioni fratricide, nei reportage di George Simenon contenuti in Europa 331 che, nel 1933, sottolineava le ambizioni, le piccinerie, gli egoismi e le rivalità che separavano tra di loro le piccole nazioni sorte sul finire del Primo conflitto mondiale ad opera della suddivisione dell’impero austro-ungarico messa in atto a Versailles, sotto l’influenza e l’azione del presidente americano Wilson.

Odii, rivalità, pretese, sabotaggi politici ed economici che vediamo in atto ancora oggi, in occasione del conflitto russo-ucraino, e che spesso i media mainstream riducono a filo-putinismo o a disattenzioni per le regole democratiche dettate dall’Unione Europea, ma che in realtà nascondono interessi politici, economici e territoriali infinitamente complessi e spesso dettati da un nazionalismo di origine, tutto sommato, recente per alcuni casi (ad esempio la divisione tra Repubblica ceca e Slovacchia) o più antico e ancora caratterizzato da mire espansionistiche in altri (come i rimpianti imperiali della Polonia che pensa ancora in termini simili a quelli della dinastia jagelloniana, che in realtà era di origine lituana, oppure alle rivalità sui territori e popoli della Transilvania tra Ungheria, Romania e Ucraina stessa).

Ed è per i motivi qui appena delineati che dispiace vedere tirate in ballo l’indiscutibile grandezza e l’ironia incomparabile, questa sì autenticamente praghese, di autori come Franz Kafka, Jaroslav Hašek (forse il più grande scrittore antimilitarista di tutti i tempi) e di Bohumil Hrabal, tutti e tre sicuramente “universali” nella loro fulgida grandezza letteraria, per sviluppare un discorso che nel difendere l’identità letteraria e culturale ceca e praghese finisce con l’esaltare un nazionalismo fasullo che finge una coincidente linea di attrazione “fatale” tra cultura e politica boema e libertà occidentali (sempre e soltanto presunte anch’esse).

A chiarire, diciamolo pure, la sudditanza culturale, questa sì, dello stesso autore nei confronti di un Occidente di cui è stato a lungo corteggiato ospite, dovrebbe bastare una delle ottantanove definizioni date nel secondo testo: quella di ROMANZO (europeo), di cui Kundera giunge a dare la seguente definizione e definitivo giudizio:

Il romanzo che io definisco europeo nasce nel Sud dell’Europa agli albori dei Tempi moderni e rappresenta in sé un’entità storica che in seguito amplierà i propri confini al di là dell’Europa geografica(in particolare nelle due Americhe). Per la ricchezza delle sue forme, l’intensità vertiginosamente concentrata della sua evoluzione, il suo ruolo sociale, il romanzo europeo (così come la musica europea) non ha eguali nelle altre civiltà2.

Manifestando così una sorta di nostalgia per un’Europa e una cultura che ancora si pretendeva superiore sul resto del mondo, più che una coscienza delle infinite trasformazioni, delle lotte e dei conflitti che ne hanno definito e disfatto, allo stesso tempo, l’identità e la sua crisi, sviluppatasi in forme drammatiche e contraddittorie fino ad oggi e, certamente, non soltanto a causa dei “barbari” provenienti dall’Est.


  1. G. Simenon, Europa 33, Adelphi Edizioni, Milano 2020. In particolare nel lungo reportage che da il titolo al volume da p. 11 a p. 126.  

  2. M. Kundera, Ottantanove parole, in M. Kundera, Praga, poesia che scompare, Adelphi Edizioni, Milano 2024, p. 91.  

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Ramadan https://www.carmillaonline.com/2024/03/12/ramadan/ Tue, 12 Mar 2024 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81555 di Giovanni Iozzoli

Come negli ultimi 1445 anni, è cominciato il mese di Ramadan per 1,9 miliardi di musulmani nel mondo. Un tempo, in occidente, questa pratica evocava l’eco lontana di mondi esotici. Oggi, con il restringimento e la densificazione degli spazi globali, il digiunatore è il nostro vicino di casa, il collega di postazione o il calciatore che idolatriamo. Paradossalmente, nonostante questa crescente condizione di prossimità, negli ultimi vent’anni lo stereotipo dell’Islam come figura dell’“alterità” per eccellenza, si è sedimentato nell’immaginario collettivo nostrano. Nelle nostre società, la percezione di questa irreversibile presenza islamica, oscilla oggi tra due estremi: la mostrificazione dell’“altro” percepito [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Come negli ultimi 1445 anni, è cominciato il mese di Ramadan per 1,9 miliardi di musulmani nel mondo. Un tempo, in occidente, questa pratica evocava l’eco lontana di mondi esotici. Oggi, con il restringimento e la densificazione degli spazi globali, il digiunatore è il nostro vicino di casa, il collega di postazione o il calciatore che idolatriamo. Paradossalmente, nonostante questa crescente condizione di prossimità, negli ultimi vent’anni lo stereotipo dell’Islam come figura dell’“alterità” per eccellenza, si è sedimentato nell’immaginario collettivo nostrano. Nelle nostre società, la percezione di questa irreversibile presenza islamica, oscilla oggi tra due estremi: la mostrificazione dell’“altro” percepito come presenza aliena, che induce persino sottili suggestioni di “reconquista”; oppure un paternalismo progressista che legge l’identità religiosa come ritardo della storia, inevitabilmente destinato ad essere riassorbito dalla griglia valoriale liberale.

Agli occhi occidentali, il digiuno del Ramadan è forse la più estranea ed “estrema” delle prescrizioni islamiche. È soprattutto la più radicata e massificata pratica collettiva pre-moderna che ancora persiste dentro le nostre società, che hanno sradicato ogni riferimento al trascendente, smontando e ricostituendo più e più volte il senso comune del loro stare al mondo – sotto l’incedere dello sviluppo scientifico e tecnologico che tutto divora e riplasma.

Il Ramadan è un moto spirituale di riconduzione al corpo e alle sue verità elementari. L’atto di culto si pratica col corpo, attraverso il corpo, ma in una allusione di superamento della dimensione mondana e materiale. Digiunare è una pratica antica – che nei secoli passati connotava più o meno tutte le grandi religioni – che solo nell’Islam è rimasta attiva e largamente partecipata. Rappresenta il residuo di epoche pre-tecnologiche in cui solo il corpo era a disposizione degli uomini per esprimere i sentimenti o le aspirazioni più radicali o profonde. Il corpo – prigione samsarica o veicolo di liberazione, a seconda del suo utilizzo – era l’unica realtà su cui l’uomo primordiale potesse contare con certezza.  Quella “organica” era l’unica tecnologia disponibile.

Il corpo che digiuna sta “nuotando controcorrente” – come in ogni ascesi psico-fisiologica, a partire dallo Yoga –, rispetto alla direzione naturale e inerziale. Ordinariamente, l’esperienza umana produce una tendenza centrifuga dell’uomo rispetto all’idea di Dio. Il digiuno serve ad arrestare questo allontanamento dal centro, dal Logos, dall’origine, che inizia semplicemente quando veniamo al mondo. Il digiuno deve provvisoriamente imbrigliare la “fuga dall’essere” che il dipanarsi della vita quotidiana provoca e rivela in ogni suo aspetto. .

Arrestata la traiettoria centrifuga, Il digiuno deve contribuire a riorientare e reintegrare l’individuo verso un suo centro misterioso e nascosto, che solo nel silenzio e nella sottile sofferenza dell’astensione dal cibo e dal bere, si può percepire. Lo scorrere delle ore del giorno appare come calato in una dimensione irreale, in uno stato di sospensione, di attesa. Si crea uno spazio vuoto, libero, in cui le faccende mondane perdono consistenza, si rivelano effimere, vacue, perché il corpo ci ricorda ogni istante che siamo dentro un’anomalia, una eccezionalità, un allarme – abbiamo sete e abbiamo fame.

La vita ricomincia a correre, come l’orologio del tempo biologico, solo al calare del sole. Lì, con la rottura del digiuno, c’è un ritorno ai fondamenti basici dell’esperienza umana – nutrimento e sessualità – che però rappresentano solo una parentesi. Il vero credente usa la sazietà e la notte che incede, per ritornare al piano dell’ascesi e utilizzare le ore del buio e le sottili vibrazioni che da esse emanano.

Per gli occidentali questa esperienza è imperscrutabile, aliena o addirittura folle. La si attribuisce ad una caratterizzazione etnico-geografica – un presunto carattere mistico dell'”orientale”. Ma Oriente e Occidente sono invenzioni provvisorie che servono a fissare le coordinate identitarie – io e l’altro. Il cristianesimo, ad esempio, è stato faccenda orientale per lungo tempo e diventa “occidente” solo faticosamente, nei secoli, relegando nei monasteri le pratiche cultuali e “liberando” le comunità da obblighi che ne avrebbero zavorrato lo sviluppo economico. L’Islam ha riportato “il cenobio” dentro casa, dentro la vita delle persone comuni, rompendo il dualismo e la divisione dei compiti che divideva il sacro e il profano. La preghiera che scandisce la giornata, il Libro senza mediatori, il digiuno, appunto – sono tutte eredità del monastero o dell’ashram, che l’Islam colloca nella vita ordinaria. Nell’Islam non c’è monachesimo perché il monastero pervade la quotidianità, con i suoi riti silenziosi.

Nelle fabbriche del nord Italia – dentro cantieri, magazzini, verniciature, fonderie e zincature –, ogni imprenditore sa, con disappunto mal sopportato, che in questo mese si registrerà un calo della produttività e un aumento dell’assenteismo. Nei paesi islamici l’attività lavorativa è istituzionalmente limitata al minimo; ma in Europa i digiunatori devono convivere con i ritmi ordinari del lavoro, dello studio, persino dello sport. I padroni mugugnano ma abbozzano. Weberiani inconsapevoli, non capiscono come persone spesso povere, dedichino il loro tempo a simili arcaismi: il favore divino è testimoniato dall’abbondanza degli straordinari, mica dei digiuni…

Questa testarda propensione verso le ragioni dello spirito – pur con tutte le prosaiche deformazioni dei tempi presenti – è sostanzialmente incompatibile con la modernità. Anzi, è l’ultimo ostacolo al pieno dispiegamento dell’“uomo nuovo” che il cyber-capitalismo sta faticosamente sgravando dal suo seno. La “coazione a godere”, lo spettacolo come surrogato della vita, l’iper-individualizzazione delle esistenze e la loro presunta “liberazione” dai ceppi del genere, dell’identità e delle radici, le malattie dello spirito come normale condizione umana. E la durezza della fame, delle privazioni – la dimensione naturale che abbiamo impiegato secoli per allontanare da noi come incubo antico (che è invece la quotidianità dei poveri del mondo…). Tutto ciò cozza irriducibilmente con il modello di vita che il tardo liberalismo sta scolpendo.

È per quello che oggi il Ramadan è visto da molti occidentali come residuo intollerabile, fanatico e inspiegabile: perché riporta l’uomo alla nudità, alla fragilità della sua condizione essenziale, lo priva degli orpelli identitari; se digiuni puoi essere ricco, ma soffrirai lo stesso la fame; device e tecno-chincaglieria non aiutano. Torni un neonato affamato, una bocca avida che non può fare altro che affidarsi. L’ego deve mollare la presa, affievolire – almeno per un po’ – la sua ostinazione, per spogliarsi di tutte le maschere con cui abbiamo faticosamente coperto la nostra essenzia. Il permanere sulla faccia della terra di una cultura che non subisce unilateralmente e totalmente la fascinazione del “paese dei balocchi” della modernità, è l’espressione di una preziosa resistenza antropologica da indagare e capire.

L’occidentale ha impiegato secoli per sottrarsi alla consapevolezza del limite del corpo; ha cercato di sconfiggere fame, sete, malattie, dolore; ha cercato di controllare, sedare, riattivare; e oggi ha raggiunto una falsa coscienza di semi onnipotenza che il capitale e la tecnologia alimentano come una bolla artificiale. Vedere uomini e donne del ventunesimo secolo fermarsi a digiunare è un oltraggio alla contemporaneità e alle sue promesse; un rifiuto potenziale, uno schiaffo valoriale, una sfida che lascia l’uomo occidentale ancora più disorientato e solo, nonostante lo stomaco pieno di false certezze.

Buon Ramadan a tutti, allora. A chi digiuna e a chi si abbuffa, nella comune deriva di senso in cui navighiamo. Buon Ramadan: nella speranza non che “l’altro” diventi come noi – a condividere uno strapuntino nell’inferno piatto dell’omologazione – quanto piuttosto si renda disponibile a pompare sangue fresco e idee e vita dentro il corpo esausto della modernità. L’olio della Lampada viene da un Ulivo che non è ne’ d’Oriente ne’ d’Occidente, come recitano i coranici “versetti della luce”.

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Il nuovo disordine mondiale / 21: un’invenzione coloniale (in via di disgregazione) https://www.carmillaonline.com/2023/09/06/il-nuovo-disordine-mondiale-21-uninvenzione-coloniale-in-via-di-disgregazione/ Wed, 06 Sep 2023 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78655 di Sandro Moiso

Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 170, 16 euro

Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anticolonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora).[…] E’ ben diverso da quello degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era [...]]]> di Sandro Moiso

Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 170, 16 euro

Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anticolonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora).[…] E’ ben diverso da quello degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era esso stesso una esportazione colonialista.[…] Sì, il nuovo anticolonialismo è molto più primitivo […] Gli bastano le immagini: da un lato i grandi alberghi e le banche con le facciate alla Potentik, dall’altro il vuoto della savana, i villaggi e le periferie dove sono in agguato le malattie, la miseria. (Domenico Quirico, “La Stampa”, 5 agosto 2023)

Jean-Loup Amselle (Marsiglia, 1942) è un antropologo francese che ha realizzato ricerche sul campo in Mali, in Costa d’Avorio e in Guinea, concentrando la sua attenzione sui temi dell’etnicità, dell’identità, del multiculturalismo, del postcolonialismo e della subalternità. Inoltre è Directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e caporedattore della rivista internazionale “Cahiers d’études africaines”.

Un curricolo di studi e ricerche importante per l’autore di un testo (edito per la prima volta in Francia nel 2022) che esce in un momento di grave crisi politico-militare della struttura geopolitica e culturale imposta per lungo tempo dal colonialismo francese (ed europeo) all’Africa subsahariana. Come sottolinea Marco Aime nella sua prefazione al testo:

la nozione di Sahel appare per la prima volta nel 1900, nella penna del botanico Auguste Chevalier, come categorizzazione botanicogeografica o bioclimatica, legata alla latitudine e alle curve delle precipitazioni. Oggi, però, il Sahel è divenuto una sorta di regione distinta, con presunte caratteristiche etniche, geografiche, ambientali, che la caratterizzerebbero come un unicum. In realtà non è neppure semplice indicarne i confini, chi è in grado di tracciare un confine netto con il Sahara a nord o con la savana a sud? Potremmo tranquillamente dire che esiste più di un Sahel: su un piano meramente geografico, peraltro convenzionale, corrisponderebbe a una striscia lunga 8500 km, vasta circa 6 milioni di km2, che attraversa 12 Stati (Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea), definita più dalle sue caratteristiche climatiche, ambientali e sociali che non da quelle geografiche o politiche1.

Però, prima di proseguire con l’analisi del contenuto del testo, occorre qui sottolineare subito come di quei dodici stati menzionati nella categoria “Sahel” negli ultimi anni almeno sette si siano sottratti all’influenza occidentale in generale e francese in particolare, come i recenti fatti collegati al “colpo di stato” nigerino sembrano confermare; nonostante gli sforzi militari ed economico-politici messi in atto dal colonialismo francese di mantenere il controllo su una delle aree più ricche di uranio ed altre preziose materie prime dell’intero continente africano. Un’autentica débacle per una forma di occupazione coloniale che è continuata per decenni dopo la cosiddetta “fine dell’età coloniale”, ma che oggi sembra essere giunta al termine insieme alle pretese occidentali di rappresentare, sulle teste di miliardi di abitanti del pianeta oppure delle centinaia di milioni di quelli delle regioni africane coinvolte, l’unico e perfetto modello di governance e organizzazione dello sfruttamento economico delle risorse di gran parte del pianeta.

E qui, in questa pretesa di universalità del modello occidentale, si inserisce la leva, anzi verrebbe da dire il piede di porco, di Amselle, tutto teso a scardinare un modello e un immaginario che sono serviti soltanto a perpetrare fino ad ora un modello di dominio volto a garantire la stabilità e la continuità dello sfruttamento delle risorse africane a favore dei ben più ricchi paesi dell’Occidente bianco e crapulone. Infatti, come afferma ancora Aime nella sua prefazione:

Un filo rosso percorre l’intera opera di Jean-Loup Amselle e ne mette in luce, oltre alle indiscusse capacità, la coerenza e l’estrema originalità. Fin dai suoi primi lavori […] Amselle sembra essersi dato una missione: scardinare il rigido sistema classificatorio, al quale non è sfuggita neppure molta antropologia del passato, per restituirci un panorama più complesso e articolato, che vada al di là delle semplici (talvolta semplicistiche) schematizzazioni adottate, in particolare dagli europei, nei confronti dell’Africa. Questo continente, infatti, è stato troppe volte vittima di vere e proprie “invenzioni”, pensiamo al mito di Timbuctù come città dell’oro o alla propensione mistica dei dogon, solo per rimanere nel Mali, Paese del Sahel, al centro di questo ultimo lavoro dell’autore2.

Come chiarisce lo stesso Amselle:

il Sahel, categoria nata per designare la regione che si estende tra il Sahara e la savana “sudanese”, è in effetti una realtà spettrale, ibrida, mista, che mescola popolazioni “bianche”, “rosse” e “nere”, agricoltori sedentari e pastori transumanti, animisti e musulmani. Questa realtà mutevole, come quelle che la circondano (il Sahara, la savana), è stata coinvolta in una serie di formazioni politiche su larga scala – gli Imperi del Ghana, del Mali e del Songhay – tutte orientate lungo un asse nord-sud piuttosto che ovest-est. Sebbene la colonizzazione francese si estendesse dal Maghreb al Golfo di Guinea, non fu questa la divisione geografica che ne derivò. Al contrario, i conquistatori, gli amministratori e gli studiosi coloniali stabilirono una geografia razziale e bio-climatica che livellava le zone geografiche, le razze e le etnie in funzione delle latitudini. Ne è risultata una gerarchizzazione ambigua che oppone delle razze “civilizzate” ma pericolose, come i mori, i tuareg e i peul, a razze più incolte ma più pacifiche, come gli “agricoltori neri”. Questo schema di riferimento coloniale continua a essere utilizzato ancora oggi e a ossessionare gli ufficiali francesi delle operazioni “Barkhane” e “Takuba”3.

Sottolineando però come l’opera di divisione trasversale sia stata non soltanto geografica, bio-climatica e razziale, ma anche linguistica.

Non ho ancora fatto notare che dal 2013 in poi, i successivi interventi militari che hanno coinvolto diversi Paesi “saheliani”, soprattutto il Mali, hanno avuto nomi arabi o tamasheq […] “Takuba”, il termine utilizzato per designare la forza speciale europea voluta da Emmanuel Macron, significa “sciabola” in lingua tamasheq. Il campo semantico utilizzato dal comando francese è quindi principalmente arabo e tamasheq e riguarda quindi soltanto le popolazioni nomadi, che rappresentano solo una frazione della popolazione totale del Mali. È facile osservare quindi come la guerra nel Sahel si giochi anche sul piano simbolico, con la scelta dei termini utilizzati, che possono anche ritorcersi contro chi li aveva introdotti. […] Con l’invenzione della categoria di Sahel all’inizio della colonizzazione, e fino al suo utilizzo odierno, la Francia e il Mali non hanno più smesso di guardarsi con sospetto. È la proiezione di un immaginario fantasma, di una parte dell’Africa che ha la consistenza di un sogno, di un safari avventuroso dove si inseguono le fantasie di una casta militare nostalgica di un’epoca passata, un’epoca in cui la Francia contava ancora sulla scena internazionale, mentre adesso non può nemmeno più giocare alla guerra4.

In questo modo l’ex-potenza coloniale francese non soltanto ha troncato le vie “naturali” che un tempo collegavano da nord a sud le società del continente, favorendo lo sviluppo di regni e stati che la storiografia colonialista sembra aver cancellato dalla Storia, riducendo la stessa ad un susseguirsi di scontri interetnici cui solo l’intervento coloniale occidentale avrebbe messo fine5, ma ha anche contribuito allo sviluppo di un’etnicizzazione precedentemente inesistente o scarsamente rappresentativa delle culture locali che si incrociavano e confrontavano secondo altri parametri. Etnicizzazione e demonizzazione, ad esempio, dell’Islam in cui spesso sono cascati anche gli intellettuali “locali”, come Amselle dimostra nel lungo capitolo riguardante La formattazione dell’intellettuale saheliano6. Così, come chiarisce ancora Aime nella sua prefazione:

Molti di questi scrittori e saggisti riproporrebbero una nuova etnicizzazione della narrazione, enfatizzando il colore della pelle, le tradizioni locali e l’animismo come rimedio alla modernità di carattere occidentale. L’Islam viene spesso caricaturizzato e demonizzato, impedendo così che se ne faccia un’analisi più profonda e articolata soprattutto sulle cause che spingono sempre più giovani ad aderire ai movimenti jihadisti. Viene spesso riproposta una versione rivisitata dell’afrocentrismo, secondo cui tutto avrebbe avuto origine in Africa, invece di proporre una visione più dinamica delle molte e continue relazioni che il continente aveva con il mondo esterno […] Peraltro, molti di questi artisti e intellettuali vivono in Europa o negli Stati Uniti, dando vita a quello che Amselle definisce “un gioco ambiguo con l’ex potenza coloniale”7.

La forma-stato che il colonialismo centralizzatore, soprattutto francese, ha lasciato in eredità ha fatto poi sì che:

L’introduzione dello Stato civile, dei documenti di identità e dei censimenti etnici ha fortemente limitato la fluidità delle affiliazioni etniche e i cambiamenti d’identità ricorrenti in tutta la regione: “è così che gli attori sociali sono stati costretti a definirsi sulla base di un’identità mono-etnica e del corrispettivo stile di vita”. L’acuirsi delle tensioni, accentuato dalla caduta del regime libico di Gheddafi, ha inoltre fatto sì che questioni presuntamente etniche si siano intrecciate con questioni religiose e politiche, vedi i feroci scontri tra dogon “animisti” e peul islamici. A sessant’anni dall’indipendenza laddove in realtà c’è una situazione ibrida, mista, in cui agricoltori e pastori si mescolano, così come animisti e musulmani, dando vita a un mondo fluido, si è venuta invece a instaurare una società rigida, basata sull’etnia e sulla casta. Viene riproposta una gerarchizzazione tra “razze” civilizzate, peraltro considerate oggi pericolose per l’adesione al jihadismo, e “razze” incolte, ma pacifiche. I fantasmi coloniali, anche se mascherati da africani, sono ancora vivi e il merito di Amselle è, ancora una volta, di provocarci per indurci a guardare più in profondità, al di là della superficie, per comprendere meglio la complessità8.

Ecco, allora, che il testo edito da Meltemi si rivela di fondamentale importanza per approfondire l’interpretazione degli eventi, solo apparentemente disordinati e imprevedibili, che hanno percorso quella fascia continentale dell’Africa dal febbraio del 2022 (quando i francesi sono stati invitati a lasciare il Mali in 72 ore) e il luglio del 2023 (colpo di stato nigerino). Diciotto mesi durante i quali la storia del continente e del mondo ha ripreso a correre in direziona ostinatamente contraria a quanto voluto, sperato e narrato mediaticamente dai vertici politici, militari ed economici occidentali.

E se qualcuno non fosse ancora convinto di ciò, allora basterebbe paragonare il rapido abbandono di Kabul nell’autunno del 2021 con quello di Khartum nell’aprile di quest’anno. Due capitali, una dell’Afghanistan, l’altra del Sudan; la prima con 4.600.000 abitanti, a capo di uno stato di 650.000 kmq di estensione, e la seconda con 5.275.000 abitanti, a capo di uno stato di 1.800.000 kmq. Aree troppo vaste, troppo miserabili e troppo socialmente e religiosamente nemiche dell’ordine occidentale fin dall’Ottocento9 in cui il tentativo americano ed europeo di tenere in piedi governi fantoccio organizzati intorno alla corruzione e alla concessione di ricche prebende in cambio del libero sfruttamento di risorse fondamentali per l’economia capitalistica occidentale è andato bellamente a farsi fottere. E non per caso.

Un altro ammutinamento di militari scuote l’émpire africano della Francia. Attenzione: il punto centrale di queste giornate torride e stupefatte non è lo scandalo di un golpe. I presidenti francesi, dopo le finte indipendenze, ne hanno ordinati e commissionati a decine per tener in ordine il cortiletto della «grandeur». […] Ma fino a ieri i golpisti si mettevano sull’attenti quando le consegne dal numero 14 rue Saint Dominique, oggi chiamano loro per ordinare ai francesi di fare i bagagli. […] Comunque si sviluppi l’ammutinamento, il punto centrale è il modo in cui sulle rive del Niger, un fiume che per l’Africa è la sintesi della vita, il respiro, l’immediato domani, muore l’impero coloniale della Francia: miseramente, senza stile, tra bugie e porcherie. Questo capitolo disonorevole, sopravvissuto perfino alla logica, si sta sgonfiando come un pallone di gomma, di quelli che fluttuano in aria e poi con un fischio diventano uno straccio di plastica. La Storia, davvero, non finisce con un botto ma con un lamento. Volete un altro simbolo ancor più umiliante? Voilà: l’annuncio che nel vicino Mali il francese è stato abolito come lingua nazionale.[…] Già si ascolta, anche per il Niger, la solita tiritera che ribalta la gerarchia delle evidenze, ovvero che dietro l’ammutinamento ci sarebbe la diabolica mano della pestifera Wagner putiniana. La Wagner non ha inventato niente in Africa, ha solo riempito con traffici e violenza suoi i vuoti che la Francia, e l’Occidente, ha scavato in questi Paesi: con decenni di complicità interessate e di sfruttamento, coltivando servilità e prostituzioni dei suoi alleati al potere, consentendo la saldatura tra l’ingiustizia da denaro e l’ingiustizia da potere10.

Un richiamo cui forse non sfugge neppure il recente colpo di stato militare riuscito, dopo quello fallito del 7 gennaio 2019, nel Gabon11. Anche se, come sempre, è spesso difficile separare l’anelito all’indipendenza dalla Francia dei militari e dei popoli africani dai giochi dell’imperialismo e delle rivalità infra-europee ed occidentali12.


  1. M. Aime, Prefazione all’edizione italiana in Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 9-10  

  2. M. Aime, op. cit., p. 9  

  3. J-L. Amselle op. cit., pp. 143-144  

  4. Ibidem, pp. 144-145  

  5. Si vedano in proposito: T.Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021 (ed.originale inglese 2019) e M. Aime, La carovana del sultano. Dal Mali alla Mecca: un pellegrinaggio medievale, Giulio Einaudi Editore, Torino 2023  

  6. Ivi, pp. 37-81  

  7. Ivi, p. 12  

  8. ivi, p. 13  

  9. Quando per quasi vent’anni, tra il 1882 e il 1899, l’impero britannico fu costretto, insieme all’Egitto, a rinunciare al controllo del Sudan e del cruciale snodo geo-politico di Khartum, città posta tra i due principali affluenti del Nilo, dopo le sconfitte subite a causa della rivolta mahdista guidata da Muhammad Ahmad, proclamatosi mahdi, redentore dell’Islam, nel 1881.  

  10. D. Quirico, Niger, perché il colpo di Stato getta il Sahel nel caos più profondo, La Stampa, 28 luglio 2023  

  11. “La Francia ha sempre avuto fortissimi legami con il Gabon che è anche nell’area monetaria del Franco CFA, legato a Parigi, e l’esercito gabonese da anni viene addestrato dai militari francesi. Altri grandi player sono però presenti da anni in Gabon, soprattutto la Cina. Pechino è stata fra i primi a rilasciare un comunicato per chiedere garanzie sulla sicurezza di Ali Bongo, che in primavera era stato ospite di Xi Jinping per concludere una serie di accordi commerciali sullo sfruttamento delle risorse petrolifere. Gli stati confinanti come il Camerun ed il Congo non hanno ancora preso una posizione ufficiale, ma restano entrambi piuttosto vicini alla Francia, anche se in Congo le attività petrolifere sono in joint venture con aziende russe da anni. Già nel 2019 le forze armate avevano tento un colpo di stato in Gabon approfittando dell’assenza di Bongo, in Marocco per curarsi dopo l’ictus, ma in poche ore il governo gabonese aveva ripreso il controllo della situazione. Ora le cose sono diverse e nelle strade di Libreville regna la calma, compreso nel quartiere dove risiede la famiglia del presidente. Questo golpe arriva in un momento particolarmente critico ed in una regione nella quale i paesi sembravano molto più stabili rispetto al travagliato Sahel, un contagio molto pericoloso che potrebbe cambiare definitivamente gli equilibri del continente africano.” Matteo Giusti, I militari prendono il potere anche in Gabon. Un golpe che arriva in un momento particolarmente critico, “Il Riformista”, 30 agosto 2023  

  12. Si pensi, a solo titolo di esempio, che già alla fine dell’Ottocento il ritorno del dominio britannico nel Sudan Mahdista fu dovuto in gran parte al timore per le mire espansionistiche francesi che, potendo contare su una presenza nel Ciad, si sarebbero potute espandere nel Darfur e indebolire l’egemonia britannica nel nord e nell’est dell’Africa.  

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Elogio dell’eccesso /3: Cormac McCarthy e il rosso della sera dell’Occidente https://www.carmillaonline.com/2023/07/20/elogio-delleccesso-3-cormac-mccarthy-il-rosso-della-sera-delloccidente/ Thu, 20 Jul 2023 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78090 di Sandro Moiso

Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero. (“La [...]]]> di Sandro Moiso

Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero. (“La strada” – Cormac McCarthy)

Il 20 luglio di quest’anno Cormac McCarthy avrebbe dovuto compiere 90 anni.
Per uno di quegli insondabili moti degli orologi biologici individuali così non è stato e lo scrittore americano se n’è andato il 13 giugno, nella sua casa nei pressi di Santa Fe, nel Nuovo Messico. Tornando a quel mistero, di cui la morte individuale è la massima espressione e manifestazione, di cui parlava nell’ultima riga di uno dei suoi romanzi più conosciuti.

Se la letteratura americana migliore è impregnata del mistero della morte, in tutte le sue possibili forme, Cormac McCarthy ne è stato forse il cantore più coerente e inflessibile.
Morte per violenza, soprattutto, ma anche morte come fine di tutto: di una vita, di un ciclo, di un mondo, talvolta, come in Non è un paese per vecchi, del senso e di qualsiasi tentativo di dare un significato alle azioni degli uomini.

In un mondo che, invece, ha cercato di allontanare da sé la morte, pur producendola in maniera esagerata, continua e con qualsiasi mezzo, trasformandola narrativamente in un accidente, magari irrimediabile, ma pur sempre tale. Un intoppo nel percorso di vite destinate all’eternità non solo spirituale ma anche fisica e alla realizzazione di sé attraverso il consumo e la produzione di ricchezza (quest’ultima decisamente meno egualitaria della morte che, almeno e nonostante gli sforzi di conservazione criogenica della carcassa individuale, in attesa di un futuro migliore, arriva sempre e comunque per tutti).

Come scriveva già il sottoscritto, qualche anno fa, l’ossessione ricorrente nella maggior parte della migliore letteratura americana certo è

quella della morte. E del male. Che spesso la precede e sempre l’accompagna.
Sarà l’origine puritana di gran parte della cultura “bianca” statunitense, ma da Herman Melville a William Faulkner, da Edgar Allan Poe a Ernest Hemingway e da Jack London fino a John Williams la grande mietitrice aleggia su gran parte delle vicende narrate. Anzi si potrebbe forse dire che il “vitalismo” che sembra aver contraddistinto alcuni dei suoi capolavori non avrebbe senso se non fosse accompagnato dalla sua ombra costante.
Eppure quanta profondità, quanto nichilismo, quanta disperata solitudine, quanta assenza di qualsiasi forma di salvezza contengono quelle pagine. Dai racconti western di Bret Harte a Mark Twain e da Howard P.Lovecraft a Larry McMurtry, solo per citarne alcuni e di epoche diverse.
L’umorismo della frontiera nascondeva quasi sempre la solitudine dell’uomo sulle Grandi Pianure e, per default, la sua eterna solitudine davanti all’universo e alla morte. Mentre l’orrore cosmico non costituiva altro che il suo logico corollario.
Morte mai consolatoria, come il cattolicesimo, inavvertitamente, ha invece spesso suggerito anche ai romantici più agguerriti della letteratura italiana. Male privo di salvezza che, nella migliore tradizione luterana, non poteva e non potrà mai trovare consolazione in alcunché.
Vite e vicende senza speranza, senza significato, senza via d’uscita o possibilità di redenzione. Da Jim Thompson a David Goodis, dal Charles Bukowski di Pulp alla grandissima, eppur cattolicissima, Flannery O’Connor di Un brav’uomo è difficile da trovare1.

McCarthy ha sempre suonato il controcanto del fasullo vitalismo americano e per fare ciò ha smontato ogni mito, a partire da quello della Frontiera e se Morte e Male costituiscono i due caratteri dominanti della grande letteratura d’oltre oceano, allora Cormac McCarthy ne rappresentato la summa. Non solo epocale o generazionale ma, forse, definitiva, tracciando, romanzo dopo romanzo, la storia della morte americana.

Morte e non Storia, soprattutto degli ultimi due secoli. Quelli di solito più celebrati dalla cinematografia di Hollywood e dalla letteratura mainstream. Quelli che hanno visto liberarsi al massimo le forze produttive degli Stati Uniti e, contemporaneamente, anche la loro più violenta forza distruttrice e la più determinata volontà di dominio e rapina. La morte e il male appunto.

Che in Cormac McCarthy sono tutt’altro che metafisici. Sono ben radicati negli individui e nei loro talvolta diabolici oppure talvolta stupidi o, ancora, talvolta soltanto raffazzonati progetti. Vendicarsi, arricchirsi, levarsi al di sopra degli altri uomini oppure semplicemente cercare di sopravvivere o di “essere giusti”: tutto porta alla morte e con sé, inevitabilmente, il male e il dolore.

Da coloro che cercano di usare a proprio vantaggio lo spietato killer di Non è un paese per vecchi, fino allo sceriffo che rinuncia ad inseguirlo, perché sarebbe soltanto inutile, pericoloso e fallimentare, al killer stesso che sopravvive solo in attesa di portare ancora morte e dolore. Al padre che cerca di proteggere il figlio dai pericoli di un mondo già morto nel romanzo La strada; da Meridiano di sangue, ambientato alla metà dell’ottocento, in poi tutto traccia soltanto il declino, privo di qualsiasi ascesa precedente, del sogno americano. Che, in sostanza, finisce per rivelarsi soltanto per quello che è: un lungo incubo e nient’altro.

Come afferma Malkina, la dark lady di origine argentina che si staglia al centro della vicenda di The counselor (Il procuratore, Einaudi 2013), mentre confessa provocatoriamente i propri impulsi sessuali irrefrenabili ad un parroco vile e spaurito, esaltando la grazia e la bellezza e la ferocia dei grandi felini.

Vedere la selvaggina ammazzata con eleganza mi tocca profondamente […] Una cosa del genere è sempre sessuale. Ma la grazia . La libertà. Il cacciatore ha una purezza di cuore che non esiste da nessuna altra parte. Credo che a definirlo non sia tanto quello che è diventato quanto tutto quello che è riuscito a non essere. Non puoi assolutamente distinguere quello che è da quello che fa. E quello che fa è uccidere. Noi naturalmente siamo un’altra storia. Sospetto che siamo inadatti per la strada che abbiamo scelto. Inadatti e impreparati. Vorremmo stendere un velo su tutto questo sangue e questo terrore. Che ci hanno portati qui. La nostra debolezza di cuore rischia di chiuderci gli occhi su tutto questo, ma facendo ciò fa il nostro destino. Forse non sarai d’accordo. Non so. Ma non c’è niente di più crudele di un codardo, e probabilmente il massacro che verrà supera la nostra immaginazione2.

D’altra parte la stessa Malkina è in qualche modo prodotto e conseguenza di una narrazione letteraria e politica che nasconde la menzogna e la violenza che sono servite a mantenere inalterato il volto perbenista di una società che dopo aver artificialmente rimosso il Ricordati che devi morire della tradizione latina, muore giorno dopo giorno nel dolore di cui, troppo spesso, è essa stessa causa e di cui non vuole sentir nemmeno parlare e in cui la morte e il male sono portati alle estreme conseguenze, mentre solo chi ha già molto sofferto può tentare di sopravvivere. «Non li ho mai conosciuti i miei genitori. Li hanno buttati giù da un elicottero nell’Oceano Atlantico quando avevo tre anni»3.

Scorrendo tutte le pagine dell’opera di McCarthy, per certi versi unico vero erede del lato più tragico e provocatorio di William Faulkner, non è difficile capire perché, proprio un attimo prima del raggiungimento del successo con il romanzo All the Pretty Horses (1992 – Cavalli selvaggi, Guida 1993 – Einaudi 1996) che vinse il National Book Award nel 1992, tutte le sue opere precedenti (fino ad allora cinque) fossero uscite dal catalogo della Random House nonostante il successo di critica, non accompagnato però da un adeguato risultato nelle vendite e presso il pubblico. Compreso quello che sarebbe stato poi considerato uno dei suoi capolavori, se non proprio il capolavoro, Blood Meridian, del 1985 (Meridiano di sangue, Einaudi 1996).

L’autore americano aveva iniziato la sua carriera nel 1965, all’età di 32 anni. Era un dropout dell’Università del Tennessee, privo di agente letterario, quando aveva sottoposto il dattiloscritto del suo primo romanzo proprio alla Random House. Manoscritto che per puro caso finì sulla scrivania di Albert Erskine, colui che aveva fatto pubblicare Ralph Ellison, Robert Penn Warren e lo scrittore che sembra aver maggiormente ispirato McCarthy: William Faulkner. Erskine apprezzò il “manoscritto” e così la Random House pubblicò il primo romanzo, The Orchard Keeper (Il guardiano del frutteto, Einaudi 2002), un debutto ruvido, strano e decisamente non commerciale, che però già conteneva alcuni dei temi tipici di tutte le sue opere successive.

Se ne sono andati tutti, ormai. Scappati, banditi nella morte o nell’esilio, perduti, rovinati. Sole e vento percorrono ancora quella terra, per bruciare e scuotere gli alberi, l’erba. Di quella gente non rimane alcuna incarnazione, alcun discendente, alcuna traccia. Sulle labbra della stirpe estranea che ora risiede in quei luoghi, i loro nomi sono mito, leggenda, polvere4.

Eccone qui il primo esempio: il Mito della Frontiera e dei suoi uomini liberi e indipendenti, indifferenti alle leggi del progresso e abitatori di una terra selvaggia non è altro che polvere ancor più che polverosa leggenda. Come si afferma nel risvolto di copertina della prima edizione italiana, le vicende «hanno come sfondo un paesaggio arcaico, descritto con una prosa dalle cadenze bibliche che rimanda alla tradizione faulkneriana. I personaggi di McCarthy convivono con una natura che non ha nulla di idilliaco, ma è capricciosa e ostile proprio come i suoi abitanti.»

Un altro dei temi di McCarthy è infatti proprio la Natura, indifferente al destino degli uomini e alle loro storie e la cui sacralità è definita non dall’idillio, ma dalla sua crudeltà e impenetrabilità. Non a caso gli sfondi più spesso descritti dall’autore non sono quelli di colline e paesaggi ameni, ma piuttosto quelli di deserti soleggiati e ricchi di tempeste di polvere, di rocce granitiche e di pianure riarse dal sole. Per precipitare poi, in uno degli ultimi e più noti romanzi, The Road (2006 – La strada, Einaudi 2007) in uno scenario di ceneri e alberi bruciati. In cui la specie muore insieme al mondo che ha finto di poter dominare, soltanto per distruggerlo.

Erskine smosse mari e monti per promuovere il libro, sollecitando autori come Truman Capote, James Michener e Saul Bellow affinché lo leggessero, ma nonostante questi sforzo promozionale il romanzo vendette poco. Così come il successivo del 1968, Outer Dark (Il buio fuori, Einaudi 1997).

Una storia scandalosa e crudele in cui un giovane insegue la sorella, da cui ha avuto un figlio che lui ha cercato di uccidere subito dopo la nascita, attraverso gli stati del Sud degli Stati Uniti all’inizio del ‘900. Una storia di incesto e povertà cui si sovrappone la violenza di un mondo spietato e, come sempre, tinto di rosso cremisi. Con un epilogo di inimmaginabile crudeltà, come se l’entità che sembrerebbe presiedere nella più totale indifferenza le vicende umane avesse finalmente deciso di svelare il proprio ghigno grondante sangue.

Quando la Random House chiese a McCarthy se avesse qualcuno a cui inviare il suo terzo romanzo, Child of God (1973 – Figlio di Dio, Einaudi 2000) la storia di un assassino seriale e necrofilo che terrorizza una contea del Tennessee, l’autore, con una lettera, rispose: «Ed McMahon del Tonight Show, è un conoscente. Siamo stati a pescare insieme a Bimini la primavera scorsa e poi a bere al Cat Cay (fino a quando è caduto dal molo e hanno dovuto portarlo in aereo a Lauderdale per ricorrere alle cure ospedaliere). Provate a fargli giungere una copia del mio libro. Dovrebbe leggerlo (non come beve, certamente, ma più o meno)5

Quel romanzo, ancora una volta, raccontava il trionfo assoluto del Male, incarnato nella figura di Lester Ballard, uno dei tanti white trash che popolano le catapecchie del Sud rurale, le campagne ferme nel tempo in cui la Storia è scandita dai linciaggi e dalle pubbliche impiccagioni, dove la promiscuità e l’incesto costituiscono la regola, dove la miseria e l’abiezione sommergono qualsiasi forma di società strutturata secondo i canoni della modernità. Un mondo destinato a produrre mostri e su cui sembra campeggiare, come in ogni altro romanzo di McCarthy, l’avviso: No politically correct, please.

Se la casa editrice contattò o meno McMahon non è dato sapere, però anche quel romanzo vendette poco o nulla. Così come il quarto Suttree, pubblicato nel 1979 (Suttree, Einaudi 2009). Romanzo che il critico Stanley Booth definì come il «libro più esilarante di McCarthy, ma anche il più insopportabilmente triste.» Popolato da una schiera di ladri, derelitti, miscredenti, paria, poltroni, furfanti, spilorci, balordi, assassini, giocatori, ruffiani, troie, sgualdrine, briganti, bevitori, ubriaconi, trincatori e quadrincatori, zotici, donnaioli, vagabondi, libertini e debosciati vari.
E’ il mondo di Knoxville, Tennessee, nel 1951 ed è quello in cui vive e sopravvive Cornelius “Buddy” Suttree, il pescatore protagonista delle vicende narrate. L’altra faccia dell’America perbenista narrata dall’immaginario dell’American way of life dunque.

In quell’occasione l’autore aveva ottenuto il riconoscimento di autorevoli premi letterari e borse di studio finanziate dall’American Academy of Arts and Letters, dalla Fondazione Guggenheim e dalla Fondazione Rockfeller, mentre nel 1981 ne ottenne anche una dalla MacArthur che, come avrebbe scritto ad un amico, rappresentava una piccola “manna” che gli avrebbe permesso «di rimanere nel “business” ancora per un po’.»

Nel 1976 si era trasferito a El Paso dove si sarebbe in seguito documentato e avrebbe iniziato a scrivere il suo quinto romanzo, Blood Meridian. Un libro violentissimo, l’unico in cui compaiano i nativi americani colti nel momento in cui guerreggiano selvaggiamente contro i bianchi che invadono i loro territori sempre più in profondità e mentre un branco di mercenari, comandati da uno dei personaggi più infernali usciti dalla mente di McCarthy, il giudice, scorrazza sulle pianure del Texas e del Sud-ovest, uccidendo e scalpando i membri delle tribù distribuite a cavallo del confine tra Stati Uniti e Messico.

E’ la storia di un ragazzo che a quattordici anni lascia la casa paterna nel Tennessee e si dirige avventurosamente, disperatamente, coraggiosamente e incoscientemente verso l’Ovest, verso il West. Ma il lettore non si aspetti un romanzo di formazione. L’America, come avverrà poi nel terzo e ultimo romanzo della trilogia della Frontiera, Cities of the Plain (1998 – Città della pianura, Einaudi 1999), non cresce o educa i suoi figli: li divora. In Vietnam come in tante altre inutili guerre ai confini del suo impero, negli slums delle metropoli come sulle pianure secche e aride del West. Tom Sawyer in un romanzo di McCarthy non avrebbe mai avuto il tempo di diventare saggio o adulto, avrebbe avuto soltanto il tempo di morire. Possibilmente in maniera ingiusta e violenta.

E anche i nativi non sono da cartolina. Non sono soltanto pacifici rappresentanti di un mondo in estinzione davanti all’avanzata dell’uomo bianco. Non espongono la bandiera a stelle e strisce come avviene in Soldato blu6 nel tentativo di non essere massacrati. Combattono, aggrediscono, uccidono, scalpano e stuprano (anche le “giacche blu”), riservando ai bianchi ciò che questi ultimi hanno perpetrato su di loro. Non per nulla Blood Meridian è stato definito, dal critico statunitense Harold Bloom, come «il western definitivo».

La brigata intanto si era fermata e vennero sparati i primi colpi e il fumo grigio dei fucili ondeggiò tra la polvere mentre i lancieri rompevano le file. Il ragazzo sentì il cavallo crollare sotto di sé con un lungo sospiro compresso. Aveva già fatto fuoco col suo fucile e adesso si sedette a terra e armeggiò con la giberna.[…] Dappertutto c’erano cavalli a terra e uomini carponi, e ne vide uno intento a caricare il fucile col sangue che gli colava dalle orecchie, e vide uomini col revolver smontato che cercavano di infilare al posto giusto il tamburo di riserva carico di pallottole, e vide uomini i ginocchio che si piegavano di lato ad abbracciare la propria ombra sul terreno, e vide uomini infilzati dalle lance e afferrati per i capelli e scalpati in piedi, e vide i cavalli da combattimento calpestare i caduti e un piccolo pony dal muso bianco con un occhio chiuso emerse dal buio e cercò di morderlo come un cane e poi scomparve7.

E’ sempre una scrittura visionaria quella dell’autore statunitense, in questo senso biblica per la forza delle immagini che sembrano andare in sovrimpressione, soprattutto nella mente di chi legge. Ma nonostante ciò, o forse proprio in virtù di tutto questo, anche il quinto romanzo vendette poco, o nulla. Così a partire dalla seconda metà degli anni ’80 le prospettive di carriera dello scrittore si annunciavano ormai come tetre e desolate.

Nel 1987 Erskine lasciò il suo posto alla Random House per andare in pensione e McCarthy, nel 1989, ebbe modo di scrivere ad un amico: «Sono stato uno scrittore professionale per 28 anni e non ho mai ricevuto un assegno per i diritti d’autore. Penso sia davvero un record.» Ciò significava, al di là dei riconoscimenti ricevuti e della successiva fortuna editoriale, che lo stesso avrebbe dovuto cambiare il modo di presentare i suoi libri agli editori. Soprattutto dopo il ritiro di Erskine.

E così fu. In un contesto in cui le grandi corporation, proprio a partire dagli anni Ottanta, avevano iniziato ad assorbire un grande numero di case editrici, grandi, medie e piccole, che erano state messe in ginocchio dall’aumento dei prezzi determinato dall’inflazione degli anni settanta che a parità di salari aveva fatto sì che il costo dei libri aumentasse e i lettori diminuissero. Da lì in avanti alla direzione delle case editrici più grandi furono messi uomini che non venivano dalla “letteratura” (come agenti o editori), ma dal marketing,

Nel frattempo McCarthy aveva scritto a Lynn Nesbit (che rappresentava, tra i tanti altri, autori come Joan Didion, Toni Morrison e Tom Wolfe) in cerca di un agente. Per farlo, le aveva scritto le seguenti parole: «Non ho mai avuto un agente prima d’ora, ma penso che sia giunto il momento di averlo e così, se è interessata a parlarmi, può chiamarmi prima di mezzogiorno, ora delle Montagne Rocciose (Rocky Mountain time).»

La Nesbit passò la lettera ad una sua protetta, Amanda “Binky” Urban, che aveva letto Suttree e lo aveva trovato stupefacente. Così Amanda Urban prese in carico lo scrittore e progettò il suo passaggio dalla Random House alla Knopf, dove un nuovo direttore editoriale, Sonny Metha, aveva bisogno di un buon colpo iniziale. Quando la Urban gli propose McCarthy, stimato borsista della MacArthur che però non aveva ancora venduto, con un francesismo, un cazzo, Metha rispose: «Già lo amo».

La stessa Urban, in seguito, avrebbe affermato: «Non potevo credere di stare per prendere in mano il telefono e chiamare un autore che fino ad allora aveva venduto al massimo 2500 copie». Ma in quel frangente si aprirono le porte del successo per Mc Carthy, con il romanzo Cavalli selvaggi, che non è certo tra i suoi migliori, ma da cui fu tratta una versione cinematografica, anch’essa risibile rispetto a quelle tratte da La strada e Non è un paese per vecchi, interpretata da un giovane Matt Damon.

Romanzo che apriva però quella trilogia della frontiera cui si è già accennato e di cui il secondo, The crossing (1994 – Oltre il confine, Einaudi 1995), costituisce forse la summa della visione tragica e nichilista della vita contenuta in tutta la sua opera. Ancora una volta la storia di un giovane, Billy Parham, che lascia la casa di famiglia per addentrarsi, alle soglie del secondo conflitto mondiale, “oltre il confine” nel Messico. Tra deserti, montagne, cavalli, fantasmi di uomini e rivoluzioni, fotografie sbiadite e zingari alla ricerca dei proprietari delle stesse perché si riconoscano prima di svanire anche loro nel tempo o più semplicemente nel nulla.

A farla da padrone è ancora una volta il paesaggio metafisico, ma concretissimo, che assume il ruolo di testimone muto e spietato che vedrà due fratelli cercarsi, perdersi, trovarsi e perdersi ancora su un confine, quello del Sud-ovest, che più che una linea divisoria tra gli stati sembra tracciare quella tra tra il mondo reale e quello narrato, tra la Vita e la Morte, l’Essere e il Nulla.

Dovevano ancora venire altri romanzi, tutti di successo soprattutto negli Stati Uniti, ma già in un’intervista dl 1992, rilasciata al settimanale tedesco «Der Spiegel», McCarthy avrebbe dichiarato: «Le classifiche dei bestseller non hanno nulla a che fare con la letteratura. Ha mai guardato i titoli che sono in classifica? Pensa che sia lusinghiero essere in quella compagnia?». E poi, a proposito dell’America: «Più di ogni altro paese sulla terra, l’America è una provvisorietà. Un’invenzione senza storia». In quell’occasione l’intervistatore ebbe modo di osservare come l’autore, che abitava ancora a El Paso «dove la città dei morti sembra provvisoria come la città dei vivi:

E’ affascinato dalla prospettiva in cui l’astrofisica colloca la storia umana, l’insensato arrancare dell’umanità e la sua sofferenza. Ci sono molti elementi che suggeriscono, dice, che l’esperimento umano sarà presto finito. E stranamente, come i predicatori dei suoi romanzi, Cormac McCarthy è un moralista. Meno fanatico, più rassegnato. Quando parla di sventura, non parla di catastrofi ecologiche o economiche, ma della morte interiore dell’uomo, della morte del significato. «Come si può vivere senza morale?», dice ad un certo punto.[…] Ha sottotitolato il suo romanzo Meridiano di sangue il “rosso della sera dell’Occidente”, un libro che, come i dipinti di Hieronymus Bosch, fornisce metafore per la caduta dell’umanità8.

Certo un moralista, come lo sono stati Leopardi o Céline, eccessivi perché perfettamente consci della condizione umana e delle menzogne di un secol superbo e sciocco. Consci che l’ingiustizia, la violenza, il dolore fanno parte di tale condizione e che non saranno le fregnacce liberali, new age, politically correct e della cancel culture (tutte varianti di un unico perbenismo già morto e sepolto) a modificarla. Anzi tali fregnacce son proprio ciò che è necessario continuare a diffonder per nascondere la realtà. Non a caso uno (Céline) è stato demonizzato, l’altro (Leopardi) sminuito a pessimista gobbo e quasi cieco e Mc Carthy spesso inquadrato in un canone americano di difesa di valori che non ha mai sicuramente apprezzato.

Proprio per questi motivi, in tempi di guerra e di crisi autentica dell’Occidente e dei suoi “valori fondativi”, è consigliabile che il lettore non si adagi sulle false sicurezze e le false speranze, distribuite a piene mani sia da destra che da sinistra, e faccia piuttosto un salto di paradigma iniziando subito a sprofondarsi nella lettura dell’opera di McCarthy. Possibilmente integrale.


  1. qui  

  2. C. McCarthy, The counselorIl Procuratore, Einaudi 2013, pp. 114 – 115  

  3. op. cit., pag. 51  

  4. C. McCarthy, Il guardiano del frutteto, Einaudi 2002  

  5. Fonte: Dan Sinykin, A career that couldn’t happen now, The New York Times International Edition, 21 giugno 2023  

  6. Soldier Blue è un film statunitense del 1970, diretto da Ralph Nelson e liberamente ispirato al romanzo storico di Theodore V. Olsen, Arrow in the Sun, anch’esso liberamente ispirato ai reali eventi del massacro di Sand Creek del 1864.  

  7. C. McCarthy, Meridiano di sangue, Einaudi 1996, pp. 56-57  

  8. «Der Spiegel», 30 agosto 1992  

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La Storia non sempre si ripete https://www.carmillaonline.com/2023/07/03/la-storia-non-sempre-si-ripete/ Mon, 03 Jul 2023 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77727 di Sandro Moiso

Francesco Dei, Balcani in fiamme. Storia militare della guerra russo-turca (1877-1878), Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2023, pp. 424, euro 32,00

Il bel saggio di Francesco Dei, appena pubblicato da Mimesis, permette di svolgere riflessioni, non solo di carattere militare, su molti aspetti dei conflitti alle porte d’Europa, sia di ieri che di oggi. L’autore non è nuovo ad opere del genere poiché, già in passato, si è occupato di conflitti che, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi vent’anni del secolo successivo, hanno visto coinvolte le forze armate russe. Sia nella loro forma zarista che in quella [...]]]> di Sandro Moiso

Francesco Dei, Balcani in fiamme. Storia militare della guerra russo-turca (1877-1878), Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2023, pp. 424, euro 32,00

Il bel saggio di Francesco Dei, appena pubblicato da Mimesis, permette di svolgere riflessioni, non solo di carattere militare, su molti aspetti dei conflitti alle porte d’Europa, sia di ieri che di oggi.
L’autore non è nuovo ad opere del genere poiché, già in passato, si è occupato di conflitti che, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi vent’anni del secolo successivo, hanno visto coinvolte le forze armate russe. Sia nella loro forma zarista che in quella di Armata rossa.

Dei, nato a Siena nel 1975 e laureato in Scienza politiche, si è specializzato in storia e cultura dell’Estremo oriente e in storia e cultura della Russia e dell’Europa slava. Appassionato di storia militare, ha pubblicato, sempre per Mimesis nel 2018, “La rivoluzione sotto assedio: Storia militare della guerra civile russa 1917-1922” (a suo tempo recensito su «Carmillaonline» il 27 giugno 2018), mentre nel 2020 ha dato alle stampe una “Storia militare della guerra russo giapponese 1904 – 1905” (LEG, Gorizia 2020).

La guerra affrontata nel saggio attuale è uno delle tante che hanno visto, tra l’età moderna e quella successiva alla metà del XIX secolo, due imperi, quello russo e quello ottomano, affrontarsi sia per il controllo dei Balcani che della Crimea e del Mar Nero. Conflitti in cui, di volta in volta, l’”aggressore” è stato uno dei due paesi, con motivazioni spesso mascherate dietro alla necessità di intervenire in difesa di minoranze etnico-religiose oppure di comunità ribellatesi contro lo zar o il sultano.

Nel caso della guerra del 1877-1878 il pretesto è fornito dalla persecuzione delle comunità cristiane dell’impero ottomano da parte delle milizie irregolari turche basci-buzuk, soprattutto in Bulgaria. Cosa che fornì lo spunto all’impero zarista, custode formale della fede ortodossa, di intervenire per espandere la propria influenza e presenza militare nell’area. A differenza, solo per fare un esempio, della guerra russo-turca del 1768-1774 in cui la parte del persecutore, in questo caso di comunità polacche e ucraine, era stata svolta dalle truppe di Caterina II di Russia e del suo favorito, Stanislao Augusto Poniatowski.

Considerata da molti storici come un conflitto secondario, la guerra russo-turca, nelle pagine e nell’accurata ricerca di Dei si rivela, nei fatti, una anticipazione e prefigurazione del futuro conflitto mondiale, in cui, soprattutto i Russi, utilizzeranno tecniche, strumenti, tattiche e lezioni tratte sia dalla guerra civile americana del 1860-65 che del conflitto franco prussiano del 1870.

Capisaldi trincerati sotto il livello del suolo o posti come rilievi creati con l’artificio di essere circondati e protetti da scavi profondi 4 o 5 metri che mettevano in difficoltà l’assalto delle fanterie e della stessa cavalleria; l’uso di armi da fuoco a retrocarica con gran numero di proiettili a disposizione di ogni soldato; mitragliatrici (prima fra tutte la Gatling così ampiamente utilizzata nel conflitto tra Nord e Sud negli Stati Uniti) e diversi tipi di artiglieria, cosi come l’uso dei primi siluri a propulsione per la marina militare, delinearono con grande anticipo quello che sarebbe stato, sul piano militare, il grande macello del Primo conflitto mondiale che sarebbe iniziato meno di quarant’anni dopo. Preceduta, per quanto riguarda la Russia, ancora dal conflitto russo-giapponese del 1904-1905.

Anche nel numero dei morto e feriti tra i soldati che, secondo i calcoli dell’autore, raggiunse quello complessivo di circa 230.000 caduti, spartiti su entrambi i fronti, nell’arco di soli 10 mesi di scontri.
Caduti che se apparentemente diminuivano rispetto al conflitto in Crimea del 1853-1856 (con un numero di soldati deceduti compreso tra i 363 e 673mila) oppure alla guerra civile americana (con un milione e ottocentomila caduti), costituivano un discreto esempio di macelleria automatizzata moderna se si tiene conto della minor durata del conflitto stesso.

L’autore eccelle sia nella descrizione del conflitto e del suo svolgimento sul campo e a livello politico-diplomatico, che nel descrivere le sofferenze delle popolazioni civili coinvolte. Così come nell’elencare le caratteristiche della capacità di resistenza del popolo russo e del suo esercito e le motivazioni su cui questa si è, spesso, fondata. Cosa che nell’introduzione lo porta a tracciare interessanti paralleli con il conflitto attualmente in atto in Ucraina.

Lasciando, però, al lettore interessato la ricostruzione di quei drammatici avvenimenti che si conclusero con una vittoria russa non coronata dai risultati sperati e con un ulteriore indebolimento di quello che era ormai chiamato il Grande Malato, ovvero l’impero ottomano, occorre qui sottolineare alcune ulteriori riflessioni che il testo di Dei induce a svolgere, pur non trattandole sempre in maniera diretta.

La prima riguarda proprio il numero dei caduti che, dal punto di vista delle perdite puramente militari, avrebbe raggiunto il suo apice nel conflitto 1914-18 e che ci suggerisce che le cifre pornograficamente fornite ogni giorno dai media e dalla propaganda sulle perdite russe (soprattutto) ed ucraine, per il conflitto attualmente in corso, devono essere per stati in precedenza un po’ (se non molto) gonfiate. Secondo fonti del Pentagono, infatti, a tutto aprile 2023, l’esercito ucraino avrebbe sofferto un numero di perdite che potrebbe variare dai 124.500 ai 131.00, compresi 17.500 deceduti in azione; mentre le forze russe avrebbero subito da 189.500 a 223.00 perdite di cui 43.000 sarebbero cadute in azione1. Chiaramente in molti articoli riguardanti l’argomento si è giocato molto sulla traduzione del termine inglese casualties che può indicare sia le vittime che i feriti oppure i morti.

Anche se c’è da osservare come l’attuale conflitto, proprio per la novità rappresentata da alcuni strumenti usati per la prima volta su larghissima scala come i droni, di fatto costituisca sia un passo avanti nelle tecniche militari che un passo, forse due, indietro con il forzato ritorno alla guerra di trincea e il rallentamento della guerra di movimento. Dovuto sia al controllo dello spazio aereo e terrestre con i droni che all’utilizzo di più maneggevoli e micidiali armi anticarro su entrambi i fronti. Mentre allo stesso tempo, il numero delle vittime civili sembra andare in controtendenza rispetto ad un trend storico in cui, dalla seconda guerra mondiale in poi, il numero dei civili uccisi in ogni guerra , allargata o locale, ha sempre ampiamente sopravanzato quello dei militari uccisi.

La seconda riflessione, invece, aiuta a spiegare la tensione e l’attenzione con cui i media liberal occidentali hanno seguito le recenti elezioni tenutesi in Turchia, tifando apertamente per il tutt’altro che liberale avversario di Recep Tayyip Erdogan, Kemal Kilicdaroglu, che aveva promesso un patto più forte con l’UE (e quindi con le sue politiche nei confronti della Russia). Questo perché, al di là delle farlocche dichiarazioni sui “diritti” (poi smentite proprio dalla promessa del pugno duro con i migranti presenti sul territorio turco fatta dallo stesso Kilicdaroglu), quello che interessava allo schieramento occidentale era il far tornare la Turchia “nemica” della Russia come nei decenni e nei secoli precedenti.

Smontare quell’asse che, se non costituisce ancora una vera e propria alleanza con Putin, in realtà fa sì che il paese detentore del secondo apparato militare della Nato (ampiamente rivisitato nei suoi vertici dopo il fallito colpo di stato del 20162, sventato anche grazie all’intervento dell’intelligence russa) non costituisca più quel baluardo anti-russo cui la Storia degli ultimi decenni, ma soprattutto dei secoli precedenti, aveva abituato l’Occidente (e soprattutto il Regno Unito) ad un “sicuro” contenimento verso il Mediterraneo e il Medio Oriente della potenza slava.

Proprio ciò, ovvero la differente politica di Erdogan e della Turchia nei confronti della Russia e delle “volontà occidentali”, costituisce uno dei fatti di rilevanza storica scaturiti prima e confermati durante l’attuale conflitto russo-ucraino. Dimostrando che non sempre la Storia si ripete, uguale a se stessa, così come troppo spesso analisti, studiosi, politici e militari dello schieramento europeo e Nato continuano a pensare per poter fare affidamento su certezze, in realtà, in via di rapido decadimento.

Un’ultima riflessione, che svolge ancora l’autore proprio nel saggio, riguarda infine la debolezza e la vacuità delle trattative diplomatiche una volta che i conflitti sono avviati e non abbiano ancora raggiunto un punto in cui sia chiara la loro possibile conclusione. Cosa che non fa altro che confermare lo sconcerto e la delusione di chi, oggi, dal Vaticano a varie altre entità politiche e statuali, guarda e promuove, con scarsi o nulli risultati, una soluzione diplomatica del conflitto in corso. In questo, sì, la Storia sembra ripetersi ancora, indipendentemente dalle capacità e dal carisma dei promotori delle medesime iniziative3.


  1. Fonte: M. Specia – B. Hoffman, Casualties in Ukraine overwhelm cemeteries, The New York Times International Edition, 21 giugno 2023  

  2. Si veda qui  

  3. Si veda, in proposito, l’intervista concessa dall’ex Capo di stato maggiore dell’Aeronautica militare, Leonardo Tricarico, a Carlo Cambi in «In Ucraina nessuno cerca la pace», La Verità, 12 giugno 2023.  

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Cronache marsigliesi / 6: È la lotta che crea l’organizzazione. https://www.carmillaonline.com/2023/06/29/cronache-marsigliesi-6-e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione/ Thu, 29 Jun 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77971 di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità [...]]]> di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità di sorta, sul terreno del potere. L’anomalia di massa di queste mobilitazioni sono stati i netturbini di Parigi, non per caso a maggioranza di “pelle scura”, i quali sono stati puntualmente messi all’angolo sia dalle organizzazioni sindacali sia da gran parte di quella “aristocrazia operaia” che non ha mai fatto mistero di trovarsi a proprio agio intorno alla “linea del colore” che governa la società francese oltre a percepirsi come “ceto medio”.

La questione della “bianchità”, costantemente eluso dagli irriducibili socialdemocratici e dagli improvvisati estremisti, è riemersa in tutto il suo portato strategico anzi, se la “frattura coloniale” è stato il leitmotiv della società francese del secondo dopo guerra, oggi questa frattura si fa “forma stato” a tutto tondo poiché è proprio intorno alla “linea del colore” che si è riorganizzato il comando. Tuttavia non sempre tutto il male viene per nuocere poiché il “movimento francese” ha sicuramente insegnato qualcosa di importante, l’epopea della mediazione è al tramonto e il rapporto tra proletari e stato non può che darsi sul terreno della “guerra” e del “potere”. “Guerra” perché per il comando le masse subalterne vanno e devono essere annichilite e private di qualunque legittimità politica e sociale per poter essere tranquillamente perimetrate negli impolitici ambiti della marginalità e dell’esclusione; “potere” perché ogni lotta diventa un corpo a corpo tra le classi e il dominio. In questo modo saltano per intero le divisioni tra “lotte economiche” e “lotte politiche” e ogni “lotta economica”, come l’operaismo italiano aveva abbondantemente anticipato, diventa immediatamente “lotta politica”.

Ciò che Macron e il suo governo, attraverso una intransigenza e una determinazione non proprio irrilevanti, hanno voluto esplicitare eludendo ogni dubbio di sorta è stata proprio una affermazione di potere. Di fronte a ciò quel movimento non poteva che naufragare ma, come si è detto, non tutti i mali vengono per nuocere. La sconfitta ha semplicemente ratificato l’archiviazione di una fase storica e di un segmento di classe che la ha ampiamente incarnata, non certo il tramonto del conflitto di classe, piuttosto il contrario. Il comando può, e lo sta facendo, porre in soffitta l’aristocrazia operaia ma non per questo può illudersi di inibire il lavorio della vecchia talpa.

Il comando è sicuramente in grado di esercitare il dominio ma non di porre rimedio alle contraddizioni che il suo sistema si porta appresso anzi, a un occhio minimamente attento, diventa evidente come l’esercizio del dominio sia direttamente proporzionale alla progressione geometrica delle contraddizioni. A fronte di ciò asserire che il “testamento” di Rosa, ero, sono, sarò, potrebbe rivelarsi più che un semplice augurio frutto dell’ottimismo della volontà ma la realistica constatazione della concretezza della ragione ha una sua sensatezza. Tutto questo all’interno di un contesto di guerra che non è più una semplice tendenza bensì il qui e ora dello scenario internazionale.

Certo, a ben vedere, l’Europa non è mai stata in pace tanto che, la stessa espressione “secondo dopoguerra”, fotografa appieno quella “bianchità” propria delle nostre società. L’Europa, e con lei l’insieme dell’Occidente è stata costantemente in guerra con le popolazioni non bianche ed è sulle sue baionette che hanno marciato le politiche imperialiste un aspetto che la fine del bipolarismo e l’affermarsi dell’era globale ha ampiamente enfatizzato. Oggi, però, siamo di fronte a qualcosa di diverso a un vero e proprio salto di qualità della guerra, oggi l’Europa è coinvolta nella guerra in prima persona e la conduzione della guerra interna contro le proprie masse subalterne assume i tratti della complementarietà rispetto alla guerra nel suo insieme.

Guerra interna e guerra esterna sono le due facce attraverso le quali il comando esercita il suo dominio, questa la “porta stretta” attraverso la quale ogni conflitto sarà obbligato a passare. Un compito che realisticamente non poteva e non può essere retto dalla aristocrazia operaia ma solo da un proletariato in grado di assumere la guerra come “cuore del politico”. Se tutto ciò avverrà è impossibile dirlo ma sapersi muovere dentro questa strettoia è il compito di ogni comunista, del resto, per dirla con Blanqui, il dovere di un rivoluzionario è fare la rivoluzione.
Chiusa questa breve premessa entriamo nel merito della questione.

Se, nell’articolo precedente abbiamo provato, in maniera sicuramente tutt’altro che esaustiva, a delineare l’attuale “piano del capitale” oggi, sulla scia delle informazioni che l’inchiesta ci ha fornito cercheremo di dire qualcosa intorno alla soggettività della classe. Con non poche acume Marx, già nel Manifesto, avvertiva come il capitalismo sovvertisse in continuazione non semplicemente la produzione ma tutti gli ambiti e le sfere della vita sociale. Per molti versi il capitale è sin da subito “capitale totale” e il suo divenire non può che darsi sotto le spoglie di una “rivoluzione permanente”. Una rivoluzione che è figlia non solo di quelle che possiamo chiamare le tendenze oggettive del capitale ma, e soprattutto, del conflitto di classe che è il motore stesso dello sviluppo capitalista.

Tutto ciò, ovviamente, non può che andare a intaccare per prima cosa la “composizione di classe” il che ha delle ricadute non proprio irrilevanti. Ciò che abbiamo provato a descrivere e raccontare nelle puntate precedenti ne ha fornito più di una traccia. Queste tracce sono importanti poiché è proprio da queste che è possibile sovvertire un vecchio vizio dell’ortodossia marxista ovvero leggere il divenire storico a partire dal punto di vista del capitale il quale diventa tanto il punto di partenza quanto di arrivo del processo storico. Su ciò si basa l’oggettivismo e il coevo scientismo che ha fatto da sfondo allo storicismo marxista. In tutto ciò il punto di vista della classe diventa un fattore tanto inutile quanto superfluo tanto da renderla una realtà sempre uguale a se stessa. Ciò che per Marx (la classe), in fondo, è assunto come modello ideal–tipico, per l’ortodossia comunista diventa elemento empirico a tutto tondo. La soggettività della classe, a conti fatti, diventa del tutto inessenziale poiché solo attraverso la soggettività politica (il partito) sarebbe in grado di animarsi. Un fare che va oltre l’autismo e si mostra palesemente contro fattuale rispetto al mondo reale e la riduzione a qualcosa di non distante dalla setta talmudica degli innumerevoli partiti e organizzazioni comuniste odierne ne rappresentano il tragicomico approdo.

Vestali di una ortodossia, comicamente declinata in una quantità di chiese da far invidia al burlesco mondo religioso statunitense, passano mestamente il tempo, oltre che nella reiterazione delle liturgie, andando alla ricerca della “vera” interpretazione dei testi. Così come la Bibbia, il Corano, la Torah e il Talmud, a seconda dei gusti, hanno già detto tutto anche i “sacri testi marxisti” sono, in sé, esaustivi si tratta solo di saperli interpretare. Un fare dottrinario il quale, grottesco a parte, dimentica che tutta la storia del movimento comunista è storia di eresie e, sotto questo aspetto, il leninismo è stata l’eresia per eccellenza.

Ogni fase storica non può che rompere con il passato e porre in atto la “sua ortodossia” che risulta, e non potrebbe essere altrimenti, blasfema nei confronti di ciò che l’ha preceduta, ma non solo. Ogni composizione di classe elabora un “punto di vista” che è il frutto di molteplici fattori i quali nulla hanno più a che fare con le retoriche che hanno fatto da sfondo alle epoche passate. Come ricorda Marx è la borghesia rivoluzionaria che, per glorificare se stessa, attinge dalle epoche eroiche del passato tanto che, la Grande rivoluzione, si specchiò nella Roma repubblicana, ma ciò non vale per il proletariato. Le rivoluzioni proletarie stanno sempre sul filo del tempo e benché se con le spalle sono sempre rivolte al futuro, è sul presente che focalizzano sguardi e desideri. A ben vedere, infatti, il famoso vogliamo tutto (e lo vogliamo adesso) degli operai Fiat non era poi così innovativo poiché non era altro, sicuramente sotto altra forma, del sogno comunardo che sparando agli orologi liberava, qui e ora, il tempo e la vita dagli imperativi del capitale o dell’Ottobre che poneva fine alla guerra e consegnava, qui e ora, il potere ai Soviet.

La classe è sempre “immediatista” e non potrebbe essere altrimenti, il che la rende poco prona alle retoriche del “sol dell’avvenir”. La sua “Teologia” è sempre una teologia del presente poiché se “lo stato di eccezione” è la condizione di vita normale degli operai la lotta per la sua abolizione non può che avvenire adesso. Per la classe il “paradiso” non può attendere e per questo non può che elaborare in continuazione una “eresia” in grado di farsi programma di potere del e per il comunismo. In questo senso, allora, si può parlare a ragione di “invarianza” della “linea di condotta” operaia e proletaria ma, una volta riconosciuto ciò, quella che va colta è la dimensione concreto all’interno della quale la “invarianza proletaria” prende forma.

Se pensiamo all’Italia, il paese dove tra gli anni ’60 e ’70 il conflitto di classe ha raggiunto la massima tensione all’interno di un contesto imperialista, è abbastanza facile notare quanto solo le realtà “eretiche” siano state le sole a incarnare le necessità della nuova composizione di classe. Lotta continua e Potere operaio prima, L’Autonomia operaia (con tutte le sue anime), le Brigate rosse e Prima linea dopo sono state le organizzazioni che, alla scala della storia, possono dire di aver rappresentato l’espressione concreta della classe e della sua soggettività mentre la miriade di partiti, partitini e organizzazioni sorte ideologicamente e non materialisticamente sull’onda della lotta operaia e proletaria hanno conosciuto un’esistenza effimera della quale il mondo si è velocemente dimenticato.

Le organizzazioni sopra ricordate, invece, sono state in grado di segnare un’epoca proprio in virtù delle rotture che hanno esercitato nei confronti dell’ortodossia terzinternazionalista verso la quale, invece, tutti gli altri cercavano di farne risorgere i fasti. Un po’ come oggi le varie sette si interrogano su quale sia il modo giusto e corretto di interpretare le scritture in quel periodo gruppi e gruppetti, all’ombra della salma di Lenin ma non della sua teoria politica, si arrovellavano il cervello per rimettere in vita il cadavere della Terza internazionale e più si intestardivano in ciò, più precipitavano nel tragicomico.

Lotta continua e Potere operaio per prime e successivamente le organizzazioni sorte dalle ceneri di queste si caratterizzarono proprio per la rottura con la pur eroica storia della Terza internazionale. L’operaismo constatò, e fu una vera e propria rivoluzione copernicana, la fine della separazione tra lotta economica e lotta politica mentre, le Brigate rosse, decretarono la fine della divisione tra politico e militare. Due passaggi che rompevano radicalmente con tutta una tradizione ma che, alla prova dei fatti, risultarono essere decisivi per ciò che una determinata composizione di classe e coeva soggettività aveva imposto al treno della storia. Con non poca ironia rimane da rilevare come nei confronti di tutte queste esperienze gli ortodossi dell’epoca riversarono tutte le accuse che i leader della Seconda internazionale rovesciarono su Lenin. Le accuse di blanquismo, anarchismo, terrorismo, spontaneismo ecc., andarono a ruba ma il tempo è galantuomo e dei censori dell’epoca non è rimasto traccia mentre quelle organizzazioni fanno parlare di sé ancora oggi.

A partire da questa premessa proveremo a dire qualcosa sulla classe tenendo conto di ciò che i materiali empirici raccolti sembrano raccontarci. Se nell’articolo precedente abbiamo parlato del “punto di vista” del capitale, poiché l’omogeneità del suo progetto sembra uniformare l’intero fronte borghese con buona pace dei “tardo comunisti” alla ricerca di frazioni di borghesia da cooptare in un novello “fronte nazionale sovranista” al fine di ridare fiato al mostro dello stato–nazione, adesso siamo obbligati a parlare dei “punti di vista” della classe.

Già, “punti di vista” poiché ciò che empiricamente ci racconta la classe è una pluralità che solo i ciechi e gli ottusi, o entrambi, non sono in grado di cogliere ma non solo. Se per molti versi ciò è sempre stato vero poiché la classe non è mai stata un tutto omogeneo, oggi a venir meno è l’esistenza di un settore di classe in grado di riunificare sotto la sua direzione l’intero corpo di classe. Oggi nessuna frazione della classe può assolvere a questo compito poiché alcun luogo di lavoro può vantare quella centralità che, per esempio, è stato in grado di esercitare, nel corso degli anni ’60 e ’70 italiani, il proletariato concentrato nella grande fabbrica fordista . La frantumazione del lavoro e il suo essere flessibile e precario ha posto in essere un proletariato la cui esistenza ben poco ha a che spartire con il passato, ma non solo.

Il mondo globale ha fatto saltare, o lo sta facendo, tutte le retoriche europee del “novecento” dando forma e corpo a una tipologia proletaria affine a ciò che possiamo in qualche modo definire proletariato internazionale. Una figura che ha perso, o tende a farlo, la “particolarità europea” per allinearsi, sicuramente con gradazioni assai diverse, a quella massa operaia, proletaria e subalterna attraverso la quale il comando dell’era globale pone in atto i suoi cicli di accumulazione su scala planetaria. Ma questo, andando al sodo, cosa comporta? Partiamo da ciò che la nostra modesta inchiesta è in grado di raccontarci.

Il primo aspetto che pare sensato evidenziare riguarda le piccole rotture che si sono verificate all’interno del corpo sociale che ha dato vita al movimento contro la legge sulle pensioni. Abbiamo visto come, se pur in maniera estremamente ridotta, piccoli gruppi di aristocrazia operaia abbiano rotto gli argini, posizionandosi in maniera del tutto anomala rispetto al grosso del movimento. Blocchi selvaggi e azioni di sabotaggio hanno caratterizzato questa rottura. Non siamo certo in grado, a partire da queste scarne notizie, di ipotizzare cosa e dove porterà tutto ciò, quello che possiamo fare, però, è tentare un ragionamento su questa tendenza. Sicuramente, almeno per ora, la stragrande maggioranza del mondo dei garantiti sembra ben distante dal cogliere il vero senso della posta in palio di ciò che ha rappresentato lo scontro sulle pensioni e continua a coltivare l’illusione che, in fondo, tutto finirà con l’aggiustarsi ma questa convinzione non può che andare in frantumi a fronte di ciò che il “piano del capitale” si è posto come obiettivo strategico. A quel punto i garantiti dovranno prendere atto che o accettano di lottare sui livelli di scontro imposti dal comando o devono rassegnarsi a soccombere.

Sicuramente la parte di garantiti più avanti negli anni, non senza sensatezza, proverà a tirare a campare e a gestirsi una vecchiaia senza troppi scossoni, ma in Francia tra i garantiti vi sono moltissime persone giovani per le quali le trasformazioni in atto avranno conseguenze non proprio irrilevanti e per le quali tirare a campare non sarà possibile poiché, un passo dopo l’altro, la loro condizione sarà sempre più assimilata a quella massa sterminata di “proletariato senza volto” i cui numeri, anche in Francia, sono già maggioranza. Certo questo settore di classe, per condizione e tradizione, non ha grande dimestichezza con determinate forme di lotta ed è sicuramente più moderato del “proletariato senza volto” ma, dalla sua, ha una non secondaria attitudine all’organizzazione e alla disciplina aspetti che, palesemente, sembrano assenti al resto della classe.

Nei probabili scollamenti del prossimo futuro queste attitudini non verranno sicuramente meno e potrebbero essere riversate, sicuramente in maniera non meccanica, sull’intero corpo di classe offrendo loro una base intorno alla quale costruire processi organizzativi il che sarebbe tanta manna per un proletariato più prossimo al riot che alla strutturazione di una lotta di lunga durata. Il tutto senza dimenticare che, questa classe operaia e questo proletariato, trova la sua base di forza dentro i luoghi di lavoro i quali, una volta depurati dalle retoriche prone alla concertazione, potrebbero trasformarsi in luoghi del potere operaio a tutto tondo.

Stiamo sognando? Forse, ma in fondo non è da oggi che ci muoviamo dicendo: “Bisogna sognare!” e siamo pericolosi e realisti proprio perché sogniamo si ma “a occhi aperti”. Quanto appena esposto è sicuramente solo un’ipotesi e una possibile tendenza le cui basi, però, hanno ben poco del fare ingenuo degli eterni acchiappa nuvole, ma affondano le loro radici all’interno dei processi materiali posti in atto dal comando stesso perciò: chi vivrà, vedrà!

Detto ciò proviamo a dire qualcosa intorno al caos che fa da sfondo alla stragrande maggioranza della classe. Abbiamo visto come le vite di questo proletariato siano ben poco stabili per cui lo scavo della “vecchia talpa” non può avere un cammino lineare. Rispetto all’epoca che ci siamo lasciati alle spalle una prima cosa sembra centrale: il territorio più che il luogo di lavoro può essere il punto di forza della classe. Siamo cresciuti in epoche in cui il “potere operaio” di fabbrica si irradiava sul territorio dando forza a tutte le componenti del proletariato metropolitano oggi, con ogni probabilità è necessario praticare l’inverso. Se, per tutta una fase, era stato possibile fare della fabbrica un Vietnam oggi quella logica va riversata sul territorio il che non vuol dire abbandonare i posti di lavoro come luoghi del conflitto ma, più realisticamente, prendere atto dei rapporti di forza in atto; del resto, anche nel corso dell’epopea del potere operaio di fabbrica, in determinati contesti era l’esterno a fare da supporto all’interno, il territorio all’officina,

Accanto alla grande fabbrica fordista o alle consorelle di media dimensione erano pur sempre presenti un pullulare di piccole aziende e officine dove i rapporti di forza padroni – classe operaia non potevano certo vantare quelli messi in campo dentro le grosse concentrazioni operaie e che, per molti versi, vivevano una condizione non dissimile da quella che riscontriamo oggi tra gran parte della classe. In quei contesti, per poter vincere, la lotta operaia necessitava di un supporto, tutta la storia delle ronde e delle squadre operaie racconta esattamente questa storia. Per alcuni versi, quindi, molti aspetti del passato sembrano doverosamente convivere con alcuni tratti del presente.

L’organizzazione all’interno dei posti di lavoro rimane sicuramente essenziale, e fortunatamente abbiamo non secondarie avvisaglie di settori precari che si muovono in quella direzione, ma resta pur sempre il fatto che se lasciate a se stesse queste lotte possono essere facilmente isolate prima, annichilite dopo. Perché queste lotte non rimangano invisibili occorre che vengano fatte proprie in maniera militante da ampi spezzoni di classe e questo ci porta a affrontare uno dei temi costantemente emersi nel corso della ricerca: la militarizzazione del territorio.

Abbiamo visto come sia intorno all’industria del turismo che la forza lavoro precaria trova occupazione e come questi luoghi, per assolvere appieno alla loro funzione produttiva, debbano essere forzatamente pacificati. In questi luoghi del conflitto non si deve avere neppure il più lontano sentore. Ciò comporta che, anche una normale lotta “sindacale”, non possa essere tollerata ma non solo perché andrebbe a incrinare quel frame che è l’inizio e la fine della “città turistica”. Qua ogni lotta deve essere rimossa e rimossa deve essere tutta quella parte di popolazione mobilitatasi intorno alla lotta. Tutto ciò, per forza di cose, impone un salto politico e organizzativo, il “diritto alla lotta” può essere esercitato solo attraverso la messa in campo di determinati rapporti di forza e questi rapporti, senza girarci troppo attorno, comportano anche la strutturazione di una “forza operaia” in grado di arginare e incrinare le logiche e pratiche di militarizzazione intorno alle quali è costruita la “città turistica”.

Abbiamo fatto solo un piccolo esempio che, però, è in grado di evidenziare la complessità che l’organizzazione del nuovo proletariato si porta appresso. La questione della militarizzazione non si ferma a ciò. Abbiamo visto come è dentro il quartiere proletario che si raggiungono i massimi livelli repressivi e militari, ma abbiamo visto anche come, proprio dentro il quartiere, forme di organizzazione più o meno formali prendano corpo. Il quartiere proletario è un concentrato di tensioni e conflitti che la “forma–stato” attuale può solo contenere e reprimere non certo mediare. Lì diventa possibile costruire “forme di potere proletario” che facciano del territorio una sorta di “zona liberata” all’interno della quale lo stato ha sempre più difficoltà a intervenire. Certo, come alcune interviste hanno ben evidenziato, dentro i territori non esiste una sola narrazione piuttosto una molteplicità di “punti di vista” che non possono essere unificati per decreto ma solo attraverso la sperimentazione e la prassi, la sfida è esattamente qua.

Abbiamo visto, e non è un esempio secondario, come le donne e le loro lotte assumano un ruolo sempre più importante nei conflitti contemporanei e, per molti versi, si può anche asserire che le donne rappresentino uno dei punti più alti dello scontro in atto. La loro critica al patriarcato è immediatamente critica al mostro statuale il che non è proprio un passaggio privo di ricadute. Le donne chiudono a ogni illusione sulla “forma–stato” delle cui nefandezze, semmai ve ne fosse ancora bisogno, il “socialismo reale” ha dato ampia testimonianza. Nella pratica e nelle lotte delle donne si afferma un “potere costituente dal basso” che, per alcuni versi, fa riecheggiare quel: Tutto il potere ai Soviet! su cui si era irradiato l’Ottobre ma lo fa in maniera decisamente più radicale poiché, alle spalle, ha una storia e una pratica che ha posto in evidenza come sia impossibile fuoriuscire dai rapporti sociali capitalisti se non si intaccano a fondo le strutture, la famiglia e tutti i suoi derivati normativi in primis, che di questi rapporti ne sono i capi saldi. La lotta contro il sessismo e l’omofobia ne rappresentano un tratto per nulla secondario, infine sono le donne che, quasi all’unisono, pongono la questione della autodifesa e dell’esercizio della forza e non è proprio una cosa da poco.

Un altro aspetto emerso riguarda il retaggio della memoria coloniale e l’assunzione in termini “culturali”, l’ostentazione del “velo” ne è la migliore esemplificazione, di questa storia. Si tratta di qualcosa, almeno per noi, di spiazzante ma che non può e non deve essere liquidato come qualcosa di irrisorio. Abbiamo visto come queste retoriche, significative le interviste che hanno affrontato il tema della prigione, siano in grado di ottenere una certa presa, poiché in grado di fornire una identità forte, tra gli strati più bassi della popolazione postcoloniale e per questo non possono essere liquidate in quattro battute.

In fondo queste retoriche ci dicono quanta “fame di politica” abbiano le masse e questa “fame”, se non trova una sponda comunista, finisce facilmente con l’essere saziata dai vari “fondamentalismi”. Sulla “fame di politica” delle masse si era consumata, e mai come in questo frangente sembra il caso di ricordarlo, una drastica rottura tra Lenin e ciò che passerà alla storia come menscevismo poiché, mentre i menscevichi consideravano l’operaio incapace di andare oltre alla “lotta per il copeco”, Lenin coglieva il bisogno di politica, che per lui era il bisogno dell’insurrezione, che, anche se in maniera spesso confusa si agitava tra le masse.

Il “gemito degli oppressi” di queste masse, allora, non è altro, pur se in forma alienata , che la richiesta di una prospettiva politica che lo porti fuori dallo “stato di eccezione”. La cooperazione di alcuni di questi dentro le lotte per la casa nei quartieri è di per sé indicativo. Siamo di fronte a un proletariato frantumato che solo dentro la lotta può ipotizzare di ricomporsi e costruire organizzazione, per questo l’inchiesta militante è un momento essenziale della relazione tra soggettività della classe e soggettività politica.

Sulla scia di ciò, senza cullare eccessive aspettative, pare sensato asserire che nonostante tutto la Vecchia talpa sia viva e vegeta. L’autunno prossimo si profila particolarmente caldo poiché l’attacco del comando alle condizioni di vita del proletariato francese conoscerà un nuovo “grande balzo”, la sanità e i suoi costi sono già stati posti nel mirino di Macron. Per quelle date ci auguriamo di riprendere le nostre “cronache marsigliesi” con narrazioni maggiormente entusiaste.

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