Nuto Revelli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 31 Jul 2025 08:49:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 «Banditi» per necessità ovvero la Resistenza così come fu https://www.carmillaonline.com/2025/06/25/banditi-per-necessita-ovvero-la-resistenza-cosi-come-fu/ Wed, 25 Jun 2025 20:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88871 di Sandro Moiso

Filippo Focardi – Santo Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in Italia (1943-1945), Carocci editore, Roma 2025, pp. 425, 39 euro

«Una nuova retorica patriottarda o pseudo-liberale non venga ad esaltare la formazione dei purissimi eroi: siamo quel che siamo: […] gli uomini sono uomini». (Emanuele Artom, Diario di un partigiano ebreo)

In tempi in cui anche i rappresentanti della destra più conservatrice e reazionaria possono, e devono, fare professione di antifascismo con la benedizione di una sinistra istituzionale esangue, le parole di Emanuele Artom appaiono davvero profetiche. Una Resistenza spogliata, quasi fin da subito [...]]]> di Sandro Moiso

Filippo Focardi – Santo Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in Italia (1943-1945), Carocci editore, Roma 2025, pp. 425, 39 euro

«Una nuova retorica patriottarda o pseudo-liberale non venga ad esaltare la formazione dei purissimi eroi: siamo quel che siamo: […] gli uomini sono uomini». (Emanuele Artom, Diario di un partigiano ebreo)

In tempi in cui anche i rappresentanti della destra più conservatrice e reazionaria possono, e devono, fare professione di antifascismo con la benedizione di una sinistra istituzionale esangue, le parole di Emanuele Artom appaiono davvero profetiche. Una Resistenza spogliata, quasi fin da subito e dai maggiori partiti rappresentati nell’agone parlamentare fin dalla caduta del regime fascista, della sua reale valenza di classe, rivolta e rifiuto dell’ordine costituito, allora degli ordinamenti mussoliniani e di quelli pericolosamente in essere nel passaggio alla repubblica borghese, è diventata così il cardine su cui articolare una narrazione immaginifica e interclassista della rifondazione patriottarda dello Stato nazionale dopo la fine dell’identitarismo nazionalistico che aveva ispirato sia il regime che le sue guerre e avventure coloniali. Una narrazione retorica che ne ha confuso l’immagine, offuscandola, e tradito le concrete motivazioni.

Ben vengano dunque ricerche come quelle accluse nel testo curato da Focardi e Peli che, nel solco degli studi iniziati da Claudio Pavone1 e della sua attenzione all’economia morale che aveva fondato l’insurrezione contro il governo non solo di Mussolini, del PNF e dei suoi gerarchi, ma anche contro l’ordine morale, economico e politico borghese che ne aveva costituito l’essenza e giustificato l’esistenza, riportano la storia e gli avvenimenti di quei tragici e convulsi anni sui binari delle concrete condizioni materiali sui quali effettivamente viaggiarono.

Una Storia che non solo deve liberarsi dalle incrostazioni con cui gli interpreti di destra hanno cercato di ridurre, in sintonia con quelli appartenenti ai partiti “nemici”, quel periodo ad una sorta di confronto tra fazioni politiche avverse, di cui i partiti sarebbero stata la forma naturale di espressione, ma anche delle interpretazioni mitopoietiche con cui tanta ricerca di parte avversa l’ha imbastardita riducendola a mera funzione del progresso degli organismi della democrazia parlamentare e dello Stato. Come sostengono da subito i due curatori, affermando come sia oggi necessario rivalutare, ricordare e ricostruire, le enormi fatiche della guerra partigiana che ne hanno segnato le «opere e giorni»:

Riportare al centro dell’attenzione la guerra partigiana nella sua concretezza, nella sua difficoltà e drammaticità, nel suo accidentato farsi, nel complicato intreccio tra spontaneità e organizzazione, di storia militare e storia politica, di localismi e di utopie, di durezze materiali e solidarismi trasversali: questo l’obiettivo che ci siamo prefissi progettando l’impegnativo lavoro collettivo da cui è nato questo volume. […] A stimolare l’”impresa” hanno concorso parecchi motivi.
Il principale, abbastanza evidente per chiunque segua con interesse il discorso pubblico sulla Resistenza, è costituito dal fatto che quasi esclusivamente, da almeno tre decenni, si è scritto e parlato di resistenza senz’armi, di resistenza civile o di resistenza dei militari (Cefalonia) […] Ma ciò non dovrebbe occultare il fatto che la più importante discontinuità della storia nazionale […] non si sarebbe realizzato senza la scelta di impugnare le armi compiuta da un’esigua minoranza, senza un esercito di volontari disposti ad assumere su di sé il compito arduo di combattere, di uccidere e farsi uccidere2.

Una considerazione che potrebbe apparire scontata se non fosse, come proseguono Focardi e Peli, che:

Nella narrazione mediaticamente vincente si tornano invece a privilegiare, a discapito dell’aspra, complicata e divisiva insurrezione antifascista, gli aspetti unitari, nazional-patriottici della Resistenza. La centralità della sanguinosa e divisiva guerra partigiana è stata via via edulcorata e di fatto sostituita da una Resistenza più rassicurante, che piace immaginare condivisa dalla maggioranza del popolo. Dunque, sconfortante eterogenesi dei fini, la Resistenza diviene paradossalmente anche veicolo di un’autoassoluzione collettiva, fondamento di un’illusoria identità nazionale miracolosamente votata alla libertà3.

E’ un messaggio forte quello dei due curatori che, per molti versi, si avvicina di più alla letteratura e alle memorie di Fenoglio, Calvino, Revelli, Bianco, Meneghello, Chiodi e tanti altri, che non alle ricostruzioni storiche troppo spesso ispirate alla necessità di superare le divisioni, un tempo tra PCI e DC (il cui risultato fu una costituzione spoglia del “diritto alla resistenza” proposto come articolo della stessa da Aldo Capitini e altri), e oggi, ancora più platealmente, tra”destra “ e “sinistra”, entrambe di governo grazie all’idea di “alternanza” che pervade il discorso politico moderno ispirato dal liberalismo, soprattutto, economico. In cui a contare non sono più le differenze tra i partiti e i loro programmi, ma la capacità di garantire continuità e la stabilità all’ordine esistente e alle sue “necessità” proprietarie, finanziarie e produttive.

Santo Peli si è laureato in Lettere nel 1973, ha insegnato Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova, fino al 2013. I suoi campi di ricerca sono sempre stati costituiti dalla conflittualità operaia tra Prima e Seconda guerra mondiale e dalla Resistenza italiana. Per Franco Angeli ha dato alle stampe La Resistenza difficile nel 1999, poi ripubblicato dalle edizioni dalla Biblioteca Franco Serantini (BFS) di Pisa nel 2018. Con Einaudi ha invece pubblicato, La Resistenza in Italia (2004), Storia della Resistenza in Italia (2006 e 2015), Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza (2014) e La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana e dintorni, ancora per BFS Edizioni (2022).

Filippo Focardi si è laureato nel 1993 e svolge la sua attività presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università degli Studi di Padova. Si occupa di storia moderna e contemporanea e la sua opera si è concentrata soprattutto sulla storia italiana durante la seconda guerra mondiale e sul recupero della memoria storica di quel periodo. Tra i suoi studi vanno ricordati: La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad oggi (Laterza 2005), Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale (Laterza 2013) e Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoa, Foibe (Viella 2020).

I due storici, ancora nell’introduzione al testo, sottolineano infine come:

La messa in sordina degli aspetti divisivi fatalmente connessi alla guerra partigiana, e la forte sottolineatura di una coralità, di un afflato nazional-patriottico, ricorda in qualche modo, e con molte diverse sfumature sulle quali non è dato qui soffermarsi, la narrazione prevalente negli anni Cinquanta […]. In una narrazione di questo tipo, la concreta esperienza storica della guerra partigiana, per nulla esente da difficoltà e spinte contrastanti, rischia di evaporare, di disciogliersi in un astratto pantheon di eroi, a discapito di fare i conti con «il partigianato così com’era, non come vorremmo fosse stato4 » 5.

Considerazioni che ci devono far ricordare come Una guerra civile di Claudio Pavone, al suo apparire nel 1991, avesse fatto storcere il naso a molti rappresentanti dell’antifascismo istituzionale e sollevato numerose perplessità tra gli storici, quasi sempre di sinistra, che si occupavano della storia della Resistenza proprio per l’accento messo sullo scontro interno al paese che la guerra partigiana aveva suscitato, mettendo così in crisi e in discussione l’immagine edulcorata e priva di contraddizioni della stessa che sembrava aver ormai uniformato gli studi in materia.

Per raggiungere l’obiettivo dichiarato i due curatori del testo pubblicato da Carocci hanno messo insieme sedici saggi, suddivisi in tre parti: Combattere, Vivere, Narrare. Composte rispettivamente da sei la prima e da cinque saggi ciascuna per entrambe le altre parti. Chiamando a raccolta l’opera di storici, docenti e ricercatori di Eric Gobetti, Gabriele Pedullà, Maria Teresa Sega, Chiara Colombini e Nicola Labanca, solo per citarne alcuni, oltre ai due saggi scritti dagli stessi curatori.

Riuscendo a dare vita ad un complesso e intenso mosaico in cui vengono ricostruiti differenti aspetti della guerra partigiana e della sua memoria. Gli argomenti trattati vanno così dalla prima creazione delle bande partigiane ai loro nemici e alla presenza di stranieri nelle loro fila, oltre che il contributo, spesso sminuito, del Meridione alla storia della Resistenza oppure sul ruolo delle donne nell’esercito di liberazione. Oltre a questi, altri temi riguardano il vissuto e le passioni che alimentarono la Resistenza, la geografia degli studi storici sulla guerra partigiana, la violenza insita nella stessa, il “tradimento” dei manuali scolastici e il discorso pubblico sulla stessa, infarcito inevitabilmente di innagini di “martiri” e “patrioti”.

Tra questi, che non si possono certo riassumere tutti nel corso di una recensione, risaltano, almeno agli occhi di chi qui scrive il saggio di Santo Peli su Guerra partigiana e rifiuto della guerra ( pp. 139-161), quello di Francesco Fusi su La “sporca” guerra del partigiano: alimentazione, salute, territorio (pp. 179-195) e, ancora, quello di Chiara Colombini intitolato «Non un esercito di santi». Vissuto e passioni della guerra partigiana (pp. 163-177). Non certo a discapito della validità degli altri tredici, ma soltanto perché riguardanti argomenti spesso disattesi dalla ricerca storica sul periodo 1943-1945 in Italia e, invece, molto importanti per aprire un confronto più approfondito sulle cause e conseguenze della “guerra civile”.

Nel primo dei tre qui indicati, Santo Peli torna su un argomento di cui si era già occupato in altri suoi testi e in particolare nella parte finale della sua Storia della Resistenza in Italia ovvero ristabilire una verità spesso rimossa, quella del peso del rifiuto della guerra nell’alimentare la scelta di molti giovani italiani di aderire alle fila o, almeno, alle motivazioni della Resistenza, che venne ancor prima di una scelta di carattere ideologica o politica, che troppo spesso viene ancora indicata come motivazione primaria, forse per un malinteso senso del dovere nei confronti della patria che alimenta ancora oggi, in tempi di nuove e imminenti guerre, un certo immaginario patriottardo non soltanto di “destra”.

Peli cita, come riassunto della sua tesi, le riflessioni e le memorie di una partigiana piemontese, Tersilla Oppedisano (nome di battaglia Trottolina), risalenti alla metà degli anni Settanta del ‘900.

Non so se la popolazione fosse tutta dalla nostra parte, non lo so. Certo, la gente era stanca del fascismo e quindi sentiva inconsciamente che eravamo i loro, anche perché la presenza dei partigiani aveva impedito che molti ragazzi del posto finissero in Germania. D’altronde, il grosso dei partigiani non era formato di volontari ma di ragazzi che erano stati costretti a scappare per non arruolarsi, perché la repubblica di Salò aveva fatto la coscrizione obbligatoria.
La Resistenza è proprio la guerra dei disertori, la guerra degli imboscati, cioè gente che va nei boschi perché non la piglino. «E se venite a pigliarmi afferro un mitra e vi sparo!». Imboscati proprio in questo senso. E’ il primo momento della storia in cui ci si ribella alla guerra e ai fautori della guerra. In questo senso è importantissima la Resistenza. Io non so se sia opportuno dire queste cose, ma penso che bisogna dirle, anche per demistificare la figura dell’eroe che si butta nella guerra, il nazionalismo, il milite ignoto e mille storie di questo genere. Io mi trovo un po’ isolata a dire queste cose, perché al partito non si dicono, nella scuola non si dicono, e si fa l’elogio del volontarismo della massa del popolo italiano che si arma e combatte, mentre, quando si va a vedere sotto sotto, appare quell’aspetto del rifiuto della guerra, che pure è importantissimo6.

Peli prosegue poi ancora affermando che:

La guerra partigiana, guerra di volontari che «si adunarono per dignità e non per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo», è un’immagine magnifica e tranquillizzante, che rischia di scambiare la parte con il tutto. Ci furono questi volontari, eccome, e senza di loro poco o nulla di politicamente ed eticamente significativo sarebbe accaduto. Ma forse sono più numerosi i protagonisti cui dà voce la partigiana Trottolina: una turba di sbandati in fuga dalla guerra, che in modi e in tempi diversi, e in buona parte all’inizio senza ideali motivazioni, si trasformano in partigiani, certo non tutti, e conservando caratteristiche e modi di intendere la lotta e i suoi obiettivi assai diversificati. Che la genealogia della guerra partigiana vada ricercata anche in una confusa ed eterogenea massa di italiani in fuga dalla guerra è immagine assai poco seducente, perché evoca uno stato di passività, una regressione o una permanenza nel particulare, e anche un’incerta, scarsa propensione all’amor di patria, al riscatto dell’onore militare tracollato nell’implosione dell’8 settembre […] Eppure una ricca memorialistica partigiana lascia pochi dubbi in proposito7.

Il saggio di Fusi, sottolineando le difficoltà di approvvigionamento delle formazioni partigiane e dei problemi che ciò causò talvolta con le popolazioni dei territori in cui operavano, non cerca sicuramente di mitizzare o edulcorare il fatto che i partigiani si comportassero talvolta come “banditi” anche solo per necessità logistiche.

Oltreché una guerra contro tedeschi e fascisti, quella partigiana è al contempo una lotta contro le avversità: fattori ambientali proibitivi, scarsità di alimentazione e di vestiario, rischi fisici e psicologici dovuti alla forzata mobilità e ai continui pericoli. E’ perciò una guerra per la sopravvivenza, individuale e di gruppo, la cui urgenza talvolta ogni altra considerazione: «in molti casi sono più importanti le scarpe che le conferenze politiche». […] In ogni caso, sopravvivere fu la prima preoccupazione di chi salì in montagna. Oltre all’incognita della morte inflitta dal nemico, stava quella legata alle disagevoli condizioni di vita: «I fascisti sono un di più, ci ammazza da solo il freddo», sentenzia Ettore nel Partigiano Johnny. E così Giambattista Lazagna, il partigiano Carlo: «la lotta più terribile deve essere condotta contro le difficoltà di nutrirsi, di vestirsi, di armarsi, di nascondersi. […] Ci voleva a quel tempo, oltre ad un certo coraggio, un fisico molto robusto, uno stomaco molto piccolo, una buona dose di fantasia per andare ai monti». […] La memorialistica partigiana e le pagine di scrittori partigiani quali Fenoglio, Calvino e Meneghello sono popolate di questa umanità partigiana spesso sofferente, incerta o inadeguata in cui i resistenti sono presentati come «uomini simili ad altri nei loro meriti e nei loro difetti». Raffigurazioni che le prime stagioni storiografiche sulla Resistenza avevano lasciato spesso in ombra, per dare spazio ad immagini più edificanti, se non eroiche. Parlando della “sporca” vita del partigiano giova perciò l’avvertimento di Nuto Revelli a guardare a loro come a «gente comune», non a «un esercito di santi», e a contrapporre alla vulgata che vuole i «partigiani in gamba, tutti robusti, tutti perfetti, politicamente ben inquadrati, che di mangiare non parlavano mai» un più aderente e disincantato sguardo sul vero partigiano, afflitto quotidianamente «da un’infinità di piccoli problemi – le scarpe, il sacco di farina, il chilo di sale, il partigiano lazzarone, il partigiano fifone, il comandante sfessato e mille altre diavolerie» e nel quale «sovente i problemi logistici erano più impegnativi di quelli militari»8.

Chiara Colombini, nel suo saggio, continua necessariamente sulla linea interpretativa tratteggiata fino ad ora:

Qualsiasi tentazione di monumentalizzare eventi e persone diventa impraticabile qualora ci si affidi alle «scartoffie di allora». Perchè, facendo ricorso ai documenti prodotti durante la guerra partigiana, ci si ritrova immersi in un presente forzatamente scandito da incertezze e contraddizioni, quelle che accompagnano un sentiero sconosciuto, senza sapere esattamente dove condurrà»9.

Una memorialistica, letteraria e non che non esclude affatto sentimenti e stati d’animo, in particolar modo presenti in quella delle donne e che serve a riscoprire, come fece Claudio Pavone nella sua monumentale e imprescindibile opera, la soggettività che operò nelle scelte partigiane e che, sempre, opera nella Storia.

Lo spazio di una recensione non può espandersi oltre, ma rimane inconfutabile il fatto che l’opera di Santo Peli, Filippo Focardi e di tutte le autrici e di tutti gli autori coinvolti è destinata a segnare un ulteriore passo in avanti nello studio e nella comprensione delle condizioni concrete e materiali che stanno alla base degli eventi sociali, in cui spesso ad intervenire per ultime sono proprio le motivazioni ideologiche o dichiaratamente politiche. Una lezione importante per l’oggi e per il domani.


  1. Si vedano: C. Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità delle Resistenza (1991 e 2006) e, ancora, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato (1995 e 2025).  

  2. F. Focardi – S. Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in Italia (1943-1945), Carocci editore, Roma 2025, p. 15.  

  3. Ivi, pp. 15-16.  

  4. Nuto Revelli, lettera ad Alessandro Galante Garrone del 1° luglio 1955.  

  5. Focardi – Peli, op. cit., p. 16.  

  6. T. Fenoglio Oppedisano (Trottolina), in A. Bruzzone, R. Farina (a cura di), La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Bollati Boringieri, Torino 2003 (prima edizione 1976), pp. 162- 163, cit. in S. Peli, Guerra partigiana e rifiuto della guerra in F. Focardi, S. Peli, op.cit., p. 139.  

  7. S. Peli, op. cit., p. 141.  

  8. F. Fusi, La “sporca” guerra del partigiano: alimentazione, salute, territorio in Focardi – Peli, op. cit., pp. 181-184.  

  9. C. Colombini, «Non un esercito di santi». Vissuto e passioni della guerra partigiana in Focardi – Peli, op. cit., p. 164.  

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Il babau fascista e la (solita) tiritera antifascista https://www.carmillaonline.com/2022/09/21/il-babau-fascista-e-la-tiritera-antifascista/ Wed, 21 Sep 2022 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73779 di Sandro Moiso

«Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che il fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici». (Amadeo Bordiga, [...]]]> di Sandro Moiso

«Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che il fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici». (Amadeo Bordiga, intervista a cura di Edek Osser – estate 1970)

A pochi giorni di distanza dalla “fatidica” data del 25 settembre, è difficile dire quanti saranno gli elettori che si presenteranno, convinti e con la tessera elettorale in pugno, ai nastri di partenza dell’ennesima e gaglioffa tornata elettorale.
A giudicare dai risultati degli ultimi anni, pochi. Molto pochi. Considerato soprattutto il fatto che, nell’attuale competizione, a farla da padrone sono stati più i nomi e le poltrone “garantite” dei candidati che non i programmi. Ma se anche così non fosse, vale comunque la pena di sottolineare come l’uso dei termini “fascismo” e “antifascismo” abbia ancora una volta caratterizzato la propaganda di una sinistra sempre più esangue e asservita alle esigenze del capitale nazionale e internazionale.

L’attuale farsa elettorale, infatti, vede le sinistre, più o meno parlamentari di ogni grado e risma, ricorrere ancora una volta all’espediente narrativo, già troppe volte visto in scena sia sui palcoscenici istituzionali più importanti che nei teatrini politici più scadenti, secondo il quale l’elettore “di sinistra” dovrebbe accorrere alla chiamata alle armi per difendere nell’urna la “democrazia” e la costituzione dall’ennesimo e vile assalto “fascista”. Trama semplice, priva di alcuna complessità interpretativa, in cui i buoni stanno, o devono stare, tutti dalla parte del “centro-sinistra” o al massimo di tutti quei partiti ancora non apertamente schierati con il terribile “centro-destra”.

A parte la qualità della compagnia che certo non fa rimpiangere quella del centro-destra, rimanendo nello schema interpretativo proposto dai media e dai rappresentanti dello schieramento “autenticamente” democratico, il primo pericolo sarebbe infatti presentato dal rischio di una revisione o riscrittura della carta costituzionale.

Su questo argometo, tralasciando il tema delle visite “agostane” di Giorgia Meloni al capo dello Stato rivelate dal “Fatto Quotidiano” del 10 settembre scorso, non occorre neppure ricorrere alle armi della critica proposte dalla Sinistra Comunista per smontare il grido di dolore che si leva dal perbenismo centrosinistrese. Basta, si pensi un po’, quanto è già stato scritto su un quotidiano tutt’altro che estremista come «il manifesto».

Le vicende delle «riforme costituzionali» ci dicono che l’attacco alla Costituzione non è venuto solo dalle destre ma anche dai partiti di centrosinistra, non è più vero dunque che il centrosinistra difende la Costituzione e le destre ne vogliono la distruzione. Centrosinistra e centrodestra sono stati protagonisti per vent’anni di tentativi, falliti, di modificare in pejus la Carta costituzionale del 1948 […] ai tentativi falliti si sono affiancati quelli riusciti a modificare la Costituzione. Eccone l’elenco: revisione del Titolo V (attuata dal governo Amato), dell’articolo 8 (votata dal Pd guidato da Bersani), degli articoli 56 e 57 per la riduzione del numero dei parlamentari (voluta dai 5S con il sostegno del Pd). Può essere punto di riferimento per la difesa della costituzione il pd, l’artefice principale delle sue manomissioni?1.

Non solo ma, entrando più nel merito delle questioni attuali, nello stesso articolo si aggiunge che se

la barbara Meloni si fa garante della scelta atlantica soprattutto per quanto riguarda il sostegno armato all’Ucraina, anche Letta è schierato con la Nato sostenendone le politiche militari, e il voto sul Trattato di adesione della Svezia e della Finlandia ha visto il Pd e il centrodestra votare insieme a favore […] Dunque la lesione dell’art.11, che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, è compiuta sia dalla barbara Meloni sia dal progressista e democratico Letta. E il Pd ha in mano la società di produzione di armamenti Leonardo, guidata da Alessandro Profumo e da altri suoi iscritti, ch e propongono politiche aggressive di difesa e potenziamento dello strumento militare2.

E concludendo poi ancora che se

la barbara Meloni vuole il semipresidenzialismo alla francese […] si prenda la proposta di legge costituzionale AC224 e si troverà scritto che «la presente proposta di legge costituzionale si prefigge di superare il previsto stallo del sistema dei partiti chiudendo la transizione italiana e prendendo come riferimento il modello francese nella sua integralità (sistema elettorale e forma di governo». Dunque la barbara Meloni vuole il semipresidenzialismo alla francese che anche il democratico e progressista Ceccanti3, con altri del Pd vuole… 4.

Ora, tralasciando le quisquilie di ordine formale e costituzionale, considerato che qualsiasi carta costituzionale non è certo destinata all’eternità poiché al cambiamento dell’ordine sociale e politico deve per forza corrispondere un cambiamento delle leggi “fondamentali” che lo ispirano5, proviamo a considerare la questione fascismo/antifascismo da un più ampio punto di vista.

Non è affatto vero che il fascismo ci sia perché manca un governo capace di reprimerlo. E’ una turlupinatura far credere che la formazione di un governo di tale natura, e in genere lo sviluppo del rapporto tra l’azione dello Stato e quello del fascismo, possano dipendere dall’andamento delle cose parlamentari.
[…] Il governo forte e il fascismo forte sono per il proletariato uguali negli effetti: rappresentano il maximum della fregatura.
Poche delucidazioni a queste nostre asserzioni, contrapposte al gioco nauseante della «sinistra» politica che si elabora nei contatti osceni di Montecitorio, e alla quale rinnoviamo di tutto cuore la dichiarazione antica che essa ci fa mille volte più schifo di tutti i reazionismi, i clericalismi, i nazional-fascismi d’altra volta e di adesso.
Lo Stato borghese – la cui macchina effettiva non è nel parlamento ma nella burocrazia, nella polizia, nell’esercito, nella magistratura – non è affatto mortificato di essere scavalcato dall’azione selvaggia delle bande fasciste. Non si può essere contrari ad una cosa che si è preparata e che si sostiene: burocrazia, polizia, esercito, magistratura, sono per il fascismo, loro naturale alleato, indipendentemente dalla combinazione di pagliacci in feluca che reggono il potere.
Per eliminare il fascismo non è necessario un governo più forte dell’attuale. Basterebbe che l’apparato statale cessasse di sostenerlo con la sua forza […]
Noi comunisti non siamo così fessi da chiedere un “governo forte”. Se pensassimo che quello che chiediamo può essere conseguito, chiederemmo un governo veramente debole, che ci garantisse l’assenza dello Stato e della sua formidabile organizzazione dal duello tra bianchi e rossi6.

Il contesto della citazione è quello drammatico della guerra civile italiana, precedente alla marcia su Roma e alla presa del potere fascista, ma non per questo quelle parole non possono rinviare al dibattito fasullo di oggi. Dibattito in cui la solita sinistra liberal-democratica non ha neppure il coraggio di chiedere, seppur retoricamente, un’azione forte del governo contro il fascismo, ma soltanto ai rappresentanti dello stesso di cambiare il simbolo elettorale oppure di dichiararsi diversi da quel che sono.

Certo per la “sinistra” attuale, in particolare per il Pd, è facile chiedere agli avversari ciò che ha già fatto in casa propria, ripudiando qualsiasi riferimento alla lotta di classe, ma per la borghesia capitalistica, nazionale e internazionale, reazionaria o conservatrice, non lo è altrettanto. In fin dei conti la borghesia e il capitale non possono ripudiare se stessi e la propria forma Stato. Garante della proprietà privata e dello sfruttamento del lavoro salariato e sottopagato.

Una volta il blocco di sinistra si contrapponeva a quello della destra borghese perché il secondo manteneva l’ordine con mezzi coercitivi, e il primo si proponeva di mantenerlo con mezzi liberali. Adesso l’epoca dei mezzi liberali è finita, e il programma delle sinistre è quello di mantenere l’ordine con più “energia” della destra. Questa pillola dovrebbe essere fatta inghiottire ai lavoratori col pretesto che l’ordine è perturbato dai “reazionari” e che l’energia del governo l’assaggerebbero gli squadristi di Mussolini. Siccome il proletariato ha il compito di spezzarlo questo vostro maledetto ordine, per costruire il suo sulle rovine di esso, il suo peggior nemico è chi si propone di mantenerlo con maggior energia7.

Oggi, forse, la richiesta dello Stato forte, che pur non manca nel panorama attuale grazie alle politiche di progressiva concentrazione del potere nelle mani di tecnici mai eletti dai cittadini, è più sottilmente esposta, adombrandosi di manovre economiche, piani di ripresa e resilienza, di accordi sovranazionali che, apparentemente, sembrano spingere sullo sfondo il discorso dell’azione “forte” dello Stato “nazionale”. Nascondendo dietro alla questione dei “diritti” «un passo analogo a quello del neoliberismo che assorbe le spinte libertarie degli anni Sessanta e Settanta per ribadire l’ordine capitalistico. Il pensiero dominante diventa pensiero unico assimilando ciò che gli si oppone. Colonizzando completamente l’immaginario.»8

Un immaginario in cui il diritto individuale sopravanza qualsiasi esigenza di liberazione generale della classe e, conseguentemente, della specie. In cui l’“Io” idealizzato sottomette le esigenze collettive e in cui l’idea del “privato” distrugge qualsiasi esigenza comunitaria. Aprendo ulteriormente le porte, per converso, anche in certe sgangherate versioni dell’estrema sinistra, a tutte quelle rivendicazioni, tipiche del fascismo e delle destre tendenti a inserire/soddisfare l’individuo, emarginato e impoverito, negli schemi della Nazione “sovrana”, della Patria, della Razza, della Proprietà “privata” e della Famiglia, patriarcale e indissolubile.

Non è certo pertanto nella pania dei “diritti” oppure in quella delle rivendicazioni a carattere nazionalistico che si può individuare lo strumento più efficace per combattere un fascismo di facciata che nasconde la profonda aderenza al Fascismo vero di gran parte dei partiti politici italiani e della loro forma Stato. Ereditata quasi integralmente dalla mancata reale “sconfitta” del Fascismo storico. Grazie, soprattutto, alle politiche messe in atto del CLN, tese più a impedire la svolta rivoluzionaria e anticapitalista che una parte della Resistenza portava con sé, più che a rifondare lo Stato repubblicano su nuove basi (e d’altra parte come si sarebbe potuto farlo senza negarne radicalmente il modo di produzione sul quale si fondava?). Anche se occorre, a questo punto, fare un salto indietro, fino al 1924.

Prima di tutto: l’origine del fascismo.
Ho ricordato che il movimento fascista è per la sua origine storica collegato ad una parte di quei gruppi che invocarono l’intervento italiano nella guerra mondiale.[…] Questo gruppo si era completamente identificato con la politica della concordia nazionale e dell’intervento militare […]
La crisi governativa in Italia è stata caratterizzata da qualcuno nel modo seguente: il fascismo rappresenta la negazione politica del periodo durante il quale predominava da noi una politica borghese liberale e democratica di sinistra. Esso è la forma più aspra di reazione contro la politica di conces­sione attuata da Giolitti ecc. nel dopoguerra. Noi siamo invece dell’avviso che fra questi due periodi esista un legame dialettico: che l’atteggiamento originario della borghesia italiana durante la crisi in cui il dopoguerra precipitò lo Stato, non fu se non la naturale preparazione del fascismo.
[…] Siamo così giunti ad un punto in cui fascismo e democrazia si incontrano. Il fascismo ripete in sostanza il vecchio giuoco dei partiti borghesi di sinistra e della socialdemocrazia, cioè chiama il proletariato alla tregua civile.[…]
A base di tutto ciò sta ovviamente lo sfruttamento dell’ideologia nazionalistica e patriottica. Non si tratta di qualche cosa di completamente nuovo. Durante la guerra, nell’interesse nazionale, la formula della sottomissione di tutti gli interessi particolari all’interesse generale dell’intero paese era già stata ampiamente utilizzata.
Il fascismo riprende dunque un antico programma della politica borghese, ma questo programma appare in una forma che in un certo senso riecheggia il programma della socialdemocrazia e che d’altra parte contiene qualcosa di veramente nuovo […]
Il fascismo vorrebbe conciliare e fare tacere tutti i conflitti economici e sociali all’interno della società. Ma questa non è che l’apparenza esterna. In realtà, esso cerca di realizzare l’unità all’interno della borghesia, una coalizione fra gli strati superiori delle classi possidenti in cui esso appiani i contrasti singoli fra gli interessi dei diversi gruppi della borghesia e delle diverse aziende capitalistiche.
[…] Ma, in tal modo, si irretisce in una contraddizione insolubile, perché è estremamente difficile attuare una politica unitaria della classe borghese finché le organizzazioni economiche dispongono di una completa libertà di sviluppo e finché vige una completa libertà di concorrenza fra i singoli gruppi di imprenditori.
[…] Ma, nell’insieme, il suo programma sociale non è null’altro che il vecchio programma di menzogne democratiche, che rappresenta solo un’arma ideologica per il mantenimento del dominio della borghesia.
Il fascismo è molto rapidamente – prima ancora della presa del potere – divenuto “parlamentare”; ha governato per un anno e mezzo senza sciogliere la vecchia Camera che in grande maggioranza era composta di non fascisti e, in parte addirittura di antifascisti. Con la flessibilità che è una caratteristica dei politici borghesi questa Camera si è affrettata a mettersi a disposizione di Mussolini per legalizzare la sua posizione e concedergli tutti i voti di fiducia che a lui piacque di chiedere. Lo stesso primo gabinetto Mussolini – ed egli, nei suoi “discorsi di sinistra”, vi ritorna sempre – non fu costituito su basi puramente fasciste, ma abbracciò rappresentanti dei più importanti fra gli altri partiti borghesi: dal partito di Giolitti, dei Popolari, della sinistra democratica. Si trattava, dunque, di un governo di coalizione. Ecco cosa ha partorito il cosiddetto colpo di Stato! Un partito che nella Camera contava 35 deputati ha preso il potere e ha occupato la grande maggioranza dei posti di ministro e sottosegretario9.

A partire da queste prime considerazioni, è chiaro che anche l’antifascismo di cui troppo spesso si parla, soprattutto in tempi di elezioni, può assumere forme e contenuti diversi, quasi sempre solo di facciata, niente affatto conciliabili tra di loro.

Il proletariato è antifascista in base alla sua coscienza di classe; esso vede nella lotta contro il fascismo una poderosa battaglia destinata a capovolgere radicalmente la situazione e a sostituire la dittatura della rivoluzione alla dittatura del fascismo. Il proletariato vuole la sua vendetta, non nel senso banale e sentimentale della parola; vuole la sua vendetta in senso storico.
Il proletariato rivoluzionario capisce per istinto che al fatto dell’aumento e del predominio delle forze della reazione si deve rispondere col fatto della controffensiva delle forze di opposizione; il proletariato sente che solo attraverso un nuovo periodo di dure lotte e – in caso di vittoria – attraverso la dittatura proletaria lo stato di fatto potrà essere radicalmente cambiato. Il proletariato aspetta questo momento per restituire all’avversario di classe, con un’energia decuplicata dalle esperienze, i colpi che oggi è costretto a subire.
L’antifascismo dei ceti medi ha un carattere meno attivo. Si tratta, è vero, di una forte e sincera opposizione, ma alla base di questa opposizione è un orientamento pacifista: si vorrebbe con tutto il cuore ristabilire in Italia una vita politica normale, con piena libertà di opinione e discussione… ma senza colpi di manganello, senza impiego della violenza. Tutto deve tornare alla normalità, sia i fascisti che i comunisti devono avere il diritto di professare le loro convinzioni. È questa l’illusione dei ceti medi, che aspirano ad un certo equilibrio delle forze e della libertà democratica.
Anche nella borghesia in senso stretto regnano oggi dei dubbi sull’opportunità del movimento fascista. Si nutrono delle preoccupazioni, di cui i due citati organi di stampa (“Corriere della Sera” e “La Stampa” – NdR) sono, fino a un certo punto, i portavoce. Essi si chiedono: è questo il metodo giusto? Non è esagerato? Nell’interesse dei nostri scopi di classe noi abbiamo creato un certo apparato che doveva rispondere ad alcune esigenze. Ma non andrà esso oltre le funzioni che gli attribuivamo e gli scopi che ci prefiggiamo? Non sarà costretto a far più di quanto è bene? Gli strati più intelligenti della borghesia italiana sono per una revisione del fascismo e dei suoi scantonamenti reazionari, per timore che questi portino necessariamente ad una esplosione rivoluzionaria. Naturalmente, è nell’interesse espresso dalla borghesia che questi strati della classe dominante conducano nella stampa una campagna contro il fascismo per ricondurlo sul terreno della legalità, per farne un’arma più sicura e flessibile dello sfruttamento della classe operaia10.

Continuando poi con le seguenti considerazioni, svolte a seguito dell’assassinio di Giacomo Matteotti:

l’opposizione borghese considera l’intera questione come un fatto giudiziario, come una questione di morale politica […] Per noi, al contrario, si tratta di una questione politica e storica, di una questione di lotta di classe […] Bisogna dichiarare apertamente che solo l’azione rivoluzionaria del proletariato può liquidare una situazione simile; una situazione che […] non può più essere sanata con puri provvedimenti giudiziari, col ristabilimento filisteo della legge e dell’ordine. A tale scopo è invece urgente la distruzione dell’ordine esistente, un capovolgimento completo che solo il proletariato può condurre a termine.
[…] All’ordine del giorno è anche la questione del giudizio del fascismo italiano da parte della opinione pubblica internazionale, della campagna di propaganda condotta contro di esso dai paesi civili. Si crede addirittura di vedere nell’indignazione morale della borghesia degli altri paesi un mezzo per liquidare il movimento fascista.
I comunisti e i rivoluzionari non possono abbandonarsi a questa illusione sulla sensibilità democratica e morale della borghesia degli altri paesi. Anche là dove oggi si presentano ancora tendenze pacifistiche e di sinistra, domani il fascismo sarà usato senza scrupoli come metodo di lotta di classe. Noi sappiamo che il capitale internazionale può solo rallegrarsi delle imprese del fascismo in Italia, del terrore che esso esercita laggiù contro operai e contadini.
Per la lotta contro il fascismo […] si tratta di una questione di lotta di classe. Noi non ci rivolgiamo ai partiti democratici degli altri paesi, alle associazioni di idioti e di ipocriti come la Lega per i diritti dell’uomo, perché non vogliamo fare sorgere l’illusione che si tratti per essi di qualche cosa di sostanzialmente diverso dal fascismo, o che la borghesia degli altri paesi non sia in grado di preparare alla sua classe operaia le stesse persecuzioni e di compiere le stesse atrocità che il fascismo in Italia11.

E’ un chiaro richiamo alla necessità della lotta quello che il rappresentante del PCd’I espone nella sua relazione sul Fascismo e sui modi per combatterlo, che anticipa di vent’anni le modalità espresse poi dalla spontanea Resistenza degli oppressi e dei militari tornati dai fronti bellici. Come ad esempio esprimeva benissimo Nuto Revelli, nel suo diario della campagna di Russia12: «Cialtroni! Più nessuno crede alla vostre falsità, ci fate schifo: così la pensano i superstiti dell’immensa tragedia che avete voluto. Le vostre tronfie parole vuote non sono che l’ultimo insulto ai nostri morti. Raccontatela a chi la pensa come voi: chi ha fatto la ritirata (di Russia – NdR) non crede più ai gradi e vi dice: Mai tardi…a farvi fuori!»13

Certo, la lotta è possibile solo con la partecipazione delle masse. La gran massa del proletariato sa molto bene che la questione non può essere risolta con l’offensiva di una avanguardia eroica. Questa è una concezione ingenua […] Non è così facile fare la rivoluzione!
Noi siamo assolutamente convinti dell’impossibilità di intraprendere la lotta con qualche centinaio o qualche migliaio di comunisti armati. Il P.C. d’Italia è l’ultimo ad abbandonarsi a simili illusioni. Siamo fermamente convinti della necessità inderogabile di attirare nella lotta le grandi masse. Ma l’armamento è un problema che può essere risolto solo con mezzi rivoluzionari […] Ma dobbiamo liquidare l’illusione che una manovra qualsiasi ci metta un giorno in condizione d’impadronirci dell’apparato tecnico e delle armi della borghesia, cioè di legare le mani ai nostri avversari prima che passiamo all’attacco contro di essi.
Combattere questa illusione che spinge il proletariato alla pigrizia in senso rivoluzionario non è terrorismo […] Noi non diciamo affatto che siamo dei comunisti “eletti” e che vogliamo sconvolgere l’equilibrio sociale con l’azione di una piccola minoranza. Al contrario, vogliamo conquistare la direzione delle masse proletarie, vogliamo l’unità di azione del proletariato; ma vogliamo anche utilizzare le esperienze del proletariato italiano che insegnano che delle lotte sotto la direzione di un partito non consolidato – anche se di massa – o di una coalizione improvvisata di partiti portano necessariamente alla sconfitta. Vogliamo la lotta comune delle masse lavoratrici nelle città e nella campagna, ma vogliamo la direzione di questa lotta da parte di uno stato maggiore con una linea politica chiara, cioè del partito comunista.
Questo il problema che ci sta di fronte14.

Ieri come oggi il soggetto antagonista non può affidarsi alle promesse elettoralistiche e alle chimere parlamentariste per sconfiggere il suo avversario, sia che si nasconda sotto le spoglie di Giorgia Meloni che di Letta, Salvini, Renzi, Calenda, Berlusconi, Di Maio o altri ancora. Compresi i «sinistri» che accampano ancora motivi tipici del Fascismo e del Nazionalismo, quali Sovranità e Nazione, in un paese in cui più che la difesa dei confini sarebbe necessario farla finita una volte per tutte con il capitale e i suoi scherani. In divisa militare o in abito grigio da parlamentare che siano.

Strategia perdente, quella dell’attuale “antifascismo” da elezioni, che spinge i giovani a doversi accontentare del piagnisteo ipocrita di “Repubblica” del 21 settembre sulle manganellate distribuite a Palermo dalle forze del dis/ordine sui contestatori del comizio di Giorgia Meloni, dimenticando però che proprio quel giornale rappresenta una delle voci più autoritarie nei confronti dei movimenti reali. Com il suo direttore, Maurizio Molinari ha ben dimostrato sempre nei confronti del Movimento NoTav, definito terrorista dallo stesso.

Mentre, solo per fare un esempio, il fatto che al sorgere di un movimento dal basso e concreto nelle istanze, come quello rappresentato nel Regno Unito da «Don’t Pay» che ha raccolto in poco tempo più di centomila aderenti, che potrebbero diventare un milione, intorno a una richiesta fondamentale, ovvero «la riduzione delle bollette energetiche a un livello accessibile», il governo “conservatore” di Liz Truss ha dovuto rispondere con un provvedimento del valore compreso tra i 150 e i 200 miliardi di sterline indirizzato al contenimento del caro-bollette per i prossimi 24 mesi.

Anche se tale provvedimento si è reso necessario prima di tutto per fornire un aiuto alle aziende, è chiaro che il potenziale pericolo rappresentata dal movimento, sul piano della lotta di classe, ha costituito uno dei fattori chiave per una svolta in tal senso. Considerato anche, come ha affermato Salvatore Toscano su «L’indipendente», che: «L’iniziativa, come si legge sul sito, ricalca un’idea realizzata nel Regno Unito alla fine dello scorso millennio, quando 17 milioni di persone si rifiutarono di pagare la Poll Tax, contribuendo alla caduta del governo e all’inversione delle sue misure più dure».

Insomma, la lotta concreta dal basso è l’unica che paga e, talvolta, può essere addirittura sufficiente che il suo spettro si aggiri per l’Europa15.


  1. Franco Rosso, La Costituzione non è difesa dal partito di Letta, «il manifesto», martedì 9 agosto 2022, p.15  

  2. F. Rosso, art. cit.  

  3. Cui Fratoianni ha lasciato il seggio di Pisa – NdA  

  4. ivi  

  5. Per fare solo un esempio, quale dovrebbe essere la concezione della proprietà privata, del lavoro, dell’organizzazione socio-politica in una situazione in cui una rivoluzione radicale e proletaria prendesse il sopravvento? Potrebbe ancora basarsi sui principi liberali oppure dovrebbe affermarne, come pensa l’estensore di queste note, altri? Magari assolutamente diversi e contrari a quelli attualmente in vigore?  

  6. A. Bordiga, Del governo, «Il Comunista», 2 dicembre 1921  

  7. A. Bordiga, art. cit.  

  8. Fabio Ciabatti, Il ciclo di Eymerich, una narrativa popolare che inquieta e non consola /2, «Carmilla on line», 23 agosto 2022  

  9. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista (Ventitreesima seduta, 2 luglio 1924)  

  10. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista, cit.  

  11. Ivi  

  12. N. Revelli, Mai tardi, Einaudi, Torino 1967 – prima edizione Panfilo editore, Cuneo 1946  

  13. N. Revelli, op. cit., p. 210  

  14. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista, cit.  

  15. “Il Sole 24 Ore” del 10 settembre 2022 rivela che dal Rapporto Coop 2022 emerge che un italiano su tre entro Natale potrebbe non riuscire più a coprire le spese per le utenze di luce e gas, mentre il 57% degli italiani si sarebbe già dichiarato in difficoltà nel pagare l’affitto.  

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Vivere per raccontare: Primo Levi https://www.carmillaonline.com/2018/02/28/vivere-raccontare-primo-levi/ Wed, 28 Feb 2018 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43891 di Sandro Moiso

Ian Thomson, PRIMO LEVI. Una vita, UTET 2017, pp. 806, € 35,00

Non costituirà forse l’opera definitiva su Primo Levi quella appena tradotta dall’originale inglese del 2002, ma sicuramente l’immensa mole di materiali raccolti da Ian Thomson, nel corso di una ricerca durata cinque anni, permette al lettore di penetrare, come non era mai capitato prima, in quella fabbrica della memoria e della narrazione che ha fatto dell’ex-prigioniero numero 174517 di Auschwitz uno dei maggiori autori italiani del secondo ‘900.

Il termine “fabbrica”, più ancora che “officina” o “laboratorio” di solito utilizzati per definire il luogo [...]]]> di Sandro Moiso

Ian Thomson, PRIMO LEVI. Una vita, UTET 2017, pp. 806, € 35,00

Non costituirà forse l’opera definitiva su Primo Levi quella appena tradotta dall’originale inglese del 2002, ma sicuramente l’immensa mole di materiali raccolti da Ian Thomson, nel corso di una ricerca durata cinque anni, permette al lettore di penetrare, come non era mai capitato prima, in quella fabbrica della memoria e della narrazione che ha fatto dell’ex-prigioniero numero 174517 di Auschwitz uno dei maggiori autori italiani del secondo ‘900.

Il termine “fabbrica”, più ancora che “officina” o “laboratorio” di solito utilizzati per definire il luogo ideale della scrittura e dell’elaborazione delle opere di un autore, serve proprio a sintetizzare una vita e un’opera che con l’istituto tipico dell’economia e del modo di produzione capitalistico hanno condiviso anni, riflessioni, preoccupazioni e immaginario. Sia in libertà che sotto il regime oppressivo e massacratore dei campi di lavoro e sterminio messi in essere dal Nazismo e dall’industria tedesca nel corso del secondo conflitto mondiale.

Levi il “chimico prestato alla scrittura”, come egli stesso si definiva, fu infatti fortemente segnato dall’esperienza del lavoro organizzato e disciplinato degli stabilimenti sia dell’IG Farben della Buna di Auschwitz, dove lavorò come chimico grazie alla sua specializzazione e alla sua conoscenza della lingua tedesca, che della fabbrica di vernici Siva di Torino, dove rivestì prima l’incarico di direttore tecnico e successivamente quello di direttore generale fino alla sua decisione di lasciare il lavoro.

Lavoro che entrerà più volte nella vita e nell’opera dello scrittore sia come ricordo che come materiale per i racconti di La chiave a stella. Lavoro visto come orgogliosa espressione di un’autentica vita activa, unica vera fonte di ispirazione possibile per le “creazioni” di un autore secondo Levi, ma anche come preoccupazione o addirittura ostacolo alla piena realizzazione della sua attività di letterato e scrittore. Una contraddizione che, come molte altre, percorrerà e sarà presente in tutta la carriera di Primo Levi.

Ian Thomson, reporter, traduttore e critico letterario inglese che collabora con giornali e quotidiani quali “The Observer”, “The Spectator”, “The Guardian”, “The Finacial Times”, “The Telegraph”, “The Times Literary Supplement” e “The London Review of Books” oltre ad essere membro della Royal Society of Literature e docente di Creative Non-fiction all’università dell’East Anglia, segue il filo della vita dell’autore italiano mentre si dipana tra il lavoro di fabbrica, sia coatto che libero, e lavoro creativo fortemente influenzato da ciò che Levi pensava dovesse essere il dovere di chi era sopravvissuto ai lager: “Per molti di noi la speranza di sopravvivere si identificava con un’altra speranza più precisa: speravamo non di vivere e raccontare, ma di vivere per raccontare. E’ il sogno dei reduci di tutti i tempi. E del forte e del vile, del poeta e del semplice […] Era chiaro a ognuno di noi che le cose che avevamo viste dovevano essere raccontate, non dovevano essere dimenticate. […] Ognuno di noi reduci, appena ritornato a casa, si è trasformato in un narratore infaticabile, imperioso, maniaco”.

Tutto questo era premesso in una Nota alla versione teatrale di Se questo è un uomo che fu rappresentata per la prima volta a Torino nel 1966, la cui origine e realizzazione, fino alle sue alterne fortune di critica e di pubblico, sono ricostruite, insieme alle aspettative e alle preoccupazioni di Levi in proposito, da Thomson nel diciassettesimo capitolo della biografia.
Capitolo che da solo basterebbe già a sintetizzare le alterne fortune e i grandi riconoscimenti di critica e di pubblico che accompagnarono sempre, o almeno fino a quando fu in vita, le opera dello scrittore torinese.

Per brevità necessaria ad una recensione è impossibile qui anche solo riassumere le vicende che accompagnarono la pubblicazione degli scritti di Levi, fin da quel 1947 in cui la sua prima, straordinaria opera autobiografica fu rifiutata da tutti gli editori cui venne proposta e infine pubblicata da un piccola casa editrice torinese, la “Francesco Da Silva”, messa in piedi da Franco Antonicelli, ex-presidente del CLN piemontese e uomo di grande cultura.
Soltanto nel 1958, infatti, Se questo è un uomo divenne uno dei cavalli di battaglia della casa editrice Einaudi che avrebbe poi contribuito a promuoverlo come uno dei classici della letteratura italiana del ‘900. Da quello stesso anno tutte le opere di Primo Levi sarebbero state pubblicate dalla prestigiosa casa editrice torinese, anche se i rapporti tra lo scrittore, uomo colto ma piuttosto comune nelle sue abitudini, e l’editore Giulio Einaudi, dai modi aristocratici e dai gusti raffinati, non sarebbero mai stati molto stretti e intimi.

Più importante è forse la ricostruzione delle frequentazioni e delle amicizie di Levi che vedevano al primo posto, e in alcuni casi fin da prima della guerra, personaggi importantissimi ma poco appariscenti come Bianca Guidetti Serra, Alberto Salmoni, Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern, solo per citarne alcuni, e in un secondo tempo altri quali Leonardo Sciascia (anche se i due non si sarebbero mai incontrati fisicamente), Italo Calvino e molti altri ancora, sia italiani che stranieri.

Frequentazioni ed amicizie che poco, comunque, avrebbero potuto fare per salvare Levi da se stesso o, almeno, da quelle forme depressive che lo accompagnarono per molti anni, fino al suicidio avvenuto l’11 aprile 1987. Proprio nell’anniversario della sua liberazione dal campo di Auschwitz, l’11 aprile 1945. Quanto tutto questo fosse legato alla memoria di essere un ”salvato”, un sopravvissuto, rimarrà a lungo tema di discussione, ma rimane indiscutibile il fatto che la sua ultima opera pubblicata mentre era ancora in vita sia stata dedicata proprio allo stesso argomento, come recita fin dal titolo: I sommersi e i salvati.

Poeta, memorialista, saggista, autore di romanzi, scrittore di racconti di lavoro e di fantascienza, Primo Levi fu anche sempre estremamente attento al destino e alle scelte dello stato di Israele, che egli visitò una sola volta e in cui la sua opera principale fu pubblicata soltanto un anno e mezzo dopo la sua morte, nel 1988. Paese di cui, dopo aver apprezzato l’utopia e la sorgente socialista delle origini, Levi non poté fare a meno di diventare critico della politica sionista condotta nei confronti dei palestinesi.

In particolare nel corso della guerra in Libano del 1982 quando, ulteriormente inorridito dalla strage di palestinesi operata a Sabra e Shatila dagli uomini delle le milizie cristiano-falangiste con la complicità dell’esercito israeliano, avrebbe pubblicamente perorato la richiesta di dimissioni del premier israeliano Begin. “Dal punto di vista di Levi, ciò che era imperdonabile nel primo ministro Begin era il suo ricorso al mito degli ebrei come vittime dei nazisti per giustificare il proprio militarismo e le violenze inflitte ai palestinesi”1

La presa di posizione dell’autore suscitò indignazione nella comunità ebraica più conservatrice e gli procurò anche alcune dolorose fratture nell’ambito delle sua amicizie, ma sicuramente la difesa di Israele come luogo di rifugio quasi utopico per gli scampati alla Shoa operata da Levi non avrebbe mai accettato di piegarsi alle logiche imperialistiche di quello Stato, messe in atto dai suoi governanti e dai suoi eserciti e che in una intervista di quei giorni ebbe a paragonare alla campagna militare inglese nei confronti delle Isole Falkland che si svolse proprio in quello stesso anno.

Nato nel 1919 da una famiglia di origine sefardita, trasferitasi in Piemonte, come molte altre dopo la cacciata dalla Spagna riconquistata dai re cattolici, che dopo un primo momento di opportunistica liberalità concessa agli inizi dai Savoia aveva avuto modo di conoscere sia il ghetto che varie altre vicende di oppressione politica e d economica, Levi preferirà sempre l’ebraismo della diaspora a quello dello Stato nazionale, riconoscendo soltanto nel primo, pur rimanendo rigorosamente ateo e non praticante, l’anima autentica della cultura ebraica: cosmopolita e aperta alla comprensione dell’altro. Tranne per i persecutori ed autori della shoa per i quali non ammise mai qualsiasi forma di perdono.

Ian Thomson attraverso un’attenta ricerca sui testi, articoli di giornale, fonti di archivio e, soprattutto, attraverso più di 300 testimonianze dirette raccolte nel corso del suo lungo lavoro testimonia il travaglio di una vita. Dalle origini alla morte, di un autore che pur avendo un rapporto contraddittorio con Kafka, di cui fu traduttore dell’opera più complessa e disumana (Il processo), e Leopardi, di cui forse non riconobbe il materialismo, finì col condividere con gli stessi una visione cupa e pessimistica del suo tempo e del divenire della società umana. Purtroppo confermata dalle politiche e dalle scelte sociali ed economiche messe in atto dai governi degli ultimi decenni.

Come scrisse nella prefazione del 1972 dedicata ai giovani lettori dell’edizione scolastica del suo capolavoro:

“Risulta dalle stesse pagine di questo libro quale intimo rapporto legasse l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager: non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e allo stesso tempo di una saggia decisione pianificatrice: era palesemente opportuno che le grandi opere ed i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.
I campi non erano dunque un fenomeno marginale ed accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su du essi; erano una istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata e, da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse. Si prospettava apertamente un Ordine Nuovo su basi «aristocratiche»: da una parte una classe dominante costituita dal Popolo dei Signori ( e cioè dei tedeschi stessi), e dall’altra uno sterminato gregge di schiavi, dall’Atlantico agli Urali, a lavorare e obbedire. Sarebbe stata la realizzazione piena del fascismo; la consacrazione del privilegio, l’instaurazione definitiva della non-uguaglianza e della non-libertà.”

Sono passati più di settant’anni dalla caduta “formale” del fascismo, eppure se ci guardiamo intorno, possiamo ancora riconoscerci nelle parole che Levi aggiungeva poche righe dopo:

“Soprattutto, non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere un Ordine Nuovo. Non ha mai rinnegato i Lager nazisti, anche se spesso osa metterne in dubbio la realtà.” 2

Forse, e questo è un appunto non del tutto secondario, la traduzione italiana dell’opera avrebbe dovuto rivedere ed integrare quelle parti in cui i giudizi e i riassunti della situazione sociale e politica italiana dagli anni sessanta agli anni settanta e ottanta avrebbero potuto e dovuto essere più ponderati e meno superficiali. Basti per tutti dire che nel testo le vittime dell’attentato di Piazza Fontana risultano essere dei passanti e che gli attentati che precedettero la strage che diede “ufficialmente” il via alla strategia della tensione vengono definiti come “bombette”.

Levi non ne sarebbe stato contento, non per motivi ideologici o politici, ma soprattutto per l’onestà e la precisione, la chiarezza e lo stile asciutto che sempre hanno caratterizzato i suoi scritti che lo annoverano sicuramente tra i più importanti scrittori e testimoni italiani del secondo ‘900. Insieme a Beppe Fenoglio, Leonardo Sciascia e Italo Calvino che, in modo e ambiti diversi, si mossero nella stessa direzione. Una lezione di memoria, storia e letteratura da parte di un autentico profeta del nostro tempo di cui abbiamo ancora bisogno. Soprattutto oggi.

Si segnala che l’autore, Jan Thomson, sarà presente a Milano, per un incontro con il pubblico, sabato 10 marzo alle ore 19 (Sala bianca) in occasione della manifestazione Tempo di libri, Fiera internazionale dell’editoria.


  1. Ian Thomson, Primo Levi, pag. 580  

  2. P. Levi, Se questo è un uomo, Prefazione 1972 ai giovani, Edizioni scolastiche Einaudi, pp 5-7  

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