nulla – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La saga di Alien tra orrore cosmico e capitalismo dello spazio profondo https://www.carmillaonline.com/2024/09/25/alien-tra-orrore-cosmico-e-capitalismo-dello-spazio-profondo/ Wed, 25 Sep 2024 20:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84441 di Sandro Moiso

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, pp. 246, 20,00 euro

Quando nel 1979 un ancor giovane Ridley Scott, alla sua seconda regia di un lungometraggio, portò sugli schermi Alien probabilmente nessuno, e tanto meno il regista inglese, avrebbe potuto anche solo lontanamente pensare che tale film stesse per dare inizio ad una delle saghe fantascientifiche cinematografiche più durature, complesse e articolate. Una saga ampliatasi ben al di là degli schermi cinematografici per espandersi nei comics, videogiochi, serie televisive e, più in [...]]]> di Sandro Moiso

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, pp. 246, 20,00 euro

Quando nel 1979 un ancor giovane Ridley Scott, alla sua seconda regia di un lungometraggio, portò sugli schermi Alien probabilmente nessuno, e tanto meno il regista inglese, avrebbe potuto anche solo lontanamente pensare che tale film stesse per dare inizio ad una delle saghe fantascientifiche cinematografiche più durature, complesse e articolate. Una saga ampliatasi ben al di là degli schermi cinematografici per espandersi nei comics, videogiochi, serie televisive e, più in generale, nell’immaginario collettivo e nelle paure inconsce di milioni di spettatori di tutte le età.

Anche se l’ultimo prodotto cinematografico ispirato alle vicende degli Xenomorfi e del loro atroce coinvolgimento nelle disavventure di equipaggi spaziali umani del tutto incapaci di far fronte alla loro minaccia, Alien Romulus di Fede Álvarez, nonostante un ottimo inizio e il successo al botteghino si sia rivelato come il più debole di quelli realizzati fino ad ora, vale la pena di ripercorrere le vicende della ideazione e della realizzazione delle storie contenute nella saga e, soprattutto, le riflessioni e invenzioni scientifiche, letterarie, filosofiche, religiose e tecnico-economiche che in esse si annidano.

A guidare il lettore nell’autentico e interessante, oltre che caotico, labirinto formato dall’insieme degli infiniti rivoli di orrore e paura sgorgati da quella fonte iniziale ci pensano Paolo Riberi e Giancarlo Genta con il volume appena uscito per le edizioni Mimesis. Il primo, laureato in Filologia e letterature dell’antichità e in Economia presso l’Università deli Studi di Torino, è giornalista, studioso di storia antica e letteratura delle origini cristiane oltre che membro della Società Italiana di Storia delle Religioni e autore di vari saggi dedicati al mondo dei vangeli apocrifi e alla simbologia del cinema contemporaneo.

Il secondo è professore emerito di Costruzione di macchine presso il Politecnico di Torino, membro dell’Accademia delle Scienze della stessa città e dell’Accademia Internazionale di Astronautica. E’ autore di numerosi testi di formazione, di articoli e di volumi sull’esplorazione spaziale e il programma Search for Extra-Terrestrial Intelligence, oltre che di sei romanzi di fantascienza e di un altro saggio in coppia con Riberi, anch’esso edito da Mimesis, sul ciclo di Dune di Frank Herbert (qui).

Diviso in tre parti riguardanti, nell’ordine, la saga stessa e la sua ideazione e realizzazione, i rapporti della stessa con il mito e la filosofia e, per ultima, quelli con la scienza e l’economia, il testo si rivela come un’autentica bibbia per tutti gli appassionati non soltanto del ciclo degli Xenomorfi, ma della fantascienza in generale. Qui il recensore, però, non potrà che riprenderne e sottolinearne alcuni aspetti, lasciando ai lettori la scoperta dei numerosi altri.

Nella prima parte, comprensiva di una ricostruzione in ordine cronologico degli eventi narrati nei primi sei film, sicuramente la parte del leone la fa la ricostruzione dei conflitti, delle rivalità tra sceneggiatori e successivi registi e dei dubbi della casa di produzione cinematografica, la 20th Century Fox, che portarono alla realizzazione del cult movie nel 1979. Una ricostruzione che vede tra i protagonisti Dan O’Bannon, John Carpenter, Walter Hill, Ridley Scott, James Cameron, Sigourney Weaver (destinata a dare volto e corpo ad una delle figure femminili più iconiche della cinematografia degli ultimi quarant’anni), Alejandro Jodorowsky (con il suo fallimentare progetto di un film, basato sul ciclo di Dune di Frank Herbert, della durata prevista di dieci ore) e Ron Shusett al quale, in definitiva, si deve l’idea di coniugare «le sfumature dei racconti di Howard P. Lovecraft con i tabù sessuali più oscuri della storia dell’Occidente», con la creazione «di un mostro alieno che, dopo essere salito a bordo di un’astronave umana, “violenta uno dell’equipaggio, gli salta sulla faccia, gli infila un tubo nel corpo, introduce il suo seme e poi fuoriesce dal suo stomaco”»1.

A costoro vanno aggiunti almeno tre importanti artisti e illustratori: lo statunitense Ron Cobb, destinato a dare forma alle astronavi del ciclo; il francese Jean Giraud alias Moebius, ideatore delle tute spaziali e, soprattutto, lo svizzero Hans Ruedi Giger dai cui disegni e illustrazioni da incubo sarà tratta la forma definitiva, allo stesso tempo oscena e spaventosa, del primo Xenomorfo. Immagine tratta, come tra l’altro molte di quelle che animavano i racconti di H. P. Lovecraft, direttamente dagli incubi dell’autore.

Ma non sono soltanto gli incubi notturni di Giger a far sì che sia possibile un rinvio dell’intera saga all’immaginario lovecraftiano, poiché i principali protagonisti della sua ideazione e realizzazione, da O’Bannon a Shusett fino allo stesso Ridley Scott (che nel complesso sarà responsabile della realizzazione di tre film dei primi sei di quelli appartenenti alla saga ed esclusi quelli della serie “parallela” Alien Vs. Predator), solo per citarne alcuni, saranno tutti “discepoli” e amanti dell’opera del solitario di Providence.

Il cui concetto di “orrore cosmico”, come ben si dimostra nell’apposito capitolo contenuto nella seconda parte del testo è sostanzialmente alla base dell’intero ciclo. Come affermano gli autori, la sua influenza su Alien è innegabile, così come quella del suo Necronomicon, libro maledetto scaturito totalmente dalla fantasia e dagli incubi dello scrittore americano, ma ripreso in seguito come fonte di ispirazione non soltanto per i suoi romanzi e racconti ma anche per un numero infinito di altri appartenenti ad altri autori. Oltre che per i disegni di Giger, da cui sarebbe stata ripresa quasi integralmente la morfologia della creatura figlia dello spazio profondo.

A ben vedere, la stessa immagine del mostro che fuoriesce all’improvviso dal petto della vittima dopo averla dilaniata dall’interno è già presente nei racconti lovecraftiani: in La casa delle streghe, il mostruoso famiglio dai denti aguzzi Brown Jen­kin, con il viso e le mani umanoidi, e il corpo di topo, si comporta esattamente come il chestbuster di Alien, uccidendo il povero protagonista Walter Gilm […] Analogamente – osserva il critico cinematografico Davide Co­motti – “l’abominio che fuoriesce dalle uova (il facehugger) è un essere tentacolare che ricorda da vicino lo Cthulhu lovecraftia­no”, mentre lo Xenomorfo, “che viene definito dal robot [Ash] come un superstite, richiama i Grandi Antichi, mostruosità innominabili anch’esse ricorrenti negli scritti di Lovecraft”2.

Ma più che nelle immagini orrorifiche e nelle creature mostruose oppure nelle trame, la vicinanza maggiore tra la saga e Lovecraft sta proprio nella filosofia di fondo che li sostiene, poiché:

L’alieno non è mai soltanto un “predatore dello spazio”, un parassita o un animale feroce, bensì un’entità molto più oscura e incomprensibile, al pari di Cthulhu e del folle Yog-Sothoth. Come direbbe Charles Darwin – parlando dei suoi “Xenomorfi in miniatura” – si tratta di un’entità così assurda da indurci a negare l’esistenza stessa di Dio…3

Così come sembrano confermare le recenti osservazioni del fisico Carlo Rovelli e del teologo Giuseppe Tanzella-Nitti:

Se le costanti della fisica fondamentale fossero diverse, come sarebbe il mondo? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che noi non ci saremmo, perché il mondo che ci ha generato è quello di queste costanti, non di altre. Questo per noi ha un enorme valore. Quindi ci sembra, rispetto a ciò a cui noi diamo valore, che le costanti siano fissate «stranamente» proprio per generare ciò a cui noi diamo valore, cioè noi stessi. L’errore che stiamo commettendo è di non vedere che noi abbiamo ovviamente valore, siamo ovviamente «speciali», ma lo siamo rispetto a noi stessi. Se l’universo fosse diverso, sarebbe quello che sarebbe […]. Nulla, della stretta dipendenza di ciò che esiste dalle costanti, può legittimamente essere interpretato come prodotto da un disegno intelligente. Se la struttura e l’evoluzione dell’universo rispondono all’intenzione di un Dio Creatore, ciò non può essere dedotto dalle osservazioni e dalle misure proprie del metodo scientifico4.

In un universo in cui «la vita stessa è una temporanea anomalia frutto del caso, che dal Nulla nasce, e al Nulla ritorna. Non c’è più spazio per alcuna legge, sia essa di natura morale, giuridica o fisico-scientifica»5. Dove predominano la morte, il caos e la distruzione, esattamente come in quello dell’ateo e visionario Lovecraft al cui centro balla Yog-Sothoth, dio nudo e idiota, in una cacofonia di flauti e tamburi. Di cui lo pseudo-biblium Necronomicon, traducibile come Libro delle leggi dei morti, costituisce l’anti-Bibbia per eccellenza. Un universo casuale in cui il mondo non è stato affatto creato per l’uomo e in cui il cosmo caotico che lo circonda lo tollera a malapena, poiché i Grandi Antichi oppure i loro corrispondenti Ingegneri, compresi nella saga, hanno probabilmente creato la vita e l’uomo stesso per errore oppure come semplice e atroce esperimento oppure, ancora, per dare ospitalità nei loro corpi al seme degli Xenomorfi affinché questi ultimi possano riprodursi su scala più ampia e diffusa. Attraverso la filosofia e l’opera dell’autore statunitense avviene così

lo svelamento di una verità profonda e incontrovertibile (“la più terribile concezione del cervello umano”), ovvero la consapevolezza di essere del tutto soli di fronte alla sconfinata vastità dell’universo. Alla base di queste teorie c’è il radicale ateismo dell’autore: vivendo pur sempre nei primi anni del Novecento, ossia un tempo fortemente influenzato dal pensiero di Arthur Schopenhauer e di Friedrich Nietzsche, Lovecraft rifiuta alla radice l’ottimistica visione del mondo giudaico-cristiana, sostenendo di “non essere mai riuscito a placarsi con le dolci illusioni della religione”. Il suo categorico rifiuto lo induce a ripudiare non soltanto l’idea di un benevolo Dio Padre, ma – coerentemente – anche la concezione umanista che deriva dalla Bibbia, e che nel corso degli ultimi due millenni ha plasmato la storia dell’Occidente: per Lovecraft, il cosmo è un abisso oscuro e misterioso, che non ha al proprio centro né la Terra, né tantomeno l’uomo, e che non risponde a quelle “immutabili leggi della natura” a cui l’homo sapiens, con i suoi studi scientifici, ha preteso di attribuire una valenza universale e assoluta6.

Tanto per Lovecraft quanto per Alien l’approdo finale non può che consistere nel cosiddetto nichilismo: se Dio non esiste – e non esiste neppure un ordine razionale dell’universo – allora nulla ha davvero senso, e l’unica certezza diventa il Nulla supremo, oppure come avrebbe affermato il colonnello Walter Kurtz in un altro celebre film, null’altro che «l’orrore, l’orrore!»7.

L’unico appunto che si potrebbe fare a questa parte del testo, certamente una delle più interessanti, è dovuto al fatto che gli autori si sono un po’ troppo basati sulle considerazioni derivate dalle opere sulla vita e l’opera di Lovecraft del controverso Sebastiano Fusco, più che su quella monumentale e più autorevole di S. T. Joshi8.

Il riferimento precedente al film di Coppola ispirato a Cuore di tenebra di Joseph Conrad non è casuale, poiché fin dal primo film di Ridley Scott altri elementi conradiani sono comparsi nella saga di Alien. Ad esempio il nome dell’astronave su cui iniziano le avventure di Ellen Ripley è Nostromo, mentre quello della scialuppa di salvataggio sulla quale si salverà la stessa figura femminile interpretata da Sigourney Weaver è Narcissus, nomi presi entrambi a prestito da romanzi brevi dell’anglo-polacco Conrad.

Ed è proprio a partire dalla Nostromo che inizia nella saga quella riflessione sull’espansione capitalistica nello spazio che occupa un capitolo nella terza e ultima parte del libro di Riberi e Genta. Una riflessione che fin dalle prime immagini porta il conflitto salariale e di classe nello spazio profondo e che vedrà nella Weyland-Yutani Corporation la massima espressione dell’avidità e indifferenza del capitale nei confronti dei suoi dipendenti e dell’intera specie umana.

Ecco allora che tutto quanto si è detto e citato prima a riguardo dell’inesistenza di un “piano regolatore” delle vicende umane e del cosmo trova la sua perfetta adesione alle finalità anonime e distruttive riconducibili agli interessi dell’accumulazione capitalistica. Costi quel che costi, anche in termini di devastazione delle esistenze dei singoli oppure di interi pianeti. Un’ipotesi che sembra essere non del tutto approfondita dai due autori che preferiscono lasciare, forse, un filo di speranza a chi legge ma che già oggi, nelle “imprese” spaziali private di Elon Musk e nelle su promesse di conquista di Marte, iniziano a dare i primi segni del bisogno di espansione infinita del capitale e del suo sogno di eternità. Ben rappresentato dagli obiettivi iniziali del fondatore della stessa corporation Weyland -Yutani.

Una disponibilità a divorare vite, ricchezze accumulate socialmente e digerite privatamente, pianeti interi che ben si accompagna all’immagine degli Xenomorfi e degli incoscienti Ingegneri o Space Jokey che perseguono piani non del tutto chiari nemmeno a loro. In cui la creazione si accompagna alla distruzione, lasciando spesso soltanto un mondo di rovine e di guerre senza fine e senza scopo. Una visione apocalittica, e qui ancora il riferimento all’Apocalisse di Coppola, per cui l’intera saga costituisce una delle critiche più radicali del modo di produzione capitalistico, la cui massima espressione sembra essere, oggi sulla Terra e domani nello spazio profondo, la guerra.

Tema indagato soprattutto nell’espansione della saga nei comics e per questo motivo non troppo sottolineato all’interno della ricerca pubblicata da Mimesis. Rimane comunque ancora il profumo di un altro autore di fantascienza, il vecchio Jules Verne, che già nel sul Dalla Terra alla Luna, nel 1865, illustrava il grande interesse finanziario contenuto nel battage pubblicitario destinato a raccogliere i fondi per il lancio del proiettile/navicella verso la Luna.

Sbagliò di poco i conti lo scrittore di allora rispetto al tempo impiegato nel 1969 dalla Apollo 11 per portare gli astronauti Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla superficie lunare e centrò invece perfettamente l’obbiettivo dell’operazione. Cosa che gli sforzi di Musk oggi confermano, in attesa che una Weyland-Yutani di domani riporti sul pianeta qualche strano essere più adatto a fare la guerra e a dominare il cosmo di quanto lo sia la specie umana. Forse ancora “troppo umana” e dunque sostanzialmente inutile per le finalità ultime del capitale.


  1. P. Riberi, G. Genta, I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, p.16.  

  2. P. Riberi, G. Genta, op. cit., pp. 90-91.  

  3. Ibidem, p. 97.  

  4. Carlo Rovelli, Giuseppe Tanzella-Nitti, Universo, un disegno poco intelligente: la scienza non può dimostrare l’esistenza di Dio, Corriere della sera qui  

  5. P. Riberi, G. Genta, op.cit., p.105.  

  6. Ibid., pp. 104-105.  

  7. Interpretato da Marlon Brando nel film, di Francis Ford Coppola, Apocalypse Now nel 1979.  

  8. S. T. Joshi, Io sono Providence: la vita e i tempi di H.P. Lovecraft, 3 voll, Providence press  

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L’eroe, la volontà e il nulla https://www.carmillaonline.com/2021/06/23/la-volonta-e-il-nulla/ Wed, 23 Jun 2021 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66669 di Sandro Moiso

Victoria Ocampo, 338171 T. E. (Lawrence d’Arabia), Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 112, 16,00 euro

Ricordo di aver visto per la prima volta il film Lawrence d’Arabia di David Lean all’età di dieci anni nel 1963. Ho ancora ben presente il contesto della sala cinematografica, grande e strapiena, in cui veniva proiettato in prima visione. Fumo di sigaretta, spettatori seduti ovunque, sulle scale oppure in piedi lungo le pareti. Doveva certamente trattarsi di Natale oppure Capodanno, poiché quelle erano le uniche date in cui era possibile andare in prima visione [...]]]> di Sandro Moiso

Victoria Ocampo, 338171 T. E. (Lawrence d’Arabia), Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 112, 16,00 euro

Ricordo di aver visto per la prima volta il film Lawrence d’Arabia di David Lean all’età di dieci anni nel 1963. Ho ancora ben presente il contesto della sala cinematografica, grande e strapiena, in cui veniva proiettato in prima visione. Fumo di sigaretta, spettatori seduti ovunque, sulle scale oppure in piedi lungo le pareti. Doveva certamente trattarsi di Natale oppure Capodanno, poiché quelle erano le uniche date in cui era possibile andare in prima visione con i miei famigliari.

Quel film mi è rimasto dentro, insieme al suo protagonista splendidamente interpretato in chiave problematica da Peter O’Toole, ed è forse l’opera cinematografica che ho visto più volte in vita mia, insieme a Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah, altro film poi non così distante dai contenuti del primo. Per questi motivi, ancora oggi, se qualcuno mi chiedesse a bruciapelo qual è il mio film preferito non avrei dubbi a rispondere che si tratta proprio di quello.

El Aurens, detto alla moda araba, non mi è rimasto inciso nella mente e nel cuore soltanto per le sue scene epiche e i panorami grandiosi oppure per le figure gigantesche e gigionesche dei capi tribù arabi interpretati da Anthony Quinn e Omar Sharif.
No, fin da allora a segnarmi fu l’immagine dell’eroe sconfitto dalla Storia e dai giochi imperiali che usciva da quelle vicende, e da quelle geopolitiche di cui era stato artefice, con un banale, ma forse ricercato, incidente motociclistico. Negli anni le vicende dell’eroe nietzchiano, che al termine di una continua ricerca della prova suprema e dell’atto ultimo e definitivo si ritrova imbrogliato, usato ed emarginato dai grigi esecutori delle burocrazie imperiali e degli interessi economici legati al petrolio, mi hanno fatto riflettere sulla vanità degli sforzi individuali e delle volontà, fosse anche delle migliori ed eroiche, nei confronti della Storia e dei suoi tellurici movimenti di cui contano soprattutto, più di quelli in superficie e violenti ma brevi, quelli sotterranei e lenti ma inarrestabili.

Il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence (1888 – 1935) fu archeologo, ufficiale dei servizi segreti britannici e scrittore. Conosciuto con lo pseudonimo di Lawrence d’Arabia, è ancora oggi celebrato come uno dei capi della rivolta araba durante la prima guerra mondiale.
Lawrence fu infatti un paladino del nazionalismo arabo ed è ricordato come uno dei più controversi e discussi protagonisti dell’insurrezione delle tribù arabe contro la dominazione ottomana a inizio del Novecento nella zona compresa fra l’Higiaz e la Transgiordania.
Nel 1922, tormentato e disilluso, dopo aver visto la diplomazia europea trasformare in beffa il suo trionfo militare, T.E. Lawrence si arruolò nella RAF come semplice aviere sotto il falso nome di Ross, mantenendo un rigoroso segreto sulla sua vera identità. Morì, in circostanze non ancora del tutto chiarite, a causa di un incidente motociclistico all’età di 47 anni.

Tutto questo per dire che il testo di Victoria Ocampo, pubblicato originariamente in Argentina nel 1942, poi in Francia e Gran Bretagna nel 1947 e oggi in Italia per la prima volta da una casa editrice la cui linea editoriale non è certamente prossima a quella espressa dalla redazione di Carmilla, permette al lettore di affrontare, da un punto di vista che ne sottolinea la ferrea volontà, i caratteri di un uomo che, alla fine di un travagliato ed esemplare percorso, finì col fare i conti con quel precipitare verso il nulla che sembra costituire, insieme al tema tipicamente novecentesco dell’annichilimento dell’individuo in quanto artefice del proprio ed altrui destino, l’ultima vera essenza dell’esperienza individuale moderna.

Che poi tale estrema esperienza sia stata cercata e raggiunta volontariamente oppure come conseguenza della sconfitta della volontà individuale è cosa su cui varrebbe la pena di soffermarsi ancora, poiché anche la condizione di distacco dalle cose del mondo, suggerita e dichiarata dalle filosofie orientali (la Ocampo parla del dharma di Thomas Edward Lawrence), potrebbe rivelarsi null’altro che la constatazione e l’accettazione di una condizione insuperabile dal punto di vista del singolo individuo.

E’ un’instancabile lotta contro l’io “odioso” Lawrence che l’”altro da sé” T.E. conduce per gran parte della vita, secondo lo sguardo dell’autrice. Un confronto che diventa particolarmente evidente nelle pagine del testo più importante e rivelatore della personalità di Lawrence, I sette pilastri della saggezza, da cui sarebbe poi stata tratta anche la sceneggiatura del film di David Lean.

Una ricerca sistematica di allontanamento dal proprio Io che nell’assunzione di diversi alias nel corso della seconda fase della sua vita (tra cui quelli di T. E. Smith, T. E. Shaw e John Hume Ross) rivela la netta volontà di scomparire dalle pagine dell’album di famiglia dell’impero britannico.

Un personaggio estremamente contraddittorio interpretato da una scrittrice che lo è stata altrettanto: argentina di nascita che per lungo tempo adottò la cultura e la lingua francese come patria intellettuale e di espressione, mentre le sue origini aristocratiche e il fatto di essere una nota oppositrice del governo di Juan Perón fra il 1946 e il 1955 (motivo per cui fu imprigionata nel 1953), la identificarono per un orientamento culturale conservatore ed elitario, anche se le sue relazioni personali e la sua attività di editrice la mantennero in contatto con numerosi scrittori dalla differente impronta ideologica. Probabilmente il suo ruolo più importante fu quello, a partire dal 1931, di fondatrice della rivista “Sur”, che avrebbe pubblicato scrittori argentini, come Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Ernesto Sábato e Julio Cortázar, e contribuito alla diffusione presso il pubblico argentino degli scritti di autori stranieri, soprattutto francesi, inglesi e statunitensi.

Spesso al centro delle scene mondane e letterarie, in patria e all’estero, Victoria Ocampo (1890 – 1979) fu, come il suo eroe, di cui disse: «Sono immersa in Lawrence. Lo amo. Respiro… Il mio sangue circola bene quando lo leggo. Lo ammiro e sono felice che sia esistito», affascinata e attratta dal nulla. Il nulla di quel deserto senza confini che aveva circondato le azioni dell’inglese minuto destinato a diventare, più che un gigante, una figura prometeica della politica mediorientale del primo ventennio del XX° secolo, fin da subito indirizzato alla sconfitta nonostante i successi iniziali.

Una vita, quella di Lawrence, caratterizzata, nelle testimonianze di tutti coloro che lo conobbero e che sono largamente riportate nel testo, dal tentativo di superare i limiti fisici della corporeità per mezzo di pratiche ascetiche (attività fisica destinata a sopportare le condizioni climatiche e militari più estreme, astinenza sessuale e alimentare), in nome dell’affermazione di un’individualità che, apparentemente, intendeva liberarsi anche dai limiti anagrafici imposti dal nome (da qui il numero di matricola riportato dal titolo), ma che fallì, nonostante tutto nel suo tentativo di librarsi al di sopra della Storia e della materialità delle cose e dei fatti umani.

Quando Lawrence parla dei giovani inglesi che hanno combattuto al suo fianco e di cui si sente felice di essere compatriota, si indigna che vengano sacrificati non per vincere la guerra, ma affinché l’Inghilterra possa disporre del grano, del riso e del petrolio della Mesopotamia.
Vincere il nemico era necessario. Lo fecero dice, Lawrence. Ma la guerra vinta non significava per lui grano, riso e petrolio. Si vanta, come sua massima gloria, di aver risparmiato, in trenta battaglie, il sangue dei suoi. «Tutte le province soggette all’Impero non valevano per me un giovane inglese morto»1.

E’ il Lawrence del “Nulla è scritto”, frase che caratterizza la scena centrale del film di David Lean, quando il protagonista torna a sfidare l’”incudine di Allah” (la parte più arida del deserto del Negev) nella parte più calda del giorno per salvare un beduino disperso durante la marcia notturna.
Scena destinata a segnare anche il climax del film e il destino dell’azione di Lawrence poiché, per impedire la dissoluzione della sua armata composta da differenti tribù, il cui obiettivo è quello di cogliere di sorpresa e alle spalle la guarnigione ottomana di Aqaba, sarà poi costretto ad uccidere quello stesso uomo che aveva salvato; affinché il suo sangue non ricada sulle mani, già offese, di un clan diverso da quello a cui apparteneva e impedendo così l’inizio una faida distruttiva e senza fine.

E’ sicuramente un episodio simbolico ancor più che reale, ma serve perfettamente a cogliere l’impotenza dell’individuo, anche della personalità più forte e decisa, davanti ai casi della Storia e delle uraniche potenze che la agitano, sia che queste appartengano al cielo oppure a quelle della politica e delle forze economiche materiali.

Certamente, però, l’intera narrazione delle imprese del nostro risentiva dell'”orientalismo”, colonialista e tutto sommato razzista, di cui parlava Edward Said2 a proposito di un’immagine dei popoli arabi e/o coloniali che li vedeva destinati ad essere guidati e risvegliati dai rappresentanti di una società più “moderna e avanzata”: quella europea per l’appunto. Così mentre tra il novembre del 1915 e il marzo dell’anno seguente aveva già preso corpo il trattato Sykes-Picot, un accordo segreto tra i governi del Regno Unito e della Francia, che definiva le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente (o Asia Minore come allora ancora veniva definito) in seguito alla sconfitta dell’impero ottomano nella prima guerra mondiale, ratificato nel maggio del 1916, Lawrence poteva ancora perseguire paternalisticamente i propri obiettivi, così come sottolinea la Ocampo poco dopo l’affermazione precedentemente ripotata: “Che si riprometteva dunque? A che mirava vestito da arabo tra gli arabi e da inglese tra gli inglesi? «Se ho restituito all’Oriente [ci dice] un po’ di rispetto di sé stesso, uno scopo, degli ideali […] io ho, fino a un certo punto, reso quelle genti adeguate al nuovo ‘commonwealth’ in cui le razze dominanti dimenticheranno le loro azioni brutali e in cui i bianchi, i rossi, i gialli, i marroni e i neri si metteranno in piedi fianco a fianco ponendosi senza pregiudizi al servizio del mondo»”3.

Ma era anche cosciente del fatto che il suo paternalismo di stampo colonialista avrebbe dovuto, per forza di cose, fare ancore i conti con la politica reale dell’imperialismo e del colonialismo:

Il suo ostinato desiderio che gli arabi, uniti e liberi, potessero far rinascere la loro civiltà, come una nota necessaria tra le altre, si accentuava a mano a mano che progrediva la campagna nel deserto. E agli arabi egli aveva promesso in nome dell’Inghilterra proprio la libertà. Gli arabi non si sarebbero battuti per passare dalle mani dei turchi a quelle degli inglesi o dei francesi, e Lawrence ne era consapevole. Sapeva anche che la solidità delle promesse del suo governo era in dubbio e contava sul prestigio delle vittorie arabe per esigerne lui stesso il mantenimento.
Un poco alla volta le cose si ingarbugliarono. Lawrence era lacerato tra la fedeltà ai suoi capi, alla sua patria e la fedeltà ai capi arabi, agli arabi che avevano creduto alla sua parola e nella sua persona e che per questo si erano fatti uccidere. Non poteva probabilmente parlare apertamente del suo conflitto interiore né agli uni né agli altri. Nel suo trentesimo anno, prigioniero di questo dilemma, e prima di entrare vittorioso a Damasco, Lawrence era già disgustato di una gloria che gli sembrava fondata sull’inganno […] «Gli arabi mi credevano; Allenby, Clayton [suoi superiori] si fidavano di me, la mia guardia del corpo [composta di arabi] moriva per me. Io cominciavo a chiedermi se ogni fama fosse fondata come la mia su un inganno»4.

La volontà, l’ideale, l’inganno e il nulla finivano a quel punto col coincidere e definire l’unico spazio di azione possibile per l’eroe, dall’Ulisse omerico e dantesco fino all’agente dei servizi britannici destinato ad agire nel Medio Oriente del primo conflitto mondiale. Come lo stesso Lawrence ebbe a scrivere nei Sette pilastri della saggezza:

Tutti gli uomini sognano, ma non nello stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono, al risveglio, la vanità di quelle immagini; ma sono quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. Fu ciò che io feci. Intendevo creare una Nazione nuova, ristabilire un’influenza decaduta, dare a venti milioni di Semiti la base sulla quale costruire un ispirato palazzo di sogni per il loro pensiero nazionale. Uno scopo così alto fece appello alla loro insita nobiltà di sentimenti, e li indisse ad assumersi una generosa parte nella vicenda. Ma, quando vincemmo, fui accusato di aver messo in pericolo i profitti inglesi sui petroli della Mesopotamia, e d’aver rovinato la politica coloniale francese nel Levante5.

Le ricerche storiche successive hanno teso, quasi tutte, a sminuire il ruolo di guida e demiurgo che Lawrence tese ad attribuirsi o che gli fu attribuito dai primi biografi, riducendolo spesso, come afferma Nemi D’Agostino in una nota aggiunta nel 1974 alla sua opera più famosa, ad eroe mancato, il cui sogno romantico rimaneva di stampo conservatore, mentre la sua campagna, a parte il successo conseguito con la presa di Aqaba, registrò una serie di insuccessi, neutralizzati soltanto dall’avanzata inglese nel Sinai e in Palestina, la quale ultima permise infine agli arabi la vittoria politica dell’ingresso a Damasco6.

Sicuramente, però, l’attrazione ideale esercitato dall’avventuriero inglese sull’autrice argentina portò quest’ultima a considerazioni dal carattere psicologico, filosofico e letterario, ben diverse rispetto a quelle fin qui esposte.

“Forse il suo torto fu di crogiolarsi nel rifiuto. Ma possiamo chiamare torto ciò che senza dubbio fu il suo dharma? Come quella di Arjuna sul campo di battaglia, la sua anima era sgomenta. Niente poteva dissipare l’ansia che la paralizzava. Come Arjuna, Lawrence non desiderava più né vittoria, né regalità, né voluttà. Era un abitante delle grandi pianure. Ed è in questa regione, popolata di assenze, che ha avuto luogo il nostro incontro”7.

Anche se tutto ciò non toglie nulla a un libro che può essere tranquillamnete consigliato a chi ha subito almeno una volta il fascino dell’avventuriero inglese e del deserto, anche interiore, che ha sempre accompagnato la sua immagine.


  1. Victoria Ocampo, 338171 T. E., Edizioni Settecolori, Milano 2021, p. 48  

  2. Edward Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2002  

  3. V. Ocampo, op.cit., pp. 48-49  

  4. Op. cit., pp. 49-50  

  5. T. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Bompiani, Milano 2002 (XXI edizione), p. 15  

  6. Nemi D’Amico, Nota (gennaio 1974) in T.E. Lawrence, op.cit., pp. 799-812  

  7. V. Ocampo, op.cit., pp. 18 -19  

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