Nomadland – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 31 Oct 2025 23:01:57 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il paradigma Amazon https://www.carmillaonline.com/2024/05/01/il-paradigma-amazon/ Wed, 01 May 2024 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82268 di Sandro Moiso

Charmaine Chua, Spencer Cox, Marco Veruggio, Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon, Introduzione di Sergio Fontegher Bologna, Infografiche di Emanuele Giacopetti, Punto Critico, Roma 2024, 140 pp., 12 euro

Definire Amazon un colosso è decisamente riduttivo, Amazon è un paradigma, così come lo sono stati gli stabilimenti Ford. Ambedue sono simboli di una civilizzazione, hanno segnato un’epoca. (Sergio Bologna)

Occorre iniziare da questa affermazione di Sergio Fontegher Bologna, contenuta nell’introduzione al testo appena pubblicato da Punto Critico, per riflettere su quali novità abbia introdotto a livello di rapporti di lavoro [...]]]> di Sandro Moiso

Charmaine Chua, Spencer Cox, Marco Veruggio, Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon, Introduzione di Sergio Fontegher Bologna, Infografiche di Emanuele Giacopetti, Punto Critico, Roma 2024, 140 pp., 12 euro

Definire Amazon un colosso è decisamente riduttivo, Amazon è un paradigma, così come lo sono stati gli stabilimenti Ford. Ambedue sono simboli di una civilizzazione, hanno segnato un’epoca. (Sergio Bologna)

Occorre iniziare da questa affermazione di Sergio Fontegher Bologna, contenuta nell’introduzione al testo appena pubblicato da Punto Critico, per riflettere su quali novità abbia introdotto a livello di rapporti di lavoro e, quindi, di conflitto e organizzazione sindacale il modello di distribuzione delle merci ideato da Jeff Bezos.

Jeffrey Preston Bezos è il fondatore, proprietario e presidente della più grande società di commercio elettronico al mondo, oltre che il fondatore e amministratore delegato di una società attiva nei voli spaziali (Blue Origin) e il proprietario del Washington Post. Inoltre risulta essere la terza persona più ricca al mondo, con un patrimonio stimato di 196,1 miliardi di dollari.

Ricordare i dati riguardanti il big boss man di Amazon in questo contesto non costituisce un mero esercizio di gossip giornalistico ma, piuttosto, uno strumento per misurare il risultato derivante da una posizione di monopolio economico e rendita finanziaria in cui è sempre più evidente come un modo di produzione e distribuzione che si basa sull’appropriazione individuale/privata della ricchezza/lavoro prodotta socialmente non sia “democraticamente” correggibile, come vorrebbe tanta vulgata riformistica.

Valga, a questo proposito, l’osservazione che il plurimiliardario americano è proprietario di una delle testate giornalistiche più celebri per le sue campagne e i suoi coraggiosi articoli di denuncia della corruzione del potere politico, dal Watergate in poi. Una tradizione di indagini giornalistiche che, pur rimanendo impensabile nell’odierno paese dei media-cacasotto al servizio del capitale e dello scandalismo giustizialista in stile Travaglio, non ha comunque cambiato di una virgola i reali rapporti di forza tra le classi negli Stati Uniti.

E allora torniamo al paradigma Amazon per esplorarne contraddizioni e organizzazione del comando sul lavoro attraverso i due saggi nati in modo autonomo e che non erano stati scritti con l’idea di essere pubblicati insieme. Il primo, Battling the Behemoth: Amazon and the rise of America’s new working class, di Charmaine Chua e Spencer Cox, è stato pubblicato sul volume 59 del Socialist Register (Socialist Register 2023: Capital and Politics), mentre il secondo, Organizzazione del lavoro e conflitto di classe in Amazon, di Marco Veruggio, ricapitola tre anni di lavoro nell’ambito del progetto “Amazon, la società del futuro?” (www.puntocritico.info/amazon).

Iniziamo dal primo dei due saggi, quello di Charmaine Chua1 e Spencer Cox2:

Ai primi di aprile del 2022 Christian Smalls stappava una bottiglia di champagne fuori dagli uffici del National Labor Relations Board (NLRB) a Brooklyn per celebrare una vittoria senza precedenti. Meno di due anni prima Smalls era stato licenziato dal JFK8, il centro di distribuzione Amazon a Staten Island, dopo aver guidato uno sciopero di protesta contro le insalubri condizioni di lavoro agli inizi della pandemia. Oggi, nonostante la sfrenata azione repressiva di Amazon, le cui tattiche antisindacali hanno contemplato il duplice arresto di Smalls con l’accusa di “invasione di proprietà privata”, licenziamenti, l’obbligo per i lavoratori di partecipare a incontri di “formazione obbligatoria” e altro ancora, il JFK8 è da diventato da poco il primo magazzino Amazon nella storia a strappare un riconoscimento formale del sindacato interno. «Vogliamo ringraziare Jeff Bezos per essere andato nello spazio», ha ironizzato l’ormai celebre Smalls, «perché quando era lassù noi iscrivevamo persone al sindacato». Quel capovolgimento di fronte, ha osservato il giornalista Alex Press, è stato un evento storico, di cui «ci sono pochi paralleli nella storia del movimento operaio americano dopo Reagan»3.

Poche righe per ricordare diversi e importanti aspetti delle vicende lavorative e sindacali dei dipendenti del colosso della distribuzione. La prima, rammentata dall’esperienza di Smalls, è che il “democratico” Bezos non ha tralasciato alcuna modalità di repressione dei lavoratori, dal licenziamento ai provvedimenti di imprigionamento, per impedire qualsiasi tipo di sindacalizzazione degli stessi. La seconda, ancora più importante della prima, è che la determinazione dei salariati nel lottare e nell’organizzarsi è l’unica forma di opposizione che può realmente pagare.

Nonostante siano stati numerosi i tentativi da parte dei media, da quelli di orientamento liberal a quelli posizionati più a sinistra, di fornire spiegazioni convincenti della vittoria di questa “opposizione interna” al colosso, mancano comunque i tentativi

di collocare questa palese rinascita della lotta di classe dei lavoratori nel suo appropriato contesto, cioè nella sua relazione ai processi di ristrutturazione capitalista nel cuore deindustrializzato degli Stati Uniti, processi che hanno condotto a un turbolento fenomeno di ricomposizione di classe e che plasmeranno le opportunità di realizzare un cambiamento strutturale nel futuro. La vittoria di un piccolo nucleo di venti attivisti su una società che nel 2022 ha avuto un fatturato di 470 miliardi di dollari è stata significativa non solo per i rapporti di forza da “Davide e Golia”, ma anche per ciò che ha rivelato circa la composizione demografica e geografica della nuova classe operaia americana4.

E per far meglio comprendere la dimensione materiale in cui la lotta si è sviluppata e tale vittoria è diventata possibile, i due ricercatori aggiungono:

La vittoria al JFK8 è stata anche frutto di una lotta condotta lontano dai tradizionali punti di raccolta della sinistra a Wall Street e a Washington Square Park e situata, invece, in un’area suburbana spesso indicata come la “periferia dimenticata”. Il magazzino è circondato come un fortino da una recinzione lunga parecchie miglia e sormontata dal filo spinato. Collocati in una delle centinaia di fabbriche dell’industria della distribuzione che in America concentrano e fanno socializzare i lavoratori alla periferia degli aggregati urbani, molti di costoro per raggiungere il posto di lavoro devono fare i pendolari viaggiando da un’ora e mezza a tre ore. Nel quadro della lunga crisi in cui la popolazione in eccesso ha fatto i conti sia con la scarsità di abitazioni sia con la sempre più ridotta disponibilità di stabile lavoro salariato, i lavoratori dei magazzini Amazon sono il settore di classe operaia che cresce a ritmo più rapido. E la loro collocazione di classe etnicamente variegata e geograficamente extraurbana è stata un fattore non secondario, bensì centrale della vittoriosa mobilitazione della Amazon Labor Union5.

Per poi sottolineano ancora che

per comprendere in modo più esauriente il mutamento che ha portato i lavoratori di Amazon a diventare il punto focale del movimento operaio organizzato è necessario collocare la rapida espansione di Amazon.com nella lunga crisi dell’ultimo mezzo secolo. Quale impresa tecnologica che ha combinato e-commerce e servizi digitali in un’unica entità societaria, Amazon è un emblema delle trasformazioni strutturali in atto al centro del processo di rifacimento del capitalismo globale, cioè dello straordinario mutamento nella logica dell’accumulazione in direzione di un’accelerazione nella circolazione del capitale merce mediante le catene di fornitura just-in-time che si estendono a tutto il globo. Inquadrando Amazon come forza motrice della scomposizione di classe cerchiamo anche di capire come negli Stati Uniti il capitale stia ricomponendo una nuova classe operaia. Situando l’ascesa di Amazon all’interno dei processi di ristrutturazione capitalistica che si sviluppano a partire dai rivolgimenti politico-economici degli anni ‘70 dimostriamo che la supremazia del blocco egemonico neoliberale le ha reso più agevole perseguire un surplus di profitti tramite una rielaborazione generale dei meccanismi di accumulazione del capitale. Nel saggio analizziamo come Amazon ha rimodellato la geografia di classe delle città degli USA, modificando anche la composizione della loro struttura sociale. La sua ascesa, concentrata nel cuore gentrificato delle città, è stata trainata da una poderosa trasformazione del settore della vendita al dettaglio e della logistica, avvenuta quando consumatori con salari elevati e istruzione superiore hanno spostato in rete i propri acquisti, alimentando un balzo in avanti delle vendite online. A servire questo serbatoio di clientela sono i magazzini Amazon collocati nelle aree suburbane ed extraurbane delle città americane – quelle in cui oggi perlopiù risiede la classe operaia degli Stati Uniti. Queste trasformazioni complessive nei settori del commercio e della logistica sono state un fattore chiave trainante la segmentazione per razze ed etnie e l’atomizzazione della classe operaia, che Amazon a sua volta sfrutta per reclutare manodopera e collocare i magazzini in luoghi strategici. Esaminare le contraddizioni prodotte dagli sforzi di Amazon per acquisire il monopolio nell’industria della logistica ci permette di valutare le rotture sistemiche che rendo-no allo stesso tempo possibile e necessaria la creazione di una coscienza di classe rivoluzionaria nei magazzini6.

Dopo queste lunghe citazioni si lascia ad ogni singolo lettore la possibilità di esaminare più in profondità le modalità di trasformazione del comparto della logistica e quelle delle lotte che ne sono derivate, attraverso uno sguardo affinato dal tipico pragmatismo americano, troppo spesso assente dalle riflessioni europee ed italiane sul lavoro, quasi sempre inficiate da aprioristici ideologismi che nulla hanno a che fare con una seria analisi materialistica (marxista?) delle trasformazioni sociali, economiche, tecnologiche e politiche in atto.

Basti pensare allo sguardo sulla gentrificazione, cui si è accennato nell’ultima citazione, che non viene studiata come causa della rovina delle città d’arte o dei centri storici dal punto di vista culturale, ma proprio per le sue conseguenze sociali, dettate dalle necessità della ristrutturazione e concentrazione capitalistica. Bye bye Firenze, good morning Brooklyn.

Il saggio di Marco Veruggio si sforza invece di concentrare lo sguardo e l’attenzione sul modello di gestione algoritmica della forza—lavoro del colosso di Seattle, per potere successivamente analizzare insidie e opportunità che ne derivano sul piano sindacale. L’autore è coordinatore del progetto ”Amazon, la società del futuro?” e ha pubblicato numerosi articoli sull’argomento, tra cui l’unica intervista italiana a Chris Smalls, mentre il long form multimediale Amazoniade. Un anno a Passo Corese (2022), da lui curato ha vinto nel 2023 il Premio Calcata 4.0 per il giornalismo digitale. Nel suo saggio Veruggio sottolinea come:

Una delle caratteristiche essenziali del modello Amazon è la trasformazione della forza-lavoro in commodity, materia prima indistinta. Non contano le differenze qualitative tra i singoli lavoratori, ma soltanto la loro capacità di fornire all’azienda una prestazione lavorativa conforme agli standard aziendali, perfetta incarnazione di ciò che Marx chiamava “lavoro sociale medio”. La parcellizzazione del lavoro, tipica del taylorismo e del fordismo, in mansioni elementari e ripetitive, così da imprimere al lavoro il giusto ritmo e controllarne ogni sua fase, qui, grazie all’innesto delle tecnologie digitali e all’intelligenza artificiale, viene portata alle estreme conseguenze. Se […] le mansioni della logistica risultano di per sé abbastanza semplici, la sussunzione del lavoro da parte degli algoritmi che regolano ogni più minuto aspetto della vita in Amazon cancella ogni residua autonomia del lavoratore, trasformandolo in una sorta di automa: «Sei una specie di robot, ma in forma umana. La puoi chiamare automazione umana» è l’icastica sintesi fatta da un’ex manager inglese di Amazon a una giornalista del Financial Times.
Alienazione e ritmi elevati consentono ad Amazon di imporre livelli di produttività (e di estrazione di plusvalore) elevati, ma rendono il lavoro estremamente sfibrante. L’impegno ad applicare la job rotation, raccontano lavoratori e sindacalisti, è ampiamente disatteso. Negli enormi magazzini grandi anche decine di migliaia di metri quadrati su più piani un picker arriva a percorrere anche 20 chilometri al giorno. Chris Smalls, oggi leader del primo sindacato riconosciuto ufficialmente da Amazon negli USA, Amazon Labor Union (ALU), mi ha raccontato che molti lavoratori del magazzino di Staten Island, a New York, per reggere i ritmi – negli USA si arriva a lavorare 12 ore al giorno e fino a 50-60 ore a settimana – conducevano uno specifico allenamento fisico. L’introduzione sempre più massiccia di robot per spostare la merce dai picker ai packer sta solamente attenuando il problema.
Nonostante ciò nella selezione del personale non vengono richiesti particolari requisiti fisici7.

Quest’ultimo punto è particolarmente importante, poiché all’interno di ciò che Chua e Cox definiscono come “fabbriche della vendita al dettaglio” «la catena di montaggio tipica del fordismo è potenziata dall’innesto delle più moderne tecnologie, inclusa l’intelligenza artificiale»8. Il che permette, ad esempio, tramite un programma attivo da qualche anno:

di fare il fattorino di Amazon in qualità di lavoratore autonomo, loggandosi ad Amazon Flex, la app che regola ogni aspetto del lavoro: basta avere 18 anni, un mezzo proprio e la patente. Una vera e propria “uberizzazione” delle consegne, che in Italia per ora ha ancora una portata limitata e che inscrive una quota ridotta dei lavoratori Amazon dell’e-commerce nel perimetro della cosiddetta gig economy (insieme a chi lavora per la piatta-forma di microlavoro Mechanical Turk, lanciata da Jeff Bezos nel 2005) 9.

Ma, come si può ben immaginare, se la soglia minima è quella dei diciotto anni, quella massima può non avere più limiti. Contribuendo a fornire una massa di anziani itineranti, come quella vista nel film Nomadland (2020) di Chloé Zhao, adattamento dal libro inchiesta della giornalista Jessica Bruderdel dallo stesso titolo10, che risultano essere dipendenti stagionali di Amazon, sia come operatori che come fattorini.

E’ indiscutibile che una tale riformulazione delle modalità e delle “età” del lavoro finisca coll’abbisognare di nuove modalità interpretative e organizzative di cui il testo edito da Punto Critico, con i suoi due saggi, può costituire un primo e importantissimo momento. Vivamente consigliato a tutti coloro che nell’affrontare il tema del lavoro di oggi e di domani non si accontentino di frasi fatte e parole d’ordine radicate in un sistema di fabbrica ormai quasi del tutto superato nell’Occidente metropolitano. Contro tutte le passate illusioni che ogni conquista fosse “per sempre”.


  1. Attivista, saggista e Assistant Professor of Global Studies alla University of California di Santa Barbara che, attualmente, sta scrivendo due saggi: The Logistic’s Counterrevolution: Fast Circulation, Slow Violence and the Transpacific Empire of Circulation e, ancora con Spencer Cox, How to Beat Amazon: The Struggle of America’s New Working Class.  

  2. Ha lavorato in centri di distribuzione e di smistamentp Amazon, militato in Amazonians United otre ad aver conseguito un PhD alla University of Minnesota.  

  3. C. Chua, S. Cox, Lottare contro il ciclope: Amazon e l’ascesa della nuova classe operaia americana in Charmaine Chua, Spencer Cox, Marco Veruggio, Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon, PuntoCritico, Roma 2024. p. 35.  

  4. Ivi, p. 36.  

  5. Ivi, p. 37.  

  6. Ibidem, pp. 37-38.  


  7. M. Veruggia, Organizzazione del lavoro e conflitto di classe in Amazon, in Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon, op. cit., pp. 81-82.  

  8. Ivi, p. 76.  

  9. Ivi, p. 77.  

  10. J. Bruder, Nomadland. Un racconto d’inchiesta, Edizioni Clichy, Firenze 2020.  

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Spazio disciplinato e spazio libero in “Nomadland” https://www.carmillaonline.com/2021/05/27/spazio-disciplinato-e-spazio-libero-in-nomadland/ Thu, 27 May 2021 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66444 di Paolo Lago

Nomadland (2020), di Chloé Zhao, mostra una significativa contrapposizione di spazi: da una parte c’è lo spazio libero, non incasellato da alcun tipo di controllo sociale; dall’altra, invece, c’è quello regolato dalle dinamiche della ripetitività quotidiana, disciplinato dalle pratiche del controllo e del lavoro. La sessantenne Fern (Frances McDormand), protagonista del film, dopo aver perso una occupazione stabile durante la “grande recessione” che dal 2006 ha colpito duramente gli Stati Uniti, alterna periodi di lavoro stagionale a momenti in cui percorre le lande del Nevada e degli stati dell’Ovest con il [...]]]> di Paolo Lago

Nomadland (2020), di Chloé Zhao, mostra una significativa contrapposizione di spazi: da una parte c’è lo spazio libero, non incasellato da alcun tipo di controllo sociale; dall’altra, invece, c’è quello regolato dalle dinamiche della ripetitività quotidiana, disciplinato dalle pratiche del controllo e del lavoro. La sessantenne Fern (Frances McDormand), protagonista del film, dopo aver perso una occupazione stabile durante la “grande recessione” che dal 2006 ha colpito duramente gli Stati Uniti, alterna periodi di lavoro stagionale a momenti in cui percorre le lande del Nevada e degli stati dell’Ovest con il suo van riadattato a abitazione viaggiante.

Gli spazi della sedentarietà, sottoposti alle regole del controllo, sono fondamentalmente i luoghi di lavoro e gli interni domestici. All’inizio del film vediamo Fern che lavora da Amazon, in un enorme spazio in cui gli addetti sono impegnati a inscatolare gli oggetti che i clienti acquistano online. Il gigantesco capannone di Amazon può essere definito come un “non luogo”, secondo l’efficace espressione di Marc Augé: anche se l’analisi dello studioso francese è prevalentemente incentrata su spazi come autostrade, stazioni, aeroporti e supermercati, si potrebbe osservare che anche un luogo di lavoro come un capannone di Amazon assume connotazioni spaziali diverse rispetto a quelle prettamente moderne di una fabbrica di tipo tradizionale, con la sua catena di montaggio. Come osserva Augé, “se i non luoghi sono lo spazio della surmodernità, questa non può pretendere alle stesse ambizioni della modernità”1. Il termine “surmodernità” (calco del francese surmodernité) è stato coniato da Augé per indicare una fase storica di superamento della postmodernità, caratterizzata dalle dinamiche socio-economiche della contemporanea società globalizzata. Nella “surmodernità”, si potrebbe dire, cambiano anche gli spazi e le modalità del lavoro. Gli impiegati di Amazon sono costretti a trascorrere il proprio tempo lavorativo in uno spazio enorme, svolgendo lavori ripetitivi e usuranti (essendo spesso sottoposti a ritmi di lavoro massacranti, come è emerso da scioperi di protesta da parte dei lavoratori, svoltisi recentemente anche in Italia), non finalizzati alla costruzione di un oggetto-merce, come nella tradizionale catena di montaggio, bensì volti all’impacchettamento e alla spedizione di quegli stessi oggetti già costruiti. Si tratta di un lavoro di vendita realizzato come un lavoro di produzione. Lo stesso spazio del capannone è diverso rispetto a quello di una fabbrica tradizionale; esso stesso è all’insegna di quell’eccesso che, secondo Augé, caratterizza la “surmodernità”: eccesso di spazio, fagocitante e alienante, in cui i tradizionali parametri di orientamento vengono totalmente stravolti, sostituiti da indicazioni di movimento sovrapponibili e sostituibili ogni momento. In un tale spazio, il personaggio di Fern appare continuamente sottoposto a un processo di perdita: del sé, della propria esistenza e della propria personalità. Quest’ultima sembra essere totalmente riconquistata soltanto nei momenti in cui, in solitudine, guidando il suo van, solca i territori degli stati americani occidentali.

Un altro spazio in cui Fern lavora durante i suoi spostamenti è quello dei parchi turistici come addetta alle pulizie. Il parco è una tipologia di luogo che più si avvicina a quelli descritti da Augé, legati alla fruizione da parte dei turisti. Si tratta, fondamentalmente, di lembi di natura che vengono ‘inscatolati’, attrezzati e offerti al turista dietro pagamento: quella stessa natura inscatolata, in fin dei conti, non è poi troppo diversa dagli oggetti impacchettati di Amazon. Fern, anche in questi spazi, appare costretta, come se anche lei fosse stata inscatolata dalle dinamiche lavorative che regolano la società. I veri momenti di libertà, per la protagonista, sono rappresentati dal contatto genuino con la natura: nel parco minerario, quando si allontana dal gruppo dei turisti per passeggiare da sola, inquadrata dall’alto dalla macchina da presa come se facesse parte ella stessa della terra che la avvolge; oppure, anche nel momento in cui si getta nuda in un torrente di montagna liberando il proprio corpo in una sorta di unione con gli aspetti più fisici e corporei di quel territorio che sta percorrendo in lungo e in largo. Il territorio americano, in questo senso, è rappresentato in modo estremamente vitalistico e appare perciò molto diverso, ad esempio, dal paesaggio statunitense mostrato ne La ballata di Stroszek (Stroszek, 1976), di Werner Herzog, in cui le desolate e gelide praterie del Wisconsin sono la cornice ideale per la condizione di marginalità e di terribile solitudine che attanaglia il protagonista. Anche Fern è avvolta da una condizione di marginalità e solitudine (per certi versi, anche autoimposta), ma possiede una profonda forza interiore strettamente legata al territorio.

Un altro luogo sottoposto alle dinamiche del controllo e della sorveglianza, in Nomadland, è quello domestico. Fern rifiuta categoricamente di fermarsi sia nella casa della sorella che in quella di Dave, un attempato viaggiatore che, innamoratosi della donna, la invita a fermarsi con lui insieme ai figli e ai nipoti. La regista è davvero abile nel mostrare due spaccati di vita sedentaria tipicamente americana. Nei momenti della sosta presso la casa della sorella, Fern partecipa con lei e suo marito a una cena all’aperto con barbecue, insieme agli amici della coppia, nel giardino della loro elegante villetta. La macchina da presa la mostra poi in una camera da letto mentre il suo corpo sembra rifiutare la morbidezza accogliente di quello stesso letto. Il corpo di Fern sembra essere in sintonia solamente con gli spazi aperti e naturali, con le lande nomadiche che lei, nuovo “soggetto nomade” della contemporaneità (per utilizzare un’espressione di Rosi Braidotti2), percorre in modo molto fisico e ‘corporeo’. Lo spazio domestico è regolato da numerose regole e convenzioni alle quali Fern non accetta di sottostare: in primis, forse, quelle di un patriarcato familiare che continua a persistere nella contemporanea società occidentale. Perciò, non può fermarsi neppure nella casa che le offre Dave: un altro interno levigato e perfetto, accogliente e protettivo. È emblematico, infatti, che lei abbandonerà la casa al mattino molto presto, quando ancora tutti dormono, mentre sta per scatenarsi un forte temporale. Fern abbandona lo spazio domestico e familiare, caldo e accogliente, per mettersi alla guida e affrontare strade inospitali sulle quali si sta scatenando una pioggia incessante. A uno spazio caratterizzato da calore e accoglienza, nella quale vive la tipica famiglia felice americana, la donna preferisce la propria solitudine e la propria libertà, nonché lo spazio auto-organizzato allestito dagli altri viaggiatori in aree di sosta in mezzo a vastissime lande desertiche. Se – rifacendoci all’analisi offerta da Deleuze e Guattari in Mille Piani – quelli di Amazon e degli interni domestici possono essere considerati come spazi “striati”, sottoposti alle griglie del controllo, quelli desertici e nomadici sono dei veri e propri spazi “lisci”3 , caratterizzati dal movimento incessante dei nomadi (che, secondo gli studiosi, non è comunque per forza associato al movimento spaziale).

Come scrive Franco La Cecla in Mente locale, lo spazio “nostro”, oggi, è sempre meno “nostro”: “Dai marciapiedi alle strade, allo spazio dell’appartamento, al paesaggio urbano in generale, abbiamo a che fare con uno spazio rigido, predeterminato, con una serie di griglie, di incasellamenti e di canali dentro cui, bene o male, si svolge la nostra vita”4. La città moderna impone il passaggio da una concezione di spazio “come ambito manipolabile del proprio abitare a un’idea più astratta e generale di spazio, e quindi anche più impersonale e statica”5. L’unico domicilio ammesso è perciò quello della “residenza”, un domicilio regolarizzato e disciplinato, una vera e propria istituzione6. È a questa istituzione che si oppone Fern: lei e tutti gli altri ‘nomadi’ che vivono nei loro camper, nei loro furgoni e nelle loro automobili e che si ritrovano in spazi auto-organizzati. Infatti, come nota sempre La Cecla, il disciplinamento degli spazi ha prodotto negli ultimi anni delle migrazioni e degli spostamenti continui, volontari o forzati, la cui impronta “non è quella del muoversi dei nomadi ma del vagare di chi si è perduto”7. Ma questo perdersi, per Fern e gli altri ‘nomadi’, possiede una forte impronta costruttiva: spostandosi continuamente, essi si oppongono, in una silenziosa ribellione, al disciplinamento degli spazi, alle residenze, all’esproprio dello spazio che, nella contemporaneità, continua incessantemente ad avvenire. A fronte dello spazio quotidiano manipolato e disciplinato dal potere, essi creano lo spazio libero del loro immaginario, ‘sacro’, per certi aspetti, all’interno di un universo ‘desacralizzato’, un luogo fluttuante e corporeo, come i loro movimenti nomadici sul territorio. I viaggiatori nomadi costruiscono i loro campi come dei villaggi tradizionali antropologicamente connotati, all’interno dei quali lo spazio dell’abitare assume non solo connotazioni magico-sacrali ma anche politico-sociali. Essi organizzano il proprio spazio a loro piacimento, sfuggendo a ogni disciplina, secondo lo stesso sistema attuato, ai margini delle città contemporanee, dai tanto odiati campi Rom.

La sera, Fern e gli altri si ritrovano attorno al fuoco per parlare e per ascoltare le storie e i ricordi di ognuno: la parola che fluttua libera – come nei racconti orali di arcaiche popolazioni – appare allora quasi come un’appendice della libera estensione dei corpi dei viaggiatori, riuniti nella loro pratica di resistenza all’incasellamento sociale. Per mezzo della loro voce, dei loro corpi e del loro viaggio incessante, questi nomadi sradicati della contemporaneità inanellano una dopo l’altra diverse pratiche di resistenza ad ogni forma di disciplinamento sociale. Nomadland, in questo senso, ci offre la rappresentazione documentaristica e poetica di numerose pratiche sociali contemporanee che si oppongono alla massificazione crescente, tanti atti di coraggio che, lentamente, scalfiscono il rigido involucro dello spazio disciplinato che ci avvolge.


  1. M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. elèuthera, Milano, 2009, p. 98. 

  2. Cfr. R. Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, Roma, 1995, p. 9. 

  3. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. Castelvecchi, Roma, 2010, pp. 451-458. 

  4. F. La Cecla, Mente locale, elèuthera, Milano, 2021, p. 35. 

  5. Ibid. 

  6. Cfr. ivi, p. 36. 

  7. Ivi, p. 63. 

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