NKVD – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Vite brevi ed esemplari delle spie / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/08/07/vite-brevi-ed-esemplari-delle-spie-1/ Mon, 07 Aug 2023 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78003 di Diego Gabutti

Nella casa degli specchi che era il mondo delle spie, inesistente non significava irreale. (Mick Herron, Slow Horses)

Richard («Ika», «Ramsay») Sorge

Agente segreto sovietico, Richard Sorge crea un’importante rete d’agenti in Cina e Giappone, dove lavora come corrispondente di gazzette tedesche. Per un po’ lui e la sua prima moglie lavorano per l’Institut für Sozialforschung, l’Istituto di Scienze sociali guidato da Marx Horkheimer e Th.W. Adorno, universalmente noto come Scuola di Francoforte. Sorge è nipote di Friedrich Sorge, membro della Lega dei comunisti dal 1848, amico personale di Marx ed Engels e ultimo segretario della Prima [...]]]> di Diego Gabutti

Nella casa degli specchi che era il mondo delle spie, inesistente non significava irreale. (Mick Herron, Slow Horses)

Richard («Ika», «Ramsay») Sorge

Agente segreto sovietico, Richard Sorge crea un’importante rete d’agenti in Cina e Giappone, dove lavora come corrispondente di gazzette tedesche. Per un po’ lui e la sua prima moglie lavorano per l’Institut für Sozialforschung, l’Istituto di Scienze sociali guidato da Marx Horkheimer e Th.W. Adorno, universalmente noto come Scuola di Francoforte. Sorge è nipote di Friedrich Sorge, membro della Lega dei comunisti dal 1848, amico personale di Marx ed Engels e ultimo segretario della Prima internazionale, quando la sua sede centrale viene trasferita da Londra a New York.

Nei primi anni venti Richard Sorge è uno dei più noti giornalisti di sinistra tedeschi, nonché un membro eminente del partito comunista. Nondimeno, da un giorno all’altro, riesce a convincere i nazisti d’essersi convertito all’hitlerismo. Non è l’unico comunista a saltare il fosso: passano alla svastica intere sezioni di partito. Ma Sorge non è un comunista qualunque. È vissuto per anni a Mosca, è un marxista convinto, ha scritto libri leninisti, è uno dei primi esemplari di radicalismo chic novecentesco. Eppure i nazisti lo accolgono nelle proprie fila. È lui a intortare loro? O sono loro a intortare lui e il Ghepeù? Non si saprà mai.

Corrispondente a Yokohama di due importanti testate tedesche, il Borsen Zeitung e il Tagliche Rundschau, è grazie a un suo agente nell’ambasciata tedesca a Tokyo che nell’aprile del 1941 il Cremlino è informato dell’imminente attacco tedesco. Stalin, che dopo il patto Molotov-Ribbentrop considera Hitler un amicone, stabilisce che l’informazione è falsa: la solita dezinformatzija, decreta, dell’intelligence inglese. Meno d’una settimana più tardi Leningrado è assediata dai tanks tedeschi, Mosca è minacciata e i bolscevichi di riguardo, Iosif Vissarionovič in testa, corrono a gambe levate lontano dalla capitale lasciando nelle peste i moscoviti di sangue plebeo.

Nell’ottobre dello stesso anno Sorge è tratto in arresto come agente sovietico dai servizi segreti giapponesi. Finisce sulla forca tre anni più tardi, nel 1944. Passano un paio di decenni e «nei primi anni sessanta» – come scrive Anya von Bremzen, L’arte della cucina sovietica, Einaudi 2014 – «i francesi producono un documentario sulla storia di Sorge e tentano di venderlo alla Russia. Chruščëv assiste alla proiezione. “Cosí dovrebbe essere l’arte!” esclama entusiasta quando le luci si riaccendono. “È una storia inventata, ma non ho staccato gli occhi dallo schermo”. “Vede, Nikita Sergeevič”, gli spiegano, “Sorge non è un personaggio di fantasia… è esistito veramente”. Chruščëv chiama il Kgb. Gli confermano sia l’effettiva esistenza di Sorge sia la sua carriera nell’Intelligence. Senza indugio, Chruščëv gli conferisce l’onorificenza postuma di Eroe dell’Unione Sovietica e ordina che sia celebrato come campione massimo delle spie sovietiche». Come più tardi Kim Philby, anche lui finisce sui francobolli.

Klaus Fuchs

Nemmeno rivelando all’NKVD di Lavrentij Pavlovič Berija «i segreti atomici» il fisico tedesco Klaus Fuchs, marxista-leninista e grande traditore, si guadagna l’Ordine di Lenin, o quello di Marx: la scienza sovietica, secondo la vulgata, ha spaccato l’atomo da sola, senza l’aiuto delle spie. Nato a Rüsselsheim, in Assia, nel 1911 da un pastore luterano dal carattere anche troppo forte e da una donna che si suicida quando lui è ancora molto giovane, Fuchs s’iscrive al partito comunista da ragazzo, quando frequenta la facoltà di scienze. Sono gli anni dell’ascesa di Hitler e Fuchs è in prima fila nelle battaglie di strada contro le SA di Ernst Röhm. Anche le sue due sorelle e suo fratello sono membri delle organizzazioni di partito e lasciano come lui la Germania quando Hitler diventa cancelliere. Continua gli studi in Francia, poi in Inghilterra, dove in virtù del suo QI e della qualità delle sue intuizioni teoriche sale subito ai piani alti della ricerca scientifica angloamericana: il circolo segreto degli scienziati atomici. È uno scienziato, e pertanto studia volentieri i problemi tecnici, teorici e persino un po’ metafisici della folle corsa che, dal 1942 al 1946, porta dal Progetto Manhattan a Hiroshima e Nagasaki e infine al mondo bipolare, sorvegliato a vista da migliaia di testate nucleari pronte all’uso: l’esercito di guerrieri di terracotta della guerra fredda.

È uno scienziato, ma anche un comunista militante e non appena capisce a cosa sta lavorando pensa bene di stabilire un contatto con lo spionaggio sovietico. Attraverso gli amici del KPD, il partito comunista tedesco, che come lui sono riparati in Inghilterra, comincia a passare segreti atomici all’NKVD: centinaia di cartelle fitte di calcoli, resoconti d’esperimenti riusciti e falliti, ipotesi, formule, equazioni. Collabora con Berja e i suoi ragazzi dai laboratori inglesi, poi da Los Alamos e, finita la guerra, di nuovo dall’Inghilterra. È instancabile: uno degli agenti segreti più produttivi d’ogni tempo, e forse il solo agente segreto che con le sue informazioni abbia «cambiato la storia del mondo» (così Mike Rossiter, autore della Spia che cambiò il mondo, Newton Compton 2014).

Klaus prolunga di decenni l’esistenza del Gulag e del «campo socialista». Dapprincipio, prima di capire su quale miniera d’oro hanno messo le mani, i servizi sovietici prendono le rivelazioni di Fuchs sottogamba. «Scienza borghese degenerata», strapensano (come si straparla) i cekisti: la meccanica quantistica, «che costituisce il fondamento della fisica moderna, è ritenuta in contrasto col materialismo dialettico, dogma ideologico del comunismo sovietico». È solo quando a Stalin entra finalmente nella zucca il potenziale distruttivo della bomba atomica che i quanti vengono adottati dal Cremlino. Grazie a Fuchs, che la nutre di pappa fatta, la scienza sovietica raggiunge in poco tempo e con costi irrisori i risultati che a Los Alamos sono stati raggiunti soltanto con enormi spese e dopo molti anni. Quanto a Londra e Washington, dove la scienza esoterica dei fisici moderni è presa molto sul serio, si prendono sottogamba le idee politiche di Klaus Fuchs. Da giovane, okay, è stato comunista, e tuttora professa opinioni radicali. Ma è solo un professore, via, e non c’è scienziato atomico che non sia per definizione un po’ pazzo e radicale (guardate Einstein, con quella zazzera).

Alla fine, quando il team di crittografi e decodificatori del Progetto Venona (i cui risultati furono desecretati solo decenni più tardi) decifra tra gli altri un messaggio che inchioda anche Fuchs insieme ai coniugi Rosenberg, è per tutti una sorpresa, Intelligence inglese in testa. Prima di cedere e confessare i suoi rapporti con lo spionaggio sovietico, Fuchs vende cara la pelle. Ma la volpe è una, i cani tanti, e finisce come deve finire: con una confessione e una condanna a 14 anni di prigione. Ne sconta nove. Esce di galera nel 1959 e ripara a Berlino Est. C’è, a margine, anche una storia d’amore: appena tornato in Germania, passate poche settimane, anzi pochi giorni, Fuchs sposa la sua più vecchia fiamma, Grete Kleison, già segretaria del segretario del Comintern Georgi Mihajlov Dimitrov e membro del CC del KPD, che lui ha conosciuto molti anni prima a Parigi, dove lei era una sperimentata combattente clandestina. Forse è stata lei a reclutarlo nei servizi segreti sovietici. Sono stati lontani per 26 anni. Ma eccoli tubare come due piccioncini. Puro Festival di Sanremo, roba più borghese e decadente della meccanica quantistica. Fuchs passa a miglior vita nel 1988. Appena in tempo. In questo modo gli è risparmiata l’umiliazione di vedere la Caduta del Muro di Berlino. Un’umiliazione, diciamolo, che si sarebbe meritato.

Agnes Smedley

Agente del Comintern dell’NKVD, nata in Missouri nel 1892, ex compagna di Richard Sorge, nonché «amica del popolo cinese» e grande giornalista, toccherebbe a lei intervistare Mao Zedong e gli altri capi comunisti nelle grotte di Yenan, dove l’armata contadina ha trovato rifugio dopo la Lunga marcia (12.000 chilometri, 80.000 morti, un anno di cammino). Ma al suo posto parte Edgar Snow, anche lui americano, però di gran lunga meno radicale e, al suo confronto, un novellino anche come giornalista. Ciò la fa andare su tutte le furie. È il 1936, e le sembra d’aver mancato lo scoop della vita.

A tradire Agnes Smedley è Sun Chingling, sua vecchia amica, nonché vedova di Sun Yat Sen (fondatore e primo presidente nel 1911 della repubblica cinese, poi amico dei comunisti) e cognata di Chiang Kai-shek (signore della guerra e capo del Kuomintang antibolscevico). Sun Chingling e la leadership comunista apprezzano Smedley, che si è stabilita in Cina alla fine degli anni venti, e che si è fatta notare come attiva militante antimperialista fin dal primo dopoguerra. Sun Chingling e i capi maoisti non mancano di servirsi di lei. Chu The, il generale rosso che zigzagando tra mille insidie conduce a Yenan i 20.000 superstiti dell’esercito popolare, è un suo grande amico (è lei a scriverne l’autobiografia: Chu Teh, La lunga marcia, Editori riuniti 1974, uno dei grandi libri sulla Cina della guerra civile).

Smedley conosce bene anche il Presidente Mao, che da lei impara a ballare il fox trot, ma che per mantenere la pace in famiglia deve rifiutarle la tessera del partito quando lei, mettendo il dito tra moglie e marito, interviene in difesa della sua giovane interprete, che la seconda moglie di Mao ha beccato in compagnia del marito. Più che il dito, in realtà, Agnes mette l’intera mano: stende la signora Mao, che le ha allungato una sberla chiamandola «sgualdrina», con un diretto al mento, in puro stile rissa da saloon. Smedley piace un po’ a tutti i capi maoisti (meno alle loro signore, che si sentono minacciate, adesso che la poligamia è finita, dalle sue prediche pro libero amore). Però i generalissimi comunisti non se ne fidano davvero.

Spia russa, secondo quanto dichiara il suo ex compagno Richard Sorge dopo l’arresto, non le piacciono i russi (che nel 1940 liquidano il rivoluzionario indiano Viren Chatto, un altro suo ex compagno). Figlia del popolo, anzi Daughter Of The Earth, figlia della terra, come dice il titolo della sua autobiografia, che nel 1929 le ha dato la celebrità, Smedley non sta dalla parte dei poveri e degli oppressi per sentirsi «parte dell’apparato» e nemmeno per avvertire, come si diceva negli ambienti radicali newyorchesi, «un meraviglioso senso di appartenenza a un grande ordine segreto».

Costretta a lavorare fin da bambina, orfana di madre, con un’istruzione sommaria e un padre alcolizzato e violento, Smedley è una rivoluzionaria per istinto. Prima che il maccartismo, con l’inizio della guerra fredda, cancelli anche il ricordo del suo contributo al giornalismo americano, dove il suo nome si legge ancora ma ormai a malapena, semicancellato dal grande censore, il tempo che passa, Smedley fu una scrittrice e una giornalista famosa, ma soprattutto una donna tosta. Non le piacciono gli stalinisti, ma non le piacciono nemmeno i trotskisti, con i quali rompe ogni rapporto negli anni della grande purga. Toglie il saluto anche a un’amica della prima ora, l’anarchica Emma Goldman, che ha conosciuto a Manhattan nel primo dopoguerra e di cui ha preso le difese quand’era stata arrestata a Mosca dalla Ceka (l’autobiografia della Goldman, Vivendo la mia vita, La Salamandra 1980-1985, 3 voll., è un classico della memorialistica radicale americana).

Christopher Isherwood e W.H. Auden, che la incontrano a Hankow, nell’Hubei, nel corso del loro Viaggio in una guerra, Adelphi 2007, scrivono che è «impossibile non amarla e rispettarla, così decisa, aspra e appassionata; così spietatamente critica nei confronti di chiunque, compresa se stessa, mentre se ne sta seduta davanti al fuoco, rannicchiata, come se tutte le sofferenze e tutte le ingiustizie del mondo torturassero le sue ossa al pari dei reumatismi».

Muore a Londra, nel 1950, entrando in coma dopo un’operazione allo stomaco. J. Edgar Hoover e il Comitato che indaga sulle attività antiamericane avrebbero voluto farla tornare in America per interrogarla come sospetta spia. Ma è tardi per le risposte, e tardi anche per le domande. Nel 1951 le sue ceneri sono traslate a Pechino e interrate sotto una lapide di marmo nel cimitero dei martiri della rivoluzione. Richard Sorge, super spia e suo ex compagno, pensa che «le donne non sono adatte per il lavoro di spionaggio. Ma Agnes», dice, «è diversa. Come moglie non vale granché, ma ha una mente brillante e fa bene il suo lavoro di giornalista: è come un uomo».

(Fine prima partecontinua)

N. B.
Le biografie delle spie pubblicate qui e nelle prossime due puntate sono tratte da un’Appendice prevista, ma successivamente esclusa dall’ultima opera di Diego Gabutti (Segretissimo, Magog 2023) recensita su Carmilla qui.

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Il tempo del disincanto https://www.carmillaonline.com/2020/01/22/il-tempo-del-disincanto/ Tue, 21 Jan 2020 23:01:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57469 di Sandro Moiso

Sandro Saggioro, Gli ultimi anni di Victor Serge (1940-1947), Quaderni di pagine marxiste, serie blu V, 2018, pp. 138, euro 7,50

E’ un grande merito l’aver ripubblicato il testo di Sandro Saggioro sugli ultimi anni di vita di Victor Serge, precedentemente edito nella serie dei Quaderni Pietro Tresso (n°57 del 2006), arricchendolo di una introduzione a cura di Graziano Giusti e di un apparato di note decisamente ampliato rispetto a quello dell’edizione originale oltre che di una serie di biografie utilissime per inquadrare meglio le decine di militanti, uomini [...]]]> di Sandro Moiso

Sandro Saggioro, Gli ultimi anni di Victor Serge (1940-1947), Quaderni di pagine marxiste, serie blu V, 2018, pp. 138, euro 7,50

E’ un grande merito l’aver ripubblicato il testo di Sandro Saggioro sugli ultimi anni di vita di Victor Serge, precedentemente edito nella serie dei Quaderni Pietro Tresso (n°57 del 2006), arricchendolo di una introduzione a cura di Graziano Giusti e di un apparato di note decisamente ampliato rispetto a quello dell’edizione originale oltre che di una serie di biografie utilissime per inquadrare meglio le decine di militanti, uomini politici ed intellettuali che compaiono nella ricostruzione delle vicende di quel periodo.
Un testo sintetico, ma importante che fa rivivere, sia allo studioso che al militante delle rivoluzioni a venire, un periodo nevralgico e buio della storia del movimento operaio e dei partiti sedicenti “comunisti” che ne avrebbero dovuto rappresentare l’anima più radicale e rivoluzionaria.

Un periodo in cui la sconfitta, dovuta sia al trionfo della controrivoluzione staliniana in URSS che a quello dei totalitarismi fascisti e nazisti in Italia e Germania, si accompagnava al ritorno sulle scene di un macello interimperialista, nuovamente mondiale, destinato non soltanto a ridisegnare la carta geografica della spartizione imperialista del globo, ma anche quello dei compiti dei rivoluzionari e del movimento politico proletario, confusi tra scontri dottrinari e fisici tra differenti ipotesi politiche e scontri militari di portata devastante in cui il proletariato dei maggiori paesi coinvolti nel secondo conflitto globale fu portato al massacro e costretto a schierarsi in nome della Nazione, dell’Ideologia e di una fasulla concezione della Libertà e della Democrazia.

Un periodo di catastrofi politiche e umane di cui l’opera di Saggioro sa dare conto e da cui è possibile trarre ancora insegnamenti. Non soltanto per la ricostruzione del passato e della mancata affermazione di una rivoluzione comunista a livello internazionale nel corso della prima metà del XX secolo, ma anche per lo scioglimento di alcuni nodi politici del presente.

Saggioro (1949-2015), militante della Sinistra Comunista, stimato medico chirurgo e studioso della storia di quella Sinistra cui apparteneva1 , attraverso la ricostruzione delle peregrinazioni fisiche e intellettuali di Victor Serge durante i suoi ultimi anni di vita, trascorsi in Messico, ha saputo ricostruire un ambiente politico, culturale e di autentica guerra civile interna in cui il movimento comunista internazionale si trovò a dibattersi dopo la catastrofe seguita alle purghe staliniane e ai processi di Mosca della seconda metà degli anni Trenta, alla sconfitta dell’esperienza rivoluzionaria coincisa con la guerra civile spagnola, al tragico accordo tra Hitler e Stalin per la spartizione della Polonia e alla seguente suddivisione del proletariato internazionale secondo linee che nulla avevano più a che fare con gli interessi dello stesso o della rivoluzione.

Victor Serge (il cui vero vero nome era Viktor L’vovič Kibal’čič), militante, intellettuale e scrittore rivoluzionario che dalla sua nascita nel 1890 a Bruxelles, figlio di un militante prima del gruppo Zemlja i Volja e poi di Narodnaja Volja costretto ad emigrare in Belgio per sfuggire alla polizia zarista, portò fin dall’infanzia le stimmate del rivoluzionario perseguitato, imprigionato e costretto ad emigrare vagando attraverso l’Europa, la Russia della rivoluzione e poi dello stalinismo e infine attraversando l’Atlantico per sfuggire, destino che lo accomunò a molti altri, sia al nazismo dopo la caduta della Francia sia allo stalinismo che dava una caccia implacabile in ogni angolo d’Europa e poi anche dell’America ai suoi avversari politici.

Tanto è vero che il travaglio messicano, diciamo così, di Serge inizia proprio nell’anno in cui Lev Trockij è assassinato a Coyoacán dal sicario, addestrtao dalla NKVD, Ramón Mercader. Episodio che costituirà soltanto uno dei tanti anelli di una catena di delitti che contribuiranno a indebolire le file dell’Opposizione di Sinistra, trotzkista e non, e a seminare dubbi e ripensamenti, grazie anche ad un gigantesco sistema di disinformazione e calunnia governato dalla centrale di Mosca, di cui però, alla fine, approfittarono anche gli americani e gli esponenti dei partiti sia totalitari che liberal-democratici europei.

Oggi sembra davvero troppo facile attribuire patenti di tradimento o di eroismo a coloro che, in quei giorni, operarono per salvare almeno un minimo di dignità e continuità, individuale o di piccoli gruppi; in quegli anni catastrofici, in cui il dubbio revisionista ebbe buon gioco a trionfare nella mentalità di molti. Eppure, eppure…
Scorrendo le pagine del libro si può rivivere tutta l’angoscia, le ambiguità, i dubbi e le fragili certezze di coloro che si opposero alla marea stalinista e che in tale tentativo finirono con l’essere travolti, uccisi o che si suicidarono oppure, ancora, passarono le linee per affidarsi, ormai delusi e sfiduciati, al nemico borghese di sempre.

Questo dramma è tutto compreso nelle opere letterarie maggiori di Victor Serge, tutte scritte durante il soggiorno messicano e quasi tutte comparse postume, nei suoi, preziosi Carnets scritti tra il 1936 e il 1947 e nel le sue memorie, oltre che nel gran numero di saggi, articoli e lettere che egli ebbe a scrivere sull’argomento2.
Opere attraverso le quali il militante rivoluzionario, seppur sconvolto da una vita in frantumi e dalle vicende che lo accompagnarono fino al giorno della sua morte, cercò sempre di tenere la barra dritta, non su un improbabile, per l’epoca e forse ancora per l’oggi, obiettivo di liberazione della classe perseguito attraverso l’uso di una fede dogmatica o di un partito più autoritario e settario che autenticamente rivoluzionario, ma almeno su una serie di principi e una dirittura morale ed etica individuale su cui non volle mai transigere. Anche a costo di rompere con amici, compagni e militanti con cui aveva condiviso anni di lotte ed esperienze importantissime.

Fu forse per questo motivo che gli Stati Uniti non gli concessero mai un visto di ingresso, anche quando nel 1942 vi fu una forte mobilitazione di personalità americane, tra cui John Dos Passos e altri scrittori e intellettuali, a favore del suo ingresso negli Stati Uniti. E fu proprio questo crescente e insuperabile isolamento a colpirlo, più di ogni altra cosa. Proprio come aveva scritto a proposito della solitudine intellettuale che aveva accompagnato Lev Trockij prima del suo assassinio, in quella casa che Serge chiamava “la tomba di Coyoacán”:

Si dimentica troppo spesso che l’intelligenza non è un dono individuale. Che cosa sarebbe stato di Beethoven isolato tra i sordi? L’intelligenza di un uomo, fosse anche un genio, ha bisogno di respirare. La grandezza intellettuale del Vecchio era in funzione di quella della sua generazione; gli occorreva il contatto diretto con uomini della sua stessa tempra spirituale, capaci di capirlo al volo e di opporglisi sullo stesso piano […] Così, solo, continuava a discutere con Kamenev, morto fucilato: lo udirono spesso pronunciare il suo nome […] mentre camminava su e giù parlando fra sé3.

Militante anarchico imprigionato in Francia per cinque anni, militante bolscevico durante la Rivoluzione e la guerra civile, membro dell’Opposizione nuovamente imprigionato ma nel Gulag staliniano, esule dopo essere stato liberato in seguito ad una vasta mobilitazione internazionale a suo favore, Victor Serge visse gli anni del disincanto comunista-bolscevico e ne bevve fino in fondo l’amaro calice.

Sono forse le parole che egli dedicò nei suoi Carnets al nipote adolescente di Trockij a riassumere, meglio di qualsiasi altro commento, il senso di un’epoca, che ne ha sfatta un’altra sicuramente gloriosa, ma che non è ancora stata sostituita da una equivalente, anche se certamente diversa.

2 marzo 1944 – Incontro in autobus il piccolo Sĕva, il nipote di Lev Trotsky. Assomiglia in modo straordinario a suo nonno, quale lo mostrano le foto della giovinezza […] Sĕva sta entrando nell’adolescenza, deve avere diciassette anni. Un viso ossuto, duro, severo, triste, con gli occhialetti. «Parli ancora il russo?» «No, l’ho completamente dimenticato». «Ma bisogna impararlo, allora!» «Perché? Per l’attaccamento sentimentale, ah, ma no!» (lo dice violentemente). Rispondo che la Russia cambierà tanto, fra non molto, che dobbiamo restarle fedeli e conservare grandi speranze. Sento che non ci crede, che le mie parole sono prive di senso per lui. – Vive sulla tomba di Coyoacán con Natalija Sedova (la vedova di Lev Trockij), vedendo solo qualche mediocre settario che non sa capirlo. Egli è già al suo secondo sradicamento. Sua madre, Zina Lvovna, si è suicidata a Berlino; suo padre è scomparso nelle prigioni; lui è stato ferito all’epoca dell’attentato di Siqueiros contro suo nonno nel maggio del 1940; ha visto uccidere suo nonno tre mesi dopo e conosciuto l’assassino come “un compagno”…4

Un’opera al nero si potrebbe definire la ricerca di Saggioro, un balletto tragico in cui anche personaggi celebri per la mitologia di una sinistra consunta, quali Vittorio Vidali (il comandante Carlos delle Brigate Internazionali), David Alfaro Siqueiros (il pittore muralista messicano), Pablo Neruda (il poeta cileno) e molti altri, sono destinati ad apparire (finalmente) al lettore odierno per quello che realmente sono stati e hanno rappresentato in quegli anni crudeli. Leggere per credere.
Leggere per pensare ed uscire, forse, da un tunnel che ancora ci inganna, come quello dei fantasmi dei vecchi luna park.


  1. Tra le sue opere principali si vedano: S.Saggioro – A.Peregalli, Amadeo Bordiga 1889-1970. Bibliografia, Colibrì 1995; S.Saggioro – A.Peregalli, Amadeo Bordiga. La sconfitta e gli anni oscuri (1926-1945), Colibrì 1998; S.Saggioro, Nè con Truman né con Stalin. Storia del Partito Comunista Internazionale (1942-1952), Colibrì 2010; S.Saggioro, In attesa della grande crisi. Storia del Partito Comunista Internazionale «il programma comunista» (dal 1952 al 1982), Colibrì 2014. Si veda qui la recensione su Carmillaonline del secondo dei due.  

  2. Poiché la bibliografia sarebbe davvero impossibile da contenere in un singola nota, si ricordano qui alcune delle sue opere, letterarie e non, più importanti cui si accennava prima: V.Serge, Memorie di un rivoluzionario, Massari 2011; V.Serge, Il caso Tulaev, Fazi 2017; V.Serge, Anni spietati, Mondadori, 1974; V. Serge, E’ mezzanotte del secolo, Fazi 2012; Carnets (1936-1947), Massari 2014  

  3. V.Serge, Vie et mort de Trotsky, p. XVI cit. in S.Saggioro, Gli ultimi anni di Victor Serge, p. 122  

  4. V. Serge, Carnets (1936-1947), p.217 cit. in Saggioro, op.cit. p.79  

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Alla canna del gas/2 https://www.carmillaonline.com/2017/12/21/alla-canna-del-gas2/ Thu, 21 Dec 2017 06:15:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42328 di Alexik

[A questo link il capitolo precedente]

Con un emendamento a sorpresa alla legge di bilancio, il Governo Gentiloni  ha provato tre giorni fa a rendere la Trans Adriatic Pipeline (TAP) “opera di interesse strategico nazionale”. Non ho capito bene però se si riferisse all’ ‘interesse strategico nazionale’ dell’Azerbaigian o  della Turchia. O forse agli interessi strategici della British Petroleum, della azera Socar, della russa Lukoil, della Turkish Petroleum Overseas Company… Oppure a quelli dei grandi fondi di investimento, che vedono nella creazione di un mercato finanziario del gas una [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente]

Con un emendamento a sorpresa alla legge di bilancio, il Governo Gentiloni  ha provato tre giorni fa a rendere la Trans Adriatic Pipeline (TAP) “opera di interesse strategico nazionale”.
Non ho capito bene però se si riferisse all’ ‘interesse strategico nazionale’ dell’Azerbaigian o  della Turchia.
O forse agli interessi strategici della British Petroleum, della azera Socar, della russa Lukoil, della Turkish Petroleum Overseas Company…
Oppure a quelli dei grandi fondi di investimento, che vedono nella creazione di un mercato finanziario del gas una nuova occasione speculativa.
O probabilmente al loro insieme.
Per capire di chi siano questi  ‘interessi strategici’ proviamo a partire dalla ridente Repubblica caucasica da dove il gas dovrebbe iniziare il suo percorso.

L’Azerbaigian è un democrazia democraticamente posseduta dagli Aliyev da più di 50 anni.
Heydar Aliyev, padre della patria e dell’attuale presidente, raggiunse i vertici del potere dell’allora Repubblica Socialista Sovietica già negli anni ’60, con ruoli di rilievo nel Ministero degli Interni e nel Partito.
Aveva iniziato la sua carriera molto giovane tra le fila del NKVD, ai tempi in cui il Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del  (Commissariato del popolo per gli affari interni), l’organo preposto alle purghe staliniane, era ancora presieduto da Lavrentij Pavlovič Berija.
Si fece dunque le ossa in quell’ambiente per poi attraversare indenne la destalinizzazione salendo i gradini del NKVD  azero  fino alla presidenza nazionale. Nel ’69 divenne Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Azerbaigian, fino al  1982, quando Jurij Andropov  lo promosse al ruolo di Vice-Primo Ministro dell’Unione Sovietica.
Gli anni di Gorbaciov ne interruppero l’ascesa, ma Heydar riemerse dopo l’indipendenza dall’URSS, quando un colpo di stato lo rilanciò al potere.
Subito dopo l’Assemblea Nazionale Azera, prudentemente, lo confermò alla presidenza della giovane repubblica, e lì rimase fino al 2003, anno del suo passaggio a miglior vita.

Alla sua morte la presidenza del paese venne ereditata dal figlio Ilham che la detiene tuttora, coadiuvato dalla consorte Mehriban Aliyeva, nominata dal marito alla vicepresidenza.
Intendiamoci: qui non si vuole insinuare che  l’Azerbaigian sia una dittatura ereditaria.
Il paese ha il sistema elettorale più efficiente del mondo, tanto che una app governativa informa i cittadini sui risultati del voto già dal giorno prima delle elezioni.

1997. Heydar Aliyev in visita al Pentagono accanto al ministro della difesa USA William Cohen.

Sul piano economico la gestione degli Aliyev ha posto come primo obiettivo della repubblica indipendente la messa a profitto delle risorse energetiche del paese tramite l’apertura del settore ai capitali occidentali.
Nel 1994 la State Oil company of Azerbaijan Republic (SOCAR), la compagnia petrolifera pubblica presieduta all’epoca dal solito Ilham Aliyev, concluse un accordo con undici compagnie straniere (europee, nordamericane, giapponesi e turche) per la creazione della Azerbaijan International Operating Company1,  una struttura permanente finalizzata all’attivazione di joint venture ed alla concessione dei diritti di sfruttamento sui giacimenti di idrocarburi del paese.
Subito dopo la sua formazione l’AIOC si è aggiudicata il cd ‘contratto del secolo’, cioè lo sfruttamento dei pozzi offshore di Azeri-Chirag-Guneshli.
La maggioranza relativa nella compagnia è tuttora detenuta dalla British Petroleum, che ha quote consistenti anche nella proprietà degli oleodotti South Caucasus Pipeline e Baku-Tbilisi-Ceyhan, e nel consorzio per lo sfruttamento del gas di Shah Deniz, quello che dovrebbe scorrere attraverso la Trans Adriatic Pipeline.
Accanto alla BP (28,8%), il consorzio Shah Deniz comprende la russa Lukoil (10%), la Turkish Petroleum Overseas Company (19%), la SOCAR (16,7), la malese Petronas (15,5%,) e l’iraniana NIOC (10%). All’Azerbaigian restano le royalties, le assunzioni negli impianti, ed i profitti della SOCAR.

L’apertura dell’economia azera all’investimento estero è stata accompagnata da passaggi di ordine politico/militare, quali la partnership con la Nato e l’invio di contingenti in Kosovo, in Afghanistan  ed in Iraq2.
Passaggi che hanno agevolato l’accesso dell’Azerbaigian ai ‘salotti buoni’ della politica e dell’economia internazionale (manca solo il WTO), accreditando il paese come partner affidabile per la progettazione delle grandi opere infrastrutturali finalizzate, almeno nelle intenzioni (soprattutto quelle degli Stati Uniti), ad escludere la Russia e l’Iran dai corridoi energetici diretti in Europa.
Intenzioni non del tutto andate a buon fine, visto che Baku ha riservato qualche fettina della torta ai propri vicini, per mantenere un certo equilibrio.

2017. Carlo Calenda a Baku con Ilham Aliyev.

Comunque è comprensibile che, data la sua disponibilità nella gestione condivisa delle risorse e la sua importanza geostrategica, le potenze occidentali siano propense a perdonarle qualche difettuccio.
Come la bizzarra abitudine di rapire gli oppositori riparati all’estero, infilandogli un cappuccio nero in testa e pestandoli vistosamente, o quella di radere al suolo con le ruspe le sedi delle associazioni per la difesa dei diritti umani, oppure la tendenza ad arrestare i giornalisti impegnati nelle inchieste sulla corruzione dell’establishment.

Su quest’ultima questione i Panama Papers – i documenti riguardanti 214.000 società offshore finiti nelle mani del Consorzio Internazionale dei Giornalisti d’Inchiesta – aprono visuali interessanti.
Raccontano per esempio come nel 2006 Ilham Aliyev abbia consegnato le concessioni di sfruttamento delle miniere d’oro del paese a due società offshore intestate alle sue figlie.
Raccontano come il ministro delle finanze azero Fazil Mammadov abbia creato a Panama, con l’intermediazione dello studio Mossack Fonseca, due società sotto il controllo di Mehriban Aliyeva, first lady e attuale vicepresidentessa.

Le flametowers a Baku.

Raccontano come ad una di queste società, la FM Management, sia stato conferito il 51% delle azioni della AtaHolding, la più importante holding azera, i cui interessi variano dal settore bancario alle telecomuncazioni, passando per le miniere d’oro fino al petrolio e al gas (valore stimato nel 2014 intorno ai 490 miliardi di dollari).
Insomma, i proventi delle principali attività del paese vengono dirottati a Panama City o alle Isole Vergini.
Quello che resta viene indirizzato verso architetture gigantesche e stravaganti, i cui cantieri hanno sventrato intere zone del centro di Baku con poco riguardo per le sessantamila persone chi vi abitavano.
Nella testimonianza del 2012 di un attivista:“La demolizione delle abitazioni avviene senza alcuna decisione della corte, non è possibile avere accesso al progetto urbanistico e non esiste alcuna procedura di appello per chi si oppone all’ordine delle autorità”.
Al posto delle case nascono grandi alberghi, boutique esclusive, negozi di design e concessionari della Ferrari.

Ci spiega Re:Common: “In teoria i proventi di petrolio e gas dovrebbero essere veicolati in un fondo (il SOFAZ) atto a facilitare la transizione economica del Paese una volta terminate le riserve di combustibili fossili. Il tutto a “garanzia delle generazioni  future”. All’atto pratico le cose non stanno così. Per esempio, se si leggono i dati del 2010, a fronte di 7,2 miliardi di dollari di entrate ci sono da registrare ben 6,6 miliardi in uscite. Soldi in buona parte investiti in progetti edilizi dai costi gonfiati. Opere che, come dimostrano indagini giornalistiche, sono in buona parte legate all’elite che governa il Paese, compresa, ovviamente, la famiglia Aliyev.”3

Insomma, la cleptocrazia degli Aliyev riuscirebbe a far sembrare un dilettante anche il più navigato democristiano.
Forse è per questo che la leadership politica azera riscuote la più totale ammirazione di un esponente dell’UDC come Luca Volontè.
Sentimento ricambiato, a quanto pare, dal momento che un lobbista azero, un certo Suleymanov, gli ha donato due milioni e 390mila euro tramite versamenti di società anonime collocate in Belize, Seychelles e British Virgin Island.

Luca Volontè.

In realtà i milioni dovevano essere 10, ma la magistratura milanese ha inquisito Volontè per riciclaggio, provocando una brusca interruzione dei trasferimenti.
Volontè era il presidente del gruppo del Partito Popolare Europeo al Consiglio d’Europa nel gennaio 2013, proprio nel periodo in cui si doveva mettere ai voti una risoluzione di condanna dell’Azerbaigian per 85 detenzioni politiche, presentata dal deputato tedesco Strasser.
Una condanna che avrebbe rischiato di interferire pesantemente sulle negoziazioni in corso per la costruzione della Trans Adriatic Pipeline.
La risoluzione venne respinta con il fondamentale aiuto di Volontè,  che si adoperò per farla bocciare dal gruppo che rappresentava.
Votarono contro anche il Presidente dell’Assemblea del Consiglio d’Europa Pedro Agramunt ed altri 124 deputati.
Evidentemente i lobbisti azeri sanno usare argomenti persuasivi.
A detta di Gerald Knaus, Presidente dell’European Stability Initiative: “Alcuni  funzionari  del  Consiglio  d’Europa  mi  hanno  raccontato  di  delegazioni  estere  di deputati che arrivano in hotel in Azerbaigian e le prostitute entrano nelle stanze dove ci  sono  anche  le  telecamere.  A  questo  punto  li  hai  in  pugno.”4
I vecchi metodi del NKVD funzionano sempre a meraviglia.  (Continua)


  1. L’AIOC è tuttora partecipata, oltre che dall’azera Socar, dalla British Petroleum, dalle americane Chevron, Devon Energy, Exxon Mobil e Amerada Hess, dalle giapponesi Inpex  e Itochu, dalla norvegese Statoil  e dalla Turkish Petroleum Overseas Company. 

  2. Nel 1999 l’Azerbaigian inviò un contingente di soldati nell’ambito della missione Kosovo Force (Kfor) Vennero ritirati  nel marzo 2008 per contestare il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, considerata come un precedente pericoloso per le evoluzioni politiche in Nagorno-Karabakh.  Baku contribuisce con 90 uomini all’International Security Assistant Force (Isaf) in Afghanistan. Dal 2004 al 2008 ha partecipato all’operazione Iraqi Freedom (Oif) in Iraq, con un massimo di 250 soldati. Ma soprattutto l’Azerbaigian si è rivelato determinante sotto il profilo logistico, avendo concesso insieme alla Georgia il diritto di transito e di sorvolo e l’uso delle strutture di rifornimento per le forze aeree occidentali impegnate nelle missioni Isaf e Oif. In: Gabriele Natalizia, Daniel Pommier Vincelli, Azerbaigian. Una lunga storia, Passigli Editore, 2012, pp. 126/127. 

  3. Elena Gerebizza, Luca Manes, Alla canna del gas. Le relazioni pericolose tra Europa e Russia per lo sfruttamento dei giacimenti azeri, RE:Common, 2015, p. 6. 

  4. Paolo Mondani, Cataldo Ciccolella, Caviar Democracy, Report, 21/01/16. 

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Nikolaj Vavilov: eroe della Scienza, poeta della Natura https://www.carmillaonline.com/2017/05/25/nikolaj-vavilov-eroe-della-scienza-poeta-della-natura/ Wed, 24 May 2017 22:01:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38427 di Sandro Moiso

vavilov Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate. I centri di diffusione delle diversità agricole, Pentàgora, Savona 2016 (II edizione), pp. 232, €14,00

Andremo al rogo, bruceremo, ma non rinnegheremo mai le nostre opinioni!” (Nikolaj Vavilov)

Nikolaj Ivanovič Vavilov, nato a Mosca nel 1887, fu un agronomo, botanico e genetista russo. La ripubblicazione della sua opera più famosa, pubblicata per la prima volta nel 1926 nell’URSS e giunta oggi alla sua seconda edizione italiana per i tipi di Pentàgora, permette però di ricordarlo proprio in occasione di quella rivoluzione d’Ottobre, di cui si celebra quest’anno il centenario, della quale [...]]]> di Sandro Moiso

vavilov Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate. I centri di diffusione delle diversità agricole, Pentàgora, Savona 2016 (II edizione), pp. 232, €14,00

Andremo al rogo, bruceremo, ma non rinnegheremo mai le nostre opinioni!” (Nikolaj Vavilov)

Nikolaj Ivanovič Vavilov, nato a Mosca nel 1887, fu un agronomo, botanico e genetista russo.
La ripubblicazione della sua opera più famosa, pubblicata per la prima volta nel 1926 nell’URSS e giunta oggi alla sua seconda edizione italiana per i tipi di Pentàgora, permette però di ricordarlo proprio in occasione di quella rivoluzione d’Ottobre, di cui si celebra quest’anno il centenario, della quale egli fu contemporaneamente eroe e successiva vittima della sua degenerazione staliniana.

Certo lo scienziato russo non incarna le qualità epiche dell’eroe rivoluzionario che dirige le masse o che cade nell’azione avvolto da un autentico sudario costituito dalla bandiera rossa del Partito. Incarna però lo spirito di rinnovamento sociale, economico, culturale e scientifico che quella rivoluzione avrebbe dovuto rappresentare e che la controrivoluzione staliniana, con il suo atteggiamento inquisitoriale degno dei tempi di Galileo e del Sant’Uffizio, avrebbe finito col reprimere e distruggere. Finendo col trasformare anche la scienza in un puro dettato ideologico.

Laureatosi nel 1911 , Vavilov alternò, fino al 1917, attività di ricerca e di insegnamento sia in Russia che in altri paesi europei dove venne in contatto con il genetista inglese William Bateson. Dopo essere diventato, proprio nel 1917, prima docente presso presso l’Istituto agrario di Voronež e poi all’ Università di Saratov, vinse per tre volte il premio Lenin.
La prima volta nel 1926 proprio per il suo lavoro sulle origini delle piante coltivate.

vavilov 2 In quest’opera, che egli dedicò alla memoria del botanico francese Alphonse De Candolle, che nel 1882 aveva per la prima volta tentato di individuare i luoghi d’origine delle piante coltivate nella sua Origine des plantes cultivées, lo scienziato russo amplia su scala planetaria la ricerca dei luoghi d’origine delle piante coltivate, individuandoli non nei luoghi in cui queste si sono maggiormente affermate come colture selezionate, ma là dove tali piante presentano la maggior quantità di varietà e differenze.

Proprio in queste aree era possibile rintracciare varietà con caratteristiche che potevano rivelarsi vantaggiose per l’agricoltura come, ad esempio, la resistenza alla siccità, al freddo o a specifiche malattie. Un tipo di pianta più adatto ad un determinato ambiente poteva garantire migliori rese produttive e, di conseguenza, maggiore produzione di cibo. Costringendo, per certi versi, l’uomo a farsi collaboratore della Natura e dell’ambiente e non suo proprietario e manipolatore. Intuendo ciò finì così col diventare il “padre” e il nume tutelare di tutte le ricerche scientifiche che, in seguito, avrebbero fatto della ricerca e della difesa delle biodiversità la loro ragione d’essere.

Devo confessare di essermi imbattuto per la prima volta nel suo nome durante la lettura di un testo sulla biodiversità pubblicato in Italia negli anni ’90,1 e che le vicende della sua vita e delle sue ricerche mi avevano incuriosito anche per la determinazione con cui i ricercatori che lavoravano presso l’Istituto di botanica applicata di Leningrado, sorto per sua iniziativa, difesero la preziosissima raccolta di semi e piante, sia dai concittadini affamati che dai soldati tedeschi, nel corso dell’assedio della città durante il secondo conflitto mondiale.

L’assedio di Leningrado può essere considerato come una delle battaglie più importanti della seconda guerra mondiale e come uno degli assedi più lunghi e sanguinosi della Storia. Sempre messi in ombra dalla battaglia di Stalingrado, i 900 giorni dell’assedio della città sul Baltico furono in realtà determinanti per fermare, fin dai primi mesi dell’Operazione Barbarossa, l’avanzata tedesca verso oriente.

Iniziato l’8 settembre 1941 e terminato il 18 gennaio 1944, anche se la celebrazione della sua conclusione si è sempre tenuta il 27 gennaio, l’assedio vide cadere come vittime dei combattimenti, della fame e del freddo un milione e 250.000 dei suoi difensori, tra cittadini e militari sovietici. Nel corso di questi avvenimenti, quattordici ricercatori dell’Istituto preferirono morire di fame piuttosto che cibarsi delle sementi affidate alla loro custodia. Fedeli alla volontà di Vavilov che non potè essere presente a causa del suo arresto, operato dalla NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni) nel 1940.

A causa delle 64 spedizioni di ricerca ed indagine che aveva condotto in tutto il mondo egli non solo era venuto a conoscenza delle infinite varietà delle piante coltivate, principalmente cerealicole o a stelo, di cui si era da sempre occupato, ma era entrato in contatto con la malaria in Siria, con il tifo e i banditi in Etiopia, con una frana sulle montagne del Caucaso e con un incidente aereo nel deserto del Sahara.

La prima volta che viaggiò all’estero esclusivamente per raccogliere delle piante fu in Iran, nel 1916. Mentre si trovava là fu derubato, aggredito e quindi abbandonato dalle sue guide. Al suo ritorno in Russia, con i testi in tedesco e le note in inglese, fu immediatamente arrestato al confine come spia. Tre giorni più tardi fu rilasciato insieme con i suoi campioni che andarono a costituire la più grande collezione mondiale di semi2

Ma fu durante una spedizione nell’Ucraina Occidentale che la vita di Vavilov subì una drammatica svolta. Il 6 agosto 1940 fu arrestato a Chernovicy, nei pressi del confine rumeno. E successivamente sottoposto a quattrocento interrogatori distribuiti su un arco di settecento ore nel corso di undici mesi al termine dei quali confessò i suoi gravi crimini. Cosa per cui fu processato dal Collegio militare del Tribunale Supremo e, il 9 luglio del 1941, condannato a morte.

Vavilov 1In un processo durato cinque minuti, senza avvocati, ritrattò la propria confessione, ma ciò nonostante fu ritenuto colpevole di «aver ordito una cospirazione di destra, di aver fatto la spia per conto dell’Inghilterra e di aver sabotato l’agricoltura». […]Per due anni aspettò l’esecuzione. Si ritiene che in questo periodo abbia scritto un lungo libro intitolato «Storia dello sviluppo dell’agricoltura», ma il manoscritto no fu mai trovato. Nel frattempo la famiglia e gli amici si diedero da fare per il suo rilascio (parecchi furono uccisi o imprigionati per i loro sforzi), sebbene non avessero mai avuto modo di sapere se fosse ancora vivo. La sua sentenza di morte fu commutata nel 1942, ma non fu mai rilasciato. Il 26 gennaio 1943 morì in un ospedale-gulag a Saratov.3 Nel 1960 un giornalista sovietico autorizzato ad indagare sulla sua morte,4 a quanto pare, trovò i risultati dell’autopsia che indicava come Vavilov fosse morto di fame”.5

La vera colpa di Vavilov, che nel 1939 era stato eletto presidente del VII Congresso internazionale di Genetica, era stata in realtà quella di opporsi al collega Lysenko che, ispirandosi alle teorie neolamarckiste che sviluppavano in botanica una sorta di teoria dell’adattamento delle specie al clima e ai sistemi agricoli, era diventato il pupillo di Stalin avendo promesso un considerevole aumento di produttività dell’agricoltura sovietica attraverso l’applicazione, poi rivelatasi fallimentare nel corso dei successivi piani quinquennali, delle sue teorie. Mentre all’epoca Vavilov era accusato di difendere la genetica classica mendeliana, considerata dagli ideologi del partito una «pseudoscienza borghese».

Nell’inverno del 1985, al Museo Politecnico di Mosca, mentre un pubblico di scienziati assisteva alla prima di un documentario su Vavilov, un altro scienziato, Vladimir Pavlovič Efroimson, nonostante non fosse stato invitato a parlare, affermò: “Il grande studioso. Genio di statura mondiale, orgoglio della scienza patria, l’accademico Nikolaj Ivanovič Vavilov non è morto. E’ crepato. Crepato come un cane in un carcere di Saratov…e bisogna che tutti quelli che si sono qui raccolti lo sappiano e lo ricordino6

Vittima e martire di una lotta che vede ancora oggi contrapporsi le conoscenze scientifiche e le esigenze produttivistiche e del profitto, Nikolaj Vavilov fu e rimane, nonostante alcune sue formulazioni siano da considerarsi superate, importante proprio per aver saputo indicare nella ricchezza di diversità insite nelle razze e nelle specie un modello di sviluppo casuale e naturale allo stesso tempo, in cui la varietà delle origini e delle caratteristiche arricchisce la vita e la sua evoluzione. Anche e soprattutto, forse, per la specie umana.

Vavilov non utilizzò soltanto gli strumenti delle genetica e della botanica ai fini delle sue ricerche, ma li affiancò con i risultati provenienti dalla linguistica, dalla geografia, dalla storia, dall’archeologia e dalla climatologia. Senza tralasciare la ricerca sul campo e l’indagine tra i popoli agricoltori e le loro più antiche memorie. Rivoluzionario nel metodo e nelle intenzioni, collegò la varietà delle piante coltivate alle loro zone d’origine che, spesso, erano anche zone di diversità umana, non solo culturale.

Gli ufficiali dell’NKVD che diedero alle fiamme molti quaderni ove lo scienziato aveva accuratamente annotato i risultati delle sue spedizioni scientifiche, oltre a manoscritti preparatori per libri da pubblicare, danneggiarono quindi non solo le conoscenze botaniche della loro epoca, ma in prospettiva, esattamente come lo stalinismo stava facendo con il movimento operaio e comunista e nei confronti della concezione dei compiti che la lotta di classe avrebbe dovuto avere, anche il futuro della specie e delle sue conoscenze scientifiche, ritardandone enormemente il progresso.

In particolare Vavilov, nel corso delle sue ricerche e dei suoi studi, aveva individuato nelle zone di montagna, e non nelle pianure, l’origine delle colture e dell’uso delle piante più adatte a sfamare le comunità umane. Proprio per questo, come nel testo sulle origini delle piante coltivate qui presentato, lo scienziato aveva individuato tra le montagne, le loro valli, le loro differenze morfologiche e climatiche dipendenti dalla geografia e dall’altitudine la meravigliosa culla delle società umane e delle loro differenze culturali ed organizzative.

Un esame più approfondito dell’Asia sud-occidentale, dell’Asia minore, dell’Africa settentrionale ha dimostrato negli ultimi anni che tutta la diversità varietale delle piante agrarie e orticole è racchiusa in prevalenza nelle regioni montuose. La concentrazione della diversità varietale e razziale è risultata trovarsi nelle regioni montuose perciò guardare alle valli dei grandi fiumi come al centro dell’origine delle colture vegetali è radicalmente sbagliato“.7

In un processo che vede sempre l’uomo interagire con le altre specie e con l’ambiente, in pagine che, come in quelle dedicate al sopravvento di piante considerate infestanti, come nel caso di alcuni tipi di avena o di canapa, su altre piante coltivate in particolari climi o a particolari altitudini, diventano di pura poesia. Rivelando l’amore disinteressato dello scienziato per l’oggetto del suo studio e per tutte le specie che concorrono al manifestarsi e alla riproduzione della vita e dell’evoluzione su scala planetaria.

Nel fare questo l’autore, però, non dimentica che “il ruolo decisivo nell’elezione dell’una o dell’altra regione montuosa quale centro di formazione l’hanno avuto i motivi storici e non solo la diversità dell’ambiente“,8 anche se la storia della coltivazione e della contemporanea evoluzione delle società deve essere a suo avviso spostata molto più indietro dei circa diecimila anni cui ci ha abituato la storiografia ufficiale. Nelle zone montuose infatti non occorrevano tutte quelle opere di contenimento e controllo delle acque che avrebbero dato poi il via alle grandi civiltà storiche. “Il controllo dell’acqua per l’irrigazione non richiede qui grandi sforzi. Il flusso gravitazionale dei torrenti montani può essere facilmente deviato verso i campi. Le regioni di alta montagna spesso si prestano alla coltura non irrigua grazie alla maggiore quantità di precipitazioni nelle zone elevate“.9

vavilov 3Un libro non sempre facile, a tratti destinato ad un pubblico di specialisti come avverte la sua bravissima traduttrice e curatrice Caterina Maria Fiannacca, ma che può essere letto anche da tutti coloro che interessandosi alla storia della rivoluzione sovietica non intendono accontentarsi di una narrazione mitica e retorica, per trovare invece nel passato le radici del nostro futuro. Obiettivo che, in fin dei conti, era anche quello di Vavilov che, proprio per questo, ci è ancora così vicino.

E se questo non bastasse non si dimentichi il possibile lettore che sotto i suoi occhi scorreranno storie di cui sono protagonisti segale, avena, frumento, miglio, canapa, cimici rosse, steccati abbandonati, popoli nomadi e popoli stanziali, valli e altopiani, paesi e aree geografiche il cui nome (Afghanistan, Bukhara, Pamir, Khiva, Samara solo per citarne alcuni) oggi sembra dimenticato o ridotto a cronaca di guerra mentre, insieme a tanti altri, potrebbero ancora riservarci immense e preziose sorprese.


  1. Cary Fowler – Pat Mooney, Biodiversità e futuro dell’alimentazione, Red Edizioni 1993  

  2. C.Fowler – P.Mooney, op. cit. pag.54  

  3. Dove la sua famiglia era stata costretta a trasferirsi di imperio, senza mai essere informata che in quella stessa città era detenuto lo stesso Nikolaj  

  4. Dopo la morte di Stalin, Vavilov era stato riabilitato dalla Corte suprema sovietica nel 1955  

  5. C.Fowler – P.Mooney, op. cit pag.55  

  6. Caterina Maria Fiannacca, Andremo al rogo, appendice a Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate, Pentàgora 2016, pag. 216  

  7. Vavilov, pag.150  

  8. pag.151  

  9. Vavilov, pag.152  

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La perseveranza come virtù: Leon Trotsky https://www.carmillaonline.com/2017/03/02/la-perseveranza-virtu-leon-trotsky/ Wed, 01 Mar 2017 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36697 di Sandro Moiso

la vita è bellaLeon Trotsky, La vita è bella, Chiarelettere 2015, pp. 74, € 7,90

Nella sua elegante e sintetica Premessa alla raccolta di testi di Leon Trotsky pubblicata da Chiarelettere, David Bidussa afferma che la perseveranza può essere definita come una virtù quando riguarda coloro che non cedono alla sconfitta e che non si adeguano al dettato dei vincitori. Mentre il contrario di tale perseveranza non può essere altro che l’indifferenza.

Nel leggere i testi riproposti nell’antologia, che coprono l’arco di una vita dal 1901 al 1940, ci si accorge che il leader bolscevico, fatto assassinare da [...]]]> di Sandro Moiso

la vita è bellaLeon Trotsky, La vita è bella, Chiarelettere 2015, pp. 74, € 7,90

Nella sua elegante e sintetica Premessa alla raccolta di testi di Leon Trotsky pubblicata da Chiarelettere, David Bidussa afferma che la perseveranza può essere definita come una virtù quando riguarda coloro che non cedono alla sconfitta e che non si adeguano al dettato dei vincitori. Mentre il contrario di tale perseveranza non può essere altro che l’indifferenza.

Nel leggere i testi riproposti nell’antologia, che coprono l’arco di una vita dal 1901 al 1940, ci si accorge che il leader bolscevico, fatto assassinare da Stalin nel 1940, perseverò sempre nel suo ideale di giustizia e nella speranza che un giorno l’umanità intera uscisse dallo stato di barbarie in cui i rapporti di produzione di stampo capitalistico e la tirannia tanto dello zar che del capitale (prima) e del partito stalinizzato e burocratizzato (dopo) sembravano relegarla quasi senza soluzione di continuità.

Ma era ferma convinzione di Trotsky che, per giungere a ciò, non sarebbe bastata soltanto una rivoluzione politica che coinvolgesse principalmente soltanto le sovrastrutture amministrative e di governo. Occorreva una rivoluzione profonda delle coscienze, dello stile di vita e della cultura. Dei singoli individui e della società nel suo insieme. Non ci si deve quindi stupire se all’interno dell’opera di Trotsky si possono individuare tanto testi riguardanti l’azione militare della rivoluzione quanto altri che si occupano dello stretto legame che intercorre tra arte, linguaggio e società.

Nel caso della presente antologia i testi spaziano dai consigli utili a raggiungere una maggiore dignità e a mantenerla attraverso l’osservanza di norme utili a tenere pulite le persone, gli oggetti e l’ambiente circostante (Attenzione alle inezie) a quelli che si occupano dei corretti rapporti tra le strutture amministrative del nuovo stato sovietico e i cittadini (Educazione e cortesia) o, più direttamente, di arte e letteratura (Per un’arte libera, scritto con André Breton nel luglio del 1938, oppure Il suicidio di Majakovskij, del 1930, o la lettera scritta alla figlia di Jack London nell’ottobre del 1937).

Proprio dal Marx più giovane viene tratta una citazione utilizzata nel testo scritto con Breton: “Lo scrittore deve certamente lavorare per poter esistere e scrivere, ma non deve scrivere per poter lavorare […] Lo scrittore non considera affatto i suoi lavori come mezzi […] Essi sono fini a se stessi, ma non per lui e per gli altri, tanto che egli sacrificherebbe alla loro la propria esistenza, se fosse necessario […]. La prima libertà della stampa consiste nel non essere un mestiere” .1

trotsky Una citazione che da sola basterebbe a riassumere la perseveranza di Trotsky, che caratterizzò tutta la sua vita, nel suo lavoro per una rivoluzione che fosse autenticamente socialista ed internazionale; sia quando sia era trovato in esilio a causa delle persecuzioni zariste sia durante gli anni gloriosi della lotta per l’affermazione rivoluzionaria nella guerra civile scatenata dalle armate bianche e dai paesi imperialisti contro la neonata Repubblica dei Soviet, sia ancora negli anni (i più duri) del suo esilio e della sua persecuzione voluti dal suo avversario ed ideatore della menzogna del Socialismo in un solo paese: Stalin.

Persecuzione che arriverà fino al suo assassinio, tentato più volte e concretizzatosi soltanto nell’agosto del 1940 in Messico, dove aveva trovato rifugio, ad opera di Ramón Mercader, un sicario ingaggiato ed addestrato dall’NKVD.
Ed è proprio pochi mesi prima della morte, nel febbraio di 1940, il testamento del grande rivoluzionario, nato nel 1879, da cui è stato tratto il titolo del libro qui recensito.

Respingendo ancora una volta le accuse infamanti e false con cui Stalin e i suoi servizi segreti avevano perseguitato ed eliminato gli oppositori del regime definiti come trotskisti, l’ex-artefice insieme a Lenin della Rivoluzione d’Ottobre afferma: “Per qurantatré anni della mia vita cosciente sono rimasto un rivoluzionario; per quarantadue ho lottato sotto la bandiera del marxismo. Se dovessi ricominciare tutto dapprincipio, cercherei naturalmente di evitare questo o quell’errore, ma il corso della mia vita resterebbe sostanzialmente immutato. Morirò da rivoluzionario proletario, da marxista, da materialista dialettico e quindi da ateo inconciliabile. La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente che nei giorni della mia giovinezza, anzi è ancora più salda”.2

Sopravvissuto a tutti i suoi quattro figli (di cui due assassinati da Stalin, una morta di tubercolosi e un’altra suicida), nello stesso testo ricorda l’amore e i quarant’anni di vita in comune con la sua compagna Natalia Ivanovna Sedova; così mentre scrive il testamento egli può chiudere con la seguente annotazione: “Natascia si è appena avvicinata alla finestra che dà sul cortile e l’ha aperta in modo che l’aria entri più liberamente nella mia stanza. Posso vedere la lucida striscia verde dell’erba ai piedi del muro, e il limpido cielo azzurro al di sopra del muro, e sole dappertutto.
La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza, e goderla in tutto il suo splendore
”.3

Si sintetizza in queste ultime, commoventi parole tutta la perseveranza di un rivoluzionario che ancora adesso le giovani generazioni dovrebbero conoscere di più. Benissimo hanno quindi fatto le edizioni Chiarelettere a ricordarlo con i dodici testi contenuti in questa breve, ma intensissima antologia.


  1. pp. 38-39, la citazione è tratta da Karl Marx, Dibattito sulla libertà di stampa e sulla pubblicazione delle discussioni alla Dieta, 19 maggio 1842, in K. Marx, Scritti politici giovanili, a cura di Luigi Firpo, Einaudi 1950  

  2. pag. 6  

  3. pag. 6 

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