Ninetto Davoli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 18 Aug 2025 21:55:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Che cosa sono le “Nuvole corsare”? https://www.carmillaonline.com/2022/02/10/che-cosa-sono-le-nuvole-corsare/ Thu, 10 Feb 2022 22:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70487 di Paolo Lago

[Nel 2020 è uscito, per i tipi di Caffèorchidea, Nuvole corsare, a cura di Francesco Borrasso e Giuseppe Girimonti Greco, una raccolta di racconti di quindici scrittori italiani ispirati alla figura e all’opera di Pier Paolo Pasolini. Il testo che segue – riproposto adesso a quasi due anni dall’uscita del libro e a quasi cento dalla nascita di Pasolini – è la mia postfazione. PL]

L’opera di Pasolini continua a suscitare grande interesse, generando studi che la affrontano e la analizzano da molteplici punti di vista e dando luogo alle [...]]]> di Paolo Lago

[Nel 2020 è uscito, per i tipi di Caffèorchidea, Nuvole corsare, a cura di Francesco Borrasso e Giuseppe Girimonti Greco, una raccolta di racconti di quindici scrittori italiani ispirati alla figura e all’opera di Pier Paolo Pasolini. Il testo che segue – riproposto adesso a quasi due anni dall’uscita del libro e a quasi cento dalla nascita di Pasolini – è la mia postfazione. PL]

L’opera di Pasolini continua a suscitare grande interesse, generando studi che la affrontano e la analizzano da molteplici punti di vista e dando luogo alle più disparate forme di ricezione e ricodificazione. È nata anche una rivista internazionale, «Studi pasoliniani», dedicata agli studi critici sulle varie espressioni artistiche di Pasolini, dalla poesia alla narrativa, dal cinema al teatro. Come ha sottolineato Tullio De Mauro, Pasolini è probabilmente «il primo artista di grande livello internazionale che possa definirsi multimediale nel mondo di oggi»1.

All’interno di questa “multimedialità” dell’opera di Pasolini è possibile incontrare, se così si può dire, una sorta di “narratività primaria”. Infatti, alla base delle singole opere è presente una fondamentale volontà di narrazione: dalle poesie, che spesso si srotolano in veri e propri racconti in versi, fino al cinema e al teatro. Ed è proprio nel solco di questa “narratività primaria” che si inserisce il progetto di Nuvole corsare, una rilettura appunto narrativa (e a tratti meta-narrativa) dell’intera opera e della figura stessa di Pasolini. Ma i racconti qui raccolti non rappresentano affatto l’ennesimo prodotto agiografico; non sono una fra le tante sorprese che si possono trovare nell’«ovetto Kinder» Pasolini2. In Nuvole corsare l’opera e il pensiero di Pasolini vengono trasfigurati in forma delicata e poetica e la sua stessa presenza fisica appare sfumata, inserita in arditi e coinvolgenti giochi metacronici.

L’aspetto dell’opera pasoliniana che è stato prevalentemente recepito dagli autori di questa raccolta è quello legato alla dimensione performativa della provocazione e dello scandalo, all’esposizione del corpo (suo e dei suoi personaggi), all’aspetto più “profetico” e “apocalittico” della sua opera. Quindi, oggetto privilegiato di ricezione è stato sicuramente l’ultimo Pasolini, con le sue disquisizioni sul potere, coi suoi interventi “corsari” sulla società e sulla politica italiana degli anni Settanta. Però non manca neppure, come già accennato, una dimensione più poetica e delicatamente figurale: quella legata alla rappresentazione di personaggi marginali, “dannati” e “perduti”, proprio come i borgatari sottoproletari dei primi romanzi e dei primi film di Pasolini. Nel titolo Nuvole corsare, del resto, sono presenti entrambi gli aspetti. Se le “nuvole” rimandano chiaramente al noto, struggente cortometraggio del 1967 – Che cosa sono le nuvole? –, un vero e proprio film-fiaba in cui appaiono in scena personaggi innocenti e sottoproletari, pur sotto forma di marionette, nel travestimento cinematografico (indimenticabili, tra gli altri, Totò-Jago e Ninetto Davoli-Otello), nell’aggettivo “corsare” è racchiusa la carica polemica e performativa dell’ultimo Pasolini, quello degli Scritti corsari, di Salò, del postumo Petrolio.

Ed è proprio all’universo sadiano di Salò che rimandano soprattutto due dei racconti che qui presentiamo: La farsa di Diego Bertelli e Possano essere maledetti i miei occhi di Gilda Policastro. Il primo mette in scena un rapporto tra vittima e carnefice che si sviluppa all’interno di un rapporto di coppia: lei impone a lui di eccitarsi guardando dei film porno e a un certo punto, tra i video che dovrebbero servire al compimento di questo rituale erotico, compare anche una scena di Salò. Attraverso questo espediente narrativo, l’autore inserisce nel suo testo, come inatteso pendant del video “scabroso”, dei frammenti che provengono da un’intervista che Pasolini rilascia a Philippe Bouvard il 31 ottobre del 1975, due giorni prima di essere ucciso all’Idroscalo di Ostia. Il racconto riflette su potere e violenza, temi-chiave in Salò (le cui violenze sono la metafora dell’abbrutimento in cui era precipitata la società dei consumi italiana negli anni Settanta), ma anche sul moralismo che pervade costitutivamente la società borghese e sull’irruzione dello “scandalo”, inteso come il raggiungimento e la consapevolezza del piacere personale in netta contrapposizione con l’idea moralistica del piacere. Il titolo del racconto di Policastro è una citazione testuale da Salò. Nel film, di fronte al pianto disperato di una delle vittime, il carnefice Blangis afferma: «Possano essere maledetti i miei occhi se questa lagna non è la cosa più eccitante che io abbia mai udito». I temi del racconto, scritto in piena pandemia, sono quelli della prigionia, della dittatura e della teatralizzazione delle relazioni di potere. Anche qui viene messo in scena un rapporto di coppia in un momento in cui i personaggi si ritrovano confinati in casa, con una sottile allusione a un preciso periodo (il lockdown della primavera del 2020). Questi due personaggi, non meglio identificati, si trovano a rivestire il ruolo di carceriere e di sottoposto, ruoli tuttavia “dinamici” e suscettibili di un repentino ribaltamento, rispetto al gioco dialettico degli equilibri e delle forze in campo (il ribaltamento dei ruoli è un tema tipicamente sadiano e pasoliniano). Il racconto di Policastro si configura, quindi, come un’altra possibile riflessione sul potere e sulla sua intrinseca violenza simbolica, nonché sulla sua sublime, irriducibile arbitrarietà (motivo, quest’ultimo, che genera un misto di attrazione e repulsione, sia a monte, ovvero in Pasolini, sia negli esiti delle riscritture, nei testi che a Pasolini si ispirano).

Al tema del potere e della violenza, declinato entro una dimensione distopica, rimanda anche il racconto di Elena Giorgiana Mirabelli, Il sarto. In un futuro dominato da un regime oppressivo, il personaggio del Sarto e Tetis (il cui nome è lo stesso di un personaggio demonico di Petrolio) sono coloro che devono infliggere terribili punizioni corporali a chi viola le regole. È ancora una volta l’ultimo Pasolini a essere chiamato in causa, perché, alla fine del racconto, il Sarto pronuncia una frase tratta dall’Abiura dalla “Trilogia della vita”, un testo del 1975, in cui viene formulata l’amara accettazione di un mondo ormai completamente degradato (in una corrispondenza fra l’Italia degli anni Settanta descritta da Pasolini e il distopico mondo futuro in cui è ambientata la vicenda). Tonalità distopiche sono presenti anche nel racconto di Piero Sorrentino, in cui, in un tempo non precisato, a rompere l’idillio campestre di una coppia di amanti irrompe la violenza della macchina da guerra dell’esercito. Non a caso il racconto si intitola Meccanica del freddo e reca in esergo una citazione pasoliniana riguardo alla freddezza con la quale la polizia uccide, a Reggio Emilia, il 7 luglio 1960, cinque operai nel corso di una manifestazione. Come un macchinario perfetto e micidiale, brutale e annientatore, l’esercito irrompe in un lembo di campagna per svolgere le proprie esercitazioni, turbando il silenzio e la pace che i due personaggi si illudevano di aver trovato (lontano dal mondo borghese), e facendo violenza alla natura.

Una riflessione sul potere, non in forma distopica bensì ucronica, è offerta anche da Alessandro Zaccuri nel suo Capo Marrargiu. Il racconto trae il titolo dalla località della Sardegna dove sarebbero dovuti essere imprigionati i cosiddetti “enucleandi” del “Piano Solo”, il golpe ordito dal generale De Lorenzo nel 1964. Nella sua ucronia, l’autore immagina che il Piano abbia avuto successo e che lo stesso Pasolini venga prelevato e condotto in prigionia (negli anni Novanta si venne a sapere che fra i nomi degli “enucleandi” figurava anche il suo). Alla narrazione ucronica Zaccuri unisce il trattato pasoliniano di psicopedagogia Gennariello. Si immagina infatti che il “Gennariello” del trattato sia un giovane carabiniere napoletano di nome Gennaro al quale è affidata la custodia di Pasolini. Quest’ultimo vi compare come personaggio principale del racconto, e al suo interno la riflessione sul potere sembra emergere dalle pagine che Pasolini scriverà in anni successivi al 1964, soprattutto negli interventi degli Scritti corsari sui poteri occulti della politica italiana e sulle stragi di Stato irrisolte e impunite.

Pasolini come personaggio lo si incontra anche nel racconto di Jacopo Narros, Atti relativi alla morte di PPP, nel quale alla morte del poeta viene data un’interpretazione letteraria. L’autore si rifà al Purgatorio dantesco (opera, tra l’altro, insieme a tutta la Commedia, assai importante come fonte di ispirazione per l’intera produzione letteraria di Pasolini, fino a Petrolio), che coincide con il litorale di Ostia, luogo in cui Pasolini è stato assassinato. Gli ultimi momenti della vita del poeta vengono quindi ambientati in questo luogo simbolico, letterariamente così connotato, mentre il titolo del racconto è ripreso da un saggio-inchiesta di Leonardo Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, in cui lo scrittore siciliano si interroga sui molti punti oscuri relativi alla morte, avvenuta nel 1933 a Palermo, dell’autore francese.

Ed è in forma trasfigurata, invece, che Pasolini compare nel racconto di Giorgio Biferali, Finché siamo vivi, nelle vesti di un fornaio di Trastevere. Ma la vera protagonista del racconto è Roma, una città vista attraverso il filtro deformante dello sguardo del protagonista, uno studente di Lettere che sta scrivendo una tesi di laurea su Pasolini. La Roma del racconto appare, quindi, distorta dalla lente “pasolinizzante” dello studente: un personaggio che stravolge, proprio per mezzo della letteratura (che coincide, in questo caso, con l’opera di Pasolini), la realtà che lo circonda, un po’ come l’Encolpio del Satyricon di Petronio, un personaggio “mitomane”, secondo Gian Biagio Conte, che filtra ogni aspetto della realtà attraverso il mito e letteratura “alta”3. Un’allusione a Pasolini personaggio (idolo, icona, maestro di vita, “santino”, ecc.) la ritroviamo anche nel racconto di Ilaria Gaspari in cui la protagonista, un’insegnante di scrittura creativa in una scuola serale per adulti, si imbatte in una sorta di alter ego del poeta e scrittore, «Enrico Pajata, detto Pasolini, meccanico di Ostiense». Il racconto di Gaspari, dopo un sapiente affresco dei personaggi che frequentano la scuola serale, diventa un percorso esplorativo, alla ricerca dei luoghi frequentati da Pasolini, fino alla scoperta finale – vero e proprio colpo di scena – dell’esistenza di un supposto sosia di Pasolini, ancora vivente ai giorni nostri. Sia nel racconto di Biferali che in quello di Gaspari, Pasolini si trasforma in un suo alter ego che, non a caso, è un personaggio appartenente a quell’universo borgataro e sottoproletario cantato e idealizzato dal poeta.

Lo sfondo della Roma sottoproletaria cara a Pasolini è presente anche in Apologia di Giorgia Tribuiani. Il protagonista di questo testo, Nino o Ninetto, rimanda a una figura importante dell’universo pasoliniano, Ninetto Davoli, amico e attore prediletto di Pasolini, chiamato a interpretare personaggi immancabilmente innocenti e indifesi, circonfusi di un’indescrivibile grazia e gaiezza infantile. Il Ninetto di Apologia è un senzatetto, innocente e angelico come il suo omonimo: su di lui grava lo stigma sociale, dovuto a una colpa di carattere sessuale (ha praticato autoerotismo in pubblico). Il tema centrale è il corpo e l’ossessiva ricerca del proprio corpo perduto e delle sensazioni ad esso legate, anche a costo di sconvolgere e turbare il comune senso del pudore e la cosiddetta morale pubblica (che non ha mai esitato a linciare Pasolini come uomo e come artista). Il racconto si dipana in una tenue forma poetica e musicale: è leggibile come l’equivalente di uno spezzone di “cinema di poesia”, e ricorda Il biondomoro, un racconto di Pasolini del 1950 (poi inserito in Alì dagli occhi azzurri), scritto in forma di lunga poesia narrativa.

Un’ambientazione in un universo proletario e sottoproletario contemporaneo, dominato però da una violenza quasi cieca, fa da sfondo al racconto di Fabio Rocchi, La catana. Il protagonista è un personaggio diseredato, squattrinato e trascurato dalla sua famiglia piccoloborghese. In un impeto di rabbia, questi progetta, fantasticando-delirando, una sorta di “vendetta sociale”, che dovrebbe realizzarsi attraverso l’oggetto che dà il titolo al racconto, una affilatissima catana, una spada giapponese con l’impugnatura a due mani. Per questo rituale di vendetta il personaggio sceglie una vittima sacrificale: Stivaletto, il gatto della nonna; la narrazione indugia su una possibile, atroce morte del piccolo animale innocente, che dovrebbe essere inferta, appunto, per mezzo della catana. Vengono in mente gli accenti “pulp” presenti nella descrizione del cadavere di un gatto nel racconto pasoliniano Studi sulla vita di Testaccio (incluso in Alì dagli occhi azzurri).

Un ambiente sottoproletario caratterizzato da cieca violenza è presente anche nel racconto di Simone Innocenti, in cui i personaggi progettano una rapina a mano armata, concepita, anche qui, come forma di “vendetta sociale” nei confronti di una classe di “privilegiati” (gli «statali», che vengono individuati come nemico “borghese”). Lo sfondo sottoproletario e malavitoso affrescato da Innocenti con piglio cronachistico può ricordare certe ambientazioni sociali dei film di Claudio Caligari oppure, su un versante opposto, quelle dei “poliziotteschi” degli anni Settanta. Una violenza generata dalla miseria e da una dura condizione di subalternità sociale, stavolta però nata all’interno della struttura della famiglia, viene tematizzata anche da Serena Penni nel suo racconto Estate. L’autrice sembra caricare di maggiore violenza – rispetto a una sua precedente prova narrativa (Il vuoto) – la raggelante, alienata tensione che, in alcuni contesti, regola i rapporti sociali all’interno della famiglia, a tal punto da trasformare quegli stessi rapporti in una sorta di danza macabra. La violenza sembra emergere in modo gratuito, all’interno dei ricordi che il protagonista – anch’egli un emarginato e un diseredato – sciorina tra gli ombrelloni di una crudele estate a Forte dei Marmi, in un resoconto a tinte fosche che ricorda certe atmosfere tondelliane, in particolare quelle di Rimini, in cui le spiagge adriatiche durante la stagione estiva della metà degli anni Ottanta assumono tonalità apocalittiche. Uno sfondo e una violenza sociale che appaiono lucidamente suggellati da un esergo pasoliniano: una riflessione dello scrittore sulla famiglia come microcosmo inevitabilmente oppressivo, come «nucleo di consumatori», e quindi perno di invidie sociali, triangolazioni e desideri mimetici.

In La struttura interna di Ivano Porpora la presenza di Pasolini emerge in modo inedito attraverso la mise en scène della lettura dei suoi libri. Il protagonista del racconto è un personaggio che si presenta come una scoperta proiezione autobiografica dell’autore; nelle notti trascorse negli stabilimenti e nei campi per la raccolta dei pomodori, nell’estate del 2009, fra immigrati extracomunitari, l’io narrante legge di nascosto, con crescente entusiasmo e partecipazione emotiva, gli Scritti corsari e Petrolio. La lettura di questi testi ha luogo clandestinamente, su uno sfondo sociale dominato dai nuovi sottoproletari – gli immigrati appunto – dei quali lo stesso Pasolini (sempre in Alì dagli occhi azzurri) aveva “profetizzato” l’arrivo.

Alla tematica dell’eros scoperto e vissuto insieme ai giovani sottoproletari, così presente (e pervasivo) nell’opera di Pasolini, si ricollega Soldati sulla luna di Ezio Sinigaglia. Siamo negli anni Sessanta: il protagonista, un giovane ufficiale di leva a Genova, si compra una Cinquecento usata per adescare e portare in giro le reclute. Nel titolo del racconto possiamo intravedere un riferimento al cortometraggio pasoliniano La Terra vista dalla Luna. La dimensione fiabesca, la grazia, la malinconica leggerezza che caratterizzano questo film del 1967 (e, in generale, buona parte della produzione di Pasolini di questo periodo) si ritrovano nel delicato racconto di Sinigaglia, nel quale la Cinquecento si trasforma in una sorta di razzo spaziale che serve a portare i soldati «sulla luna». Ed è proprio lo spazio lunare, vero e proprio spazio “altro”, connotato – da Luciano di Samosata fino al Voyage dans la lune di Georges Méliès – da una dimensione fantastica e fiabesca a trasformarsi, in modo poetico e surreale, in uno spazio dominato dall’eros, dove possono essere liberate le più recondite passioni, le energie sessuali che pulsano nei corpi dei più vitali tra gli enfants du peuple, i soldati di leva, che molto ricordano i “ragazzi di vita”, personaggi-feticcio, in tutta l’opera di Pasolini, soggetto collettivo e al tempo stesso “sistema di personaggi” che viene indagato a tutto tondo – dal poeta, dal narratore, dal regista –, ben al di là del dato meramente sociologico, dall’omonimo romanzo fino a Petrolio. La tessitura narrativa appare inoltre pervasa da una costante dimensione di gaiezza e innocenza: sia il protagonista che i ragazzi si abbandonano all’eros nel modo più naturale e vitale possibile; e sono i secondi, paradossalmente, a regalare al primo frammenti di esperienza e a rendere quindi possibile un percorso di formazione, un’educazione sentimentale anomala (dopo il viaggio lunare, infatti, non si va da nessun’altra parte: questo l’insegnamento del soldatino umbro nel finale del racconto).

Questa dimensione gaia e vitalistica (sia pur venata di malinconia) ha il suo pendant simmetrico nel racconto di Angelo Di Liberto, L’attesa, in cui la passione di un professore – che non a caso si chiama Paolo (nome con cui gli amici sottoproletari si rivolgevano a Pasolini) – nei confronti di un suo giovane allievo (un altro erede dei “ragazzi di vita” pasoliniani, connotato, stavolta, da tonalità gergali palermitane) si riveste di amari e lancinanti sensi di colpa. In maniera più esplicita che nel racconto di Policastro, inoltre, vi è un riferimento al lockdown della primavera del 2020. La figura del professore – che viene additata come capro espiatorio – si configura quasi come una versione aggiornata, come una straniante declinazione contemporanea del personaggio del professor Giubileo, che, in un racconto di Pasolini del 1950 – Giubileo (relitto d’un romanzo umoristico), poi raccolto in Alì dagli occhi azzurri – è costretto, a causa della sua passione per i ragazzi, a lasciare Roma, vista come città oscurantista, «ruffiana e pinzochera».

Nuvole corsare, insomma, grazie alla forma breve, non fa altro che ribadire la stringente attualità di Pasolini: è un omaggio ispirato alla volontà di ricostituire e rivitalizzare quella narratività primaria cui si è già accennato, così forte in Pasolini. E la forza, la grazia, l’irruenza, la bellezza della sua opera vengono rimesse in gioco anche nei meandri più cupi della nostra iper-contemporaneità: minacciose e irrisolte spirali di violenza e ingiustizia sociale, oscuri rigurgiti di fascismo, pervasività del potere, giochi illogici legati al cortocircuito fra potere e paura (come nei momenti più claustrofobici del lockdown), plaghe irrisolte di povertà che, nonostante tutto, riescono ancora a vivere con grazia e dignità. E di tutto ciò parlano queste “Nuvole corsare”, di bellezza e violenza, di dura realtà e fantasia, di tutta quella “straziante, meravigliosa bellezza del creato” che, con le sue mille contraddizioni, affascina e incanta Totò-Jago alla fine di Che cosa sono le nuvole?

 


  1. T. De Mauro, Pasolini critico dei linguaggi, in Id., L’Italia delle Italie, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 258. 

  2. L’espressione è di Pier Luigi Sassetti, (Post(f)azione … Per gli eredi … Per coloro che sapranno apprezzare l’eredità …, in L’eredità di Pier Paolo Pasolini, a cura di A. Guidi e P. Sassetti, Mimesis, Milano-Udine, 2008, p. 118. Sassetti, sulla scorta di Žižek, osserva che proprio questo sembra essere diventato Pasolini: un contenitore in cui ciascuno si aspetta di ritrovare la sorpresa che più gli aggrada. 

  3. Cfr. G.B. Conte, L’autore nascosto: un’interpretazione del Satyricon, Pisa, Edizioni della Normale, 2007 (prima ed. Bologna, Il mulino, 1997). 

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Pasolini, Volponi e altri sguardi sul Novecento: un’immersione critica fra arte e letteratura https://www.carmillaonline.com/2017/01/26/pasolini-volponi-e-altri-sguardi-sul-novecento-unimmersione-critica-fra-arte-e-letteratura/ Thu, 26 Jan 2017 22:45:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36157 di Paolo Lago

cover_pasolini_volponi_Guido Santato, Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), Mucchi, Modena, 2016, pp. 341, euro 28,00

Nel suo volume Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), edito recentemente per i tipi di Mucchi, Guido Santato, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Padova, raccoglie sedici studi, usciti in sedi diverse fra il 1981 e il 2015, tutti dedicati ad autori del Novecento. Se la prima e la seconda parte – le più corpose del libro – sono rispettivamente dedicate a due scrittori e poeti come Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi, la terza [...]]]> di Paolo Lago

cover_pasolini_volponi_Guido Santato, Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), Mucchi, Modena, 2016, pp. 341, euro 28,00

Nel suo volume Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), edito recentemente per i tipi di Mucchi, Guido Santato, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Padova, raccoglie sedici studi, usciti in sedi diverse fra il 1981 e il 2015, tutti dedicati ad autori del Novecento. Se la prima e la seconda parte – le più corpose del libro – sono rispettivamente dedicate a due scrittori e poeti come Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi, la terza parte, significativamente intitolata Variazioni novecentesche, raccoglie saggi su Pascoli (l’unica ‘incursione’ tra fine Ottocento e inizio Novecento) e su tre artisti contemporanei, due pittori e uno scultore: Renzo Vespignani, Alberto Sughi e Augusto Murer. Lo sguardo dell’autore si focalizza perciò, con lo stessa competenza critica, sull’analisi di romanzi, di raccolte poetiche, di opere pittoriche e di sculture. Questa sicura ‘navigazione’ fra generi diversi rappresenta indubbiamente il più affascinante punto di forza del volume: la scrittura critica e saggistica di Santato prende per mano il lettore e lo guida attraverso autori anche molto diversi tra loro. La ‘navigazione’, soprattutto per quanto riguarda i primi due autori trattati, Pasolini e Volponi, legati da reciproca stima e amicizia, si trasforma in una vera e propria ‘immersione’: i diversi saggi ci conducono infatti all’interno di un’analisi rigorosa, scandita dall’approfondimento di alcune tematiche principali, che non trascura nessuna opera dei due poeti e scrittori.

Numerosi, nel volume, sono i saggi dedicati a Pasolini, autore già ampiamente studiato da Santato: bisogna ricordare, infatti, che lo studioso (il quale già nel 1980 aveva dedicato una monografia al poeta e scrittore bolognese, con il preciso intento di reagire al ‘biografismo’ all’epoca dominante negli studi pasoliniani) ha recentemente pubblicato un’ampia monografia pasoliniana dal titolo Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, indispensabile strumento per chi voglia comprendere interamente, a trecentosessanta gradi, la variegata opera di Pasolini. Santato è inoltre il fondatore e direttore della rivista internazionale «Studi pasoliniani» che, dal 2007, raccoglie contributi di natura critica e bibliografica dedicati al poeta, scrittore e regista.

Il primo saggio, Pasolini e i Canti del popolo greco di Tommaseo, si concentra sulla presenza di Tommaseo soprattutto nelle prime poesie e nei primi scritti critici di Pasolini, il quale rimase profondamente affascinato dalla lettura dei Canti del popolo greco. Addirittura, Pasolini tradusse in friulano uno dei canti di Tommaseo, Alla Dalmazia, ‘riadattandolo’ all’ambientazione del Friuli e cambiando anche il titolo: A la so Pissula patria. Alcune modalità traduttive messe in atto dal giovane Pasolini – soprattutto modifiche e semplificazioni atte a ‘traghettare’ il testo verso la nuova ambientazione friulana (secondo Foucault, infatti, il traduttore è sempre un «traghettatore notturno») – verranno riproposte successivamente nella traduzione dell’Orestiade di Eschilo realizzata nel 1960 su richiesta di Vittorio Gassman. Anche in questo caso, il traduttore ‘semplifica’ e modifica il testo di Eschilo ‘traghettandolo’ verso lo spettatore di teatro del 1960 (sia la traduzione da Tommaseo che la versione dell’Orestiade si presentano infatti come «ri-creazioni» che producono significative metamorfosi del testo). La presenza dei Canti del popolo greco, all’interno dell’opera pasoliniana, si fa sentire anche ad un livello intertestuale: ad esempio, all’interno della tessitura narrativa del romanzo Amado mio (scritto in Friuli fra 1947 e 1948 e ripreso a Roma intorno al 1950), mentre in alcune poesie degli anni Cinquanta e Sessanta non mancano diversi riferimenti a Tommaseo.

San Lorenzo Il sole del 19 luglio 1943

Renzo Vespignani, San Lorenzo, il sole del 19 luglio 1943

Il secondo saggio proposto nel volume, «L’abisso tra corpo e storia». Mito, storia e Dopostoria, offre un excursus attraverso l’opera pasoliniana dal tempo del «mito», fino alla «storia» e al «Dopostoria». Il tempo del «mito» è collocabile nel periodo friulano: «Nella poesia friulana di Pasolini il tempo è una dimensione, mitica, ideale: è un tempo interiore, una durata del sentimento» (p. 43). Con il trasferimento a Roma, nel 1949, nella poesia pasoliniana (dalle Ceneri di Gramsci, del 1957, in poi) si ha l’incursione della storia, la quale provoca un’«impossibile sincronia fra il tempo vissuto e il tempo storico» (p. 49). L’analisi di Santato prosegue attraverso le successive raccolte di versi, soprattutto La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di rosa (1964), La nuova gioventù (1975, una riscrittura ‘in negativo’ delle sue poesie friulane), fino ad abbracciare con lo sguardo critico il tempo della «Dopostoria», una sorta di epoca ‘infernale’ che il poeta preconizzava dopo l’avvento della società dei consumi, come leggiamo nella poesia Io sono una forza del Passato (da Poesia in forma di rosa): «O guardo i crepuscoli, le mattine, / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, / dall’orlo estremo di qualche età / sepolta». Infatti, «la realtà storica contemporanea è per Pasolini solo inferno. Il solo paradiso è quello del passato, del mito, ed è dunque un paradiso perduto» (p. 59). Tale visione infernale si paleserà nel romanzo postumo Petrolio, pubblicato nel 1992, con la «Visione del Merda», una lunga sezione in cui un personaggio soprannominato «il Merda», un borgataro degli anni Settanta, ormai ‘imbruttito’ e ‘degenerato’, compirà una lunga catabasi infernale ricalcata sul modello dantesco. Alla fine della «Visione», culmine simbolico della nuova società dei consumi del neocapitalismo, la città di Roma viene significativamente rappresenta con la forma di una croce uncinata.

Il terzo saggio – Paesaggio simbolico, paesaggio poetico ed echi provenzali nell’immagine del Friuli – ci riporta al mondo incontaminato friulano, quel lontano tempo del «mito»: «La regressione al dialetto attua linguisticamente la nostalgia di un mondo perduto: il mondo delle origini» (p. 85).

Questo «mondo perduto», legato inesorabilmente al passato, secondo la concezione pasoliniana, si oppone al futuro, il quale si trasforma – ed è questa la tematica affrontata nel saggio successivo del volume – in una sorta di «non tempo». Se nel poemetto delle Ceneri di Gramsci, Il pianto della scavatrice, Pasolini scrive: «Piange ciò che muta, anche / per farsi migliore. La luce / del futuro non cessa un solo istante / di ferirci […]», in diverse poesie di Poesia in forma di rosa, «il futuro viene identificato apertamente come il tempo del Potere, come la programmazione del destino dell’umanità da parte del Nuovo Potere neocapitalistico, assumendo connotati sempre più negativi e apocalittici» (p. 107).

L’analisi critica di Santato si sposta agevolmente dalla poesia alla narrativa, fino al cinema e al teatro. A quest’ultima espressione artistica è dedicato il successivo saggio del libro: una disamina delle tragedie pasoliniane (Pilade, Orgia, Calderόn, Affabulazione, Porcile, Bestia da stile) dal punto di vista del «rifiuto della nuova storia», identificata con il livellamento delle coscienze operato dalla neocapitalistica società dei consumi. Soprattutto nella tragedia Pilade, pubblicata su «Nuovi argomenti» nel 1966, che si pone come una continuazione dell’Orestiade di Eschilo tradotta da Pasolini nel 1960, la rivoluzione operata da Atena e dalle Eumenidi (la costruzione di fabbriche e palazzi, la creazione di nuove tecniche produttive), «è una trasparente allegoria della rivoluzione antropologica prodotta dal consumismo e dal neocapitalismo, che costituisce l’oggetto di numerose polemiche sviluppate da Pasolini tra gli anni Sessanta e Settanta e in particolare di alcuni famosi articoli giornalistici raccolti in Scritti corsari» (p. 121). Se «Oreste è il politico cinico che opera in sintonia con la storia che gli dà il potere», «Pilade è l’intellettuale disorganico, anzi il poeta che vive in un proprio mondo irrimediabilmente diviso da quello che si afferma nella storia» (p. 122).

Veri e propri luoghi del «mito» da opporre all’universo devastatore del consumismo e del neocapitalismo sono l’Oriente e l’Africa (all’analisi di essi nell’opera letteraria e cinematografica pasoliniana sono dedicati i saggi che – prima di un ultimo articolo sulla poesia dialettale di Eugenio Ferdinando Palmieri nella raccolta Poesia dialettale del Novecento, curata da Pasolini – chiudono la sezione pasoliniana del volume di Santato). L’Oriente esercita «un’autentica fascinazione» (p. 132) su Pasolini. Ne L’odore dell’India (che raccoglie sei articoli giornalistici scritti durante un viaggio in India, nel 1961, con Alberto Moravia e Elsa Morante), lo scrittore è letteralmente sedotto e affascinato da quel mondo, conosciuto soprattutto tramite la camminata solitaria nei luoghi più poveri delle città – un movimento ‘picaresco’ che permette la conoscenza diretta di quella nuova realtà – come egli aveva fatto, all’inizio degli anni Cinquanta, per scoprire l’universo delle borgate romane. Sempre legati alla scoperta dell’India sono gli Appunti per un film sull’India (1967), dei sopralluoghi svolti in funzione di un «film da farsi» in futuro. Pasolini tornerà in Oriente nel corso della realizzazione del film Decameron (1971), per ambientare nello Yemen l’episodio di Alibech. Quest’ultimo, nel montaggio definitivo del film, verrà escluso: solo di recente, nel 2012, è uscito un audiovisivo curato da Roberto Chiesi (Il corpo perduto di “Alibech”) che, grazie ad alcune foto di scena e immagini di scene di esterni, ci permette di ricostruire la struttura dell’episodio. Mentre si trova nello Yemen, Pasolini gira il cortometraggio Le Mura di Sana’a, concepito come «documento in forma di appello all’UNESCO». La fascinazione per l’Oriente prosegue nella realizzazione del film Il Fiore delle Mille e una notte (tratto dalla celebre raccolta di novelle), il quale «si svolge attraverso una sospesa alternanza fra sogno e realtà: è un film onirico scandito musicalmente dalla melodia dei canti popolari orientali» (p. 137). Verso Oriente si srotola anche il viaggio neopicaresco del solamente progettato film Porno-Teo-Kolossal, del quale conserviamo la sceneggiatura, in cui un Re Mago (Eduardo De Filippo) e il suo servitore (Ninetto Davoli), si muovono alla ricerca dei luoghi dove è nato il Messia attraverso città europee rivestite di connotazioni allegoriche. L’Oriente, infine, è assai presente anche in Petrolio: gli Appunti dal 36 al 40 (il romanzo è infatti costituito da una congerie di appunti), intitolati gli Argonauti, sono dedicati ad un viaggio in Oriente del protagonista Carlo, ingegnere dell’Eni e, nel progetto definitivo dell’opera, avrebbero dovuto costituire una rilettura in chiave anticolonialista e anticapitalista delle Argonautiche di Apollonio Rodio, dove il Vello d’oro sarebbe stato sostituito dal petrolio, ‘motore’ del neocapitalismo maturo.

Vespignani Il cappotto blu

Renzo Vespignani, Il cappotto blu

Altrettanto rilevante è la presenza dell’Africa (sondata accuratamente anche da Giovanna Trento in una monografia uscita per Mimesis nel 2010) nell’opera pasoliniana. In una delle poesie che chiudono La religione del mio tempo, Frammento alla morte, così Pasolini scrive: «E ora… ah, il deserto assordato / dal vento, lo stupendo e immondo / sole dell’Africa che illumina il mondo. / Africa! Unica mia / alternativa…». L’analisi di Santato, a partire da questi versi in cui l’Africa viene presentata come unica alternativa alla società dei consumi, ci conduce attraverso le opere di Pasolini fino agli Appunti per un’Orestiade africana, un documentario girato fra il 1968 e il 1969 che opera una contaminazione fra il modello classico (quella trilogia eschilea che, come già ricordato, Pasolini aveva tradotto) e una sua reinvenzione nell’Africa moderna, più precisamente in Tanzania. Nel documentario sono coinvolti anche alcuni studenti africani dell’Università di Roma ‘La Sapienza’, con i quali Pasolini avvia una discussione sulle problematiche dell’Africa contemporanea. In Petrolio, nell’Appunto 41, Acquisto di uno schiavo, l’Africa degli anni Sessanta e dei primi Settanta appare come un territorio ‘di conquista’ da parte di qualsiasi ricco turista del sesso occidentale, in cui vengono negati i più elementari diritti umani (nello stesso Appunto di Petrolio, con piglio giornalistico, Pasolini scrive, riguardo al regime del generale Abboud in Sudan: «Tali mercati di schiavi sono al margine della legalità, ma sotto il regime di Abboud sono più o meno tollerati. Insomma, chiunque voglia può riuscire a trovare il modo di arrivare clandestinamente all’asta degli schiavi, e comprarsi una ragazza o un ragazzo per una cifra corrispondente, credo, a tre o quattrocentomila lire»). L’Appunto, sotto la forma di apologo, narra infatti la vicenda di un intellettuale inglese di nome Tristram (con un palese riferimento al Tristram Shandy di Sterne) che, recatosi a Khartoum per comprare una schiava, sulla via del ritorno si converte al marxismo.

Non meno importante della pasoliniana prima parte, nel volume, è la seconda, dedicata ad un altro importante scrittore del Novecento, Paolo Volponi, che considerava Pasolini come «maestro e amico». Il primo saggio è dedicato all’analisi del linguaggio volponiano «tra poesia e romanzo»: nello scrittore urbinate, poesia e narrativa sono strettamente connessi. Nella sua prosa, Volponi, secondo Santato, inserisce «un linguaggio che, nella sua cangiante mobilità e densità, conserva intatte le virtualità figurative e le polivalenze metaforiche del linguaggio poetico» (p. 175). Infatti, la prosa volponiana è caratterizzata da uno «strumento linguistico eminentemente antirealistico» che fa emergere un’ottica radicalmente ‘altra’, venata di un’alterazione lirico visionaria e allucinatoria. Fin da Memoriale (1962), la scrittura di Volponi è «eversiva», poiché «agisce all’interno dei conflitti tra ordine istituzionale e società reale, nelle lacerazioni aperte da questo conflitto dentro e intorno all’uomo» (p. 176).

Nel secondo saggio Santato analizza «follia e utopia, poesia e pittura nella narrativa» (come suona il titolo). La narrativa di Volponi è infatti caratterizzata dalla drammatica specularità tra patologia individuale e alienazione sociale e dal «rovesciamento di quest’ultima in razionalità altra, antagonistica» (p. 195). Come lo stesso Volponi afferma in un’intervista rilasciata nel 1984 a Peter Pedroni, la sua predilezione è per i personaggi «atipici», «nevrotici», perché «più dolenti, più sensibili registratori della carica d’infelicità che scuote la terra», ma anche per questo, «più ribelli» e «fuori dalla norma». Il primo romanzo di Volponi, Memoriale (1962), infatti, rappresenta la «progressiva emarginazione del ‘diverso’ ad opera dei meccanismi della società industriale» (p. 215). Il protagonista del romanzo, Albino Saluggia, è un operaio che racconta in prima persona la sua condizione di ‘alienazione’ all’interno degli implacabili meccanismi della società industriale. Egli, tuttavia, non agisce passivamente ma si scontra con tali meccanismi difendendo il «suo diritto di esistere, trasformandosi così in un ribelle sociale» (p. 216). Nel secondo romanzo, La macchina mondiale (1965), protagonista è il contadino Anteo Crocioni, «un filosofo utopista che progetta una trasformazione dei sistemi di produzione e dell’intera organizzazione sociale» (p. 216), il quale, considerato come pazzo, reagisce con un suicidio che non rappresenta un gesto di sottomissione ma, anzi, «un gesto liberatorio orgogliosamente lanciato contro la mostruosa normalità che lo circonda» (p. 217). Gerolamo Aspri, protagonista di Corporale (1974), è invece un intellettuale borghese in crisi con alle spalle una travagliata militanza politica. Anche questo personaggio è continuamente in rotta con le strutture sociali e le loro continue imposizioni di regolarità e di ordine; anch’egli è un ‘folle’ ossessionato, in questo caso, dalla paura della morte atomica. Singolare per l’ambientazione, nonché per la scelta dei personaggi, è il romanzo Il pianeta irritabile (1978): le vicende narrate si svolgono infatti nell’anno 2293 in un mondo devastato dalla catastrofe nucleare, solcato dai protagonisti che sono una scimmia, un elefante, un’oca e un nano. In essi, «trasposti in un’iconografia allegorico-grottesca», confluisce «l’intera tradizione dei ‘diversi volponiani» (p. 220). La critica verso la società industriale, si fa particolarmente violenta nell’ultimo romanzo di Volponi, Le mosche del capitale (1989). Al centro del romanzo vi è l’esperimento di «fabbrica comunitaria» avviato da Adriano Olivetti nel 1945. I protagonisti sono il giovane dirigente di formazione umanistica, Bruto Saraccini, che coltiva il sogno olivettiano, e l’operaio Tecraso (anagramma di Socrate) «che dà voce all’altra parte della fabbrica e della città (Bovino, ridenominazione allegorico-grottesca di Torino» (p. 222).

Dopo una rigorosa analisi del romanzo Il lanciatore di giavellotto (1981), in cui protagonista è un’altra figura di ‘emarginato’ volponiano, il giovane Damìn, che vive un processo di formazione al contrario, volto cioè verso la ‘distruzione’, Santato ripropone nel suo volume la pubblicazione di un inedito di Volponi (già uscito nell’ambito di un «omaggio a Volponi» pubblicato dalla rivista «Studi Novecenteschi» nel 1998), L’acqua e il motore. Film sull’Umbria, un racconto scritto probabilmente nel 1981 in funzione della sceneggiatura di un film poi non realizzato. La storia è ambientata tra 1910 e 1911 sulle colline preappenniniche vicino a Gubbio: protagonista è il venditore ambulante Gigler, così soprannominato a causa della sua passione per i motori e per la meccanica (il gigler è un componente del carburatore). Gigler propone ai contadini il suo progetto di una pompa a motore: il progetto sembra funzionare e viene costruito l’acquedotto. Il padrone dei terreni, successivamente, distrugge il motore e l’acquedotto mentre Gigler, per nulla intimorito, lo ripara. Contemporaneamente, cominciano ad organizzarsi i primi gruppi socialisti e si susseguono le manifestazioni indette dalle leghe bianche e rosse. Le ragioni di questo ritorno a un’estetica ideologica – nota Santato – vanno ricercate «nella volontà di offrire una rappresentazione esemplare delle prime lotte di quell’Appennino contadino che costituisce il primo e fondamentale mondo poetico di Volponi» (p. 254).

Lo scrittore e poeta urbinate, secondo Santato, «più d’ogni altro ha saputo rappresentare la contraddittoria condizione dell’uomo moderno che conduce la sua ansiosa ricerca di un’impossibile felicità all’interno della società industriale» (p. 230).

Le successive «variazioni novecentesche» iniziano con un saggio dedicato a Pascoli (Per una semantica del ‘mio’ pascoliano. Eros e linguaggio nei Primi poemetti), volto ad analizzare le ricorrenze, in funzione di una tipologia semantica, dell’aggettivo «mio» nelle poesie pascoliane. Come l’autore scrive nell’introduzione, si tratta del testo di più antica datazione fra quelli raccolti: «è legato da un lato alla sperimentazione di una metodologia statistica di analisi dei testi, dall’altro all’applicazione di alcuni strumenti dell’ermeneutica psicanalitica alla lettura dei testi stessi. Erano anni in cui ci si poteva muovere disinvoltamente tra Rosiello e Sanguineti da un lato e Lacan e Derrida dall’altro» (p. 8).

Vespignani La borghesia incontra l'orrore

Renzo Vespignani, La borghesia incontra l’orrore

Successivamente, come già osservato, la scrittura critica di Santato si rivolge alle arti figurative. A chiudere il volume sono infatti tre saggi dedicati rispettivamente alla pittura di Renzo Vespignani e Alberto Sughi e alla scultura di Augusto Murer. Di Vespignani, Santato prende in esame soprattutto il ciclo Tra le due guerre, una serie di ottanta dipinti di carattere storico realizzati tra il 1972 e il 1975, al cui centro il pittore «ha posto l’immagine dell’uomo, quella dei protagonisti così come delle folle anonime: compaiono i dominatori e i dominati, i carnefici e le vittime» (p. 302). La pittura storica di Vespignani riesce a rappresentare ciò che rimane inaccessibile alla parola; la pittura rende presente, come nota lo stesso Vespignani, «ciò che la parola allontana»: «una cosa è dire sangue, un’altra vederlo», continua il pittore. Infatti, come nota Santato, «nessuno storico o cronista di guerra avrebbe potuto rappresentare la violenza del bombardamento di Guernica con maggiore efficacia rispetto alla drammatica forza espressiva del grande quadro di Picasso» (p. 305). L’opera, divisa in diverse sezioni, è connotata, non a caso, dalla forza espressiva del sangue, immagine che ricorre in maniera ossessiva all’interno della sua pittura, «una “reliquia” di traumi mai superati né nascosti» (p. 302). La sezione più inquietante e dal maggiore impatto visivo è probabilmente quella finale, dal titolo Mythus, dedicata al dramma vissuto dagli ebrei nei campi di concentramento nazisti. La scrittura critica dell’autore, allora, descrive in modo espressionistico le terribili sofferenze raffigurate dalla pittura di Vespignani, diventando quasi essa stessa reportage pittorico di un dolore e di una profonda ferita impressa nel corso stesso della Storia:

Compare a questo punto una serie impressionante di dieci dipinti, sette dei quali intitolati Carne di ebreo, dedicati alla rappresentazioni di parti del corpo, in particolare gambe e braccia, marchiati dai segni di riconoscimento impressi sulla carne (la stella di Davide e i numeri di matricola che venivano tatuati sull’avambraccio degli ebrei internati). È una sequenza di studi di anatomia dell’umanità offesa, raffigurati con una spietatezza che fa di questi quadri una violentissima denuncia della barbarie nazista. Le cicatrici che spaccano in verticale le gambe deformi sembrano crepe aperte nella carne. Sfumature gialle e verdastre si sovrappongono alla gamma dominante, azzurrognola, violacea, accentuando l’aspetto cadaverico dei corpi (pp. 309-310).

Tonalità diverse, caratterizzate da una non minore finezza interpretativa, vengono utilizzate per descrivere i quadri di Sughi. La sua pittura è una costante meditazione sull’uomo, soprattutto «sull’uomo contemporaneo, sul suo malessere esistenziale, tanto più evidente quanto si affollano intorno a lui i simboli del benessere» (p. 317). Due «autentiche metafore ossessive presiedono all’immaginario dell’autore: l’uomo solo e l’uomo di potere» (ivi). Il ciclo di dipinti intitolato La cena (1975-1976) rappresenta il mondo del potere e i suoi gruppi dirigenti, consegnati all’immagine nella posa di una cena in piedi, una «loro quotidiana abbuffata all’ombra del potere» (p. 319). Secondo lo studioso, i toni figurativi dei dipinti possono trovare un corrispondente in alcuni film contemporanei, come Roma e il Satyricon di Fellini o La grande abbuffata di Ferreri. Alla «nevrosi del mondo borghese» viene contrapposta la dignità del mondo contadino: emblematico, in questo senso, è il ciclo Immaginazione e memoria della famiglia dove, con grande capacità narrativa, viene rappresentata la dignità e la compostezza di un nucleo familiare ancora non toccato dalla civiltà dei consumi.

Il denso e ricco volume di Santato si conclude – dopo questo affascinante viaggio-immersione nell’opera di diversi autori, da Pasolini a Volponi, da Pascoli a Vespignani e Sughi – con uno sguardo critico sulla scultura di Murer: l’uomo, ancora una volta, è al centro dell’attenzione dell’artista. Un uomo saturo di fisicità corporea, rappresentato nelle sue radici profondamente terrene, venate di sacrificio e di vera umanità. L’arte di Murer appare dominata «dall’imperativo morale di lasciare una testimonianza della lotta antifascista e degli orrori della guerra» (p. 328): i monumenti alla Resistenza realizzati dall’artista sono allora la testimonianza di immagini di martirio e di dolore lontane da ogni retorica celebrativa, all’interno di un’opera caratterizzata dal richiamo a valori autenticamente umani.

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