nicola lagioia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 A noi due! Conversazione con Gianluigi Bodi su “Un posto difficile da raggiungere” 1/2 https://www.carmillaonline.com/2024/02/08/a-noi-due-conversazione-con-gianluigi-bodi-su-un-posto-difficile-da-raggiungere-1-2/ Thu, 08 Feb 2024 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81065 di Alessandro Cinquegrani

Quando è uscito il mio secondo romanzo Pensa il risveglio, mi è capitato di chiedermi come mi sarebbe piaciuto confrontarmi coi lettori. E mi sono risposto – devo ammetterlo – che mi sarebbe piaciuto spiarli durante la let-tura: e non solo spiarli e trovarli in poltrona o a letto o seduti su una sdraio in spiaggia o sulla scrivania, ma conoscere i loro pensieri, le loro previsioni, le loro perplessità e emozioni. Così quando è uscito il libro dell’amico Gianluigi Bodi Un posto difficile da raggiungere (Arkadia 2023) e mi sono riproposto di fare qualcosa di insolito per celebrarlo, [...]]]> di Alessandro Cinquegrani

Quando è uscito il mio secondo romanzo Pensa il risveglio, mi è capitato di chiedermi come mi sarebbe piaciuto confrontarmi coi lettori. E mi sono risposto – devo ammetterlo – che mi sarebbe piaciuto spiarli durante la let-tura: e non solo spiarli e trovarli in poltrona o a letto o seduti su una sdraio in spiaggia o sulla scrivania, ma conoscere i loro pensieri, le loro previsioni, le loro perplessità e emozioni.
Così quando è uscito il libro dell’amico Gianluigi Bodi Un posto difficile da raggiungere (Arkadia 2023) e mi sono riproposto di fare qualcosa di insolito per celebrarlo, mi sono posto nella posizione di quel lettore che volevo spiare e mi sono aperto via via che leggevo all’interlocuzione con lui. Posizione rischiosa, me ne rendo conto, poiché si rischia di mostrarsi vulnerabili, di prendere piste che poi si riveleranno sbagliate, di assumere posi-zioni che poi, a lettura completata, possono essere smentite.
Ma il rischio si può prendere per un amico. E io avevo un vantaggio: questo è un libro di racconti, che dunque hanno una certa autonomia, anche se – lo si vedrà via via nell’intervista -, questa autonomia è in parte smentita. Oltre al rischio, però, c’è un vantaggio, ovvero quello di provarsi in un genere nuovo: l’intervista in fieri, la ri-flessione che si sviluppa leggendo e non si ricompone a posteriori, come spesso capita. Dalla quale emergono sempre ipotesi ma anche dubbi, tracce, rielaborazioni. Qualcosa di nuovo, mi sembra, rispetto a recensioni e interviste che giocoforza riprendono moduli noti. La formula è semplice: per ogni racconto ho fatto due do-mande a Gianluigi e gliele ho scritte prima di leggere il racconto successivo. Il titolo di ogni sezione è semplicemente il titolo del racconto che si trova nel libro.
A conti fatti, il gioco è stato utile, forse troppo lungo, ma utile a me e – spero – anche a lui, perché la progressiva mutazione del lettore ha suscitato qua e là la reazione dell’autore. È un gioco speculare a quello della scrittura in cui all’azione dell’autore corrisponde la reazione del lettore che si cerca di intuire e di anticipare. Non me ne voglia Gianluigi (al quale concedo tutti gli opportuni scongiuri) se concludo con una frase del celebre saggio di Roland Barthes sulla morte dell’autore: «per restituire alla scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del lettore non può che essere che la morte dell’Autore» (ma simbolica, simbolica!). Viene allora in mente la celebre dedica-sfida che Bufalino appose a esergo delle sue Menzogne della notte: a noi due!

“Il potere taumaturgico di Mike Bongiorno”

Mi pare che la scelta di Mike Bongiorno come correlativo oggettivo di un’epoca sia molto efficace. È il tempo della televisione, della scatola delle meraviglie nella quale tutto è bellissimo e tutto è possibile. Tu associ giustamente quel mondo all’epoca dei nonni: sono loro che subiscono questo fascino. Da allora ad oggi le cose sono molto cambiate, la televisione non ha più quel ruolo, che è stato assunto dai social che però hanno logiche molto diverse. Come interpreti questo passaggio epocale? O meglio: come lo interpreti tu e come lo interpreta il tuo protagonista per il quale uscire da quel mondo rappresenta quasi un rito di passaggio verso la maturità. Ma c’è anche qualcosa di nostalgico nel tono del racconto?

Parto dalla tua ultima domanda. C’è sicuramente un tono nostalgico nel racconto che forse è dovuto al fatto di aver vissuto l’epoca della nascita delle TV commerciali quando ero molto piccolo. C’era la sensazione, o forse il messaggio era molto esplicito ma io lo coglievo solo marginalmente, che tutto fosse possibile e che tutto fosse a portata di mano. Per un bambino che viveva in un piccolo paese quel tipo di sollecitazioni aveva-no un grande potere anche sui sogni e le mete future da porsi. Oggi mi rendo conto che quel messaggio, quel “se puoi vuoi” è sbagliato e ha implicazione che si sono riverberate nei decenni e che hanno procurato ferite profonde non solo sulla psiche delle persone, ma anche sulla società e l’ambiente che ci circonda.
Tornando al racconto però mi viene da dire che Mike Bongiorno sia il simbolo di una nuova fede, qualcuno che approfittando della fiducia che le persone nutriva per il mezzo televisivo ha instillato nelle menti più suggestionabili un nuovo credo consumistico. Non sono un teorico dei mass media e non sono uno studioso dei social, ma mi pare abbastanza evidente che pur essendosi evoluto il mezzo, e avendo, come dici tu, logiche diverse, c’è ancora questo potere quasi mistico che influenza i fruitori dei social network. Un potere che forse deriva proprio dall’epoca delle prime TV commerciali nelle quali ci è stato insegnato a credere a ciò che proveniva dall’altra parte del tubo catodico perché scintillante, perché privo di conflitti e, in fin dei conti, saturo di bellezza. E non si poteva non credere a qualcosa che era così bello. Oggi si tende non a ciò che è bello, ma a ciò che da una versione dei fatti più consona ai nostri gusti personali, quasi come se cercassimo in ogni notizia una dose di serialità televisiva.
Per quel che riguarda invece la voce narrante di questo racconto l’atteggiamento nel nonno sembra quasi quel-lo di un devoto a un culto pagano, sembra al limite della pura superstizione. Lo guarda un po’affascinato e un po’con distacco, ma in ogni caso non può non rendersi conto degli effetti tangibili che il buon Mike ha prodotto nello stile di vita della famiglia. In fin dei conti è come se si rendesse conto che nemmeno lui, che ha studiato e si è “emancipato”, può fuggire dal fascino della TV.

Quando leggo mi è inevitabile mettere in relazione la scrittura che trovo con la mia, e lo faccio tanto più con te che sei un amico. Mi pare che in questo racconto – ma anche in altri – tu abbia una grande capacità di creare un clima, un ambiente molto credibile e concreto, però per come intendo io la scrittura, mi pare che manchi, diciamo così, il colpo di grazia al lettore, cioè mi pare manchi quasi la scena madre. Io ho il problema contrario, l’assenza di frequenti scene madri mi metterebbe in imbarazzo, come se non donassi abbastanza al lettore. Sei d’accordo con questa lettura del tuo racconto? E, se sì, da dove credi nasca questa scelta, dalla tua conoscenza del minimalismo americano? Dalle lezioni di scrittura che hai frequentato? E forse, prima di queste domande: è una scelta consapevole?

Mi fai riflettere su una cosa a cui non avevo mai pensato in questi termini. Se, come dici tu, manca una scena madre, la cosa non mi disturba. O almeno diciamo che non mi disturba in questo racconto. E il motivo per cui almeno in questo racconto non mi disturba è che nello scriverlo sono partito dall’idea di raccontare un momento storico ben preciso attraverso gli occhi di un bambino che vede dipanarsi davanti a sé un cambia-mento a cui saprà dare un’interpretazione personale solo decenni dopo. Volevo che il fulcro della narrazione fosse quello di una crescita emotiva e non ero interessato a costruire una scena madre rivelatrice. Poi, come dici tu, questo tipo di narrazione da qualche parte deve arrivare e per quel che mi riguarda non ho mai fatto mistero di essere stato affascinato da Carver e dal suo scrivere asciutto. Poi sai, possiamo stare qui a discutere se sia lo stile di Carver, se sia lo stile di Gordon Lish, se sia davvero minimalismo oppure no, ma il succo è che nel momento in cui sono venuto a contatto con i racconti di Carver mi sono trovato davanti una lettera-tura fatta di piccole storie, di drammi personali, di leggere sfumature emotive e devo dire che l’ho amata fin da subito. Detto questo, non voglio imitare Carver, non voglio scrivere come lui (anche perché mi sarebbe impossibile) ma vorrei, se mi fosse possibile, proseguire un percorso di scrittura che mi si addica e che mi assomigli.
Anni fa mi sono imbattuto in una definizione della scrittura di Carver che trovo molto aderente al vero, pur-troppo non ricordo più dove l’avessi letta e di chi fossero le parole. Le storie di Carver sono come stanze sature di gas, si aspetta un’esplosione che invece non arriva mai. Sono andato a memoria e ho parafrasato, ma il senso mi pare quello e mi pare anche abbastanza chiaro. Spesso, non sempre, in quello che scrivo, non c’è l’esplosione, ma la stanza è ben satura di gas.

“La macchina che costruisce gli ingranaggi”

Questo è un racconto che colpisce molto. Sembra un racconto sulla fabbrica e sul lavoro ma non lo è. I personaggi fanno scelte inaspettate, a volte inspiegabili e questo dipende proprio dal fatto che il tema non è il lavoro né la fabbrica. Il tema è l’ansia, che porta a volte a un desiderio di annullamento di sé: quell’annullamento di sé che nel racconto chiami: «il punto che è necessario raggiungere», con chiaro riferimento al titolo. È un tema portante, mi pare, nella tua letteratura. E proprio per questo nel racconto l’evento straordinario diviene ordinario, il racconto di un fatto eccezionale rappresenta la quotidianità, per chi conosce cosa sia l’ansia. Sbaglio?

Non sbagli. L’ansia è un tema ricorrente di questa raccolta e credo che ciò sia dovuto al fatto che nel periodo in cui ho scritto questi racconti l’ansia non era una semplice compagna di viaggio ma era diventata una presenza ingombrante. Il suo ruolo era accresciuto senza quasi che me ne accorgessi e senza che riuscissi a dare un nome a certi pensieri che formulavo poco prima di andare a dormire. Con il senno di poi, dopo aver avuto modo di esplorare meglio il mio rapporto con gli stati ansiosi, mi sono reso conto che molte delle cose che ho scritto erano influenzate dal tentativo di dare una risposta alle cose che sentivo. Più avanti nella lettura troverai un altro racconto profondamente legato all’ansia che si intitola “La statua sulla colonna” che forse, per certi versi, è il meno consolatorio di tutto il libro, ma che fotografa un momento preciso in cui sembrava non ci fosse una via d’uscita o un modo per liberarsi di lei.
In questo racconto che si sviluppa quasi esclusivamente all’interno di uno dei classici capannoni industriali dell’area trevigiana il protagonista è alla fine del suo percorso lavorativo, è passato attraverso continui tagli di personale e la possibilità di uscire dalla scena lavorativa era sempre dietro l’angolo. In un certo senso quello che tu chiami fatto straordinario gli darebbe la possibilità di andarsene a modo suo, con i suoi tempi, prendendo una decisione e non subendola. Vede uno spiraglio di fuga da quell’ansia che negli anni l’ha divorato. Ma in lui non c’è solo l’ansia, c’è anche l’idea di aver fatto un lavoro “inutile”, che non ha influito minimamente nelle vite delle persone. Pensa di non aver lasciato il segno e quindi, l’evento straordinario, per quanto negativo, sembra metterlo di fronte al fatto che invece un’influenza il suo lavoro ce l’ha avuta.
Come dici tu però non si tratta di un racconto sulla fabbrica o sul lavoro, credo sia più un racconto sull’ansia, sulle aspettative disattese e, più in generale, sull’insoddisfazione, tema, quest’ultimo, che secondo me si addice molto agli scrittori.

Questa parabola sull’ansia, mentre rende il racconto molto bello, secondo me, perché riesce a farsi allegoria di altro, pone anche qualche insidia di carattere tecnico che riguarda il punto di vista. Mi sembra infatti che la voce narrante oscilli di tanto in tanto tra il narratore onnisciente e la falsa terza persona. Io credo che questo derivi dal punto precedente, ovvero dal fatto di raccontare una cosa (un episodio in fabbrica) mentre in realtà ne stai raccontando un’altra (l’ansia), quindi a volte sei dentro il tuo personaggio (falsa terza persona), a volte sei dentro di te (narratore onnisciente). Di fronte a questa affermazione un narratologo professionista mi dirà che il narratore onnisciente comunque non è l’autore e quindi il problema resta meramente tecnico. Ma noi che scriviamo sappiamo quanto sia di-verso entrare nei panni di un personaggio o entrare nei panni di un narratore tanto astratto da tendere all’infinito – senza arrivarci – dove quell’infinito è la figura reale dell’autore. Ora, vengo alla domanda: quello del punto di vista è un problema che ti sei posto? Ci hai lavorato magari in fase di riscrittura?

Tutte le questioni tecniche mi affascinano e, magari esagerando, mi tolgono il sonno. Anche se tendo sempre a privilegiare l’aspetto emotivo di un racconto ho in grandissima considerazione la tecnica forse perché mi rendo conto che non sono ancora del tutto in grado di padroneggiarla o anche perché a volte non riesco a cogliere completamente tutti gli aspetti tecnici. Mi auguro ovviamente che anche questo faccia parte di un pro-cesso di crescita e che poco a poco sappia far mio i ferri del mestiere per poterli utilizzare con competenza sulla mia idea di letteratura. Tornando alla tua domanda posso risponderti che sì, mi sono posto il problema del punto di vista, non tanto nella stesura iniziale che, per questo racconto, è stata portata a termine quasi di getto, ma nelle successive riletture. Credo che, passaggio dopo passaggio, alcune sbavature siano state corrette, ma in realtà mi sono reso conto fin da subito che il personaggio principale, per quanto lontanissimo da me come esperienza vita, era una mia emanazione diretta. Si parla spesso di empatia nei confronti dei personaggi, nel caso di questo racconto l’empatia nei confronti del protagonista è stata talmente tante che mi ha reso difficile staccarmi da lui e distanziarmene completamente. Credo che questo produca quell’effetto oscillante tra narratore onnisciente e falsa terza persona di cui parli della tua domanda. Ho cercato per quanto possibile di raccontare una storia partendo dal narratore onnisciente perché avevo bisogno di mettere un po’ di distanza tra me e il protagonista, ma anche perché, molto banalmente, nella narrazione c’erano degli aspetti e delle informazioni che ritenevo importanti e che solo così sarei riuscito a mettere all’interno del quadro. A un certo punto però sempre che il narratore onnisciente parteggi per il protagonista e faccia il tifo per lui, che si senta coinvolto nella storia e questo secondo me lo fa virare verso una falsa terza persona. Ti mentirei se di dicessi che la cosa è stata voluta fin dall’inizio, ma a risultato concluso mi è sembrato che questa labilità di confini potesse funzionare anche in virtù del fatto che scrivevo di lavoro mentre parlavo d’altro.

“Il rito”

Qui compare un altro tuo grande tema, la famiglia. Che però è una famiglia piena di enormi difetti, a tratti terribile, sede di difficili rapporti di forza e spesso volta a censurare le individualità. In questo caso è una famiglia ricca o almeno molto benestante, affarista, col padre padrone che almeno a paro-le tiene alla famiglia, ma poi la distrugge con amanti e insulti ai figli. Oltre a una generale osserva-zione su questo, ti chiedo: nel testo non ci sono indicazioni di natura geografica, ma quanto può contare secondo te, nella tua narrativa, il Veneto, che sembra avere molte delle caratteristiche negative che tu descrivi?

A volte basta non nominare una cosa per evocarla. Il Veneto, in questo racconto ma anche in altri, c’è tutto. Diciamo che questo racconto raccoglie quando mi è capitato di vedere nel corso degli anni. Per motivi personali mi sono spesso trovato a girare tra tre provincie diverse, Venezia, Treviso e Rovigo e anche se mi rendo conto che il tessuto alla base di queste tre province è diverso, sotto molti aspetti ho trovato che ci siano forti elementi che le accumunano.
A me sta molto a cuore il tema della famiglia, sia quando si tratta di mostrarne gli effetti positivi, sia quando si tratta di mostrare quelli negativi. In particolare, in questo racconto, mi interessava calcare su questi ultimi. Il padre padrone di questa famiglia è un uomo che si è elevato sugli altri grazie al fiuto per gli affari. Ha fatto strada grazie ai soldi. Ciò che più gli interessa è che venga mantenuta sempre una perfezione di facciata e che tutto sia controllabile secondo i suoi desideri. Ho voluto calcare un po’ sui personaggi cercando di stare sull’orlo della stereotipizzazione perché, per quando sia surreale io queste persone, negli anni, le ho conosciute davvero. Ho visto all’opera il potere subdolo dei genitori nei confronti dei figli, la manovre nemmeno troppo velate per cercare di conformarli a un’ideale per il quale prima viene l’immagine che si mostra agli altri e poi viene tutto il resto.
Io non so se questa sia una caratteristica esclusiva del Veneto anche se tendo a escluderlo, ma in un’ambiente in cui la prima domanda che ti fanno è: quanto ti pagano? La figura del figlio per me era emblematica di una diversità osteggiata dall’ambiente famigliare, quasi derisa. Volevo che il figlio fosse l’elemento della narrazione che svolge il compito mostrarti che l’imperatore è nudo.

C’è ancora una questione tecnica che mi fa riflettere ed è, in questo caso, l’uso o non uso dell’ironia. Mi interessa la postura del lettore. Il racconto è in prima persona, noi dovremmo stare facilmente vicino al personaggio protagonista ma quello che gli accade è grottesco e questo ci porta lontano da lui. È il procedimento ironico che utilizza per esempio DeLillo: Rumore bianco è in prima persona, ma quello che accade ai personaggi è così grottesco che noi non ci identifichiamo in Jack ma lo guardiamo dall’esterno, da una posizione vicina a quella dell’autore. È la cosiddetta ironia di DeLillo. Ciò che capita al tuo personaggio mi porterebbe lì, da quelle parti, un’ironia amara con cui si possono trattare anche argomenti tragici (del resto Rumore bianco parla dell’angoscia della morte). Però, ecco il punto, secondo me tu lo vivi molto seriamente. La boutade del regalo grottesco, per te è una tragedia. Questo mi spiazza come lettore, perché ho l’impressione di non essere in perfetta sintonia con te.

Anche in questo caso mi porti a fare delle riflessioni che non avevo ancora del tutto messo a fuoco. Non so se sia io a vivere il grottesco di questo racconto molto seriamente oppure se in realtà non sia il personaggio a viverlo in maniera seria. Il fatto è che a un certo punto il lettore potrebbe accorgersi che non c’è una via di fuga per il protagonista, potrebbe rendersi conto che i regali preziosi e costosi che il festeggiato non può nemmeno capire ma che valuta solo in base al loro costo non sia una cosa così tanto innocua. Mi rendo conto che in questo racconto ho calcato molto sul pedale del grottesco perché volevo che a delle risate iniziali subentrasse una presa di posizione forte che ponesse il lettore al fianco del protagonista.
La tragedia di cui parli tu forse è la mancanza di uscita da questa situazione che alla fine sembra diventare evidente anche al protagonista. Quell’ironia iniziale che si trasforma in grottesco poi lascia spazio a un senso tragico di impotenza anche perché, soprattutto quelli che dovrebbero essere dalla tua parte, e qui sto pensando alla sorella del protagonista, lo usano come fosse una semplice pedina priva di valore al di fuori del gioco.

“Un gatto morto sul ciglio della strada”

All’inizio del racconto precedente, il protagonista dice di riuscire a parlare con l’analista so-lo di animali e bambini. Qui un animale – un gatto che peraltro porta un nome umano – ha un ruolo decisivo per il protagonista e per lo svolgimento della narrazione. Che cosa rappresenta per te il mondo animale?

Nel caso del racconto precedente il binomio bambini/animali aveva a che fare con un certo tipo di purezza e con tutta una serie di comportamenti non costruiti. Un uccello raccoglie dei ramoscelli per costruirsi il nido e non per mostrarli con orgoglio agli altri uccelli. Questo era il motivo per cui il protagonista de “Il rito” riesce a parlare di questi argomenti. Per come sta vivendo la sua vita gli sembra che di sentirsi più affine a quel modo di vivere piuttosto che a quello della sua famiglia.
Ne “Un gatto morto sul ciglio della strada” il gatto del racconto sostituisce nella vita del protagonista la presenza di un figlio. Il protagonista è stato messo nella condizione di pensare di essere una persona inutile, non in grado di badare a se stessa e quindi nemmeno capace di badare a un altro essere umano.
Per quel che riguarda ciò che rappresenta per me il mondo animale posso solo darti una risposta molto personale. Credo che gli animali siano capaci di agire senza preconcetti e senza dietrologia. Questa è una cosa che farebbe bene anche agli esseri umani. Legandomi al racconto precedente, il padre agisce per mantenere uno status quo di potere, per lui ogni scelta deriva dall’utilità che questa comporta, ma deriva anche dalla risposta a una domanda che si ripete sempre uguale a se stessa: cosa penseranno gli altri di me se mi comporto così?
A me piace pensare che nel mondo animale questo tipo di pensiero sia limitato o quasi assente. Soprattutto se ci riferiamo ad animali in cattività e non ad animali domestici che, vivendo a stretto con-tatto con gli esseri umani, hanno finito per assomigliarci un po’ troppo.

Quello degli animali non è il solo elemento di continuità. C’è anche una famiglia che in modo persino troppo esplicito (anch’io credo che la famiglia sia la sede di complessi rapporti di forza, ma credo che questi restino per lo più impliciti e non detti) disprezza il protagonista. Sembra che esista una precisa continuità tra i racconti. Io penso da sempre che ogni scrittore scriva sempre la stessa storia sia pure in forme diverse, tuttavia qui questa prossimità mi pare più palese, quasi che sia – come diceva Kundera che pure faceva operazioni simili – un romanzo a variazioni, ovvero un romanzo a cui manca la continuità di tempo e spazio ma ha una compattezza d’altro tipo, per lo più tematica o appunto fondata sull’identità del personaggio. Tu percepisci questa continuità?

Qui devo andare un po’ per ordine. Prima di tutto i racconti che sono stati inseriti in questa raccolta sono frutto di una selezione che ne ha esclusi altri. Un’esclusione che non ha nulla a che vedere con la qualità, a bontà tecnica o con qualche altro parametro di questo livello. Sono stati esclusi perché non mi sembravano affiatati con gli altri, erano buoni racconti che però raccontavano altro rispetto a quello che volevo trasmettere con questa raccolta. Quindi, in riferimento a quella che tu chiami “continuità” mi verrebbe da dirti che era voluta e che mi fa piacere che si percepisca.
Inoltre ho cercato di mettere assieme alcuni temi a me cari e ne ho lasciati fuori altri che, pur essendomi altrettanto cari, rischiavano di rendere la raccolta troppo eterogenea.
Detto questo, anche io penso che ogni scrittore scriva sempre la stessa storia che nella scrittura ci sia un continuo processo di rimescolamento della materia narrativa. Pare evidente anche a me che alcuni temi siano ricorrenti in questa raccolta e che a volti siano più palesi perché il modo che ho scelto per raccontarli li mette più al centro della narrazione, mentre in altri casi sono quasi temi secondari legati al principale in un rapporto causa effetto che però li lascia comunque in secondo piano. Credo che la famiglia sia un nucleo di storie potenzialmente infinito.
Capisco quello che intendeva dire Kundera e mi fa molto piacere che intraveda in questa raccolta un “romanzo a variazioni”. Tu sai che il mio primo tentativo nel mondo editoriale è stato un romanzo per racconti che purtroppo non ha avuto fortuna. In quel caso l’unità del romanzo per racconti era data da un luogo, mentre per quel che riguarda “Un posto difficile da raggiungere” ho voluto, o almeno ho cercato, di dare una continuità di temi e l’idea era un po’ quella di raccontare gli stessi temi da angolazioni diverse per provare a renderli a trecentosessanta gradi. Non so se ci sono riuscito ma il fatto che si percepisca questa compattezza mi fa molto piacere.

“Capitani coraggiosi”

Questo racconto, soprattutto se messo in relazione ai precedenti, mi ha posto subito un interrogativo che credevo di natura tecnica ma forse non lo è. Come dicevo, secondo me, sei molto bravo a costruire delle ambientazioni molto concrete, a entrare nelle pieghe del tuo protagonista, a gestire le sue reazioni in modo inaspettato per il lettore. Però quello che mi convince meno sono i personaggi minori, sono tutti cattivi cattivi cattivi, o, se mi permetti, stronzi stronzi stronzi. Io penso che uno scrittore debba porsi con empatia e complessità con tutti i personaggi, anche i minori. In una conversazione con Nicola Lagioia lui diceva, molto efficacemente secondo me, che, quando scrive un saggio o un articolo, i politici corrotti per esempio sono disegnati come persone spregevoli senza riserve ma quando scrive un romanzo (parlava allora della Ferocia) l’autore prova empatia e compassione anche per quei personaggi. E’ la stessa ragione per cui Cerami, forse un po’ provocatoriamente, diceva che non si può scrivere un romanzo su Hitler, proprio perché non ha sfumature, non ha bar-lumi di luce.
Proprio a partire da queste considerazioni, pensavo a questo aspetto come un difetto tecnico dei tuoi racconti. Poi però ci ho ripensato, anche in virtù della nostra conoscenza e ho pensato che questa è davvero la tua visione del mondo: quella dell’uomo che sta solo sulla terra e non trova appigli o pertugi di salvezza e per il quale l’altro rappresenta sempre un’insidia o una minaccia. Così al di là di questioni tecniche, i racconti hanno cominciato a insinuare una angoscia strisciante che via via si sta facendo opprimente: ed è questo un merito della letteratura, costringerci a percepire il disagio, per farci uscire diversi dall’esperienza della lettura. Non è una domanda, ma vorrei capire le tue riflessioni su questi aspetti.

Io capisco bene quello che dici e capisco bene il pensiero di Lagioia e posso dirti che sono molto d’accordo con questa visione. C’è però un ma. Quando ho iniziato a scrivere, per qualche motivo che forse ha a che fare con la mia frequentazione con Carver, mi sono ritrovato a scrivere una serie di racconti un cui, alla fine, anche i personaggi più cattivi ne uscivano bene. Mi mancava il “coraggio” di andare in profondità nel fango e nel sangue. Ora, una cosa del genere può andare bene quando è funzionale al racconto. Se vuoi raccontare la storia un uomo cattivo perché gli hanno mostrato che nella vita c’è solo quello allora ci sta che lo scrittore cerchi di illuminare anche gli aspetti bui del suo animo e fare in modo che il lettore provi pena anche per chi sulla pagina nasce cattivo.
Poi però mi sono ricordato di un episodio di quando ero ancora alle scuole elementari. In classe con me avevo un bambino che era a tutti gli effetti la figura perfetta del bullo. Manesco, irriverente, lingua tagliente con compagni e maestre. Ecco, io mi ricordo perfettamente che quasi per confortarmi, quasi a cercare uno spiraglio in quella situazione, mi ritrovavo a pensare che da adulto non avrebbe potuto altro che migliorare e diventare una persona migliore. Non è successo, anzi, la sua vita è costellata di arresti e reati. La mia visione di bambino è stata distrutta dai fatti della vita e io questo non l’ho più scordato.
Vero è che, conoscendoci, sai anche come la vedo io su molti aspetti e in effetti quella dell’uomo solo è una tematica che mi sta molto cara, ma credo che in questo racconto subentri anche l’influenza che ha avuto Stephen King. In alcuni libri di King, anzi, in praticamente tutti, l’antagonista principale è una declinazione del male puro. Una persona, un’entità, una cosa, capace solo di perseguire il male, incapace di redenzione, incapace anche solo di concepire l’idea che ci sia una redenzione possibile. In questo racconto ma anche in altri, ho voluto inserire quella visione tremendamente cupa di King. Volevo che il protagonista si scontrasse con il male e volevo che uscirne vincitore, per lui, significasse esserne contagiato.

Finora è l’unico racconto in cui parli della lettura, che in fondo è parte importante della tua vita. In questo caso sembra essere il referente della marginalità (il ragazzino che legge è trattato come uno sfigato, e la lettura è causa e conseguenza di tutto questo). Però, almeno per un attimo, e forse senza troppa convinzione, la lettura è anche un elemento di possibile riscatto, è ciò che potrà permettere al tuo protagonista un avvenire migliore dei bulletti che gli fanno del male. Tu sei un lettore forte, che ruolo ha nella tua vita la lettura?

Credo di avere un rapporto con la lettura che in qualche modo dipende molto da come sono io come persona. Ci sono periodi in cui leggo tantissimo e ci sono periodi in cui leggo molto poco e con fatica. Direi che si tratta di un rapporto un po’ bipolare ma non posso farci nulla. Ho però vissuto la lettura in maniera diversa nel corso degli anni. Sono stato preso in giro perché leggevo, mi è stato fatto nota-re che se leggevo troppo significava che disprezzavo il posto da cui venivo e le mie origini cosa che non è assolutamente vera. Mi è stato anche detto che leggevo le cose sbagliate e che i libri giusti mancavano dalla mia libreria. Assurdità di questo tipo.
Per il protagonista di “Capitani coraggiosi” la lettura è più semplicemente un modo per allontanarsi dalla realtà, non dover pensare a una situazione familiare poco piacevole, ai rapporti con i coetanei malsani e a una forma fisica sgraziata. Nelle pagine dei libri che legge più che esserci la possibilità di riscatto c’è una via di fuga. Certo, è il protagonista stesso a un certo punto a dire che si augura che i suoi compagni restino al palo mentre lui spicca il volo, ma lui si riferisce allo studio più che alla lettura.
Comunque, tornando al “lettore forse” non posso non ammettere che la lettura, soprattutto negli ultimi dieci anni, ha avuto un ruolo molto importante nella mia vita. Leggere è diventato un po’ anche studiare, smontare il giocattolo per capisce come funzionano i meccanismi e cercare di riprodurli quando poi scrivo. La lettura è parte di, passami il termine, aggiornamento professionale; è una spinta a cercare di fare sempre meglio sulla pagina.

“Il Vecchio in bicicletta”

Il bello di porti le domande durante la lettura credo sia che si vede formarsi un parere via via anziché ricostruirlo poi secondo un progetto complessivo. In questo caso vorrei dirti che Il vecchio in bicicletta è il racconto più bello, quello che apre a una certa visionarietà, che fa convergere elementi realistici e aspetti surreali, e lo fa mantenendoli in un equilibrio che è sempre difficile. C’è la realtà drammatica (la perdita del lavoro, la guerra) che diventa naturalmente quasi una favola. A pensarci lucidamente non so se sia davvero in assoluto il racconto più bello, ma è il racconto di cui, come lettore, avevo bisogno. Lo si capisce bene dalle domande al racconto precedente: era esattamente il momento di prendere un po’ d’aria, il momento dell’ironia positiva: ed è arrivato proprio quando io ne avevo bisogno. Mi rinsaldo sempre più nell’idea della compattezza di questa raccolta, che ha i tempi narrativi di un ro-manzo, le salite e discese emotive al momento giusto. So che hai scritto i racconti in tempi diversi e solo a posteriori organizzato la raccolta. Mi chiedo perciò se anche nel tuo percorso di scrittura questo racconto abbia avuto un ruolo particolare o meno, se sia nato in un conte-sto diverso dagli altri e ti abbia dato diverse emozioni di scrittura.

Quando ero ragazzo ero un consumatore folle di musica. La musica è arrivata prima dei libri. All’epoca spendevo tutti i soldi che avevo per comprarmi le prime audio cassette e poi i primi CD. E quando mi innamoravo di una ragazza, e capitava spesso, mi mettevo lì con pazienza a estrapolare traccia dopo traccia per creare la giusta compilation, quella che potesse poi mostrare senza ombra di dubbio alla ragazza chi ero veramente. Però le audiocassette non le consegnavo mai e la maggior par-te delle ragazze per cui bruciavo d’amore non se ne sono nemmeno mai accorte.
Quando ho iniziato a pensare a questa raccolta di racconti mi sono chiesto subito come costruirla e mi sono ricordato del periodo del taglia e cuci con le cassettine. Ho cercato di posizionare i racconti in modo che non fossero tutti raggruppati per tematica e che ogni tanto ci fosse uno stacco rispetto ai racconti precedenti. Quindi mi fa piacere che tu abbia notato questo stacco subito dopo il climax del finale del racconto precedente. Mi viene da pensare che forse quelle audiocassette in gioventù avrei dovuto consegnarle.
Per quel che riguarda il racconto devo dire che nasce tutto dall’immagine dell’anziano in bicicletta che trasporta i rami. Mi piacerebbe poter dire che è tutta farina del mio sacco ma in realtà quell’anziano esiste o meglio, esisteva. Per un periodo, durante la quarantena, lo vedevo passare a velocità lenta e sulle spalle aveva rami enormi. Mi chiedevo come facesse a stare in equilibrio, ma soprattutto mi chiedevo che se ne facesse di tutti quei rami.
In quel momento mi sembrava che nemmeno la propria abitazione fosse un posto sicuro dove stare e quando ho iniziato a fare ipotesi sull’utilizzo che quell’anziano poteva fare di tutto quel legname mi è sembrato che la mia ipotesi nascondesse molto del momento in cui tutti stavamo vivendo.
Non so se questo racconto abbia un ruolo particolare nel mio percorso di scrittura, so che è stato molto liberatorio scriverlo e che alla fine, una volta messo il punto finale, mi sono sentito come se non ci potesse essere una conclusione diversa.

(continua)

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C’era una volta a… Roma https://www.carmillaonline.com/2021/02/09/cera-una-volta-a-roma/ Mon, 08 Feb 2021 23:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64877 di Mazzino Montinari

Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi, Torino 2020, pp. 472, € 22,00.

Il tempo corre senza concedersi una tregua, in modo incessante, non possiede una direzione precisa, avanza, deviando, strappando, saltando, rallentando, e poi improvvisamente una virata e lo sguardo si volge all’indietro. Il radicalmente imprevedibile si è trasformato nell’irrevocabile, l’apertura al possibile si è chiusa nella cristallizzazione del già accaduto. È cambiato il punto di vista. Non che sia venuto meno l’appello all’immaginazione, perché nell’incerto presente se appare evidente che quella facoltà umana debba operare per [...]]]> di Mazzino Montinari

Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi, Torino 2020, pp. 472, € 22,00.

Il tempo corre senza concedersi una tregua, in modo incessante, non possiede una direzione precisa, avanza, deviando, strappando, saltando, rallentando, e poi improvvisamente una virata e lo sguardo si volge all’indietro. Il radicalmente imprevedibile si è trasformato nell’irrevocabile, l’apertura al possibile si è chiusa nella cristallizzazione del già accaduto. È cambiato il punto di vista. Non che sia venuto meno l’appello all’immaginazione, perché nell’incerto presente se appare evidente che quella facoltà umana debba operare per il futuro, è altrettanto necessario che agisca anche nei confronti del passato, per ricostruire il fragile, per ordinare il confuso, per notare le tenui somiglianze, per ascoltare le assonanze, per cercare di risalire a un senso. Intanto, però, i fatti che potevano andare in modo diverso ora non mutano più, sono congelati, gli incroci di destini che potevano semplicemente risolversi in un lieve contatto hanno prodotto delle macerie. Si può provare a comprendere le cause, i motivi, ma quello che è successo è là, posato nella teca di un tempo andato. Esposto a occhi indiscreti, a dichiarazioni roboanti, al cinismo, alla superficialità, al moralismo portatore d’odio, alla pura e semplice cattiveria, e anche alla riflessione che si prende del tempo (già, ancora il tempo) per la condivisione.

La città dei vivi di Nicola Lagioia è proprio questo tipo di riflessione. L’esibizione di un tempo che corre e si arresta, di un passato che ciecamente procede verso un futuro e di un futuro che si è tragicamente compiuto e guarda al passato interrogandolo senza trovare risposte. Testimonianze, ricordi, opinioni, materiali d’archivio, storie parallele, vicende personali dello scrittore, per un libro articolato, complesso che ha come soggetto un omicidio e due protagonisti: Manuel Foffo e Marco Prato, gli assassini, quelli che hanno agito, che hanno deciso di togliere una vita e di cambiarne altre in modo altrettanto definitivo. Una storia che purtroppo non può evitare di coinvolgere chi, invece, non voleva essere oggetto di narrazione, Luca Varani, la vittima, il ragazzo straziato, stordito da una droga, oggetto di violenze sessuali, mutilato e consegnato a una fine così orribile che non dovrebbero esserci parole, pensieri e riflessioni destinate a un’arte. Eppure, ecco la letteratura, le pagine, lo stile, la critica, il pubblico, il rimando continuo tra realtà e ricostruzione, l’attrazione e la repulsione, il giudizio e la sospensione.


Lagioia è misurato, consapevole delle insidie, delle tentazioni che questa vicenda per sua natura genera. Le affronta, accetta la possibilità di cadere, si mette in gioco con una vicenda personale, è soprattutto abile nel porre il lettore dentro quel tempo di cui si scriveva all’inizio. Che Foffo e Prato, nel frattempo morto suicida, siano assassini non è messo in dubbio, né tanto meno che siano i primi responsabili di ciò che è accaduto nell’appartamento di via Igino Giordani 2. Manuel e Marco, però, hanno avuto la possibilità di prendere sentieri diversi, dal loro primo incontro a capodanno 2016 fino al giorno dell’omicidio, accaduto tre mesi dopo, il 4 marzo. Nessuno degli eventi di quei giorni possedeva il carattere della necessità. Così, nella parte del libro nella quale ci si approssima all’atto finale, si è quasi portati a sperare che le cose possano procedere diversamente come se ci si trovasse sul set di C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino. Si vorrebbe un finale imprevedibile nel quale uno dei protagonisti, anche casualmente, decida di uscire di scena senza che il sangue scorra. Una scelta che, con quella ferocia, non ponga fine alla vita di Luca Varani. Ma in questa storia senza speranza, Sharon Tate è quella vera, e non Margot Robbie.
L’illusione del racconto termina, il sentimento effimero svanisce. Si impone lo sguardo al passato, quello in cui tutto è irrimediabilmente accaduto. E allora subentra un’altra illusione, quella di un destino superiore al quale nessuno può sottrarsi. Persino l’ipotesi della possessione, dell’opera di un demonio, paventata dal colonnello Donnarumma, appare credibile. Perché le tessere se non si ricompongono in un mosaico, devono almeno trovare una forma adatta all’occhio. I fatti, le azioni, il susseguirsi di episodi, gli incastri, si ha quasi la percezione di assistere a un evento straordinario come quando i pianeti si allineano. È solo un effetto ottico, Luca Varani non è una vittima predestinata (che orrore pensarlo), e Manuel Foffo e Marco Prato non sono Edipo. Non hanno fatto niente per conoscere la verità, non sono eroi tragici incastrati in una trama che si prende gioco di loro. Perciò, di nuovo, si torna ad abitare nel caos delle esistenze umane, ognuno con le proprie responsabilità, sofferenze, atrocità.

Nel mondo della doxa, Ledo Prato, Valter Foffo e Giuseppe Varani, i padri, cercano di capire, di giustificare, di ottenere giustizia, ognuno dal proprio punto di vista, isolati nella propria nicchia, incapaci di stabilire una relazione l’uno con l’altro. Sono storditi, distrutti, sopraffatti da qualcosa che hanno subito, che non avevano previsto e che non sanno spiegarsi. E come potrebbero? Una violenza così radicale, che tutto travolge, chi sarebbe in grado di risalire allo spirito, all’autocoscienza? Soli, sono accerchiati e oppressi da una moltitudine che non mostra alcuna attenzione per la vita e la morte, che ottusamente produce e riproduce parole vuote, pesanti per l’animo, ammesso che ne esista uno.
Nomi tutti al maschile in una storia nella quale le donne sono tenute a distanza o decidono loro stesse di ritirarsi. Persino la moglie dell’autore appare come una presenza eterea, coinvolta nelle decisioni quotidiane (nel racconto, ad esempio, Lagioia lascia Roma alla volta di Torino per dirigere il Salone Internazionale del Libro) eppure distante dall’orrore, come la Loretta Bell moglie dello sceriffo di Non è un paese per vecchi, solo prossima agli incubi del marito, quando all’orizzonte si profila l’enigmatica azione sterminatrice di Anton Chigurh.
Sono uomini i carnefici, la vittima, le persone invitate nell’appartamento nei giorni che poi portarono al delitto, lo scrittore, i padri, appunto, e l’olandese, una figura parallela che incombe con intenzioni precise sulla città dei vivi e dei morti, dei visibili e degli invisibili.
Roma, dunque, la città dei vivi, con quel genitivo possessivo e partitivo. È la città che appartiene ai vivi? O sono i vivi che esistono perché appaiono nella città? Tra appartenenza e apparenza si gioca il senso di un luogo nel quale Luca Varani è stato assassinato, Marco Prato si è ucciso, Manuel Foffo è recluso in un carcere. Allo scrittore, come a Orazio l’amico di Amleto, è dato il compito di ricordare che un tempo quei fantasmi erano visibili dentro una città dove una bambina gioca con innocenza mentre altri ragazzini escono dai tombini incatenati dagli orribili desideri dell’umanità. E noi, aspetteremo Fortebraccio per raccontargli delle rovine di Elsinore o calpesteremo distrattamente quelle macerie?

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Un libro di denuncia e di battaglia contro il manicomio diffuso contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2018/05/21/un-libro-di-denuncia-e-di-battaglia-contro-il-manicomio-diffuso-contemporaneo/ Sun, 20 May 2018 22:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45554 di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 328, € 18,00

«E se credente ora / che tutto sia come prima / perché avete votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti, / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti» (Fabrizio De André)

«Quando noi diciamo no al manicomio, diciamo [...]]]> di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 328, € 18,00

«E se credente ora / che tutto sia come prima / perché avete votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti, / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti» (Fabrizio De André)

«Quando noi diciamo no al manicomio, diciamo no alla miseria del mondo» (Franco Basaglia)

Come fa notare Pier Aldo Rovatti nella prefazione, “libertà”, “rivoluzionario”, “radicale” e “iatrogeno” sono le parole chiave attorno alle quali ruota l’intero discorso portato avanti da Cipriano nel suo ultimo libro “di denuncia” e “di battaglia”, ricorrendo nuovamente alle parole di Rovatti.

Tanto per essere chiari sin dall’inizio: nel suo nuovo libro Cipriano non si limita, in odor di ricorrenze, a rendere il giusto merito a Franco Basaglia per quel che ha saputo fare ma intende anche denunciare quel che è successo dopo-Basaglia e, soprattutto, portare avanti una battaglia di libertà qui ed ora. Non è tipo da semplici e comode commemorazioni il nostro “psichiatra riluttante”.

Fatta questa premessa veniamo al libro, anzi, a dire il vero si tratta di due libri in uno. La prima parte del volume è dedicata a una breve storia della follia e dell’anti-follia, cioè di quella che da poco più di due secoli si chiama psichiatria. Si badi bene, precisa Cipriano sin da subito, riprendendo Basaglia, che quando si parla di storia della psichiatria si parla sostanzialmente di psichiatri, di diagnosi, di terapie e di repressione e non delle storie di chi l’ha subita. La seconda parte del volume concede invece la parola ad alcuni compagni di viaggio con cui costruire un immaginario e pratiche capaci di portare ad una “nuova 180”.

In apertura la ricostruzione della storia della follia e dell’anti-follia prende il via, come suggerito dalla Storia della follia scritta da Michel Foucault, da un editto francese del Seicento che prescrive l’ammasso presso il Grand Hôpital Géneral parigino di tutti i devianti: «Dai mentecatti ai libertini, alle donne di facili costumi, agli alcolizzati». Un secolo dopo Philippe Pinel «separa i fuori di testa dai fuori di legge». Da una parte i rei, dall’altra i folli. Chi deve scontare una pena da una parte, chi deve sostenere una cura dall’altra. Il carcere per gli uni, l’ospedale psichiatrico per gli altri. Poi si cimenteranno sui folli gli asportatori di brandelli di cervello, gli inoculatori di malaria e i dispensatori di scariche elettriche sino all’arrivo degli spacciatori di psicofarmaci e dei prestigiatori semantici: gli psichiatri. È lungo questo percorso che si arriva ad incastrare a vita una persona: attraverso una diagnosi e una molecola.

Eccoci allora a Basaglia, cioè a colui che negli anni Sessanta del Novecento trova la forza, il coraggio e l’umanità per fare quello che né i padri nobili della psichiatria psicodinamica (Freud, Joung, Adler e Janet), né i fenomenologi (Jaspers, Minkowski, Binswanger ecc.) hanno mai fatto: «mettere in discussione il mezzo con cui la psichiatria opera: il manicomio, ovvero la malattia istituzionale, la iatrogenesi di cui lo psichiatra è responsabile» (p. 20). Ed è proprio a Basaglia che è dedicato il secondo capitolo del libro, ossia a colui che può essere considerato sia politicamente che scientificamente un rivoluzionario. È grazie a persone come lui che viene messo in crisi il paradigma scientifico secondo cui il manicomio è terapeutico. In realtà la distruzione del manicomio è la condizione necessaria affinché si possano porre le basi per una psichiatria terapeutica e non repressiva.

Rispetto ad altre pratiche alternative, secondo Cipriano, l’originalità dell’esperienza goriziana consisterebbe nell’inversione di ruoli: «il vero direttore è diventato il malato». In una relazione del 1964 passata alla storia, così Basaglia stesso riassume le tappe della sua rivoluzione copernicana: 1. Introduzione dei farmaci, grazie ai quali è possibile eliminare le contenzioni; 2. Rieducazione umana del personale; 3. Riannodamento dei legami con l’esterno; 4. Abbattimento delle barriere fisiche: reti e grate; 5. Apertura delle porte; 6. Creazione di un ospedale diurno; 7. Organizzare la vita dell’ospedale secondo lo stile di una comunità terapeutica. Insomma una guerra aperta tra «il principio di libertà» e il «principio di autorità». In concreto, sottolinea Cipriano, nel settimo punto basagliano occorre leggere la necessità che la vita comunitaria diventi assembleare.

Ad inizio anni Sessanta escono diversi libri poi rivelatisi importanti punti di rifermento per il gruppo basagliano nella battaglia contro i manicomi: Storia della follia (1961) di Michel Foucault, Asylums (1961) di Erving Goffman, I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, Il mito della malattia mentale (1961) di Thomas Szasz; L’io diviso (1961) di Ronald Laing.
Con l’intento di far conoscere quanto si sta sperimentando a Gorizia, sul finire del decennio viene fatto uscire il libro corale L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (1968) nel quale Basaglia pubblica un contributo intitolato Le istituzioni della violenza in cui sostanzialmente muove una critica a trecentosessanta gradi nei confronti di tutte le istituzioni fondate sulla rigida distinzione di piani: famiglia, carcere, ospedale, università, fabbrica, scuola… Già in questo suo intervento, sostiene Cipriano, emerge

la figura dell’intellettuale non più universale – quello che restandosene fuori dal mondo non solo engagé, à la Sartre, non solo organico, à la Gramsci, ma l’intellettuale tecnico di un sapere pratico che si immerge nelle istituzioni per cambiarle, o per distruggerle: quello che Rovatti definisce intellettuale riluttante. Ecco, Basaglia e i goriziani sono stati gli antesignani di questo nuovo tipo di intellettuale calato nelle istituzioni (p. 62).

Il 13 maggio 1978 viene approvata la Legge 180. Quella che ancora oggi, tanto dai detrattori, quanto dagli entusiasti, viene indicata come una svolta radicale in senso libertario a proposito di sofferenza mentale, all’epoca viene percepita dal gruppo di Basaglia come un compromesso se non, in qualche modo, una sconfitta. In particolare a suscitare perplessità sono il Trattamento Sanitario Obbligatorio e l’apertura di piccoli reparti psichiatrici negli ospedali. È pur vero che quella Legge 180 (successivamente assorbita all’interno della Legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale), o legge Basaglia (anche se nei fatti non è di certo sua la stesura), scrive Cipriano, forse rappresenta il massimo ammesso da quel contesto storico-culturale; una riforma più radicale avrebbe necessitato di una società più avanzata rispetto a quella dell’epoca.
Nel volume ci si sofferma anche su Le conferenze brasiliane da cui, secondo Cipriano, emerge quanto

Basaglia non sia stato rivoluzionario perché ha fatto la comunità terapeutica a Gorizia, che pure è stata una bomba che poi ha portato a Trieste e che gli altri goriziani esodati hanno portato in altri manicomi per deflagrarli, e neppure sia stato un rivoluzionario perché ha ispirato la scrittura della legge che li ha messi fuori legge, questi luoghi atavici, la sensazione è che davvero rivoluzionario Basaglia lo sia diventato da quel momento in poi. Come Che Guevara che cerca la Bolivia perché non si accontenta di ciò che ha fatto, come un Fanon che cerca la rivoluzione fuori dal manicomio, lui pure sembra cercare un terreno rivoluzionario e va in Brasile a coinvolgere i tecnici psi, e non solo, l’intero popolo brasiliano. (p. 82)

Basaglia, continua Cipriano, era un rivoluzionario anche sul piano politico «apolide e apartitco, probabilmente a suo modo anarchico. Inviso al PCI per la sua troppa carica libertaria […] Inviso all’Università, all’establishment, ai direttori di manicomio e ai manicomiali a cui toglie il potere dalle mani. Inviso per per la sua capacità pragmatica di portare fino in fondo questo suo impegno di uccidere il manicomio» (p. 85). Inviso pure, si badi bene, anche a tutti quegli “antipsichatri” che amavano scagliarsi contro il manicomio più a parole che con i fatti.
Anche sul farmaco la posizione di Basaglia è chiara. Non si tratta tanto di dirsi a sfavore di tutti i farmaci sempre e comunque; si tratta di vedere l’utilizzo che ne viene fatto e la finalità con cui li si somministra:

Noi dobbiamo dire che usiamo i farmaci, Ma cosa significa usarli? Normalizzare mentre stiamo facendo un discorso di liberazione? A me pare che dobbiamo riconoscere che la scoperta di alcune sostanze i grado di diminuire l’aggressività di una persona sia un fatto di lotta contro la natura, e questo discorso non mi scandalizza, perché questi prodotti offrono, ad alcune persone, una possibilità alternativa di esistenza, una contrattualità con l’altro, la possibilità di un rapporto. In realtà il farmaco ha una doppia faccia: terapeutica da un lato, e quindi strumento di liberazione, cronicizzante dall’altra, e quindi elemento di repressione. (Basaglia, Conferenze brasiliane – riportato a p. 86)

Nel terzo capitolo viene ricostruito il dopo Basaglia e qua Cipriano ripercorre lo sviluppo della cura mentale degli ultimi decenni riprendendo quanto approfondito nei suoi saggi precedenti: La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016). Se aprire i manicomi e liberare i reclusi è stata una lunga e dura battaglia, molto più ardua pare la battaglia per aprire i “nuovi manicomi”:

Aprire il DSM, inteso come Manuale Diagnostico e Statistico, e liberare le persone dalle etichette diagnostiche e del farmaco che pressoché inevitabilmente consegue all’etichetta […] Le due cose, i due manicomi moderni, se così vogliamo definirli, etichette e farmaci, che ne creano uno davvero difficile da aggredire, sono a tal punto embricati che è, e sarà sempre più difficile, distinguere la follia dal suo doppio, il disturbo psichico essenziale dal suo doppio, da tutto ciò che sembra disagio psichico e invece è iatrogenia (p. 119).

Nel libro vengono dunque ricostruite le tappe che hanno portato alla deriva farmacologica della psichiatria ed il ruolo assunto dalla diagnosi, ormai piegata totalmente a una logica che considera malattia qualsiasi disagio psichico. Tutti noi possiamo divenire pazienti psichiatrici: basta manifestare uno stato emotivo forte per vedersi prescritto uno psicofarmaco che, non di rado, diviene responsabile di un nuovo disagio che a sua volta richiede nuovi psicofarmaci in una spirale totalmente illogica se non per le industrie farmaceutiche che si assicurano così un paziente-cliente per lungo tempo, se non a vita.

Il quarto capitolo è dedicato alla necessità di una nuova 180 e al panottico digitale che sembra ormai fare capolino. Sul finire del 2017 i senatori Nerina Dirindin e Luigi Manconi hanno presentato un disegno di legge dal titolo Disposizioni in materia di tutela della salute mentale volte all’attuazione e allo sviluppo dei principi di cui alla legge 13 maggio 1978, n. 180. Si tratta, sostiene Cipriano, di una sorta di 180 bis e se la 180 è derivata dalla battaglia di Basaglia, gli ispiratori di questa 180 bis si possono individuare in Franco Rotelli e Peppe Dell’Acqua. Tale proposta di legge intende intervenire su alcuni aspetti su cui la 180, in quanto legge quadro, non ha dato indicazioni attuative. Si tratta di una «legge-che-ribadisce», che intende far applicare una legge stesa sul finire degli anni ’70 e restata in parte inapplicata. Nel frattempo, però, l’istituzione manicomiale ha assunto nuove e molteplici forme che necessitano di essere messe in discussione.

Viviamo in una società caratterizzata da un nuovo panottico: il web in cui quotidianamente immettiamo informazioni su noi stessi, offriamo la nostra identità permettendo, se non chiedendo, ad altri di “tenerci d’occhio”, di “valutarci” e noi stessi finiamo a nostra volta, sentendoci gratificati da questo, per essere controllori e valutatori. Si tratta di un nuovo manicomio, un manicomio di tipo digitale che però si intreccia facilmente con quello concentrazionario, con quello chimico e quello diagnostico.

Un esempio del manicomio che ci aspetta Cipriano lo individua nell’inquietante progetto Proteus Digital Health a cui sta lavorando la Food and Drug Administration americana.

Il farmaco che deve essere immesso nel corpo di chi ne ha bisogno è l’antipsicotico ora più in auge, l’ultima molecola ritenuta antidoto alla psicosi: l’aripiprazolo commercializzato come Abilify. Tra i più costosi, si capisce. Proteus sarebbe in grado di inserire un sensore attaccato alla compressa, un sensore ingeribile quindi, che comunica con un altro sensore posto su un cerotto computerizzato indossato dal paziente o inserito sottopelle, di modo che il medico prescrittore dal suo tablet possa controllare l’intero percorso de farmaco, dall’ingestione all’assorbimento. Questo perché? Per contrastare la riluttanza delle persone con disturbo psichico ad assumere gli antipsicotici – scarsa compliance, viene definita – o l’assunzione a dosaggi inferiori alla prescrizione. Questo partendo dall’assunto – non provato – che non prendere antipsicotici inevitabilmente porti a ricadute (p. 166)

Per prospettare dove ci potrebbero portare sperimentazioni come Proteus, Cipriano prende spunto da un episodio della serie Balck Mirror intitolato Arkangel in cui si narra dell’impianto di un microchip nel cervello di una bambina in modo che la madre possa monitorarla costantemente intervenendo a distanza, attraverso un un tablet, per censurare agli occhi della figlia tutto ciò che potrebbe urtare la sua serenità. Così la figlia finisce per vivere in una sorta di realtà virtuale pilotata dal genitore attraverso il microchip Arkangel.

Arkangel è ciò che Protus potrebbe fare tra qualche anno. Un meccanismo per cui tutto accade per via digitale. Lo psichiatra fa la diagnosi. Prescrive. Il chip controlla. Il paziente non può più trasgredire. Questo è un mondo futuro, dove il cittadino modello è una sorta di androide, l’androide descritto immaginato narrato da Philip K. Dick, il cittadino modello dei regimi totalitari. Vivremo in una democrazia in ci tuttavia, come scrive Han, “la libertà sarà stata un episodio”. Una democrazia neoliberale sotto il segno del like. Si immagini un collegamento tra il sistema Proteus che monitora l’assunzione del farmaco e il profilo Facebook […] della persona stessa. Prendere il farmaco premiato dal like, non prenderlo sanzionato dal dislike. Essere puntuali nell’assunzione premiato da decine di love, o haha, o wow, disattendere l’assunzione sanzionato da sigh o peggio da grr […] sembra un po’ ridicolo a scriverlo, tutto ciò, eppure lo stiamo già facendo […] una semplificazione lessicale ed emotiva che rassomiglia alla neolingua immaginata da Orwell in 1984, la semplificata neolinuga […] funzionale a semplificare il pensiero (pp. 169-170)

Eccoci di fronte ad un immenso panottico che determina una sorveglianza reciproca. Occorre forse iniziare a pensare davvero a come uscire da questa manicomio diffuso entro cui ormai siamo tutti rinchiusi. E qua si entra nella seconda parte del volume. Una volta tratteggiata la storia della psichiatria, ora l’autore tenta di rispondere ad alcuni interrogativi:

ma chi sono, oggi, i nuovi operatori della salute mentale, gli intellettuali riluttanti, gli inventori di nuove pratiche di salute mentale? E che cosa pensano? Cosa ne pensano, soprattutto, di questa storia della psichiatria e cosa pensano del fatto che con gli studi e i diplomi e le patenti che hanno conseguito hanno scelto di calarsi, di sono calati, si stanno calando, stanno entrando in questa sotiria? Cosa pensano di fare? Come pensano di cambiarlo il corso di questa storia della psichiatria? (pp. 198-199)

Dunque il libro si apre alla coralità, la parola viene in qualche modo lasciata alle tante voci che possono contribuire alla messa in discussione delle vecchie e nuove forme manicomiali e ad un ripensamento delle modalità con cui affrontare la sofferenza mentale. Qua inizia un lungo viaggio in cui ci si imbatte in quelli che l’autore definisce rispettivamente gli “inventori”, gli “impazienti” e i “narratori”. A loro viene data la parola.

Tra coloro che cercano nuove strade per affrontare il disagio mentale, tra gli inventori di nuove pratiche di salute mentale, ci imbattiamo: in uno psicologo che allo studio preferisce l’orto ove lavora con migranti e disabili psichici; in una filosofa che ha operato in un day-hospital senza essere né medico né psicologo scoprendo che i tecnici, con le loro pratiche, si rivelano per lo più incapaci di relazionarsi con le persone; in un infermiere testardamente contrario alle fasce ed all’elettrochoc e in diversi altri operatori non convenzionali.

Poi, dopo gli inventori, la parola passa agli impazienti, agli esigenti, a quelli

dall’altra parte del muro di vetro che divide i sani di testa dai disturbati di testa, quelli che chiamano i pazienti, ma sono sempre meno pazienti, si sono fatti esigenti ed è giusto giustissimo che siano esigenti, c’è chi li chiama ancora utenti, ma non mi piace utente, malato mi piace ancora meno […] c’è chi li chiama ancora matti, chi folli, folle per esempio è bello, teste pieno di vento e di sogni, è un modo romantico ancora di raccontare la sragione, oppure chi li chiama semplicemente vittime della psichiatrica. E quanti di loro vogliono un soccorso. Un rapporto. E non gli piace di essere trattati così, oggettificati cosificati reificati, un numero, io sono una storia non un numero (p. 198)

Infine, nello spazio di mezzo, tra chi non è né malato né terapeuta, Cipriano ci porta tra narratori come Paolo Virzì, Nicola Lagioia, Silvano Agosti e Pierpaolo Capovilla, tra

quelli della società che suole dirsi civile, che sono capaci di pensare e di raccontare, con la propria arte, il mondo della follia e dell’anti-follia, quelli che sono artisti, sono narratori, sono registi, sono poeti, sono attori, sono musicisti, sono cantanti (p. 198)

Ed a proposito di narratori, il volume si conclude con un’intervista impossibile, con Basaglia che incontra Bolaño e con Cipriano che, di nascosto, prende nota.

Terminata la lettura di questo libro “di denuncia” e “di battaglia” ci rende conto come all’interno del manicomio diffuso contemporaneo si passi con estrema facilità dal ruolo di vittime a quello di carnefici.  Quella che continua a portare avanti testardamente Cipriano è una battaglia di libertà che ci tocca davvero tutti e tutte.


A proposito del libro Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018) si veda su Carmilla: Il libro delle metamorfosi – Intervista a Piero Cipriano

 

 

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Il libro delle metamorfosi – Intervista a Piero Cipriano https://www.carmillaonline.com/2018/05/06/libro-delle-metamorfosi-intervista-piero-cipriano/ Sat, 05 May 2018 22:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45116 di Gioacchino Toni

Dopo aver pubblicato La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016), in occasione dell’imminente uscita del suo nuovo libro, Piero Cipriano anticipa in questa intervista alcune questioni trattate nella pubblicazione edita, come le precedenti, da Elèuthera.

[ght] Nel tuo nuovo libro che esce a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi,  oltre a ricostruire le lotte che portarono a quel risultato, tratteggi le trasformazioni del dispositivo manicomiale fino al “manicomio digitale” prossimo venturo, dove la rete sembrerebbe essere il panottico perfetto da cui non [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo aver pubblicato La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016), in occasione dell’imminente uscita del suo nuovo libro, Piero Cipriano anticipa in questa intervista alcune questioni trattate nella pubblicazione edita, come le precedenti, da Elèuthera.

[ght] Nel tuo nuovo libro che esce a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi,  oltre a ricostruire le lotte che portarono a quel risultato, tratteggi le trasformazioni del dispositivo manicomiale fino al “manicomio digitale” prossimo venturo, dove la rete sembrerebbe essere il panottico perfetto da cui non è possibile sfuggire. In attesa dell’uscita del libro ti chiediamo di anticiparci brevemente qualcosa a tal proposito.

[pc] I quarant’anni di una legge straordinaria ma tutto sommato per lo più tradita offrono l’occasione per fare il punto. Quella legge era fatta a misura del manicomio classico, quello che siamo abituati a pensare essere il manicomio, l’unico manicomio, il manicomio inventato da Pinel nel 1794, il manicomio lager che serviva per segregare i devianti affetti da un qualche elemento di follia, non per curarli e restituirli alla società ma per separarli per sempre da essa. Un luogo dove si compiva un’eutanasia sociale prossima a quella dei lager nazisti. Il luogo della definitiva sparizione degli esseri umani diversamente ragionanti. Diciamo che con la legge 180 si decretava, in Italia almeno, la fine di questi dispositivi di annientamento. Ma, è quel che sostengo in questo libro, il manicomio è un Proteo, è cangiante, e la psichiatria ha saputo sempre declinarsi in un manicomio; posto fuori legge il manicomio concentrazionario ecco ascendere, proprio a partire dal 1980, un manicomio fatto di etichette diagnostiche e psicofarmaci conseguenti, a vita, quel manicomio che ho definito chimico, il 2.0, diciamo. Ma questo manicomio invisibile si embrica con un ulteriore manicomio, trasparente, emanazione di questa società della trasparenza, la società digitale del web, della rete, dei social network, dove ognuno si denuda e mette in piazza la sua esistenza, dove il controllo è totale, come in un panottico dove, a differenza di quello benthamiano, i controllori sono gli stessi controllati, un controllo reciproco a 360 gradi, perfetto. Dirai ok, ma come questo si interseca con il manicomio chimico e quello concentrazionario? Ti faccio un esempio. La Food and Drug americana sta sperimentando un sistema detto Proteus (non per caso ispirato al Proteo mostro cangiante della mitologia) per rendere l’assunzione dei nuovi antipsicotici sicura, certa, assoluta. Il malato psichico del prossimo futuro digitale ingoia la pasticca, dotata di un sensore ingeribile che comunica con un sensore posto sulla pelle che a sua volta comunica col tablet dello psichiatra, il quale alla prima trasgressione provvederà al ricovero obbligatorio, in un reparto chiuso. Ecco che il manicomio chimico si embrica con quello digitale e con quello concentrazionario. L’uno non esclude l’altro ma si combinano. Poi mi sono perfino immaginato un povero paziente psichico digitale la cui assunzione o meno del farmaco con sensore sarà premiata con un like o biasimata con un dislike da parte dei suoi cosiddetti amici social-virtuali. E così via. Non ti racconto tutto…

[ght] Nel libro, ricostruendo la lunga lotta condotta da Basaglia contro il manicomio concentrazionario e il significato assunto dalla Legge 180 da essa derivata, insisti sulla necessità di una nuova rivoluzione anti-manicomiale. Ti chiediamo di fornirci qualche elemento utile a motivare l’urgenza di una nuova rivoluzione nell’ambito del disagio mentale.

[pc] La Legge 180 è stata una legge straordinaria, meglio di così non si poteva fare. Però è stata applicata solo in pochi luoghi, che peraltro dimostrano proprio il contrario di ciò che sostengono i detrattori, ovvero che sapendola attuare è una legge che fa quel che deve fare, ovvero elimina la manicomialità, e permette la cura delle persone nei luoghi di vita e non nelle cliniche, nei letti, nei luoghi a parte, nei tanti manicomietti e caravanserragli sparsi per il paese, che si chiamino SPDC che si chiamino casa di cura che si chiamino comunità terapeutica che si chiamino REMS. Una rivoluzione politica e scientifica che, come spesso succede, è stata in parte riassorbita, se non vanificata. La vicenda del suo ispiratore, Franco Basaglia, sulla cui figura imposto questo libro, assomiglia a quella del ginecologo viennese della metà dell’Ottocento, Filippo Ignazio Semmelweis. Il quale aveva intuito che la sepsi puerperale delle donne gravide dipendeva dalle mani dei medici, che non lavate, le infettavano a morte. Bastava lavarsi le mani, suggerì Semmelweis. Grandissima intuizione, politica e scientifica. Ebbene, fu necessario mezzo secolo perché Pasteur dimostrasse, con le scoperte microbiche, che Semmelweis aveva ragione. Nel frattempo i medici avevano ottusamente continuato a non lavarsi le mani. Nel nostro specifico sembra sia accaduta la stessa cosa. Basaglia come Semmelweis dice sono gli psichiatri che con i loro dispositivi internanti ovvero i manicomi uccidono, socialmente e fisicamente, le persone. Ancora una volta il motivo della malattia è iatrogeno. Lavatevi le mani. Eliminate i manicomi. Be’, siamo anche noi in attesa di un Pasteur della psichiatria che confermi l’intuizione di Basaglia e dica: i manicomi ammalano, non curano.

[ght] Nel libro concedi spazio ad autori come Paolo Virzì, Silvano Agosti, Nicola Lagioia e Pierpaolo Capovilla, accomunati dall’avere raccontato al grande pubblico il mondo della sofferenza mentale. Mi sembra sia importante raggiungere un pubblico diffuso perché quella rivoluzione anti-manicomiale di cui parli richiede una rivoluzione dell’immaginario collettivo e il ruolo del cinema, della musica, della narrativa e di altre forme di comunicazione è probabilmente fondamentale per il raggiungimento di questo scopo.

[pc] In effetti non l’ho detto ma lo dico ora: sono due libri, appunto. Nel primo libro, che rappresenta la prima parte, faccio una contro-storia della follia e dell’anti-follia ovvero la psichiatria, da Pinel a oggi, dove il fulcro è Basaglia. C’è insomma, io penso, nella storia della psichiatria, un prima e un dopo Basaglia. Un po’ come quell’altro, che non nomino. Nel secondo libro, appunto per capire con chi farla questa rivoluzione se di rivoluzione vogliamo parlare, oppure questa nuova 180 di cui c’è bisogno, do la parola ai nuovi tecnici, operatori, esperti della salute mentale. Capire da loro cos’hanno in testa. Cosa pensano di fare. Purtroppo erano tanti a cui ho dato la parola, e siccome il libro è fatto di pagine e di carta, ad alcuni di loro a malincuore ho dovuto toglierla, nel senso che troveranno spazio nella versione e-book, ma non nella forma cartacea, in cui saranno presenti solo cinque: uno psicologo che fa lo psicologo non nello studiolo dorato ma in un orto, una filosofa che fa le consulenze filosofiche, un giovane psichiatra che come me a trent’anni si sente un cane in chiesa, un’infermiera poco più che ventenne che vede le fasce come il fumo negli occhi, e un’economista nonché esperta di jazz che non ha neppure uno straccio di attestato che la abiliti alla cura eppure ha delle splendide idee di come una società dovrebbe prendersi cura di sé invece di ricorrere agli esperti.
Prima di arrivare a quelli famosi di cui mi chiedi, devo dirti che ho dato la parola anche agli esigenti, ovvero impazienti che hanno delle idee molto chiare su cosa vogliono e cosa non, hanno avuto un inciampo psichico ma non gli piace di essere maltrattati da operatori poco gentili. Sono una filosofa una poetessa e un narratore. Sono stupendi. Infine questi quattro grandi autori. Perché? Quando Basaglia prese la direzione del manicomio di Gorizia prima e di Trieste poi cosa fece? Per prima cosa li aprì, e dopo li distrusse. Per distruggerli però li dovette prima aprire. Aprire alla cittadinanza. Da lager diventarono nel giro di pochi anni luoghi di vita: concerti, spettacoli, teatro. Entrarono Dario Fo, De Gregori, gli Area, Battiato, molti altri. Nel momento in cui erano stati aperti, fu facile abolirli, a quel punto non avevano più senso come luoghi di internamento.
Per i nostri manicomi succedanei direi che è un po’ la stessa cosa. Abbiamo bisogno di farli conoscere. Ho individuato alcuni artisti che per un verso si sono già occupati a fondo di questi temi, per altri versi sono dei potenti amplificatori. Virzì veniva fuori dal film La pazza gioia dove racconta benissimo le contraddizioni della psichiatria italiana di questi anni. Mi venne a cercare nell’ospedale dove lavoro dopo aver letto Il manicomio chimico, a quei tempi era voracissimo di tutto ciò che ineriva il tema, sapeva tutto, ed era appassionato e direi decisamente schierato. Era con noi, con Basaglia, con Marco Cavallo, nel film denunciava le contenzioni, l’elettrochoc, la follia dei manicomi giudiziari, le pasticche facili, insomma, il suo film l’ho trovato molto più potente e immediato di molti saggi o documentari. Direi che è stato, per questo tema, ciò che negli anni Settanta era stato Silvano Agosti, autore di Matti da slegare e del documentario Il volo con cui filmava Basaglia e duecento internati in gita aerea su Venezia. Perciò ho voluto intervistare pure Agosti, testimone di quella rivoluzione. Nicola Lagioia, invece, apparentemente è il meno dentro alla questione manicomi, però è esperto di quel tipo di manicomio che sono le sostanze o gli psicofarmaci. In che senso. Nel senso che con lui i mediatori sono stati due narratori su cui lui è ferratissimo, e che, secondo me, sono stati i massimi esperti dei due manicomi di cui scrivo: Roberto Bolaño dei grandi manicomi concentrazionari dell’America latina, di cui parla nei Detective selvaggi e in 2666, e David Foster Wallace del manicomio chimico, essendo un dichiarato dipendente da antidepressivi, i nuovi psico-cosmetici che alimentano questa nostra contemporanea società della prestazione. Infine Pierpaolo Capovilla, è stato divertente intervistare un cantautore rock di cui, essendone diventato amico, pensavo di sapere già molte cose. Invece viene fuori ancora il fuoco, la passione civile che lo divora, e che ha messo a disposizione della causa dei perdenti. Dei soccombenti, voglio dire, in questa lotta cartesiana tra chi ha la ragione e chi no.


[Su Carmilla:Conversazione con Piero Cipriano, psichiatra riluttante” – P. Cipriano, “Le psichiatrie al lavoro” – P. Cipriano, “Il manicomio che non vuole morire” – P. Cipriano, “Lo specialista pericoloso” – P. Cipriano, “Metapsicologia dell’inanalizzabile” – P. Cipriano, “Il selvaggio Abrahams: tra Bolaño e Basaglia” – Volumi di Piero Cipriano recensiti: P. Cipriano, La fabbrica della cura mentale (2013) – P. Cipriano, Il manicomio chimico (2015) – P. Cipriano, La società dei devianti (2016)]

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