New Wave – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un suq letterario alle porte del cosmo https://www.carmillaonline.com/2022/10/19/il-villaggio-universale/ Wed, 19 Oct 2022 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74046 di Sandro Moiso

Riccardo Valla, SEVAGRAM. Una storia della fantascienza, a cura di G.L. Staffilano e Diego Gabutti, WriteUp Books, Roma 2022, pp.382, euro 25,00

Riccardo Valla (1942-2013) è stato il principale studioso di letteratura fantastica e di fantascienza del Novecento italiano. Curatore di collane, saggista, autore di colti divertissement letterari (tra i quali spicca Il coccige Da Vinci, pubblicato in 19 puntate su Carmilla on line dal 24 maggio 2005 al 24 novembre dello stesso anno e premiato nel 2006 a Fiuggi in occasione della XXXII edizione di Italcon, la riunione annuale degli appassionati di fantascienza italiani), collaboratore di [...]]]> di Sandro Moiso

Riccardo Valla, SEVAGRAM. Una storia della fantascienza, a cura di G.L. Staffilano e Diego Gabutti, WriteUp Books, Roma 2022, pp.382, euro 25,00

Riccardo Valla (1942-2013) è stato il principale studioso di letteratura fantastica e di fantascienza del Novecento italiano. Curatore di collane, saggista, autore di colti divertissement letterari (tra i quali spicca Il coccige Da Vinci, pubblicato in 19 puntate su Carmilla on line dal 24 maggio 2005 al 24 novembre dello stesso anno e premiato nel 2006 a Fiuggi in occasione della XXXII edizione di Italcon, la riunione annuale degli appassionati di fantascienza italiani), collaboratore di riviste e giornali, traduttore tra i più apprezzati. Viaggi nel tempo, scienziati pazzi, universi paralleli, copertine di «Amazing Stories» e di «Weird Tales», fantasmi e chimere, alieni, astronavi, mutanti e scenari postatomici non erano ai suoi occhi, ingenui balocchi da nerd. Erano invece altrettante chiavi per accedere al cuore del sistema operativo della condizione umana nell’era della tecnica, dei totalitarismi e della relatività einsteiniana.

«Sevagram» è una parola che si trova nel romanzo Hedrock, l’Immortale di A.E. Van Vogt (titolo originale: The Weapon Makers, 1947). Non è inglese e Van Vogt l’aveva presa dal Mahatma Gandhi che negli anni Quaranta la usava nel suo significato hindi di “villaggio”. Riccardo Valla la utilizzò per intitolare la fanzine da lui fondata nel 1967, di cui uscirono solo due numeri, ma sufficienti per classificarla tra le migliori tra quelle pubblicate in Italia.

Gaetano Luigi Staffilano (scomparso il 29 aprile di quest’anno) e Diego Gabutti si sono occupati di fantascienza fin dagli anni Sessanta, vuoi per motivi professionali che per una consuetudine contratta fin dalla gioventù, e hanno conosciuto e intensamente frequentato Valla e la libreria specializzata in fantascienza che lo stesso gestì per diversi anni nel centro di Torino, passaggio obbligato all’epoca per tutti gli appassionati di SF e fantastico. Battezzata Sevagram anch’essa e situata in via Volta, costituì per diversi anni anche il suo ufficio dove, con un occhio ai clienti che si soffermavano un po’ troppo a leggere i libri piuttosto che comprarli, continuò a scrivere e tradurre piegato sulla Lettera 22 Olivetti che costituiva il suo armamentario di lavoro (oltre alla vastissima conoscenza di opere letterarie e cinematografiche, pop e non, che costituiva il fondamento su cui costruire, pezzo dopo pezzo, i suoi saggi e i suoi articoli).

Raccogliendo in questa antologia, che dovrebbe forse costituire il primo volume di una riedizione dei saggi e degli articoli di Valla, tutte le introduzioni scritte dallo stesso per le collane della casa editrice Nord di cui fu editor e traduttore, Gabutti e Staffilano hanno dato forma ad una sorta di storia della fantascienza colta e illuminante, oltre che, a tratti, ironica. Caratteristica, quest’ultima, tipica dell’autore torinese.

Tra Jack Williamson e James Ballard, Robert Heinlein e Philip José Farmer, Frederick Pohl e John Brunner, passando per infiniti altri autori classici o meno che sarebbe qui troppo lungo elencare, ma tra i quali è vistosamente assente un autore, oggi di culto, come Philip K. Dick, del quale Riccardo Valla non apprezzò sempre i romanzi, si delinea una linea espositiva più vicina a un work in progress che a un saggio ben ordinato nei suoi sviluppi cronologici. Una sorta di vagabondaggio nel suq di un villaggio cosmico in cui ad ogni svolta si incontrano mostri, alieni, pianeti ostili o desertici, spazi infiniti, cronache del dopo-bomba, astronauti dispersi nel cosmo e esseri umani sperduti a casa loro, cosa che rende, però, la raccolta ancora più leggibile e stimolante.

Anche se, per ora, i testi pubblicati dallo stesso autore su Carmilla, comprensivi di una serie di scritti sui precursori della Fantascienza, e la vasta corrispondenza che intrattenne con numerosi autori tra quelli pubblicati o tradotti, in particolare con James Ballard, sembrano destinati a un volume futuro, ciò non toglie che le trecento e passa pagine di quello presente siano capaci di guidare il lettore per i vicoli e le bancarelle di tale suq letterario, in cui si incrociano storie, periodi, aspetti di un immaginario che si è rivelato inseparabile dalla modernità. Sia nei suoi aspetti utopistici che catastrofici, oltre che avventurosi.

Ma oltre a tutto questo, che già basterebbe a giustifica l’acquisto e la lettura dell’opera, c’è un altro aspetto che va sottolineato, ovvero l’attenzione dei curatori nel cogliere, nell’introduzione a quattro mani, le caratteristiche di una città (Torino), di un periodo e di una generazione che proprio in quell’immaginario caotico, talvolta speranzoso oppure disperato e quasi sempre avventuroso, seppe cogliere la vitalità di una letteratura, considerata snobisticamente “di massa”, ben più al passo coi tempi di quanto potesse esserlo una letteratura considerata alta, colta e imbalsamata in rigidi schemi interpretativi che, nell’italietta semper giolittiana, ideologica e scolastica, hanno iniziato ad essere scardinati, con alterne fortune, soltanto da qualche decennio a questa parte.

All’epoca, gli anni dei Beatles e di Winchester Cathedral, Valla era un fan di J.G. Ballard e della New Wave inglese: la Carnaby Street della science-fiction. Più che per le iperboli e le invenzioni linguistiche di Van Vogt, o per i messaggi sociali della fantascienza engagé, lui tifava per dada e per i surrealisti.
«Come altri scrittori della science-fiction più recente» – scriveva nel 1970 – «Ballard ha riesaminato i vecchi temi utilizzandoli come base della narrazione per inserirvi temi e prospettive nuove. Nei racconti che egli definisce “tradizionali” ha elaborato ipotesi che vanno dalla deprivazione del sonno e le sue conseguenze, ai meccanismi attivatori innati, alle crisi psicologiche di rigetto, alle possibili psicologie “sintetiche”: l’Homo Atomicus di Terminal Beach, la regressione agli stadi filogenetici di Drowned World». E in un’altra occasione, qualche anno dopo, nel 1976: «Una tesi che personalmente ci pare sia sempre più plausibile è che la science-fiction delle origini sia l’equivalente autonomo e americano del futurismo europeo».
Borges pensava che tutta la letteratura (storia e filosofia comprese) fossero sottogeneri del genere fantastico? Valla, come Ballard, era dell’idea che il fantastico moderno (gli aliens, la Fondazione di Asimov, John Carter di Marte, i viaggiatori nel tempo, gli Slan) fosse un parente stretto, se non addirittura il gemello separato alla nascita, delle «avanguardie storiche». E che anzi fantasy e fantascienza, più di dada o del futurismo, sapessero dare forma alle «mitologie del XX secolo» (sempre Ballard dixit).

[…] Non si trattava, naturalmente, di prendere le difese del pop buono, figo, perbene e snob, che si difendeva benissimo da sé. Corto Maltese, Blow Up e Li’l Abner, J.G. Ballard, Brigitte Bardot, Frank Sinatra, On the Road, Barbarella non avevano bisogno d’essere assistiti dagli «avvocaticchi del pop» (antenati caviar dei presenti «avvocaticchi del popolo»). Molto più utile, e molto più difficile, era riconoscere (e difendere da eretici e gentili) le rozze radici popolari di queste culture: il cinema di serie B, le bravate di Mickey Spillane, Blek Macigno, le canzonette sdolcinate, i telefilm di Batman, Clint Eastwood e Sergio Leone prima che la critica babbiona erigesse loro un monumento, Doris Day e il Mulo Francis, Emilio Salgari, la fantascienza delle origini, le Pattuglie dello Spazio e del Tempo, le Armi di Isher, l’Era Hyboriana di Conan il Barbaro, la psicostoriografia di Hari Seldon, le scombinate epopee cosmiche di E.E. Smith, Tex Willer. C’erano liste di riabilitazione da compilare e svarioni culturali da correggere.
Come i surrealisti, che ai tempi loro avevano adottato (e anche un po’ preso a modello) Fantômas e il romanzo d’appendice che soltanto una generazione prima era stato beffeggiato da Marx-Engels nella Sacra famiglia, Riccardo Valla si fece carico, sotto il profilo storico e critico, della fantascienza rustica, ingenua e impresentabile delle origini, all’epoca snobbata anche dallo stesso fandom.

[…] Già con Sevagram, ai tempi del ciclostile, molto prima di lasciare Boringhieri per salire ai piani alti dell’editoria specializzata, Riccardo Valla si muoveva in questa direzione: la fantascienza aveva una storia (per di più avvincente «come un romanzo», come dimostravano per esempio i libri, le antologie e i ritratti di Sam Moskowitz) e andava raccontata al pubblico italiano, che ne ignorava personaggi, avventure, svolte e colpi di scena. Si trattava di ricostruire, con pazienza, ramo dopo ramo, l’albero genealogico del fantastico. Passate le ubriacature del sociologismo à la Galaxy, in via di rapida estinzione anche le fighetterie New Wave della fantascienza inglese, era il momento di passare dall’evviva a questo o quel messaggio tirabaci, sixties style, alla sostanza del fantastico: la materia di cui era fatto. Unico tra i convertiti al fantastico dai primi numeri d’Urania, Valla si dedicò a questo compito filologico con competenza, passione e serietà. Era tempo di mettere ordine, evitando snobismi e bellurie, nell’album di famiglia del fantastico e del moderno immaginario scientifico.
Per farlo, si doveva andare controcorrente, giù per li rami, e fino alle fonti. Ma erano gli anni sessanta e tutto doveva sembrare nuovo, dal look scravattato ai gusti musicali fracassoni. In un certo senso, d’altra parte, era davvero tutto nuovo, compresa la fantascienza, quella «umanistica» (Delany, Zelazny, Le Guin) come quella «tecnologica» e hard (Niven, l’ultimo Clarke, Pournelle). Ci voleva un occhio esperto, l’occhio allenato di Riccardo Valla, per ricostruire a colpo sicuro e senza equilibrismi sospetti l’esatta filogenesi d’ogni singola opera. Come il rock and roll, come Il giovane Holden e Love Me Do di Lennon-McCartney, anche la fantascienza era un fenomeno giovanile, o lo stava diventando.

[…] Erano cambiati d’un tratto i parametri, come a Carnevale, quando per un po’ i potenti calano le arie e i «poracci» (come sono chiamati dai demagoghi) invece alzano la cresta. Urania e l’Editrice Nord restavano. Restava Linus. Ma chi leggeva ancora La Fiera letteraria, Il Verri o Nuovi Argomenti? Isaac Asimov, in libreria, andava come il pane, quasi quanto Agatha Christie e Simenon. Ma nessuno – sotto i trent’anni, e anche sopra – cacciava un copeco per comprare l’ultimo Premio Strega o Viareggio. Chewbecca e C-3PO di Guerre Stellari e il Capitano Kirk di Star Trek erano più popolari, tra gl’intellòs, della nouvelle vague e dell’incomunicabilità. Adesso si parlava di fantascienza, come di fumetti (anche «neri») e di romanzi noir, di musica di consumo, e insomma «del brutto nel bello», senza più storcere il naso come prima che si verificasse questa «singolarità» culturale. D’un tratto non c’erano più differenze apprezzabili né distanze misurabili tra nobile e ignobile1,

In questa lunga citazione è compresa tutta una storia che, in fin dei conti, riguarda anche Carmilla e la sua battaglia per l’immaginario e una generazione che è in parte riuscita a non “dissipare del tutto i suoi poeti”2. Un motivo in più per leggere questo libro (in attesa del seguito).


  1. Diego Gabutti e G.L. Staffilano, Valla, van Vogt e «Sevagram, Introduzione a Riccardo Valla, SEVAGRAM, WriteUp Books, Roma 2022, pp. 7-17  

  2. Il riferimento è a un testo di Roman Jakobson, pubblicato per la prima volta nel 1931, ma in Italia soltanto alla metà degli anni Settanta, dedicato al “problema Majakovskij”: Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, Einaudi, Torino 1975  

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Come e perché cadono i muri https://www.carmillaonline.com/2019/12/04/come-e-perche-cadono-i-muri/ Wed, 04 Dec 2019 22:01:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56410 di Sandro Moiso

Sascha Lange & Dennis Burmeister, Oltre il muro di Berlino. Con i Depeche Mode in Germania Est alla ricerca della scena post-punk e new wave, Goodfellas, Firenze 2019, pp. 196 + un cd allegato con 15 brani inediti di band della DDR, 25,00 euro

L’Antico Testamento ha reso celebre il suono delle trombe con cui furono abbattute, per volontà divina, le mura di Gerico. Nel caso del muro di Berlino la volontà divina oppure quella di Karol Wojtyla, pontifex maximus di una strombazzata riconquista imperiale e cattolica dell’Europa al di là dell’Elba in realtà mai avvenuta, non ci [...]]]> di Sandro Moiso

Sascha Lange & Dennis Burmeister, Oltre il muro di Berlino. Con i Depeche Mode in Germania Est alla ricerca della scena post-punk e new wave, Goodfellas, Firenze 2019, pp. 196 + un cd allegato con 15 brani inediti di band della DDR, 25,00 euro

L’Antico Testamento ha reso celebre il suono delle trombe con cui furono abbattute, per volontà divina, le mura di Gerico. Nel caso del muro di Berlino la volontà divina oppure quella di Karol Wojtyla, pontifex maximus di una strombazzata riconquista imperiale e cattolica dell’Europa al di là dell’Elba in realtà mai avvenuta, non ci azzeccano molto, ma il ruolo del suono, quello sì, rimane.

Lasciato sbollire l’entusiasmo per il trentennale della caduta del muro e lasciate da parte le posizioni da trincea di una guerra mai realmente avvenuta e, forse, nemmeno esistita in potenza tra le forze del Bene o del Male dislocate a Est o a Ovest a seconda degli ormai putrefatti punti di vista con cui alcuni si ostinano a guardare alla Guerra Fredda, può essere utile la lettura (e l’ascolto) del libro (e dei brani musicali) edito recentemente dalla Goodfellas nella sua collana Spittle.

Un testo, quello di Lange e Burmeister, che ci può aiutare a comprendere i fermenti artistici, politici e culturali che pervasero la gioventù della Repubblica Democratica Tedesca negli anni immediatamente precedenti il fatidico 9 novembre del 1989 e le sue cause profonde.
Molto di più delle analisi geopolitiche oppure di quelle incentrate sulla figura di Michail Gorbačëv, autentico battilocchio1 della storia, assurto alla posizione immeritata di gigante della politica o di deus ex-machina di un processo che, ancora una volta, affondava le sue radici e origini nella vita quotidiana, nei fallimenti sociali e individuali, nelle pulsioni e nei desideri repressi di milioni di persone, soprattutto giovani, costrette a viver in un mondo di cui i mezzi di comunicazione di massa e gli immaginari che ne derivavano, producendo a loro volta nuovi ed imprevisti stili di vita, causavano un corto circuito con l’immaginario dominante dei regimi e dei socialismi cosiddetti “reali”. Compresa la noia mortale che era, e rimarrà sempre, espressione del grigiore esistenziale, tipico di ogni regime di qualsiasi colore esso sia.

Riflessione che la storia, non solo musicale, narrata nel libro ci spinge a svolgere non soltanto per il passato, ma anche per il presente in un momento in cui, da una parte, alcuni ostinati conservatori di fasulle ortodossie para-marxiste spargono ancora dubbi e calunnie su movimenti quali quelli dei gilets jaunes o dei giovani di Hong Kong, mentre, dall’altra, una sinistra istituzionalizzata e subdola, perbenista e lontana anni luce dai bisogni reali delle periferie urbane e delle classi diseredate, si eccita come se assistesse ad uno spettacolo osé davanti alle educate e innocue manifestazioni da ZTL convocate dal movimento delle “sardine”.

Manifestazioni ordinate e tutt’altro che pericolose per l’ordine esistente, sia della destra xenofoba che della sinistra parlamentarista, che hanno fatto di Bella ciao, una delle canzoni più trite e ritrite del folklore politico e accettabile soltanto negli episodi salienti della prima stagione della Casa di carta, e dell’inno nazionale italiano una sorta di manifesto disarmante e populista come il nemico che si illudono di combattere.

Già, perché, tornando al nostro tema, oltre alle azioni contano anche i suoni scelti per accompagnarle. E la figura di chi li interpreta anche.
Basta infatti osservare le numerose foto contenute nel testo ed ascoltare con attenzione i settanta minuti di musica proposti dal cd allegato al libro per capire come l’eversione sociale sia anche questione di immagine e di moda, quindi di forme e, in definitiva, di sostanza. E non importa che successivamente, come spesso avviene, immagini e suoni possano essere recuperati dalla società dello spettacolo oppure che gli stessi, in un primo momento, ne costituiscano un utilizzo non previsto dagli ideatori.

L’eversione, come la rivoluzione, vive del momento e sul momento. Momenti che possono essere lunghi o brevi, ma che in un attimo ridisegnano i confini del mondo, portando alla luce ciò che prima non si poteva esprimere oppure non si sapeva nemmeno di voler esprimere.
Nel 1980, Stefan Lasch, jazzista della DDR e vicedirettore della sezione musica presso la radio giovanile DT64, definì così la nuova ondata musicale, la new wave, che stava attraversando la Germania dell’Est:

“Il Punk non ha alcun impatto sull’evoluzione della nostra musica […] in primo luogo, gli elementi di cui si compone non sono altro che i rudimenti del Rock, pertanto risultano inutili ai fini di un eventuale sviluppo del suddetto genere. Inoltre, il Punk trova la sua ragione di esistere esclusivamente in un contesto societario di un certo tipo. Terzo, il Punk si contrappone alle nostre norme etiche e morali di stampo socialista.”

Mai affermazione sarebbe stata più radicalmente rovesciata. Mai la supposta moralità di un socialismo cimiteriale sarebbe stata più decisamente negata. Ma all’epoca nessuno ai vertici del potere avrebbe potuto o voluto dare ascolto a ciò che le strade, i garage e i locali periferici della Germania Est già profetizzavano. Mentre la polizia e gli apparati culturali e repressivi cercavano ancora una volta di far regnare l’ordine a Berlino (Est).

Leggere queste pagine, ascoltare il cd allegato farà probabilmente aprire occhi ed orecchi a molti lettori, giovani o meno, e questo sarebbe il merito più grande degli autori e dell’editore che lo ha pubblicato.
Editore a cui consiglio vivamente, con forza e convinzione, di cercare di far tornare alla luce il bellissimo, documentato e divertente, Compagno Rock (titolo originale Back in the USSR: The True Story of Rock in Russia) di Artemy Troitsky, edito da Vallardi nel 1988 e da allora mai più ripubblicato.

Avrebbe potuto sopravvivere un regime, quello dell’URSS, che costringeva i giovani a comperare ed ascoltare dischi di rock’n’roll venduti clandestinamente e incisi sulle lastra delle radiografie precedentemente utilizzate per le diagnosi mediche? La risposta l’ha già data la Storia, quella con la S maiuscola, che affonda però le sue radici nel quotidiano, e nell’immaginario che lo accompagna, di milioni di potenziali ribelli. Lavoratori, giovani, donne, tutti risvegliati alla coscienza di ciò che avrebbe potuto essere altro per loro magari da un suono elettrico ed esplosivo, come quello dei Rage Against the Machine ascoltati dai giovani combattenti curdi del Rojava mentre andavano incontro alle truppe di Erdogan all’inizio dell’invasione turca del loro territorio.


  1. Battilocchio è nome che definisce a Napoli un individuo lungo, dinoccolato, frastornato. La storia di questo termine risale alla dominazione francese, quando si diffuse anche a Napoli una cuffietta femminile che con la sua falda copriva in parte la vista a chi la indossava (si chiamava appunto battant l’oeil). Avendo poco campo visivo, la persona che la portava assumeva un’espressione frastornata: di qui la trasposizione metaforica napoletana per indicare una persona che sembra non vedere, ma per incapacità intellettiva. Termine usato spesso da Amadeo Bordiga nei suoi scritti destinati a criticare il ruolo della “personalità” nella Storia ufficiale che, troppo spesso, ha fatto assurgere un singolo individuo a una posizione determinante per il corso delle umane vicende, ma i cui contorni, invece, sono decisamente determinati dai secondi e dalle forze sociali e materiali che si muovono al di sotto della superficie evenemenziale in un continuo moto di correnti carsiche che si palesano pienamente soltanto al loro esplodere o implodere  

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MUSICA STRANA – Intervista a Fabio Zuffanti https://www.carmillaonline.com/2016/12/20/musica-strana-intervista-fabio-zuffanti/ Tue, 20 Dec 2016 22:21:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35376 di Dziga Cacace

fabio-zuffantiErano i primi anni Settanta quando il genere musicale rappresentato da gruppi come Yes, King Crimson o Emerson Lake & Palmer assunse il nome di progressive, quasi a significare la volontà di rompere ogni barriera, di spingersi sempre oltre ogni limite e di mescolare qualunque influenza, senza costrizioni. Si arrivava da esperienze come quella dei Nice, dei Colosseum o dei Traffic e oggi, a posteriori, possiamo considerare compiutamente prog – secondo l’accezione originaria del termine – le esperienze di tantissime band poi diventate globali senza etichetta, se non genericamente rock, come i [...]]]> di Dziga Cacace

fabio-zuffantiErano i primi anni Settanta quando il genere musicale rappresentato da gruppi come Yes, King Crimson o Emerson Lake & Palmer assunse il nome di progressive, quasi a significare la volontà di rompere ogni barriera, di spingersi sempre oltre ogni limite e di mescolare qualunque influenza, senza costrizioni. Si arrivava da esperienze come quella dei Nice, dei Colosseum o dei Traffic e oggi, a posteriori, possiamo considerare compiutamente prog – secondo l’accezione originaria del termine – le esperienze di tantissime band poi diventate globali senza etichetta, se non genericamente rock, come i Pink Floyd, i Jethro Tull o i Deep Purple. Quella a cavallo tra anni Sessanta e Settanta fu una stagione creativa eccezionale (anche in Italia, a partire dai nostri Big Four: Area, Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso e Orme) ma col passare del tempo i canoni esecutivi e compositivi del genere cominciarono a cristallizzarsi, specie dopo la crisi di fine anni Settanta, con l’affermazione del punk e della New Wave. Adesso progressive significava troppo spesso tempi dispari, inserti classicheggianti ed esibizioni autoindulgenti di virtuosisimo senza una reale tensione creativa. I cultori del genere si offenderanno ma la musica “progressiva”, col tempo, è diventata per molti sinonimo di scelte reazionarie piegate alla riproposizione e all’inseguimento di una mitica età dell’oro, anticipando la nostalgica conservazione che oggi investe tutto il rock “classico”. Per fortuna ci sono le dovute eccezioni, grazie a chi continua a pensare alla musica come un organismo vivente, che cresce affrontando nuove esperienze e si arricchisce senza star ferma in un recinto. È successo a livello mondiale con Steven Wilson e, in Italia, è sicuramente il caso di Fabio Zuffanti: un quarantenne genovese che del prog nazionale è un po’ il guru nonché il più popolare interprete, anche all’estero, con una carriera iniziata negli anni Novanta e ora nella massima maturità. Prolifico e mai fermo, Zuffanti è responsabile di band come i Finisterre o La Maschera di Cera, di progetti sinfonici sui generis come gli Höstsonaten, di rock opera, di innumerevoli collaborazioni e ovviamente di una produzione a nome proprio che comincia a farsi sempre più corposa e che annovera titoli di altissimo valore come La foce del ladrone e La quarta vittima.
Fabio: qual è il percorso che porta un ragazzo, negli anni Ottanta a decidere di suonare musica prog?
Credo sia stata una spinta inconscia, una sorta di attrazione, un tentativo di andare oltre le solite cose e cercare di esplorare mondi musicali diversificati. Sono cresciuto con un fratello maggiore che aveva una cameretta colma di dischi e libri. Erano gli anni Settanta e io ero bambino, i suoni che uscivano dalle casse erano spesso quelli di King Crimson, Genesis, Gentle Giant e altri similari. Musiche (e copertine, fattore che scatenava ancora di più la fantasia) delle quali subivo la fascinazione, pur non capendo bene chi o cosa fossero. Ma non solo, il fratello era abbastanza onnivoro musicalmente e verso la fine del decennio prese ad ascoltare anche Talking Heads, Clash, Joe Jackson e altra New Wave assortita. Ecco quindi che mi ritrovo a 14 anni, 1982, ad avere già assorbito un bel po’ di mondi musicali. Io dal canto mio all’epoca scoprivo il Battiato “pop”, i cantautori, altra New Wave di stampo più elettronico (Ultravox su tutti). Scatta anche la voglia di imparare a suonare la chitarra; il solito fratello era stato bassista in alcune formazioni cittadine e lo strumento campeggiava nella sua camera assieme ad alcune chitarre e a una pianola elettrica. Insomma, tanti strumenti e da parte mia la voglia di scoprirli. Così mi metto di buona lena e riesco a cavarne qualcosa. Per me il metodo DIY era, e resta, il più funzionale quando voglio imparare qualcosa, non ho mai avuto un maestro di musica o cose del genere. Mi ci butto e fino a che non riesco a trovare un modo per esprimermi non ne esco. Così ho fatto con gli strumenti. Alla fine tra tutti quelli che armeggiavo ha vinto il basso che reputavo il più affascinante, ritmo e note allo stesso tempo, un qualcosa anche di molto sensuale se vuoi, con quelle frequenze che ti prendono allo stomaco. A metà anni Ottanta al liceo scoppia la U2-mania. Da lì a mettere su una band per eseguire cover degli irlandesi il passo è breve. Ma a quel punto io sono già imbevuto di tonnellate di ascolti diversificati e ogni volta che si tratta di comporre qualcosa di personale ecco che scatta la voglia di metterci il cambio di tempo, l’assolo più lungo del previsto, la stranezza. Ma facevo ciò in maniera del tutto inconscia, solo non reggevo di fare quattro/cinque/sei pezzi sempre uguali e con la stessa struttura strofa/ritornello. Dovevo sempre mischiare un poco le carte in tavola, ma non per volere fare prog a tutti i costi, ma perché non amo le cose che sono sempre e solo uguali a loro stesse, ho bisogno di variazioni, di sorprese, di contaminazioni impreviste. Dopo il gruppo del liceo, ad inizio Novanta entro in una band chiamata Calce & compasso, di stampo blues/cantautorale. E anche lì, appena presa un po’ di confidenza, ecco scattare i miei input per allungare i pezzi, per mettere nella stessa canzone più elementi. Il gruppo nel 1993 cambia nome in Finisterre e a quel punto la metamorfosi è completa. Complice anche l’ingresso di Boris Valle, un tastierista imbevuto di classicismo, minimalismo e studio della contemporanea (Berio, Nono, etc.) i Finisterre diventano una band prog. Ma l’idea di base non è mai stata quella di rifare i Genesis, semmai quella di scardinare le strutture e inserirci dentro più elementi possibile. Non siamo  mai stati dei nerd del prog per cui o c’è il sinfonismo alla Genesis, Yes e EL&P o niente: ho troppe cose in testa, troppi ascolti e influenze variegate, per fermarmi a un solo aspetto del meraviglioso mondo progressive.
Perché il prog è stato considerato un genere “di destra”? Tu hai mai sofferto questa identificazione?
Assolutamente no; a Genova nei primi Novanta suonavamo spesso coi Finisterre in eventi organizzati dalla FGCI e nessuno di noi aveva idee destrorse, anzi, e mai nessuno ha osato tirarmi fuori discorsi sul prog di destra e cose del genere. Mi sarei arrabbiato molto. Il tutto nasce dal fatto che negli anni Settanta questa musica aveva una patina un poco ambigua, da una parte era seguitissima e molto apprezzata da tutti i giovani del Movimento, dall’altra raramente prendeva posizioni politiche. Spesso i testi erano favolistici, metaforici, psicologici. In realtà invece tutto ciò nascondeva grandi riflessioni nei confronti dell’esistenza, ma era un qualcosa che bisognava sforzarsi di andare a cercare, non era subito messo in evidenza. Da questo punto di vista vinceva chi mostrava in pieno la sua militanza, vedi gli Area. Avevano vita dura invece formazioni tipo il Museo Rosenbach: misero in copertina un collage nel quale spicca un busto di Mussolini. Il gruppo venne bollato come destrorso e la loro carriera ne risentì molto. Chiaramente sono aberrazioni, il Museo Rosenbach non intendeva certo fare l’apologia del duce, trattando però un concept sullo Zarathustra nietzschiano c’era di mezzo anche tutto un discorso sul potere, da qui il riferimento. Sono cose un po’ più sottili, alle quali accostarsi con un’adeguata apertura mentale.
Il prog come lo intendi tu è una musica effettivamente “progressiva”, secondo il significato originale del termine, senza barriere. Io oggi questa libertà però la vedo soprattutto in certo jazz e in tutte le esperienze musicali indefinibili, che fuggono programmaticamente un genere.
Il prog per me è una palestra che in primis mette in gioco me stesso e la mia apertura verso altri mondi, musicali e non. E la libertà che esprime è impagabile. Come dici tu, oggi come ieri, è il jazz che cerca sempre la contaminazione ma non credo che il prog abbia perso la sua voglia di abbattere steccati. Mi spiego: ascolto tanti demo e cd di gruppi giovani ed è vero che in molti casi questi cercano sempre di scimmiottare gruppi importanti, ma ci sono anche ragazzi che si trovano in sala e non si accontentano di fare la canzone da tre minuti e stop. Certo volte esagerano coi virtuosismi, con le seghe mentali e con strutture troppo complesse ma l’approccio è quello giusto: non fermarsi, andare oltre! Quindi è comunque un esercizio che fa bene, alle mani e alla testa. Poi c’è sempre tempo per affinare la proposta, cercare l’originalità e comporre musiche che arrivino veramente.
a4183923227_10Il mio essere onnivoro a volte ha fatto sì che avessi il desiderio di fare magari un passo indietro rispetto alle strutture “aperte” del prog e mi venisse voglia di fare il percorso opposto, ovvero provare a vedere cose succedeva se deliberatamente mi richiudevo entro le strutture della canzone tout court. È un modo come un altro da parte mia di abbattere uno steccato, solo che invece di combatterlo mi ci rinchiudo cercando di capire come posso cambiarlo da dentro. Con i Finisterre abbiamo sperimentato più volte con la forma-canzone e io in particolare le ho dedicato un intero album (La foce del ladrone, del 2011). Il disco è andato benissimo ma il responso da parte della frangia più oltranzista dei miei fan è stato disastroso. Non ci sono state nemmeno critiche negative, ma proprio disinteresse. Fortunatamente una parte del pubblico che mi segue è curioso, altri tirano su la testa solo quando leggono i nomi Höstsonaten, la Maschera di Cera, Finisterre, ovvero nomi sicuri e dalle quali non ci si vuole attendere sorprese. Mi dicevi di avere trovato in Autumnsymphony di Höstsonaten diversi elementi jazz che potrebbero non dispiacere a un ascoltatore di quel genere: quell’album è stato uno dei meno capiti di Höstsonaten. Detto ciò io comunque faccio la mia strada e se mi venisse voglia di fare un disco rap lo farei.
Tu sei molto attivo: pubblichi, produci, scrivi. Sei un punto di riferimento nel genere che suoni. Perché non si riesce ad aggregare tutte le energie che ci sono in giro? È un problema storico attuale o più una peculiarità negativa dell’Italia?
La tua domanda è il quesito del secolo per me. Ciò che posso dirti è che conduco da anni una lotta per l’abbattimento di molti steccati. Posso essere anche d’accordo con chi preferisce “schierarsi” a favore di un genere piuttosto che un altro e sposarne filosofia e peculiarità; il metallaro, il jazzofilo, l’indie rocker, il classicista, il dark e via dicendo. Ma ci deve essere anche una strada che inglobi tutte le direzioni, anzitutto perché di curiosi come me ce ne sono molti più di quanto si pensi e poi perché mischiare le carte fa sempre bene all’elasticità mentale. Invece è tutto molto chiuso e settoriale, lo vedo col progressive: ad ogni evento ci sono solo gruppi prog che si portano dietro il (selezionatissimo) pubblico prog e quindi non se ne esce. Invece sogno concerti dove ci siano artisti diversi a condividere lo stesso spazio in modo che sia chi sta sopra il palco sia chi sta sotto possano arricchirsi, a livello di conoscenze ed emozioni. Purtroppo prevalgono i compartimenti stagni, le piccole nicchie che non comunicano tra loro. Io cerco di rendermi più trasversale che posso, specie nella frequentazione e collaborazione con musicisti diversi che possano aprirmi a nuove esperienze. Non me ne frega nulla di chiamare Steve Hackett a farmi un assolo su un disco, è la cosa più banale e poco “progressiva” che potrei fare. La sfida è chiamare, chessò, Manuel Agnelli a cantare una suite da venti minuti. Vedere cosa ne ricavo io e cosa ne ricava lui, da questa unione. Solo mettendo assieme esperienze diverse, senza paura e con la giusta forma mentis si potrà creare qualcosa di grosso e uscire per una buona volta da questa impasse infinita. Ogni anno organizzo il mio Z-Fest e cerco di proporre proprio questo; trasversalità! È dura ma con il giusto impegno i risultati non mancano.
In Italia si riesce a vivere di musica, al di là dei generi?
Non posso parlare dei colleghi perché ognuno ha la sua storia, le sue esperienze, le sue esigenze e le sue fortune o sfortune. Personalmente, dopo anni di sacrifici, sono arrivato al punto di riuscire a pagare l’affitto, le bollette e quel poco che mi serve per vivere. Certo, propongo cose non proprio popolari, quindi un po’ questa fatica me la sono anche cercata ma questo è quello che il mio cuore mi dice di fare e questo faccio. Sopravvivo grazie alle vendite dei dischi, ai diritti d’autore, alle produzioni per altri artisti, ai libri e a tanti lavori in campo musicale. Più difficile, invece, vivere di solo live.
fabio-zuffanti-zband-20Chi è che racconta l’Italia di oggi, adesso, secondo te? Sono veramente i rapper?
Mah, se il rapper sa raccontare bene e riesce a essere veramente lo specchio dei nostri giorni, come lo sono stati in diverse epoche molti altri autori, perché no? Ma il rapper deve essere tosto, io ad esempio amo molto Dargen D’Amico, uno che sperimenta con le parole e con la musica e quando rappa quello che dice colpisce: è intelligente, ha cultura e poesia. Oppure apprezzo certo rap militante (penso agli storici Assalti Frontali). Purtroppo il rap oggi è al 90% una cosa da ragazzini con storie da e per ragazzini. Anche quello è un modo di raccontare il mondo di oggi, quindi ci sta, però io non riesco ad ascoltarlo. Certo rap adolescenziale non lo ascoltavo a 16 anni, figurati ora. A parte poche eccezioni trovo i cantautori di oggi (specie quelli indie) molto deludenti, a volte dei poseur buoni solo per far breccia su un pubblico che si accontenta e segue la moda del momento. Bada: detto questo, non sono assolutamente oltranzista nei confronti dell’indie italiano. Anzi, è una realtà che mi incuriosisce assai perché nell’indie tutto sembra possibile, musiche “strane”, personaggi fuori dagli schemi, robe anti-classifica. È tutto più libero! Inoltre c’è un ottimo giro concertistico, bei locali, un pubblico folto, curioso, acculturato. Il rovescio della medaglia è che se non rispetti certe caratteristiche – anche proprio fisiche, di abbigliamento e atteggiamento – non puoi far parte di quel giro. Un giro fatto di etichette, siti e situazioni varie che rappresentano comunque una delle poche valide alternative al pop mainstream.
Gli artisti che apprezzo nel giro indie (e dei quali, in alcuni casi, sono amico e collaboratore) sono tanti. Te ne cito alcuni: Bachi Da Pietra, Beatrice Antolini, Alessandro Grazian, Colapesce, Fuzz Orchestra, Giardini Di Mirò, I Cani, Iosonouncane, Julie’s Haircut, Massimo Volume, Teatro Degli Orrori, Bologna Violenta, Mariposa… Tutta gente che come me ha un approccio che mette innanzi a tutto la voglia di esprimere qualcosa con qualsiasi mezzo e qualsiasi sforzo, prima della tecnica strumentistica. Loro sono un po’ dei figli evoluti del punk. E anche io mi sono sempre sentito facente parte di quella scuola. Però ho fatto prog che è un po’ un controsenso… ma io nei controsensi ci sguazzo: vuoi mettere la soddisfazione di quando riesci a fare qualcosa passando per la strada meno agevole?
C’è qualche esperienza prog italiana storica, tolti PFM, Banco, Orme e Area, che tu reputi straordinaria? Una chicca da consigliare ai nostri lettori?
Ne cito una per tutte, in quanto stella di prima grandezza: Ys del Balletto di Bronzo. Anno 1972, un album incredibile, tra sinfonismo novecentesco alla Bartok/Messiaen/Stravinskij, rock acido e delirante, atmosfere lugubri e opprimenti. Per me un must, uno dei dischi più rivoluzionari partoriti in terra italica.
Prima hai citato tuo fratello. E tuo padre come vedeva questa “tua” musica?
Anche lui suonava la chitarra e, ancora prima di mio fratello, mi ha insegnato i primi accordi. Era un grande appassionato d’opera ma non era chiuso ad esempio nei confronti del rock. Sapeva quali erano i suoi gusti e li coltivava, pur con le ristrettezze di mezzi della nostra famiglia, che lui sosteneva con il lavoro di operaio all’Italsider. Poi invecchiando forse non ha mai compreso bene quello che facevo, perché avessi compiuto scelte così impopolari a livello sociale (fare il musicista piuttosto che un altro lavoro più remunerativo) e soprattutto non capiva come mai, se facevo così tanti dischi e della gente mi stimava, non ero diventato ricco e famoso. Domande alle quali non sapevo rispondere, se non dicendo che faccio musica “strana”, particolare, per un pubblico di nicchia. Se ne è andato lasciandomi il rammarico di non avergli fatto capire a fondo a cosa hanno portato (nel bene e nel male, indipendentemente da fama e soldi) quei due accordi che mi ha insegnato quando avevo 13 anni.
Su cosa stai lavorando adesso?
In questo periodo sono molto concentrato sulla preparazione del mio nuovo album solista, previsto per l’autunno 2017. Con questo lavoro sto esplorando una via “rivoluzionaria” al concetto di prog ed è possibile seguirne lo sviluppo sulla mia pagina Facebook. Poi a gennaio uscirà un progetto a cui ho preso parte, promosso da Mox Cristadoro, nel quale, con altri amici musicisti, ci siamo divertiti a stravolgere e rendere prog, hard e psichedelici diversi pezzi di cantautori italiani storici. Inoltre ho in via di pubblicazione un album noise-metal con il progetto R.U.G.H.E., la registrazione di un reading assieme allo scrittore Antonio Moresco e un EP di canzoni “out” e a marzo sarò a Milano con la nuova edizione dello Z-Fest, il mio mini-festival, prima di partire per un tour in nord America. Non starò fermo, insomma!

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Hallelujah (Taranto new wave) https://www.carmillaonline.com/2014/01/09/hallelujah/ Thu, 09 Jan 2014 22:59:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11859 di Girolamo De Michele

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[Questo testo è stato pubblicato come “Pre-Fazione” al libro di Sergio Maglio Taranto new wave. Dalla byte generation al Great Complotto (Scorpione Editrice, Taranto 2013, pp. 204, € 16.00). Il libro è introdotto/concatenato dal video Taranto new wave].

Now I’ve heard there was a secret chord That David played, and it pleased the Lord But you don’t really care for music, do you? Leonard Cohen, Hallelujah

1. Spellbound

“You hear a laughter cracking through [...]]]> di Girolamo De Michele

taranto_nw

[Questo testo è stato pubblicato come “Pre-Fazione” al libro di Sergio Maglio Taranto new wave. Dalla byte generation al Great Complotto (Scorpione Editrice, Taranto 2013, pp. 204, € 16.00). Il libro è introdotto/concatenato dal video Taranto new wave].

Now I’ve heard there was a secret chord
That David played, and it pleased the Lord
But you don’t really care for music, do you?
Leonard Cohen, Hallelujah

1. Spellbound

“You hear a laughter cracking through the wall
It sends you spinning You have no choice”
(Siouxie and the Banshees, Spellbound)

Ma chi gliel’avrà fatta fare, a Sergio Maglio, di aprire il vaso di Pandora della memoria e far volare fuori quei pezzi di carta, quelle foto, quei versi, quelle memorie di una stagione all’inferno? Non è infilando nella piaga il dito intinto nella tintura di iodio che si fanno i libri di successo, oggi che Taranto è diventata una città della quale tutti hanno detto che… Non poteva anche lui fare un rassicurante copincolla di cose già scritte, invece di riavvolgere lo spaziotempo e farlo scorrere dal presente al passato? E soprattutto, non poteva evitare di mandarmi un anno fa questo manoscritto dentro il quale, come nella macchina scacchistica di Poe, si nascondeva il nano gobbo dei ricordi?
No: non poteva. Per dirla con García Márquez, fa’ che arriva sempre un guastafeste a ricordare ciò che tutti cercano di dimenticare. E a chiederti di scriverci sopra qualcosa, con il cuore in mano e la tastiera bagnata di sangue.
E come si fa a scrivere della New Wave ‘mbra le cozze, senza riaprire il quaderno della nostra Spoon River, senza ricordare i fratelli che non sono più fra noi – Giorgio caduto in un fosso, e Virus e Franco portati via dalla peste, e Peppe e Samuele e Laura morti in uno schianto, e… Rain on You, fratelli e sorelle: per voi ci sarà sempre Jeff Buckley – Maybe there’s a God above – a cantare un hallelujah.

La New Wave, dunque. Quella che nelle storie della musica, ordinate come i grani di un rosario, arriva dopo il punk, che arriva dopo il rock. Ma a Taranto, il punk non c’è stato. E, in fondo, neanche il rock. C’erano nicchie, amici che si riunivano nelle case attorno a un piatto che ruotava, sette devote a Canterbury e alla Corte del Re Cremisi, pacchi di dischi comprati per corrispondenza: ma a farla da padrone erano, fuori tempo massimo, ancora gli America e i Genesis. Solo una minoranza si nutriva dell’utopia di un mondo nuovo che avremmo costruito, di magnifiche sorti e progressive che anche il rock ci raccontava. C’è ancora tempo per il giorno, quando gli occhi si riempiono di pianto, cantavamo senza sapere che quel tempo era agli sgoccioli, e i giorni del pianto erano alle porte. A Taranto, come altrove.
La Brith Invasion, l’arrivo della New Wave, ha significato questo, in Italia come a Taranto: la presa di coscienza della fine del sogno di un assalto al cielo. Schiacciato in vicoli sempre più stretti, tra lo Stato che alzava il tiro e un’altra parte che alzava i muri usando il cemento fornito dallo Stato, il movimento che voleva tutto e subito aveva abdicato a un potere che aveva le mani pulite solo perché a sparare mandava i gendarmi, e a mettere le bombe i fascisti. Billy the Kid era stato ucciso, avevano vinto i Pat Garrett, i pentiti, quelli buoni a vuotare un sacco che non avevano mai riempito. Quelli bravi a spiegarci che il mondo non può essere cambiato, solo amministrato. Un mondo sul quale il punk insegnò a sputare, a noi che avevamo Anarchy in U.K. e My Generation scritte sul banco di scuola e facevamo incazzare la professoressa (e adesso che sui libri di storia quelle canzoni sono riportate tra i documenti, mi consenta, professoressa: avevamo ragione noi!).

A Taranto, in un’epoca nella quale le informazioni non circolavano più attraverso il circuito politico, ma attraverso quello musicale – continuazione della politica con altri mezzi – toccò alla new wave prendersi la responsabilità dell’unico gesto etico possibile davanti a questo mondo: vomitarci sopra.
Leggete i testi di Siouxie, dei Joy Division, dei primi Cure, dei Sound. Leggete i testi, i documenti, i poemi che troverete in questo libro. Provate a guardare una luna piena senza sentire Jan McCulloch cantare Killing Moon. Riascoltate le sonorità basse e cupe di quei dischi, di quei gruppi, e capirete.
Lo squallore delle periferie suburbane e delle città industriali; la precarietà come condizione permanente; la depressione e il panico come cifra sociale di una società irretita dalle passioni tristi. Il punk aveva gridato No Future – non preoccuparti del tuo futuro, tanto non ce l’hai! –, ma non aveva saputo (tranne qualche singolo caso: i Dead Kennedys di Jello Biafra) andare oltre l’espressione di superficie; la new wave articolava l’urlo strada per strada, quartiere per quartiere, scrostando dai muri ogni residua patina di ottimismo (che restava buono per i parrucchieri di Sheffield). Lo spazio metropolitano veniva compreso e rappresentato come una gigantesca, onnipresente fabbrica, le cui patologie invadevano come metastasi ogni angolo del sociale: e le tragedie personali di Ian Curtis e Adrian Borland ne divennero la rappresentazione più emblematica. Non è un caso che il gruppo forse più amato, a Taranto, sia stati The Sound, altrove misconosciuto e malcompreso, nella sua cupa grandezza: lo capì anche Adrian Borland, quando all’apertura di un concerto bolognese si trovò un manipolo di tarentini che attaccarono I can’t escape myself con mezza battuta d’anticipo: e concesse loro, stupito, l’intera prima strofa, prima di cominciare a cantare.
Fu una liberazione: perché neanche quel rock che a Taranto si ascoltava sì e no aveva detto con tanta chiarezza che questo mondo fa schifo. Cos’era, il mito della classe operaia che avrebbe liberato il mondo dallo sfruttamento, se non un nascosto elogio del progresso e dell’industria? Era una forma di asservimento del movimento operaio, di subordinazione ai movimenti del capitale, interiorizzati come necessità economica: fino alla conseguente distruzione di quel movimento operaio ufficiale che anche a Taranto era servito, nel ’77-’78, come cane da guardia del capitale. Forse per questo a Taranto “Rosso”, assieme a “Primo Maggio” l’unico giornale dentro il movimento (otre ca agitprop: da ‘u spedale vuè ‘cchianne ‘a salute?) capace di aprire gli occhi su quanta merda ci fosse nella condizione di assoggettamento alla catena di montaggio, non era arrivato.
E a Taranto la fabbrica significava Italsider e Cementir: Siderlandia.

2. I can’t escape myself1

“I’m sick and I’m tired of reasoning / just want to break out shake off this skin / I can’t escape myself”
(The Sound, I can’t escape myself)

ranxMa come si è arrivati a questa situazione? Per capirlo, bisogna fare un passo indietro, perché Taranto non è descrivibile con le chiavi di lettura della mancata o incompiuta modernizzazione del meridione: mentre le realtà meridionali “saltano” direttamente dalla realtà urbano-rurale all’affermazione del terziario, Taranto rappresenta un caso da manuale di sussunzione della società all’interno della fabbrica. Lo si capisce focalizzando l’attenzione sul “metalmezzadro”, quella strana anomalia che Walter Tobagi colse in un’inchiesta su Taranto nel 1979: «il vero protagonista sommerso si chiama metalmezzadro. È metalmeccanico, lavora nello stabilimento Italsider grande due volte e mezzo la città. Abita nei paesi della provincia e trova il tempo per coltivare il pezzo di terra» (Walter Tobagi, Il «metalmezzadro» protagonista dell’economia sommersa al Sud, “Corriere della sera”, 15 ottobre 1979).
Nella stessa inchiesta, Tobagi coglieva «la “contraddizione” tra l’enorme concentrazione industriale di Taranto e il vuoto che c’è attorno». Contraddizione esemplificata dalla vertenza dei lavoratori delle ditte appaltatrici, risolta con l’uso consociativo e assistenziale della cassa integrazione concordato coi sindacati: «l’Italsider assicura una discreta quota di benessere medio, ma non ha determinato quel decollo della regione che molti speravano quando si gettarono le fondamenta di questa cattedrale della siderurgia. Le spiegazioni sono tante: mentre cresceva la fabbrica nuova, decadevano i cantieri navali e l’arsenale, che furono la prima base industriale della città».
Tobagi aveva già colto le linee essenziali del rapporto tra città e fabbrica: captazione della ricchezza sociale all’interno della fabbrica, con l’impoverimento delle altre risorse del territorio; mancata restituzione al territorio della ricchezza prodotta; attitudine consociativa dei sindacati — che si espresse in particolare nel fornire al PCI i servizi d’ordine utilizzati per spazzare via dalle piazze il movimento, indebolito dall’assenza di una componente studentesca (l’assenza di un’università costringeva all’emigrazione i diplomati che non entravano in fabbrica) e dalla moderazione del ceto operaio.
Aggiungiamo altri due elementi, interni allo sviluppo edilizio. La città diventa oggetto di un faraonico piano regolatore che trasforma in terreno edificabile l’intera area tarantina, dando l’avvio a una speculazione che si è concretizzata nella costruzione di falansteri e quartieri-ghetto, con la conseguente deportazione in orribili periferie (il cui governo, negli anni Ottanta, è stato garantito dai clan malavitosi locali) degli abitanti dei quartieri popolari lasciati in malora – prima tra tutti la Città Vecchia, e la creazione di un potente ceto di costruttori, intrecciato a filo doppio con la malavita locale. L’emblema dell’arroganza di questo ceto è il grattacielo costruito sul percorso del lungomare che, se avesse raggiunto il faro di San Vito abbracciando il Mar Grande di levante, sarebbe stato di straordinaria bellezza.
Accanto a questa speculazione “borghese”, una selvaggia speculazione “proletaria”, incarnata dall’operaio urbano che si costruiva, spesso con le proprie mani e in regime di abusivismo edilizio, la casa al mare, devastando un litorale tutto dune di sabbia e pinete marine: l’individualismo proprietario, inoculato dalla fabbrica nell’operaio-massa tarantino, si è concretizzato in uno scempio ambientale che ha cancellato la possibilità di sviluppare un’industria del turismo paragonabile a quella del “rinascimento del Salento”.
In questo modo si crea a Taranto una peculiare composizione di classe, senza soluzione di continuità: il metalmezzadro fa da giuntura tra il contadino e l’operaio; l’operaio metalmeccanico che allarga la fascia di reddito con gli straordinari assume lo stile di vita del piccolo borghese proprietario; la piccola borghesia commerciante avvicina il proprio stile alla borghesia parassitaria, quella che scimmiotta la borghesia settentrionale intravista nelle figure di dirigenza e controllo della fabbrica (ma isolata dal contesto urbano). Il collante di questo continuum sociale è la Fabbrica, il Moloch magnifico e progressivo che nessuno mette in discussione.
Negli anni Ottanta, la crisi della siderurgia apriva le porte all’unica alternativa sociale disponibile alla miseria: la produzione illegale di reddito e la formazione di una “seconda borghesia” malavitosa che si è aggiunta alla “prima”, colmandone il deficit di forza sociale dapprima attraverso un’accumulazione originaria di capitale derivante dal controllo e dall’espansione, in regime di monopolio, del mercato delle droghe leggere (spazzando via il freak che tornava dall’India o dal Marocco) e pesanti (diffondendo dapprima l’eroina, e poi la coca), e dell’imposizione di una governance criminale dopo una feroce guerra intestina; e poi attraverso il controllo degli appalti, dei sub-appalti e dell’edilizia, all’assorbimento all’interno della borghesia locale di soggetti provenienti dalla circolazione “legale” del capitale “illegale” (cioè dal riciclaggio del denaro “sporco” in attività formalmente “pulite”), sottoposta a quella particolare forma di controllo che è la governance del debito — dall’usura al gioco d’azzardo: non dimentichiamo che la Puglia è stata la porta d’ingresso di quella autentica peste dell’immaginario neo-borghese che è il burraco. Le giunte comunali Cito e Di Bello troveranno linfa e ragion d’essere in questo humus, mentre l’inquinamento del Mar Piccolo, determinato sia dagli scarichi della fabbrica che dalla dispersione di materiale inquinante durante le attività portuali, infligge un ulteriore colpo alla sopravvivenza dell’economia ittica e alla mitilicoltura.
È in questo contesto sociale che verrà fuori Giancarlo Cito, un ex mediocre picchiatore fascista (più fuggiasco che inseguitore) dalla reputazione esagerata a dismisura dalla chiacchiera indigena che favoleggia di piazze insanguinate, interno, come i processi hanno attestato, alla malavita locale: la cui figura resta enigmatica come la venuta degli Hyksos, se non si coglie la composizione delle forze sociali e degli interessi che lo hanno sorretto, e il suo legame col sistema-fabbrica al quale si dichiarava, falsamente, estraneo, e al quale è invece organico.
È questa la città sulla quale la new wave eserciterà una critica senza sconti.

3. Grinding Halt

“Everything’s coming to a Grinding Halt”
(The Cure, Grinding Halt)

A Taranto non era arrivato “Rosso”: ma arrivò la “Makina Metropolitana”.
E non arrivò dal nulla.
Lo_SassoL’anno chiave è il 1980. Racconta, questo libro, del concerto di Lou Reed ad Avellino, che testimoniava un’insaziata fame di musica: il sottoscritto calcolò con cura i tempi della preparazione per l’esame di maturità, per esserci. Altri tarentini fuorisede (oggi li si direbbe cervelli in fuga), in quegli stessi giorni, scoprivano i Clash in piazza Maggiore. Poi i flussi cominciarono a intrecciarsi: chi partiva si incrociava con chi tornava, e con chi faceva avanti e indietro, socializzando le esperienze di una scena musicale che finalmente si riapriva ai grandi concerti – i Devo, i Bauhaus, i Pere Ubu, di nuovo i Clash. Eccetera.
Da questi incroci germinarono il Voltage Control, i Panama Studios2, la Makina Metropolitana, la mostra Taranto-Berlino. Era nata una generazione che tradiva le proprie appartenenze: il figlio dell’avvocato non sognava di fare l’avvocato, il figlio dell’operaio non sognava l’Italsider, e tutti e due, invece di sognare, suonavano, e suonando compivano la mossa fondamentale di ogni azione politica: tracciavano una chiara distinzione tra il proprio campo e quello avverso.
Qualcuno diceva: utopie, frikkettonate. Come oggi, davanti alla rivolta contro la fabbrica della morte e all’utopia di una città liberata dall’Ilva: squadrismo teppistico, idee masticate male e aria consumata, detriti del passato e rabbia implosa nel presente. E la fabbrica buona, quella che non inquina e non uccide, lo Stato che promuove un sistema industriale rispettoso della salute e della vita e non del profitto, invece, cos’è? Realismo lirico? L’avete mai vista, una fabbrica, una classe politica, uno Stato come quello di cui favoleggiano i riformisti sempre bravi a fare la critica del presente, ma a condizione che non cambi quel presente di cui abbisognano per poter fare la loro critica?

È un caso che, come scrive Sergio Maglio, «la porta che si stava cominciando ad aprire verso il mondo giovanile venne dunque precipitosamente chiusa, soprattutto per una scelta compiuta dalle istituzioni» (p. 168)? Che si possa ricondurre tutto al «distacco generazionale con le giovani generazioni, che essi [i politici e intellettuali tarantini] percepivano come inquietanti, problematiche e notevolmente ispide nei rapporti. Questi non erano più i giovani contestatori degli anni ’60 e ’70, bensì qualcosa di diverso, più oscuri, sfuggenti, imprendibili, imprevedibili e non classificabili nelle consuete categorie» (p. 120)? Che tutto dipenda dal cataldismo e dell’insularità dei tarantini, come se il carattere fosse un destino e non, anch’esso, una costruzione sociale?
L’incontro-scontro che avvenne nel Caffè, in coda alla mostra Taranto-Berlino, tra una qualificata rappresentanza del ceto politico e intellettuale locale (compreso il futuro sindaco Battafarano) e questa strana bestia di cui qui si narra, dimostrò che non c’era reale possibilità di dialogo – se non nelle pieghe di quelle intelligenze culturali, che il PCI locale ha sempre sfruttato e spremuto senza alcuna riconoscenza, timoroso di chi è capace di pensare con la propria testa – con una classe politica che considerava la propria missione quella di fare da gendarme e custode allo status quo. E nell’ottusa arroganza con la quale, alla richiesta di un centro sociale per combattere la diffusione dell’eroina, il più illustre (per retaggio politico-familiare) di quei burocrati rispose che «per combattere l’eroina non servono i centri sociali, basta il napalm sulle piantagioni e sui coltivatori di oppio» contiene già in sé tutte le ragioni della caduta libera nella quale stava per avviarsi la sinistra ufficiale jonica. Era la vigilia dell’apertura del processo per gli arrestati del 7 aprile: a Taranto i Masanielli erano ben accetti se cantati, a tre secoli di distanza, dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, non se cercavano di sovvertire il presente.
«I giovani di Taranto – scrive nelle ultime pagine Sergio Maglio (pp. 170-171) – restarono così da soli a strusciarsi come sempre nella loro piazza, che però cominciò poco alla volta a mostrarsi sempre più rada e vuota, quasi avesse perso la vivacità speranzosa di un tempo. Restarono soli, quei ragazzi, senza i laboratori creativi che desideravano, senza i teatri ed i cinema che erano stati chiusi. Chi restò, poté vedere le menti migliori di quella generazione continuare a sconvolgersi il più possibile di canne, pere e sniffate senza speranza, assistendo da stanchi e spauriti spettatori alla spenta decadenza di una città che voleva diventare metropoli e che invece vedeva scappare la qualità della vita ed i suoi abitanti. Poté osservarli mentre guardavano muti lo spettacolo di una grande industria che si ristrutturava grazie ai tanti soldi pubblici per potersi graziosamente vendere, pochi anni dopo, a un boss privato per quattro soldi. […] E così, quella città priva di verde, di ossigeno, di speranza e di futuro – che era diventata il regno di grattini, scippatori, contrabbandieri e spacciatori – nel giro di pochi anni venne consegnata nelle mani del demagogo di AT6».

Rileggendo la mia storia in questo libro, ho capito, ancora una volta, che avevamo ragione noi. L’avevamo nel ’77, come nei primi anni ’80. Ma la ragione non basta averla: bisogna che te la diano. O che te la prendi, by any means necessary.
Oggi Taranto è, ancora una volta, davanti a un punto di svolta. La storia ha il vizio assurdo di ripetersi, se nessuno spezza le sue infami circolarità: ma può anche disegnare traiettorie sconosciute, se qualcuno ha la forza di tracciarle e percorrerle.
Questo libro è una scatola di attrezzi che vengono da un passato più attuale del presente in cui siamo impantanati: il valore di questi attrezzi dipenderà dall’uso che ne verrà fatto.
Nel frattempo, grazie a Sergio per averlo scritto, e a tutti quelli che ci sono dentro per esserci stati.

I did my best, it wasn’t much
I couldn’t feel, so I tried to touch
I’ve told the truth, I didn’t come to fool you
(Leonard Cohen, Hallelujah)


  1. Questo paragrafo è tratto da Taranto: la città che non vuole morire a norma di legge, pubblicato su carmilla il 10 ottobre 2012. 

  2. In questo video lo storico concerto dei Panama Studios del 5 agosto 1983. 

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