neofascismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 09:25:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il radicalismo conservatore: il caso austriaco https://www.carmillaonline.com/2022/09/10/il-radicalismo-conservatore-il-caso-austriaco/ Sat, 10 Sep 2022 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73767 di Armando Lancellotti

Natascha Strobl, Le nuove destre. Un’analisi globale del conservatorismo radicalizzato, LEG Edizioni, Gorizia, 2022, pp. 126, € 14,00

Quando Natascha Strobl – politologa e pubblicista viennese – dava alle stampe il volumetto recentemente tradotto in Italia da LEG Edizioni (Radikalisierter Konservatorismus. Eine Analyse) era l’estate del 2021 e il governo austriaco era ancora retto da Sebastian Kurz, leader della ÖVP (Österreichische Volkspartei), il Partito popolare austriaco. Si trattava del secondo governo guidato dal giovanissimo cancelliere federale, dal momento che il primo aveva preso il via a seguito della sua netta [...]]]> di Armando Lancellotti

Natascha Strobl, Le nuove destre. Un’analisi globale del conservatorismo radicalizzato, LEG Edizioni, Gorizia, 2022, pp. 126, € 14,00

Quando Natascha Strobl – politologa e pubblicista viennese – dava alle stampe il volumetto recentemente tradotto in Italia da LEG Edizioni (Radikalisierter Konservatorismus. Eine Analyse) era l’estate del 2021 e il governo austriaco era ancora retto da Sebastian Kurz, leader della ÖVP (Österreichische Volkspartei), il Partito popolare austriaco. Si trattava del secondo governo guidato dal giovanissimo cancelliere federale, dal momento che il primo aveva preso il via a seguito della sua netta e brillante affermazione elettorale del dicembre 2017, che aveva dato luogo alla coalizione “turchese-blu” con la FPÖ (Freiheitliche Partei Österreichs), il Partito della libertà austriaco, ossia la formazione di estrema destra portata alla ribalta della scena politica austriaca ed internazionale una ventina di anni prima da Jörg Haider. Il primo governo Kurz fu travolto nella primavera del 2019 dal cosiddetto “Ibiza-gate”, che vide coinvolti soprattutto gli esponenti della FPÖ, che nelle successive elezioni anticipate subì un ridimensionamento tale da vedersi esclusa dal nuovo governo; ma questo non riguardò il partito di Sebastian Kurz, che, forte di un nuovo solido successo elettorale, diede il via al proprio secondo mandato, guidando una colazione governativa con i Verdi. Nuove accuse e sospetti di corruzione hanno poi indotto il cancelliere Kurz alle dimissioni verso la fine del 2021, cosa che, ad oggi, non ha però impedito alla medesima coalizione tra Partito popolare e Verdi di continuare a governare la Repubblica austriaca.

Questa premessa si è resa necessaria per tratteggiare la cornice politica entro la quale Natascha Strobl elabora e propone le proprie interessanti analisi, indirizzate alla descrizione e alla comprensione del fenomeno del “conservatorismo radicalizzato”, di cui la ÖVP di Sebastian Kurz rappresenta un esempio significativo, che la studiosa austriaca esamina in parallelo ad altri e in Italia più conosciuti casi, quali quello di Boris Johnson e del partito conservatore inglese e quello statunitense di Donald Trump. L’aspetto più interessante del lavoro di Natascha Strobl consiste proprio nel tentativo di elaborare un modello teorico generale capace di inquadrare un fenomeno politico che va diffondendosi rapidamente in Europa, seppur con aspetti differenti a seconda dello specifico contesto nazionale, e che vede le forze politiche conservatrici spostarsi sempre più decisamente verso posizioni di estrema destra, della quale assumono e assimilano atteggiamenti, parti del discorso e del linguaggio politico, nuclei ideologici, che producono l’effetto della radicalizzazione del conservatorismo politico.

L’analisi della politologa viennese prende le mosse da una ricostruzione delle principali caratteristiche del conservatorismo “classico”, che come ideologia e visione generale della società si è contrapposta, a partire dal XVIII secolo e poi nel XIX, prima al liberalismo illuminista e poi al socialismo. Il conservatorismo è un’ideologia antiegualitaria, che imposta la propria visione della società sui principi della gerarchia, dell’ordine e della proprietà. In essa giocano un ruolo fondamentale il riferimento ai valori tradizionali, in particolare quelli della fede religiosa. «In breve, quindi, intendiamo per conservatorismo un atteggiamento antiegalitario, antirivoluzionario, classista, i cui valori più alti sono l’ordine e la proprietà» (p. 14).
I fascismi “storici” hanno condiviso molti dei principi del conservatorismo, del cui appoggio si sono avvantaggiati nella fase dell’ascesa al potere, ma a differenza di questo non sono antirivoluzionari, anzi, si propongono come portatori di un progetto di ricomposizione conservatrice della società (in opposizione agli stravolgimenti dei processi di modernizzazione liberali, democratici e socialisti), ma attraverso il sovvertimento rivoluzionario delle istituzioni politico statali, che non intende restaurare un regime precedente, bensì crearne uno nuovo, che però si richiama ad un passato originario, capace di fare da mito fondativo, secondo una visione palingenetica della missione politica: l’etnia o razza, la primigenia comunità popolare, ecc. Nel caso del nazismo, a cui Strobl fa maggiormente riferimento, è l’antisemitismo il baricentro attorno a cui ruota tutta la lunga serie di altre diseguaglianze e discriminazioni: antiziganismo, antislavismo, l’ostilità verso le diverse forme di disabilità fisico-mentale e di indisciplina sociale, l’antifemminismo, ecc. Pertanto, conclude Natascha Strobl, «Il conservatorismo è un’ideologia di dominio per la salvaguardia delle relazioni (di proprietà) esistenti. Il fascismo è un’ideologia che – attraverso un (certo) scambio delle élite di potere – vuole superare l’ordine politico esistente» (p. 16).

Il “conservatorismo radicalizzato” odierno è un fenomeno politico ibrido, che nasce dalle molteplici occasioni e forme di contatto tra il conservatorismo e l’estrema destra fascista. La conseguenza è un neofascismo strisciante, che, a differenza dei piccoli gruppi organizzati dell’estrema destra militante più ideologica – facilmente riconoscibili ed emarginabili o comunque marginali – è decisamente più presente di quanto si tenda a credere nelle forme di pensiero diffuse, nelle formule linguistiche più usate, negli atteggiamenti comuni e più frequenti, insomma in tutte quelle che possono considerarsi forme pre-politiche di vita sociale. Questa infiltrazione carsica delle idee di estrema destra è stata resa possibile, dalla fine degli anni ’60, in particolar modo dal fenomeno della cosiddetta Nouvelle Droite in Francia, che si è sforzata di abbandonare il riferimento vetero nostalgico diretto al nazionalsocialismo e al fascismo storici; si è posizionata in un differente campo di lotta e di azione, non solo quello della politica in senso stretto, ma quello “pre-politico” e lo ha fatto adattando ai propri scopi le teorie gramsciane sull’egemonia culturale, al fine di acquisire una posizione di forza a livello del discorso pubblico, che rendesse egemonici i principi, il linguaggio, la mentalità conservatori e fascisti. «Era nata la Nouvelle Droite come spettro ibrido o sovrapposizione tra l’estremismo di destra tradizionale (etnico e neonazista) e il conservatorismo borghese statalista» (p. 21). Anche recenti forme di estremismo di destra nostrane, come CasaPound, vanno ricondotte a quella svolta epocale all’interno del neofascismo del dopoguerra.

Il fenomeno sociologico correlato al conservatorismo radicalizzato è quello della “borghesia grezza” (Rohe Bürgerlichkeit), concetto formulato per la prima volta dal sociologo tedesco Wilhelm Heitmeyer, che – come Natascha Strobl riporta – così lo definisce nel suo saggio del 2018, Autoritäre Versuchungen: «l’attenzione non è sulla classe economica, ma piuttosto sul fatto che sotto un sottile strato di maniere civili e conservatrici (“borghesi”) si nascondono atteggiamenti autoritari che stanno diventando sempre più chiaramente visibili, soprattutto sotto forma di una retorica sempre più rabbiosa» (p. 23). Insomma, secondo il sociologo tedesco, la “borghesia grezza” abbandona definitivamente (ed in particolare in tempi di crisi come quelli attuali) valori quali la giustizia, l’equità, la solidarietà sociale e fa propria un’ideologia fatta di durezza, di rivendicazione e difesa della propria posizione di vantaggio, di disprezzo verso i gruppi più deboli, in nome dei principi di efficienza, utilità, convenienza. Se la violenza non è certo appannaggio di un’unica classe sociale – sottolinea Strobl – tuttavia quella della “borghesia grezza” si nasconde dietro ad una facciata di maniere civili e di comportamenti presentabili e conformi alle regole sociali, che ne favorisce la diffusione e l’affermazione sotto forma di un «conservatorismo molto sicuro di sé e consapevole del proprio potere e così (attraverso istituzioni, i circoli sociali e i media) ha una grande influenza sul clima sociale» (citato da W.Heitmeyer) (p. 24). I grandi partiti conservatori tradizionali, che si spostano sempre di più a destra, si avvantaggiano del fenomeno della “borghesia grezza”, che al contempo alimentano, assumendo elementi ideologici ed atteggiamenti propriamente fascisti e, quando conquistano la guida dei governi, provocando un evidente deterioramento delle istituzioni democratiche.

Natascha Strobl individua di seguito alcuni passi fondamentali attraverso i quali ritiene che sia possibile ricostruire e articolare il percorso di formazione e di sviluppo del conservatorismo radicalizzato: la violazione delle regole; la polarizzazione della scena politica; l’affermazione della figura del leader; la trasformazione antidemocratica dello stato; la messa in scena mediatica; il complottismo e la post-verità.

È opportuno distinguere tra le regole formali, cioè innanzi tutto la Costituzione e le leggi dello stato e le regole informali della vita politica, vale a dire l’insieme di consuetudini e di norme di decoro, moralità e buona educazione politica. I leader del conservatorismo radicalizzato violano programmaticamente e sistematicamente entrambe. Nel primo caso, spesso il vantaggio che si consegue è di molto superiore alle sanzioni previste per la violazione delle leggi. L’esempio a cui Strobl fa ricorso riguarda Kurz e il superamento dei limiti di spesa previsti dalla legge austriaca per la campagna elettorale nel 2017: la sanzione che la ÖVP dovette pagare fu di molto inferiore al vantaggio politico che ottenne, vincendo in modo netto le elezioni. Nel secondo caso, l’effetto che si produce come conseguenza della violazione continua delle regole non scritte dell’azione e del confronto politici è quello di diffondere l’idea che non debbano esserci più regole e che la trasgressione di esse sia comunque possibile, o addirittura lecita ed auspicabile.

Gli oppositori dei conservatori radicali – osserva la studiosa – si illudono che la denuncia delle violazioni delle regole informali e il richiamo al loro rispetto siano sufficienti per rimettere in ordine le cose, ma accade esattamente il contrario, in quanto le menzogne e le infrazioni delle norme del galateo politico rimangono del tutto senza conseguenze, o addirittura e più spesso producono conseguenze positive per chi le compie in termini di popolarità e consenso. «Come Trump, anche Kurz sa che non ci sono conseguenze di nessun tipo se non si fa “la cosa giusta”: gli appelli al decoro e all’onore rimangono inascoltati. Al contrario: il loro successo si basa proprio sul fatto che non fanno quello che si “dovrebbe” fare […]. Una bugia è una bugia, ma una bugia che viene ripetuta senza conseguenze diventa la verità» (pp. 38-39).

Il conservatorismo radicale rivendica per sé populisticamente la rappresentanza della cosiddetta “maggioranza silenziosa”, che va a costituire il “noi” da contrapporre a “gli altri”, secondo una elementare logica dicotomica e manichea che produce polarizzazione nella società. Si tratta di uno degli aspetti che più evidentemente il conservatorismo radicalizzato ha assunto dall’estrema destra; nel fascismo storico e nel nazismo in particolare, a cui Strobl fa riferimento, la contrapposizione era concepita “biologicamente” come lotta tra il “noi” della comunità etnica-nazionale e “gli altri”, rappresentati soprattutto dagli ebrei e da altre categorie di nemici della razza. Osserva Natascha Strobl: «La versione neoliberale di una visione manichea del mondo è la divisione in operosi e pigri» e i secondi sono definiti tali «per bassezza o debolezza di carattere», a cui si aggiungono frequentemente caratteristiche etniche e di classe sociale. Sono i “chavs”, di cui parlava Boris Johnson nel 2005 sul Daily Telegraph, quando li definiva come il 20% della società inglese, che vive nei quartieri degradati e che vota Labour per ricevere elemosine assistenziali e, aggiungeva, sono «i grezzi, i perdenti, i ladri e i tossicodipendenti e i 70.000 detenuti delle nostre prigioni» (p. 40). Oppure si tratta dei “thugs” (teppisti) di Trump, termine usato dal presidente statunitense per indicare i neri dei quartieri degradati, considerati naturalmente inclini alla violenza, a cui vanno aggiunti i militanti di sinistra, le élite urbane a lui ostili, i musulmani e altre minoranze, che, tutti assieme, formano “gli altri”, dalle minacce dei quali deve essere difesa la working class americana, che Trump ha saputo in buona parte attrarre a sé. Si tratta, però, di una working class rigorosamente bianca e nazionale, minacciata dalla manodopera a basso costo dei migranti, i cui interessi dovrebbero convergere – nella prospettiva di Trump – con quelli della controparte, il capitale nazionale, messo in pericolo dalla concorrenza della globalizzazione finanziaria; i valori di riferimento condivisi ed accomunanti le due parti (capitale e lavoro nazionali e bianchi) sarebbero lo spirito di sacrifico, la cultura del lavoro, il saper “lavorare sodo”, che ancora sopravviverebbero nella provincia statunitense.

Anche Kurz dice qualcosa di simile – osserva Strobl – quando sostiene che a Vienna, in certe famiglie, solo i bambini si alzano alla mattina per andare a scuola, alludendo soprattutto agli stranieri e agli immigrati (pigri e disoccupati) che abitano la multietnica metropoli austriaca, a cui contrapporre e preferire l’incorrotto ambiente rurale, in cui si conserverebbero gli autentici valori nazionali, così come avviene nella provincia americana in opposizione agli ambienti metropolitani. La schiera dei nemici, degli “altri”, si infittisce poi con l’aggiunta degli antifascisti e dei militanti di sinistra in genere, degli stranieri, dei migranti, dei rifugiati, ecc. Il modo di rapportarsi agli oppositori del conservatorismo radicale, preso in toto dall’estrema destra fascista, è quello tipico dell’ordine del discorso complottista, che stereotipizza l’avversario, ne ingigantisce i presunti tratti pericolosi per la comunità dei “noi” e a lui riconduce la ragione di ogni problema o negatività.

Un altro punto fermo dell’estrema destra fascista che i partiti conservatori radicalizzati hanno fatto proprio riguarda la maniera di intendere la leadership politica e il suo rapporto con il partito stesso e con la base, che ricalca le modalità proprie del Führerprinzip fascista: il leader rappresenta in modo assoluto l’intera comunità dei “noi”, che a lui si affida, e scavalca, esautorandoli, gli organi interni e le strutture del partito tradizionale, per riassegnare il potere decisionale alla cerchia ristretta dei consulenti e dei collaboratori di sua fiducia ed esclusiva scelta. Per spiegare questo processo, Natascha Strobl richiama la teoria della “democrazia identitaria” di Carl Schmitt degli anni Venti del Novecento: «Secondo lui, la democrazia è l’unità spirituale tra chi guida e chi viene guidato. Le elezioni si tengono per acclamazione, cioè tramite un sostegno messo in mostra pubblicamente» (p. 58). Si tratta di un processo di “de-democratizzazione” del sistema politico in cui l’azione del popolo si riduce alla legittimazione pubblica del potere del leader-governante. I leader dei partiti conservatori radicalizzati, inoltre, tendono a presentare se stessi come le vittime di trame occulte e di complotti, tesi a diffamarli e a screditarli e come i portatori di “dure verità”, che altri non hanno il coraggio di pronunciare e che solitamente riguardano gli ambiti della giustizia sociale e della migrazione.

«Il pericolo dall’interno viene attribuito a presunti disoccupati pigri e ai migranti o ai rifugiati, mentre la minaccia dall’esterno è rappresentata dai nuovi movimenti migratori di massa che minacciano l’identità del paese. L’anello di congiunzione e l’immagine del nemico unificante è l’indefinita potente rete di attori politici e della società civile di sinistra che si annidano dietro ogni angolo e che controllano i media e persino ampie parti dello stato. […] Questo gioco non è nuovo. È la strategia del populismo di destra alla Haider. La novità è che la strategia di una figura di leadership superpolitica e sovrumana non è più invocata solo dall’estrema destra, ma è portata avanti dalle forze conservatrici» (p. 63).
I bersagli principali verso i quali si dirige l’azione politica del leader dei conservatori radicalizzati sono il sistema giudiziario, considerato attore protagonista delle trame complottiste della sinistra; il parlamento, mal sopportato in quanto strumento politico democratico obsoleto da scavalcare in direzione di un populismo che si regga sul rapporto diretto tra il leader e il popolo, che non necessita di mediazioni; lo stato sociale, da ristrutturare e smantellare, in ossequio alle idee guida del neoliberismo imperante, ma dietro la maschera della presunta tutela degli interessi del proletariato “nazionale”, insidiato da quello straniero e migrante.

Tra gli effetti più manifesti prodotti dal conservatorismo radicalizzato vi è la riforma antidemocratica dello stato. Osserva Natascha Strobl: «La separazione dei poteri, costitutiva del moderno stato nazionale democratico, viene così rapidamente e sistematicamente affievolita. Il cosiddetto quarto potere, i media, viene anch’esso costretto e sabotato, e lo stato sociale, la più grande conquista del movimento sindacale nel XX secolo, viene indebolito» (p. 63).
Il caso austriaco del governo “turchese-blu” del 2017 (ÖVP e FPÖ) guidato da Kurz è quello che Strobl analizza un po’ più nel dettaglio. La riforma del reddito minimo di cittadinanza prevedeva che l’erogazione completa fosse subordinata al possesso o conseguimento di un titolo di scuola dell’obbligo, di certi requisiti di competenza linguistica e di un numero massimo di figli. In questo modo a rimanere tagliate fuori erano un alto numero di famiglie straniere e di migranti. L’elemento apertamente razzista e discriminatorio serviva per affermare un punto fermo ideologico e soprattutto come “distrattore”, sia che lo si condividesse sia che lo si avversasse, capace di mettere in secondo piano il fatto che la piena attuazione di quella riforma avrebbe dato il via allo smantellamento del sistema sociale austriaco e a farne le spese sarebbero stati tutti i lavoratori e le fasce sociali più deboli, anche quelle bianche ad austriache.

Di fondamentale importanza per il successo del conservatorismo radicalizzato e del suo leader è la capacità di utilizzare i media per «praticare la politica in modalità di campagna elettorale permanente» (p. 76), che si regge sulla programmatica e continua costruzione di campagne scandalistiche. Così riflette Natascha Strobl: «Trump ha portato l’industria dello scandalo nel cuore della democrazia statunitense. Sebastian Kurz l’ha portata nel cuore della democrazia austriaca. Quest’ultimo ha il vantaggio di essere considerato un politico serio e rispettabile fin dall’inizio, con la sua tranquilla personalità e il suo modo di presentarsi. Kurz e Trump, tuttavia, adottano entrambi il gioco dell’estrema destra con vecchi e nuovi media. Un esagerato motivo di scandalo, divisivo e rivolto contro le minoranze, viene presentato come prova di una dura verità che finalmente qualcuno ha il coraggio di dire» (p. 80).

Il ricorso aggressivo e spregiudicato ai social media e l’adozione dell’ordine del discorso cospirazionista producono il fenomeno della “stan culture”. «Gli attori del conservatorismo radicalizzato non hanno più solo sostenitori politici, ma veri e propri fan, persino superfan – in contesti pop-culturali sono chiamati “stans” e l’attività corrispondente “to stan”. […] Applicato al campo della politica, questo significa che la gente non si limita più solo a votare per un partito o per dei candidati, ma li segue incondizionatamente. Questi fan […] si legano direttamente a una persona. Il privato e il politico si confondono, l’opinione personale, la conoscenza scientifica e le rivendicazioni politiche si mescolano in un’unica brodaglia. Tutto ciò che la persona oggetto del desiderio del fan fa è giusto, tutto ciò che dice è vero. Qualsiasi critica o opinione dissenziente è illegittima» (pp. 85-86). L’effetto che ne consegue è la creazione di un al di là della verità e della realtà, di una realtà parallela in cui si annullano le differenze tra verità e menzogna, tra spiegazione e stravolgimento della realtà delle cose. Nella dimensione della post-verità il leader del conservatorismo radicalizzato si trova e si muove a proprio agio e il caso statunitense di QAnon e di Trump costituisce l’esempio più esplicito di tutto ciò.

Nelle ultime pagine del lavoro di Natascha Strobl, non manca un riferimento storico – seppur solo abbozzato – a due casi tanto noti quanto importanti di “conservatorismo radicalizzato” del passato: la cosiddetta “rivoluzione conservatrice” tedesca del periodo di Weimar e l’austro-fascismo di Engelbert Dollfuss. Esempi di collaborazione, commistione e sovrapposizione tra conservatorismo e fascismo storico che non poco contribuirono al successo di quest’ultimo in area tedesca poco meno di un secolo fa. Con questo l’autrice non intende compiere una improbabile ed inverosimile sovrapposizione tra presente e passato e paventare un impossibile ritorno del fascismo nelle sue forme storiche, bensì dimostrare come il terreno di contatto tra fascismo e conservatorismo sia più esteso e più poroso di quanto non si possa immaginare e come, in un quadro globale di crisi economico finanziaria che si trascina dall’ormai lontano 2008, di crisi climatica pressoché irreversibile, di crisi sanitaria, di tensioni internazionali, geopolitiche e di guerra – tutti fattori dell’aumento a dismisura delle disparità ed iniquità sociali (internamente ai singoli paesi e tra le diseguali parti del mondo) – le forze conservatrici abbiano saputo affermarsi sulla scena politica, imboccando la via della radicalizzazione e dell’estremismo di destra. Processo per altro favorito dal fallimento epocale delle forze della sinistra di governo, che, abdicando al loro ruolo storico e abiurando i propri ideali, hanno sposato programmi e principi del neoliberismo imperante, lasciando alla destra campo libero di conquistare un crescente consenso popolare.

 

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Radicalismo di destra e neofascismo oggi https://www.carmillaonline.com/2022/03/26/radicalismo-di-destra-e-neofascismo-oggi/ Sat, 26 Mar 2022 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71168 di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismo in grigio. La destra radicale tra l’Italia e l’Europa, Einaudi, Torino, 2021, pp. 112, € 15,00

Claudio Vercelli, nel suo ultimo libro, torna su un argomento già affrontato in precedenti lavori1, ma da una prospettiva almeno in parte differente: il neofascismo ed il radicalismo di estrema destra non vengono analizzati da un punto di vista tipicamente storiografico ed italiano, per individuarne le origini ed i legami di diretta emanazione dal fascismo storico, o gli sviluppi, le mutazioni e le diverse modalità aggregative, ovvero [...]]]> di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismo in grigio. La destra radicale tra l’Italia e l’Europa, Einaudi, Torino, 2021, pp. 112, € 15,00

Claudio Vercelli, nel suo ultimo libro, torna su un argomento già affrontato in precedenti lavori1, ma da una prospettiva almeno in parte differente: il neofascismo ed il radicalismo di estrema destra non vengono analizzati da un punto di vista tipicamente storiografico ed italiano, per individuarne le origini ed i legami di diretta emanazione dal fascismo storico, o gli sviluppi, le mutazioni e le diverse modalità aggregative, ovvero per analizzarne le manifestazioni terroristiche ed il coinvolgimento nelle pagine più tragiche della storia italiana del dopoguerra, cogliendo infine i lasciti odierni del neofascismo eversivo della stagione della prima repubblica. La prospettiva qui si allarga al resto d’Europa, con qualche incursione anche al di fuori di essa e l’analisi si limita nel tempo, focalizzandosi sulla stretta attualità del fenomeno.

Pertanto, più dei legami col fascismo storico, delle persistenze ideologiche di durata ormai secolare e delle prossimità o distanze da un idealtipo storiografico, Vercelli si propone di studiare e tracciare i connotati dell’odierno estremismo di destra, col preciso proposito di non cadere nell’errore dell’”astoriologia”, neologismo coniato da Emilio Gentile, con cui lo studioso del fascismo stigmatizza l’eccessivo e scarsamente rigoroso ricorso al ragionamento analogico che impiega il fascismo come concetto così elastico da renderlo applicabile a cose molto diverse tra loro, fino ad indebolirne l’efficacia interpretativa. Il fascismo come fenomeno storico-politico consustanziale al Novecento si è esaurito, perché ne sono venute meno le condizioni di possibilità, legate ai processi di piena affermazione del capitalismo industriale, ma se alla parola “fascismo” assegniamo un significato più ampio, tale da trascendere i limiti del periodo storico dei regimi fascisti, allora – osserva Vercelli – i collegamenti col presente sono evidenti. «Come spiegare, altrimenti, il ritorno del radicalismo di destra, che si richiama, spesso apertamente, a quel passato? Un fenomeno ancora marginale nel suo nucleo militante, assai meno se si considera il sistema di trasmissione subculturale che crea anelli di condivisione e di compromissione» (p. 4).

L’estremismo di destra oggi – osserva l’autore – si propone come “esercizio di contropotere”, come opposizione all’ordine delle cose esistente e come àncora di salvezza dinanzi ai disordini della modernità globalizzata; si rivolge a quella parte in continua crescita delle società occidentali che percepisce il declino irreversibile delle sicurezze di un tempo e il fallimento delle prospettive a venire. Anche il fascismo storico, figlio precoce del “secolo breve” e dell’evento tragico che lo ha inaugurato – la Grande Guerra – germinò dallo sconquasso di una società postbellica destabilizzata e disorientata, ben presto ergendosi ad argine del potere costituito nella lotta di classe contro il proletariato e la rivoluzione, anch’essa sollevatasi dalle macerie del conflitto.

Questo non significa, chiarisce Vercelli, «preconizzare e richiamarsi al “ritorno del fascismo”. Ciò almeno per due ordini di motivi: un fenomeno storico non si ripete mai nel medesimo modo; del pari, non si può parlare del ritorno di qualcosa che non se ne è mai andato via del tutto dalle società continentali, neanche con la frattura epocale del ‘45» (p. 12). Anzi, è proprio nella lotta contro l’ordine dei vincitori del ’45, considerati come antesignani ed artefici dell’attuale globalizzazione capitalistica, che i movimenti di estrema destra oggi trovano un punto di convergenza ed un argomento con capacità attrattive elevate a potenza dall’odierna crisi sistemica, in una dimensione che è sempre più transnazionale e che stabilisce connessioni e condivisioni tra movimenti di estrema destra in Europa ed oltreoceano.

Procedendo nella ricerca delle costanti e dei caratteri essenziali del neofascismo e dei radicalismi di estrema destra più in generale, Vercelli mette in evidenza come i fascisti di oggi per prima cosa si dichiarano non fascisti, ma al contempo deridano la matrice antifascista della Costituzione, sostenendo la necessità di superare le distinzioni tra destra e sinistra. In secondo luogo, si presentano come depositari del senso comune, come interpreti autentici del comune sentire di un popolo concepito in maniera anti-pluralistica, come comunità indistinta, priva di conflittualità interne, secondo un approccio all’analisi sociale che ricalca da vicino le modalità del fascismo storico. In terzo luogo, il Leitmotiv di tutta la destra estrema è la presunta e pretesa “non conformità” radicale del pensare e dell’agire neofascista, che si traduce in un sovversivismo e in un ribellismo tanto generici e disorganici quanto antidemocratici, la cui matrice originaria può essere colta nel dannunzianesimo e nel futurismo di Fiume. In quarto luogo, l’anti-intellettualismo fa da cornice generale, in quanto modalità di approccio alle cose, che rifiuta l’analisi della complessità strutturale della realtà materiale dell’epoca e della società odierne e preferisce il ritorno all’istinto e alla forza, che si nutrono delle suggestioni evocative di miti quali quelli ossessivi ed onnipresenti dell’“identità” e della “tradizione”.

«I neofascismi e i neonazismi, quindi, sono fenomeni al contempo mimetici e mitopoietici» (p. 13): conservano e replicano un nucleo ideologico essenziale e lo adattano al tempo presente; rifiutano la politica come partecipazione, pluralismo e impegno collettivo, contrapponendole l’identità, l’ordine, la gerarchia e l’etica della milizia. Si tratta di “suggestioni molto potenti”, osserva l’autore, che si stanno diffusamente rianimando in più parti dell’Occidente.

Il conflitto sociale principale che i radicalismi di destra cercano di intercettare e di incanalare è quello tra i cosiddetti “garantiti”, che con un lavoro regolare usufruiscono dei benefici del sistema sociale articolato nei suoi diversi organismi e chi da tale sistema è o si sente escluso. «L’azione del radicalismo di destra è volta a cercare di raccogliere l’adesione di coloro che si sentono esclusi dal circuito dei diritti» (p. 15). La destra fascista oggi cerca di assumere la rappresentanza di tale disagio, per orientarlo verso un rifiuto eversivo (non necessario violento, ma manifestabile anche nella forma della diffidenza, del discredito, dell’insofferenza) della democrazia partecipativa, delle sue istituzioni, dei suoi organi e dei suoi corpi intermedi rappresentativi.

Questo atteggiamento si struttura e cresce attorno ad alcuni principi essenzialmente presenti in tutte le manifestazioni odierne dell’estremismo politico di destra: l’idea di nazione come identità etnica, che riprende ed aggiorna al presente il principio fascista della comunità organica del popolo, della Volksgemeinschaft nazista; la logica dell’esclusione dell’altro, dell’alieno alla comunità; il complottismo, come paradigma di lettura dei rapporti sociali e di potere diseguali, interpretati come conseguenza non di conflitti e processi socio economici, ma in quanto effetti di trame segrete ordite dalle élites economico-finanziarie e politiche. Si aggiungono poi il demagogismo, come forma comunicativa; il rifiuto del pluralismo democratico rappresentativo, sostituito da una distorta “democrazia diretta”, consistente in realtà nel mistico rapporto non mediato tra comunità popolare e capo, secondo le modalità del Führerprinzip fascista; l’intolleranza verso ogni alterità, che si traduce in una visione bellicistica dei rapporti sociali, tale da creare unione e compattezza tra simili nella lotta contro il comune nemico.

Il pericolo principale rispetto al quale il radicalismo di destra oggi promette vigilanza e protezione è rappresentato dai cambiamenti incontrollabili indotti dalla globalizzazione, dalla mondializzazione che produce contaminazione di popoli e identità, infrangendo un presunto ordine naturale delle cose e pianificando la distruzione delle comunità di popolo autentiche, attraverso la sostituzione demografica funzionale agli interessi del capitalismo finanziario globale, che, per mezzo dei flussi migratori planetari, arruola il proprio esercito di riserva di manodopera sottopagata e sfruttata. Attorno a questo ragionamento gravita l’anticapitalismo dell’estrema destra odierna che ripropone, variandolo, quello del fascismo storico e della “terza via” tra liberismo e collettivismo, tra liberalismo e comunismo. Quest’ultimo si era raggrumato attorno all’antisemitismo e al complottismo antisemita, metastasi della contemporaneità non sanate dalla sconfitta del fascismo del 1945 e che ricompaiono inesorabilmente in ogni nuova teoria complottista e razzista: il caso recente di Eric Zemmour in Francia è uno dei tanti che rientra in questa fattispecie.

I gruppi e le organizzazioni neofasciste dimostrano una considerevole capacità di riempire il vuoto politico apertosi e il disorientamento conseguente alle trasformazioni in atto, fornendo un immaginario in cui la disillusione è compensata dalla rabbia e la paura dell’esclusione dalla voglia di rivalsa. Si tratta di gruppi numericamente ancora esigui, ma che prosperano in un milieu ben più vasto della militanza neofascista in senso stretto e che si manifesta tanto in azioni e fatti concreti della realtà quotidiana, quanto in atti della virtualità via web. Si tratta, secondo Vercelli, di una “fascia grigia” che, pur non essendo composta di militanti dichiaratamente neofascisti e politicamente coscienti, si sente attratta da iniziative, slogan e parole d’ordine dell’ultradestra e in essa va alla ricerca di una qualche forma di rappresentanza e di riconoscimento politici.

Il razzismo immancabilmente presente in ogni forma di radicalismo di destra– così come le più eclatanti teorie complottiste – si diffonde, cresce e fa proseliti attraverso i mezzi comunicativi odierni, che ne amplificano in maniera incontrollabile forza e letalità. Insomma l’odio razzista – osserva Vercelli – viaggia attraverso “meme” digitali, contenuti che per l’immediata replicabilità e per l’altissima potenzialità emulativa diventano facilmente virali in rete e originano una forma di pseudo conoscenza collettiva e diffusa, non consapevole, ma assunta per ripetizione; una sorta di (non)sapere senza conoscenza. Dal “meme” al pregiudizio il passaggio è immediato, anzi in un certo senso il “meme” stesso è già di per sé un pre-giudizio, ossia l’assunzione di un punto di vista e la formulazione di un giudizio senza nessuna base di verifica.
Nei capitoli centrali del libro, Vercelli studia i casi più importanti e più diffusi delle attuali teorie complottiste – nate, cresciute e radicatesi via web – in particolare soffermandosi sul fenomeno QAnon, per comprenderne le dinamiche di sviluppo e diffusione e le ragioni del successo e riconducendolo al paradigma, all’archetipo primo di ogni complottismo contemporaneo: i Protocolli dei Savi anziani di Sion.

Il radicalismo di destra europeo ha conosciuto un sostanziale cambiamento di pelle a seguito di svolte epocali succedutesi dalla fine del secolo breve ad oggi, quali la caduta del Muro di Berlino e la fine del socialismo reale, la globalizzazione, la finanziarizzazione economica e la digitalizzazione, che hanno indotto il neofascismo a compiere un mutamento ontologico: dalla lotta contro il comunismo, dalla nostalgia per il passato, dalla rappresentanza piccolo borghese della “maggioranza silenziosa”, alla battaglia contro l’immigrazione pilotata dalle forze complottiste internazionali e al tentativo di rappresentare i ceti sociali rimasti schiacciati dalle trasformazioni sociali ed economiche in corso. Questi processi hanno portato il radicalismo di destra a collocarsi in un campo tradizionalmente appartenente alla sinistra, ma da questa abbandonato progressivamente a causa della sua crescente subalternità «nei confronti del neoliberalismo, quello che dagli anni Ottanta ha predicato che “There is non alternative” al regime di mercato come istituzione collettiva ma anche come sistema di relazioni pubbliche pressoché totalizzante» (p. 66).

L’estremismo di destra, rivolgendosi oggi alle fasce sociali degli esclusi dalle trasformazioni economiche globali tenta – riflette Vercelli – di sdoganarsi da se stesso e di costruirsi un’immagine diversa da quella del neofascismo della prima repubblica, che associava alla militanza eversiva le collusioni con gli apparati deviati dello Stato. I tratti “anti” che sono propri anche del fascismo storico – che per questo Norberto Bobbio definì una “ideologia anti” – oggi si presentano nella forma dell’antiliberalismo, dell’antiliberismo e dell’anti individualismo, in nome di un solidarismo sociale e di un comunitarismo che possano dare possibilità di crescita ad un «processo di fascistizzazione dal basso» (p. 61). Pertanto, conclude Vercelli, oggi il fulcro ideologico dell’identità “radicale” e “non conforme” di destra è la “comunità” di omologhi che «vivono in relazioni gli uni con gli altri in un dato territorio» (p. 67), ovviamente escludendo il diverso, l’estraneo. «La lettura della storia come di una eterna dicotomia razzista è quindi uno dei miti rifondativi della destra radicale. Immarcescibile e insindacabile in quanto vero punto di sintesi di un universo mentale» (p. 62).

Tratto ricorrente della destra radicale oggi è il rimando al “sociale”, «laddove con ciò si indica la sfera di azione sotto la quale essa si è rigenerata, nel nome di una veracità e di un’autenticità che alle altre forze politiche, rappresentative di interessi sovra-ordinati rispetto alla società, altrimenti mancherebbero. […] Alla collettività si rivolge, semmai, richiamando il bisogno di una rappresentanza nei termini del riconoscimento e del soddisfacimento dei suoi bisogni materiali» (pp. 65-66). Ed infatti, proprio lo sforzo di animare un’azione sociale che metta al centro il problema abitativo ha consentito nel corso degli anni a Casa Pound di sfondare ed occupare la scena del neofascismo italiano, superando per esempio Forza Nuova e dimostrandosi capace più di quest’ultima di presentarsi non più solo sotto la veste del neofascismo nostalgico, pur mantenendo un impianto ideologico che per molti versi ripropone, appena un po’ rimodellato, il solito armamentario fascista (la terza posizione, il revisionismo dell’esperienza di Salò come originale esperimento politico atipico, ecc.). La crescita di Casa Pound è stata tale da condurla ad allacciare relazioni con la Lega di Salvini – ricorda Vercelli – in occasione delle elezioni europee del 2014, attraverso il sostegno assicurato ad un candidato leghista nella circoscrizione dell’Italia centrale. Sul piano ideologico questo ha prodotto una sorta di scambio e di condivisione di idee quali il sovranismo, l’antieuropeismo, il rifiuto dell’immigrazione, il nazionalismo identitario, ecc.

Interessanti risultano, infine, le considerazioni che l’autore avanza riguardo al bagaglio ideologico dell’attuale neofascismo, che, al netto dei richiami inevitabili agli immancabili archetipi storici fascista e nazista, comprende un arco di idee ed atteggiamenti che ha i suoi estremi nel comunitarismo etnicista da un lato e nell’iperliberalismo individualista dall’altro; termini opposti che non necessariamente si respingono. Il comunitarismo etnicista ragiona avendo come riferimento la dimensione collettiva della comunità, tenuta assieme dal legame etnico che si alimenta del mito delle origini, delle tradizioni identitarie e dell’unità organica. Anche il fenomeno “rosso-bruno” del nazibolscevismo rientra in questa fattispecie di odierno estremismo di destra o neofascismo.

L’iperliberalismo, invece, ha come riferimento l’individuo privato visto come soggetto assolutamente libero in una dimensione agonistica che non prevede altro che la forza come criterio di competizione e modalità di relazione. Un «liberismo di ritorno di una destra che si finge libertaria» ma che si ricongiunge alla «fantasia di un individuo che esiste in ragione dei legami profondi che condivide solo ed esclusivamente con quanti sono identici a lui, dal punto di vista etnico, culturale, comportamentale» e che esprime la diffidenza «verso la politica come sistema di rappresentanza astratta, che privilegia la “cittadinanza” di contro alle “radici di suolo e sangue”» (p. 75-76).

Gli atteggiamenti del militante o del simpatizzante di estrema destra possono quindi oscillare dalla esaltazione sovranista della comunità nazionale alla quale l’individuo sente di appartenere e da cui è assorbito (l’Ungheria di Orban può fare da modello), all’individualismo ipertrofico che si illude di poter essere autosufficiente, senza il bisogno di un legame sociale e collettivo che non sia quello della stretta comunità degli omologhi (come nel caso della destra del Tea Party o delle milizie paramilitari estranee ed ostili al governo federale nell’America di Trump).

Numerose e mutevoli sono le nuove forme del neofascismo, che vanno diffondendosi nel nostro paese e in Europa e che, nutrendosi delle criticità strutturali, delle contraddizioni e delle storture profonde della società odierna, rievocano gli spettri nefasti di un passato mai del tutto tramontato.


  1. Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018 [su Carmilla]. 

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Derive Rosso-brune https://www.carmillaonline.com/2020/08/04/derive-rosso-brune/ Mon, 03 Aug 2020 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61277 di Walter Catalano

David Bernardini, Nazionalbolscevismo: Piccola storia del rossobrunismo in Europa, Shake Edizioni, pag. 175, 14,00 €.

Nell’ormai lontana primavera del 2003, all’inizio della campagna d’invasione dell’Iraq da parte della coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti d’America che si sarebbe conclusa solo alla fine del 2011, venne diffuso nel contesto antagonista che allora si definiva ancora no global, un manifesto antiamericanista, denominato People Smash America e promosso da un sedicente Campo Antimperialista, gruppo costituito in origine da membri di area trotzkista. Non furono pochi i militanti o simpatizzanti di una [...]]]> di Walter Catalano

David Bernardini, Nazionalbolscevismo: Piccola storia del rossobrunismo in Europa, Shake Edizioni, pag. 175, 14,00 €.

Nell’ormai lontana primavera del 2003, all’inizio della campagna d’invasione dell’Iraq da parte della coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti d’America che si sarebbe conclusa solo alla fine del 2011, venne diffuso nel contesto antagonista che allora si definiva ancora no global, un manifesto antiamericanista, denominato People Smash America e promosso da un sedicente Campo Antimperialista, gruppo costituito in origine da membri di area trotzkista. Non furono pochi i militanti o simpatizzanti di una generica sinistra antagonista, non necessariamente legati allo stesso ambiente politico dei promotori ma mossi da una sincera avversione per l’aggressione scatenata dalle potenze occidentali, a firmare quel manifesto e a partecipare alle numerose iniziative tenute in varie città italiane in case del popolo, locali e spazi gestiti, in linea di massima, sotto l’egida di Rifondazione Comunista.

Anche chi scrive queste righe, per ingenuità, ignoranza o disattenzione, ma del tutto in buona fede, si ritrovò firmatario del documento ed ebbe occasione durante un affollato incontro pubblico, di conoscere il variegato sottobosco che ormai patrocinava l’iniziativa: vi si potevano incontrare fianco a fianco intellettuali di indubbia fede marxista, come il filosofo Domenico Losurdo (che aveva allora appena pubblicato il monumentale e non sospetto volume Nietzsche, il ribelle aristocratico), ed altri in varia misura “eretici”, come Costanzo Preve,  che stava per saltare il fosso, o lo aveva già appena saltato, con Marx inattuale. Eredità e prospettiva, l’ultimo suo libro ad essere ancora pubblicato da un editore “normale” e non legato alla destra radicale. In mezzo a loro gravitavano distribuendo rivistine, volantini e libelli, personaggi quantomeno inquietanti: arabisti in teoria antisionisti ma di fatto ferocemente antisemiti, “comunisti”- comunitaristi e nazionalitari, rivoluzionari “al di là della destra e della sinistra” e quant’altro. Molti dei loro nomi, quello di Preve compreso, ad andarseli a cercare con attenzione, li si sarebbero potuti ritrovare fra i collaboratori di Eurasia di Claudio Mutti o di Risguardo di Franco Freda, e delle loro case editrici, All’insegna del Veltro o Ar, in compagnia di personaggi altrettanto “non-conformisti” – come li chiamano loro – al pari di Evola, Goebbels o Codreanu. Tanto per dimostrare da che parte si va a cadere quando ci si proclama “oltre la destra e la sinistra”.

Anch’io nel giro di poche settimane – meglio tardi che mai – mi resi conto dell’errore commesso e interruppi qualunque contatto con tali “antiamericanisti”, ma la mia firma stava ancora tra le altre in calce a quel manifesto e il mio nome era ormai in qualche modo macchiato (me ne sarei accorto nei mesi seguenti…). Questa sgradevole esperienza personale serve da premessa al libro che David Bernardini ha appena pubblicato per Shake Edizioni, Nazionalbolscevismo, Piccola storia del rossobrunismo in Europa, un testo agile ma completo, utilissimo per farsi un quadro preciso di certe dimensioni politiche ambigue, sfuggenti e infide, evitando al lettore, se non altro, di incorrere in equivoci madornali come quello che ho descritto.

Bernardini traccia un percorso completo del fenomeno percorrendolo a ritroso: parte cioè dalle sue manifestazioni più recenti e a noi prossime, per retrocedere progressivamente verso l’origine di questa deriva politica e approfondirne ragioni ed esiti che rimontano agli anni delle Germania di Weimar, a quella congerie complessa di movimenti detta – termine che l’autore non condivide e preferisce non utilizzare – “Rivoluzione conservatrice”, nel 1933 interrotta o, più propriamente, fagocitata dal trionfo politico nazionalsocialista e hitleriano.

Il contesto storico dell’epoca aveva portato i due paesi reietti dalla Società delle nazioni – la Germania sconfitta, giudicata unica responsabile del conflitto mondiale a Versailles, e la Russia sovietica, pericolosa esportatrice del comunismo – a stringere relazioni non ufficiali anche a livello governativo. Molti nazionalisti tedeschi, fra i nostalgici prussiani del Kaiser, i militaristi dei Frei Korps, i mistici völkisch o i naturisti wandervogel, fino a certa sinistra nazionalsocialista, trovarono quindi quasi naturale sentire maggiori affinità con il comunismo sovietico – da loro letto in chiave distortamente stalinista, come socialismo nazionale, e mettendo in secondo piano la lotta di classe – che con la liberal-democrazia delle potenze occidentali umiliatrici della Germania. Anche notevoli figure di intellettuali e scrittori fiancheggiarono gli agitatori politici di questi movimenti, dall’eroe di guerra Ernst Jünger soprattutto nel suo Der Arbeiter, all’ex comandante dei Frei Korps Ernst von Salomon nel suo Die Geächtete (personaggio che resta però, sostanzialmente, un fucilatore di socialisti…).

 Un brulichio di associazioni e gruppi segnarono questa linea di pensiero, dal Widerstand di Ernst Niekisch, allo Schwarze Front del nazista di sinistra Otto Strasser dopo la rottura con Hitler, dai socialrivoluzionari di Karl Otto Paetel, all‘Eidgenossenbund di Werner Lass. Bernardini descrive in dettaglio questi gruppi e i loro tortuosi percorsi nella seconda parte del libro, ma quello che soprattutto emerge e che torna utile per meglio comprendere quanto delineato invece nella prima parte, è il fatto che formule, simboli e modelli “di sinistra“ assunti da questi movimenti di destra, sono soprattutto una soluzione strategica nata da un’incomprensione e da un’interpretazione superficiale e distorta delle dottrine socialiste; come spiega Bernardini: “In questo fenomeno ideologico-politico così complesso, mi sembra però possibile individuare alcuni tratti comuni. Il suo orizzonte ideologico ultimo rimane la nazione (declinata anche come Europa-nazione o in chiave eurasiatica) e la comunità organica, organizzata gerarchicamente e guidata da un’élite. […] Il richiamo al socialismo è allora funzionale a mantenere l’ordine sociale, a imbrigliare il capitalismo e la proprietà privata. Il riferimento alla classe è passeggero poichè è un mezzo, uno strumento per realizzare, anzi rigenerare la nazione, salvandola dalla decadenza della democrazia liberale. Questo, a parer mio, nebuloso anticapitalismo si coniuga con una fraseologia sovversiva che però rimane antimarxista, antimaterialista, anticosmopolita, anti-internazionalista. Lo stesso disprezzo per l’antifascismo nelle sue varie declinazioni la dice lunga sulla dimensione politica di questa corrente“. La prova ulteriore e definitiva è l’incontrovertibile fatto che gran parte dei gruppi e movimenti storici nazionalbolscevichi weimariani, dopo l’avvento al potere di Hitler, confluirono tutti, quasi senza colpo ferire, nella Volksgemeinschaft nazionalsocialista.

La prima parte del volumetto traccia invece i percorsi successivi al crollo dei fascismi europei tratteggiando il recupero e riutilizzo puramente strumentale della confusa ideologia di una dimenticata corrente politica che, se nella Mitteleuropa prebellica poteva ancora avere una qualche sua giustificazione, diventa nel mutato contesto storico-geografico, mera strategia di infiltrazione e disinformazione, camuffamento e riproposizione del fascismo tout court (nel senso dell’Urfascismo, come lo intendeva Eco) sotto altro nome e altra foggia. Bernardini passa in rassegna, capitolo per capitolo, personaggi e situazioni afferenti alla costellazione rosso bruna. Si parte da Carlo Terracciano e Massimo Murelli, la Società Editrice Barbarossa e la rivista Orion, e il loro riciclaggio di un già caotico pantheon urfascista che mescola SS come Degrelle, tradizionalisti integrali come Evola e Guénon, collaborazionisti come Drieu La Rochelle e Brasillach, fascismi periferici come la Guardia di Ferro di Codreanu o la Falange spagnola, mescolato e ibridato, in un aberrante patchwork ideologico, da riferimenti al comunismo di Zjuganov, Mao o Che Guevara, e dall’esaltazione di regimi totalitari come l’Iran dell’Ayatollah Khomeini o la Libia di Gheddafi. Naturali i collegamenti sia con Franco Freda e il suo libello La disintegrazione del sistema, uscito nello stesso anno della strage di Piazza Fontana e teorizzante l’unione degli estremisti di destra e di sinistra contro il regime borghese, sia con Il sistema per uccidere i popoli dell’ex attore pornografico Guillaume Faye, divenuto maître à penser della nouvelle droite francese insieme al meno delirante Alain de Benoist. E proprio de Benoist ha teorizzato quel “gramscismo di destra” che tanta influenza avrebbe avuto su Costanzo Preve, tanto da condurlo ad una revisione così radicale del suo originario marxismo da approdare all’Eurasia di Mutti. Una proliferazione ipostatica di teratologiche aberrazioni, come nei sincretismi sfrenati di un vangelo gnostico, che ci porta dal male al peggio e che da Preve – figura che, con tutte le sue contraddizioni, aveva almeno innegabile fascino e spessore culturale – conduce al suo allievo degenere, il ridicolo Diego Fusaro e ai “valori di destra e idee di sinistra” del suo partito sovranista Vox Italia.

Il secondo capitolo è dedicato al Partito nazionalbolscevico russo, la cui bandiera è identica a quella nazista con l’unica differenza di aver sostituito la svastica con la falce e martello. I due fondatori Alexandr Dugin e Eduard Limonov sono stati separati nel corso degli anni ’90, da una diversa presa di posizione di fronte alla dominazione imperiale del nuovo Zar Putin, il primo – tradizionalista evoliano e misticheggiante – ne è divenuto fervente sostenitore (la russian connection della Lega – pare – passa anche attraverso di lui, che parla l’italiano certo meglio di Salvini); il secondo – mediocrissimo scrittore e dandy pseudo-dannunziano portato alla notorietà dalla fortunata e prevalentemente immaginaria “biografia” che gli ha dedicato Emmanuel Carrère – è invece passato all’opposizione scontando anche qualche anno di carcere. Bernardini ritrova sia nell’eurasismo di Dugin che nel nazionalbolscevismo di Limonov una stessa matrice tipicamente russa: “la concezione di uno stato forte e militare, la mitizzazione del popolo russo e il risentimento contro ebrei e Occidente, talvolta coprendo il tutto con una fraseologia apparentemente marxista-leninista”.

I capitoli dal terzo al quinto presentano invece le complesse filiazioni del rossobrunismo in area francofona, partendo dalla figura di Dominique Venner con il suo libro del 1962, Per una critica positiva, che va ad unire i reduci sconfitti dal Viet Minh di Ho Chi Min e i difensori dell’Algeria francese confluiti nell’Oas (Organisation de l’armée secrète), applicando il modello leninista del Che fare ? alla riorganizzazione della destra radicale francese. Il suo incontro con Jean-Francois Thiriart, ex SS belga e militante contro l’indipendenza del Congo, porta alla fondazione di Jeune Europe, raggruppamento che usa per primo il simbolo neofascista della croce celtica. Thiriart teorizza una “lotta armata insurrezionale contro l’occupazione americana” per un’Europa socialista e (nazional)rivoluzionaria, attraverso la costituzione di Brigate europee che i suoi sodali in seguito millanteranno come prototipo delle Brigate rosse, secondo la discutibile teoria dell’ ”incontro fra gli estremi”.

La Giovane Europa di Thiriart produrrà di lì a poco in Italia, innestandosi su propaggini più o meno ortodosse di Ordine Nuovo, Lotta di Popolo, in cui già appare il nome del futuro eurasista Claudio Mutti e, di passaggio, quello dell’immancabile Franco Freda: si comincia a parlare di nazi-maoismo, deriva duramente criticata dai tradizionalisti ordinoviani come Adriano Romualdi e lo stesso “barone nero” Julius Evola. Da lì seguiranno “Costruiamo l’azione” e Terza Posizione in cui muoveranno i primi passi Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi, in seguito leader rispettivamente di Forza Nuova e di CasaPound. Vediamo quindi come il serpente si morda la coda, e dal passato all’attualità, il groviglio sia del tutto interno alle dinamiche e ai rapporti spesso conflittuali dell’estrema destra. Il comunismo c’entra poco o nulla, per fortuna.

Onde avere ben chiaro senza dubbi o riserve almeno questo concetto basilare, risulta quanto mai proficua la lettura del libro di David Bernardini. Come dice l’adagio inglese: forewarned is forearmed.

 

 

 

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Sex and the Magic: il Dumas d’America (III) (Victoriana 28/3) https://www.carmillaonline.com/2019/10/16/sex-and-the-magic-il-dumas-damerica-iii-victoriana-28-3/ Wed, 16 Oct 2019 21:10:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55372 di Franco Pezzini

La mazurka del barone, della Sophiale e della posizione

Cerchiamo di recuperare i fili. 1931, Parigi: in un incrocio trafficato della città, uno sconosciuto porge a Maria de Naglowska (cfr. seconda puntata) un manifestino. Degli editori in viaggio, vi si annuncia, intendono pubblicare una lussuosa edizione del Magia Sexualis di Paschal Beverly Randolph (cfr. prima puntata). Il distributore dei volantini scompare subito, ma una voce – interiore? – annuncia a Maria che sarà per lei, perché ne è degna… A suo dire, circolava la storia di note segrete [...]]]> di Franco Pezzini

La mazurka del barone, della Sophiale e della posizione

Cerchiamo di recuperare i fili. 1931, Parigi: in un incrocio trafficato della città, uno sconosciuto porge a Maria de Naglowska (cfr. seconda puntata) un manifestino. Degli editori in viaggio, vi si annuncia, intendono pubblicare una lussuosa edizione del Magia Sexualis di Paschal Beverly Randolph (cfr. prima puntata). Il distributore dei volantini scompare subito, ma una voce – interiore? – annuncia a Maria che sarà per lei, perché ne è degna… A suo dire, circolava la storia di note segrete di Randolph ancora da trascrivere in modo leggibile e che da un sessantennio una serie di ostacoli avrebbe sempre impedito di pubblicare. A suo dire, e non si hanno conferme indipendenti: dunque potrebbe anche trattarsi – ormai un po’ la conosciamo – di spregiudicata pubblicità dell’opera.

Si è datato l’episodio 1931 in quanto data probabile, lei resta un po’ nel vago: comunque ad aprile 1931 riceverebbe materialmente il manoscritto – proprio in un momento critico per la sua rivista “La Flèche” che rischia di chiudere – provvedendo a tradurlo. Un’operazione magica, sostiene, le permette di scegliere l’editore Robert Télin; ma in realtà dalla pubblicità sul “Figaro” risulterebbe che lo svizzero Télin, che è anche libraio, scrittore e conferenziere attento ai filosofi americani e con un passato un tantino controverso, era già detentore del manoscritto… Teniamo presenti queste due versioni, tra poco ne arriverà una terza.

Comunque l’operazione viene avviata e La Sophiale può consigliare ai lettori di “La Flèche” l’acquisto del volume, le cui copie – garantisce – si esauriranno prima di quanto non si pensi, a sostegno della stessa rivista. Chi abbia letto e studiato Magia Sexualis può non dubitare più che dal sesso, compreso e praticato nel modo corretto, scaturisce la verità. Anche se Maria tiene a sottolineare (nel 1933, sempre su “La Flèche”) un proprio ruolo autonomo dal “celebre americano” indicato come autore: lei non è discepola di Randolph, ma l’annunciatrice di una nuova religione, rivelatale a Roma e da lei riportata con parole umane nell’opera La Lumière du Sexe. Qualcosa che non è in contraddizione con i contenuti di Magia Sexualis, ma sarebbe frutto – spiega – di un’illuminazione diversa. Randolph ragiona come teosofi ed esoteristi della vecchia scuola, cioè in termini individuali e sostenendo l’evoluzione indipendente di ogni particella animica: un’ottica però fondamentalmente  egoistica, generatrice in ultima istanza di tutti i mali del genere umano. Al contrario il divino insegnamento che Maria proclama è che non esiste nulla di meramente individuale o separato: gli esseri umani non procedono verso l’Unità, ma sono l’Unità, e la separazione delle particelle dell’Universo sarebbe un’illusione di quel satanismo maschile cui appartengono tutti gli uomini della cultura e delle religioni “antiche”, Randolph compreso.

Tutto chiaro? Fino a un certo punto. Infatti a fronte di un bacino importante – come abbiamo visto – di scritti di Paschal Beverly Randolph di autenticità sicura e pubblicati a suo tempo nella lingua dell’autore, il grosso problema è che al contrario il testo di Magia Sexualis non emerge per vie diverse dall’edizione francese. Il che significa che del testo edito da Télin con curatela di Maria non abbiamo un originale nella lingua in cui Randolph era solito scrivere. Certo, in teoria un presunto testo originale inglese dovrebbe in prospettiva vedere le stampe: a fine dicembre 1931 secondo le pagine pubblicitarie nel corpo della stessa edizione, a fine febbraio 1932 a detta di “La Flèche” (1931, n. 8), ma in realtà non comparirà mai (mentre verranno edite traduzioni in inglese del testo francese, ma è chiaramente un’altra cosa). Non solo: a dispetto delle parole di Maria – che, ormai lo sappiamo, vanno prese con parecchia cautela –, non perviene altra testimonianza su materiali di Randolph con tale specifico contenuto circolanti tra un lato e l’altro dell’Atlantico.

Ma è meglio esaminare questo e altri problemi con il testo davanti, nell’ultima edizione italiana per i tipi delle romane Edizioni Mediterranee: e già sembra strambo che di tutta l’opera del Dumas d’America nel Belpaese sia stato tradotto solo un campione tanto dubbio. Eppure il volume merita due parole perché traghetta a plaghe dell’immaginario anche molto più vicine a noi. La prefazione è – sorpresa – del vecchio frequentatore di Maria, Julius Evola, e la Nota introduttiva di Gianfranco de Turris, “segretario della Fondazione Julius Evola, per conto della quale cura tutte le ristampe dei libri del filosofo tradizionalista” (traggo da Wikipedia) nonché co-curatore del volume assieme allo specialista di cose naglowskiane Vittorio Fincati. Dove i nomi di Evola e de Turris già indirizzano in termini trasparenti verso una certa area ideologica.

Apparso nel 1969, Magia Sexualis ha conosciuto due successive edizioni – 1977, 1996 – prima della quarta 2017 riveduta e ampliata: un ampliamento che ci si poteva giustamente attendere (nelle prime c’era solo il testo randolphiano con la Prefazione di Evola), a fronte delle maggiori notizie emerse. Va detto subito che l’opera non è affatto un Kamasutra in salsa occulta, come potrebbe pensare il lettore ingenuo di fronte al titolo, e presenta ben poco di pruriginoso: le posizioni ci sono, ma niente che soddisfi appetiti facili.

Cominciamo dalla struttura del testo attribuito a Randolph, venticinque capitoli, a partire dalle note introduttive (capp. 1-4). Si parla poi dei principi-cardine di questo impianto esoterico (capp. 5-8): volitismo, cioè autodominio e tensione ad accrescere le proprie forze; decretismo, la decisa capacità di recare mutamenti; posismo, il nesso plastico tra postura e altri elementi dell’atto magico; tiroclerismo, potere di evocazione. Seguono un corpus centrale sulla magia (capp. 9-18), e una sezione finale sugli specchi magici (capp. 19-25). Al di là dell’interesse “tecnico”, alcuni capitoli sono di grande suggestione narrativa: il cap. 13 sulle cariche magiche parla del modo di fissare intere scene a certi oggetti rendendole visibili attraverso il tempo; i capp. 23 e 24 si soffermano su quadri o statue viventi, cioè immagini capaci di animarsi.

Come detto, il testo non ci giunge nell’originale inglese degli scritti del Dumas d’America: si tratterebbe infatti della riproposta non di un’opera in sé compiuta (non esistente in quanto tale), ma di istruzioni interne di un gruppo magico legato a Randolph, anzi della selezione di una parte del relativo corpus circolante in forma manoscritta. Come curatrice, Maria l’avrebbe tradotto in francese “costruendo” l’opera in forma di volume. Secondo la Nota finale della curatrice il gruppo sarebbe la stessa Eulis Brotherhood di Randolph, e il materiale corrisponderebbe alla seconda parte del secondo grado degli insegnamenti ai membri. Nella Nota si sottolinea il senso della scelta di omettere qualche porzione del corpus (nozioni astrologiche generiche, ricette che potrebbero condurre gli incauti a sperimentare sostanze pericolose) e il fatto che il manoscritto completo delle istruzioni fosse in sessanta copie (manoscritte) per i membri.

Eppure il testo pare strano. Vi troviamo una tensione sistematica non altrove documentata in Randolph (corrispondenze, ore e giorni appropriati ai riti, eccetera), un’attenzione all’astrologia quasi assente dagli altri suoi scritti, e un impianto linguistico che rende difficile intravedere un testo inglese a monte: elementi che hanno portato a maturare un certo scetticismo sulla genuinità dell’attribuzione. Anche se è vero che non si tratta di criteri assoluti, tanto più che non disponiamo di simili istruzioni per gruppi autenticamente gestiti dal mago americano.

In realtà Maria parla nella Nota finale di “note manoscritte […] servite alla redazione”, un’espressione un po’ generica che fa pensare a un libero adattamento più che a una traduzione nel senso filologico. A comprendere per esempio materiale confezionato non dal magister ma da uno più collaboratori come certe dispense universitarie; oppure, come si è inteso, insegnamenti sempre di Randolph ma di tradizione orale, che Maria avrebbe espresso con una certa libertà. Del resto nel periodo successivo alla morte del Dumas d’America le sue idee sono state abbondantemente rielaborate nell’ambito di gruppi come la Hermetic Brotherhood of Luxor o ad opera di entusiasti come Reuben Swinburne Clymer (ne parleremo tra poco). Il materiale di Randolph che arriva a Maria può essere insomma già spurio: il che non è strano, considerando come i testi operativi magici siano spesso opere stratificate, e il riferimento a un nome non implica un rigore filologico nell’attribuzione.

Dato interessante, si è osservato come nel lancio di Magia Sexualis su “La Flèche”, vengano menzionati titoli di capitoli che poi non compaiono nel testo edito (per esempio sull’onanismo evocatorio e su tecniche magico-sessuali per ringiovanire), a far pensare a un corpus più ampio di materiali “randolphiani” – con tutte le virgolette del caso – circolanti nel sottobosco magico in cui La Sophiale si muove. Di più, la Nostra potrebbe avervi inserito materiali “altri” che le parevano congrui: e Mario Praz ha fatto notare come uno dei capitoli rechi una sospetta consonanza con una scena dal romanzo di Joséphin Peladan, À coeur perdu (1888).

Ma, fatta salva una base di idee effettivamente di Randolph, Fincati – che interviene sul tema anche in una pagina di appunti online molto ricca di documenti, Una gnostica a Montparnasse. Maria de Naglowska – ipotizza una tesi ancora più radicale: cioè la costruzione a tavolino da parte di Maria, con la complicità del disinvolto Télin, di un testo che Randolph non avrebbe mai scritto neppure nella forma di istruzioni, ma che ne conterrebbe semplicemente un po’ di idee rivedute e corrette pescate dai suoi volumi più noti, mischiate a quelle di altri e della stessa Sophiale. Chi si occupa di testi sacri (di tutti i tipi) o magici sa che non solo in molti casi si tratta di opere “collettive” – in più forme – ma che le attribuzioni sono spesso tendenziali, magari per nobilitare i testi medesimi o inscriverli in una certa tradizione: il concetto di diritto d’autore è in questo senso un’urgenza moderna e laica, ma nella realtà piuttosto conservativa dell’occulto i poli dell’entusiasmo e della truffa vedono infinite posizioni soggettive intermedie. Cercando una sintesi, diciamo che si tratta di materiale di gruppi che in qualche modo si rifanno a Randolph: e in assenza (almeno per ora) di dati più sicuri non resta che accogliere l’attribuzione in chiave problematica.

Ma riprendiamo l’esame dell’edizione per Mediterranee. Che nello specifico rimonta a una copia dell’originale francese rimasta alluvionata a Firenze nel 1966 e passata da un amico appunto a Julius Evola, che l’aveva tradotta. Il risultato è oggi questa nuova edizione con carta elegante (questa collana è molto bella) e di oggettivo fascino per i mille misteri che intesse. Il testo “randolphiano” con la Nota finale di Maria vi occupa le pp. 39-174. Il resto del volume presenta una serie di materiali di interesse che va ben oltre lo specifico del contenuto magico.

A partire da una serie di testi riguardanti Maria, dove si apprezza l’apporto di Fincati, che offre una netta svolta qualitativa rispetto alle edizioni precedenti. Già traduttore in Italia dell’opera Le Rite Sacré de l’Amour Magique, e forte di ricerche documentali complesse, lo studioso dedica un contributo erudito (pp. 21-28), in generale accurato, equilibrato e tale da render conto della problematicità del personaggio della Sophiale. Colpisce solo il tenore di alcune espressioni (“Preferiamo tacere sugli aspetti di mistificazione sfacciata e anche stupida, oltre ai deliranti attacchi di misticismo, con i quali essa ha infarcito i suoi due libri successivi”): le dottrine naglowskiane presentano tutte le equivocità denunciate, ma resta la sensazione che esoteristi di sesso maschile non verrebbero stigmatizzati con una simile durezza terminologica. Fincati ricorda comunque le conoscenze esoteriche che Maria mostra di avere, forse tramite contatti con la sezione francese della Confraternita di Luxor, o attraverso ambienti russi; e per la profetessa del Regno della Madre istitutrice di sacerdotesse dell’amore parla correttamente di femminismo sacro, anche sul filo delle riflessioni di Sarane Alexandrian. Citandolo anche quando dice: “Con un’audacia serena, Maria de Naglowska ha attaccato le convenzioni che paralizzano la destinazione occulta della donna, e non soltanto le convenzioni sociali ma anche il partito preso sentimentale”. (Anche se poi sempre Alexandrian se ne esce con alcune espressioni che comunque riportano a un certo spiacevole sottomondo ideologico: “Oggi, la donna che vuol essere uguale all’uomo coltiva a dismisura la ragione. È questo il grande errore del secolo e l’origine di tutti i mali di cui soffriamo”, eccetera – lascio alle lettrici di esprimersi.)

Fincati osserva però che a dispetto degli entusiasmi dei discepoli la magia sessuale della donna naglowskiana risulta, “in fin dei conti, in funzione del maschio”: e nutre riserve sulle fantasie di riforma della società e sulla sostanza del femminismo proclamato dalla Sophiale, visto più come una patina superficiale che una radicata convinzione. Nella citata pagina web dove raccoglie parecchio materiale su di lei (e offre un gustoso bozzetto di Evola, non presentabile nel volume curato in coppia con l’evoliano de Turris) Fincati chiarisce anche meglio: il ruolo della donna come ierodula dei misteri del sesso magico non c’entra nulla con le rivendicazioni femminili sulla parità di diritti. Il che è vero, e le posizioni politiche di Maria negli anni Trenta non autorizzano a pensare diversamente. Ma come spesso succede, la forza intrinseca di una posizione libertaria esonda ben oltre le categorie di chi l’aveva abbozzata: per cui, a dispetto di tutte le sue ambiguità, la bizzarra gnosi di Maria de Naglowska volta all’instaurazione del Regno della Madre e alla liberazione da cinque millenni di patriarcato finisce con il recare provocazioni sociali più forti – e con un baricentro comprensibilmente un po’ spostato – di quelle che lei intendeva proporre. Confluendo in un più ampio filone di femminismo “magico” (in tutte le possibili accezioni) in chiave di garanzia di futuro e di urgenza di ridiscussione della dinamica tra sessi, compresa quella imperante in certo mondo esoterico.

Fincati, che cita volumi anche recenti, cura poi personalmente una Premessa al testo “randolphiano” su alcune peculiarità dell’edizione del 1931 (pp. 31-32) e un’Appendice con un paio di documenti (pp. 175-185) che chiariscono meglio le posizioni naglowskiane. Da questo versante, insomma, l’edizione soddisfa le esigenze di un lettore che cerchi buona informazione.

Dove il testo convince meno – e il recensore, partito con grandi speranze, è rimasto deluso – è nella parte dedicata a Randolph. È vero, il materiale della Magia Sexualis è di attribuzione dubbia: ma visto che è il nome di Randolph a comparire nell’intestazione, che l’opera ne contiene (almeno in parte, almeno indirettamente) il pensiero e che di lui all’interno si parla il problema sorge. Anche qui, esaminiamo il materiale offerto: dopo la Premessa di Fincati troviamo una Breve nota biografica “storica” su Randolph, tratta dall’edizione 1931 e firmata da tale Allan F. Odell, che l’editore presenta semplicemente come “studioso americano” (pp. 33-34), poi un profilo sempre di Randolph a firma di Maria (pp. 35-37). Quale il problema? Il fatto che i dati siano fermi alle conoscenze degli anni Trenta. E cioè al ritratto mitizzante e manchevole di Randolph che circola dagli inizi del secolo, legato alla fantasiosa e agiografica ricostruzione spacciata dall’occultista e medico alternativo americano Reuben Swinburne Clymer (1878-1966) a colmare la scarsità di notizie allora reperite sul Dumas d’America.

Clymer, entusiasta di Randolph di cui si sente erede tramite i gruppi rosicruciani americani, prende a ricollegare disinvoltamente a lui le proprie fondazioni magiche: fatto in sé non strano, è un classico dei gruppi esoterici cooptare fantasiosamente qualche figura del passato come fondatore virtuale, onorario. Ma soprattutto, convinto della propria affidabilità di storico dell’esoterismo, Clymer produce un Randolph rivisto e corretto in un mischione che ne semplifica idee e contraddizioni, lo inserisce in una più ampia traditio rosicruciana egizia, e lo aggancia – tramite fantomatici contatti, o nessi societari, o suggestioni di vario tipo – a personaggi eccellenti della grande storia magica e non: il Conte di St. Germain (circa 1691/1712-1784), Albert Pike (1809-1891), Éliphas Lévi (1810-1875), Alexandre Saint-Yves d’Alveydre (1842-1909), Gérard Encausse detto Papus (1865-1916) e lo stesso Napoleone III. Clymer enfatizza anche i rapporti tra Randolph, il suo ordine e Lincoln, accrescendo di molto il peso del Dumas d’America agli occhi del presidente. Le oscurità sopravvissute nella ricostruzione vengono presentate come inevitabilmente frutto di distruzioni documentali da parte di nemici di Randolph, identificabili (è ovvio) in quelli dello stesso Clymer, di continuo coinvolto in furiose polemiche. E visto che scrive molto, i suoi scritti resteranno influenti negli studi su Randolph proprio a causa della difficoltà per molto tempo di trovare notizie credibili. Gli studi recenti permettono oggi di prendere queste ricostruzioni con beneficio d’inventario e di ridimensionarne le suggestioni.

È quello di Clymer, comunque, il ritratto di Randolph che emerge nella paginetta dell’americano Allan F. Odell: e per inciso non è chiaro se possa trattarsi dello studioso di scienze di tal nome citato in pubblicazioni d’epoca, di un ignoto omonimo, o piuttosto di uno pseudonimo d’occasione per Maria (il contenuto della paginetta, ma senza firma, appare anche in “La Flèche” 1931, n. 8) o eventualmente per lo stesso Télin (magari ispirato dai cataloghi dove si muove abilmente) onde offrire una patina di americanità al tutto.

Quando dunque “Odell”, chiunque sia, parla del successo di Randolph negli ambienti occultisti europei ed elenca una serie di nomi eccellenti con cui avrebbe avuto rapporti – il generale Ethan Allen Hitch(c)ock militare e studioso di alchimia, Éliphas Lévi, lo scrittore e occultista Bulwer-Lytton, Charles Mackey (probabilmente Mackay, autore di Extraordinary Popular Delusions and the Madness of Crowds, 1841), l’erudito massone Kenneth Mackenzie e altri “scrittori massonici”, il conte Brasinsky (Brasynsky), Napoleone III, il medium Alexis Didier e suo fratello Adolph(e) scrittore di temi mesmerici, il conte Tsovinski, il generale Pélissier duca de Mal(a)koff, Hargrave Jennings teorizzatore del fallo come simbolo originale di tutte le religioni – sta in realtà importando suggestioni da un romanzo dello stesso Randolph, The Wonderful Story Of Ravalette, come se il personaggio più o meno autobiografico fosse tout court l’autore (sul tema cfr. Joscelyn Godwin, Theosophical Enlightenment). I contatti in questione sono tutti da verificare e richiamano piuttosto a un’idea astratta di comunità magica e rosicruciana.

Stesso discorso per la fantomatica missione in Russia da parte di Lincoln, presentata così: “Non si capisce bene quale fosse la sua missione, ma certamente fu di ordine sia occulto che politico. Probabilmente si trattò di sollecitare un appoggio russo per controbilanciare l’Inghilterra”, dove al netto della stima di Lincoln per un uomo come Randolph, è pura spy story pensarlo inviato in funzione diplomatica. Certo, non sarebbe teoricamente impossibile che nei suoi viaggi verso il Vecchio Mondo il Dumas d’America si fosse trovato a porre piede anche in territorio russo; ma la missione così descritta è una bufala, dove “Odell” sta rifacendosi agli entusiasmi di Clymer.

Qualunque sia il legame con “Odell”, a questo ritratto fantasioso di Randolph attinge comunque anche Maria per il profilo offerto sia su Magia Sexualis sia altrove: come su “La Flèche” n. 7, dove ne tira fuori una delle sue. Forte della propria origine russa, La Sophiale sostiene di avere ricevuto una prima iniziazione da una defunta e non meglio identificata principessa Elena in una filiale della loggia di Randolph da lui fondata a San Pietroburgo nel suo fantomatico viaggio. Poi certo, si tratta di capire se non esistesse qualche cenacolo esoterico russo che fantasticava una fondazione randolphiana: ma dato il tenore un po’ retorico dell’affermazione, viene più da pensare alle solite fantasie di Maria. Davvero un personaggio su cui varrebbe la pena lavorare letterariamente.

Il tutto per tacere di veri e propri errori: “Odell”, parlando delle opere di Randolph, scrive “solo alcune delle quali furono pubblicate lui vivente”, il che suona paradossale per un autore tanto editato (e fa sorgere ulteriori dubbi sull’americanità dell’autore); mentre Randolph non può aver cominciato gli studi, come sostiene Maria, “in seno alla Società segreta nota con le cifre H.B. of L. (Hermetic Brotherhood of Luxor)” la cui fondazione è parecchio più tarda.

Per inciso, il Randolph che possono conoscere Hoffmann Price e Lovecraft è evidentemente quello di Clymer. Ma (alla luce di quanto detto nella prima puntata di questa serie) considerato il botto nel 1931 di Magia Sexualis che fa conoscere Randolph in Europa e il numero di americani su e giù dalla Parigi della Sophiale, fa riflettere che “Through the Gates of the Silver Key” venga scritto tra ottobre 1932 e aprile 1933: a fronte delle curiosità occultistiche del complice di HPL, un nesso anche solo accidentale nella genesi del personaggio Étienne-Laurent de Marigny potrebbe insomma trovare ulteriore credibilità.

Tornando però all’edizione italiana, niente di male nell’offrire su Randolph quei dati un po’ disinvolti per mancanza all’epoca di documentazione, e che possono anzi evocare un clima d’epoca: ma oggi andrebbero robustamente glossati. Come detto, negli ultimi decenni su Randolph sono usciti parecchi volumi importanti con una quantità di informazioni affidabili sulla sua vita, sui gruppi frequentati via via, sul loro clima ideale, eccetera: e nessuno di questi viene qui citato. Tantomeno la fondamentale (e oltretutto bellissima) già menzionata unica biografia di John Patrick Deveney con Franklin Rosemont del 1996. L’unico cenno che fa intuire si conosca l’esistenza di altra letteratura è un’informazione-lampo (quasi invisibile) nell’aletta di terza di copertina, dove la biografia di Randolph viene liquidata in due parole veloci comprensive di queste frasi: “Si dedica attivamente alla politica, diventa amico di Lincoln e, dopo la guerra civile, si batte per i diritti dei neri. / Dopo il 1866, deluso dalla politica, si consacra esclusivamente” eccetera. Ma gli studi mostrano compatti che Randolph è stato a tutto tondo e lungo tutto il corso della vita il sostenitore convinto – e per anni militante, anche prima della guerra – di una serie di diritti civili e politici, un importante (sì) intellettuale afroamericano: la sua vita non si è esaurita nei salotti magici d’Europa o in strambe missioni segrete, ma è stata spesa molto trasparentemente tra ambienti black dove recava forme di coscientizzazione e altri, come quelli dello spiritualismo americano, che almeno in parte muovevano su posizioni progressiste. In sostanza, l’omissione di tutta la letteratura su Randolph successiva agli anni Trenta nasconde quasi completamente questa figura schierata per richiamare soltanto, e in termini un po’ fantasiosi, l’esoterista esotico. Sì, è vero: stiamo parlando della curatela di un testo di magia, non di una biografia dell’“autore”. Ma per un’edizione arricchita del 2017 (cioè a distanza di più di vent’anni da una biografia ormai ricostruita dettagliatamente) tale silenzio sembra davvero un po’ grave.

Non possiamo però dimenticare chi promuove inizialmente la pubblicazione della Magia Sexualis, cioè Julius Evola, che vi fornisce una Prefazione (pp. 11-19). Interessante senz’altro per gli studiosi di Evola, ma molto poco per quelli di Randolph: le critiche che gli muove con una certa sufficienza (“Chi non è digiuno per quanto riguarda la letteratura sulla magia e sulle scienze esoteriche senza, per questo, indulgere in fantasie, dovrà leggerlo con molta prudenza, unita anche con una certa indulgenza”) partono da interpretazioni esoteriche di un certo mondo che non è affatto quello del primo mago americano, né della Sophiale, né di un intero filone di altri occultisti. Per esempio in tema di polarità sessuale, di cui Evola (tra soavi cenni al “pregiudizio evoluzionistico, […] quello umanitario” eccetera) discetta come se si trattasse di inattaccabili dati scientifici: “Le cose stanno in modo alquanto diverso”… Ma è abbastanza evidente che in questione sono solo differenti scuole di pensiero, sulla base di diversi – e tutti discutibilissimi – sistemi magici e antropologici.

Piuttosto, come osserva Introvigne nel suo bellissimo I satanisti (Sugarco 2010), può stupire che Evola consideri un testo dubbio quale Magia Sexualis come davvero rappresentativo delle idee di Randolph. È vero che in quel contesto “il barone” avanza anche dubbi su possibili manipolazioni dell’opera da parte della Sophiale. Ma sembra chiaro che, con tutto il suo sussiego, Evola sappia meno di quel che immagini di sapere.

A coronare il volume edito da Mediterranee è un’interessante Nota di Gianfranco de Turris (pp. 7-10), che ricostruisce gli eventi del contatto di Evola con l’editore e dell’arrivo di Magia Sexualis alle stampe in Italia. Ma interessante anche per due aspetti specifici.

Il primo riguarda la presunta disinvoltura dell’erotologo Evola e un suo “certo gusto a scandalizzare” lo stesso mondo di destra, per esempio attraverso un’intervista (1970) con un redattore di “Playmen”, il barone Enrico de Boccard (sul personaggio, cfr. qui). “Nella ‘candida conversazione’ con de Boccard, il filosofo criticò, ma non dal punto di vista bigotto, anzi all’opposto, il modo in cui la ‘rivoluzione sessuale’ affrontava la questione per andare ben oltre essa”: a ostentare il ritratto di un personaggio di larghe vedute che insomma piaccia al pubblico di oggi. Peccato che poche pagine dopo, nella Prefazione, Evola appaia figura un po’ diversa. Non tanto quando liquida Maria – con cui aveva collaborato a lungo, che l’aveva aiutato a tradurre in francese La parole obscure du paysage intérieur – Poème à 4 voix (1921), gli aveva offerto spazio e forse altro (di volta in volta i due sono stati detti amanti, o legati da una relazione tantrica o semplicemente da forti passioni comuni) – con un giudizio sprezzante sul suo sistema di iniziazione “‘satanica’, in tutto ciò essendo abbastanza evidente uno scandalismo a fini pubblicitari”: possiamo leggerla come valutazione meramente “tecnica”, anche se ci si può chiedere perché a quel punto lui mandasse contributi per “La Flèche”. Però a lasciare attoniti è soprattutto l’assoluto silenzio sul fatto che si siano conosciuti e la distanza che pone, come trattasse di un’estranea. Insomma l’Evola dalle presunte larghe vedute sembra comportarsi non diversamente dagli imbarazzati borghesucci desiderosi solo di far dimenticare ogni proprio trascorso con la scandalosa Maria.

Ma c’è un aspetto intrigante più generale in filigrana all’episodio dell’intervista su “Playmen”. Nella ricerca da parte del neofascismo di aree culturali sensibili e non già saldamente presidiate da forze dell’arco costituzionale, Evola aveva (anche comprensibilmente) individuato nell’erotologia un terreno interessante: e negli ultimi anni Sessanta il boom della rivoluzione sessuale finisce con l’aprire promettenti spazi di accreditamento per una destra che vuole presentarsi rinnovata. Un altro settore storicamente frequentato dall’estrema destra era poi quello dell’esoterico, anche se nel Revival magico che vede il botto proprio alla fine del decennio si afferma una forte concorrenza delle culture alternative di sinistra. Ma a quel punto è chiaro che proporre nel 1969 Magia Sexualis – cioè un’opera che coniuga erotologia ed esoterismo – non appare operazione ideologicamente neutra: sarebbe ingenuo pensare di trattarla come intrapresa puramente filologica di un testo di occultismo.

Il che finisce col traghettare all’oggi. Lo storytelling di estrema destra ama ancora considerare come una propria trincea – e grazie soprattutto a Evola e alla sua scuola – alcuni temi-chiave, con una rumorosa cassa di risonanza oggi sui social: in particolare nel mondo di un fandom weird dove de Turris è attivissimo, con una ricca serie di curatele editoriali, non sempre il pubblico comprende il gioco di sottotesti ideologici di alcune interpretazioni (enfatizzazioni, omissioni). Con l’emersione qui e là sul web di idee assunte acriticamente a dogmi:

  • il complottismo di sinistra contro le interpretazioni simboliche;
  • la bieca e cieca incomprensione da parte della critica progressista delle dottrine esoteriche e quindi dei relativi autori;
  • la lettura tout court del panorama dell’esoterismo sotto un cappellino evoliano.

Sul primo punto: solo una scarsa informazione (usiamo un termine morbido) diffusa in questa Italia può pensare di esaurire una dimensione fondamentale come il simbolo nella simbolica di parte di una certa tradizione. Il problema starà piuttosto nell’usare le interpretazioni simboliche in termini congrui al contesto, dove le intenzioni dell’autore e il suo retroterra culturale e storico le rendono credibili, e non appigliandosi a vaghezze metastoriche costruite in chiave ideologica (e manipolatoria). Siamo simboli e viviamo in essi, diceva Emerson: la prima parte dell’espressione conduce su vie sottili e di credo anche personalissimo che non è questa la sede per discutere, ma la seconda parte finisce col richiamare discorsi già altrove affrontati – e cari a questa testata – sul potere dell’immaginario. Chi ha scritto su ciò pagine a tutt’oggi preziose è Furio Jesi, non a caso uno dei nomi più temuti dall’estrema destra. Mentre l’enfasi entusiasta di certo fandom sui “pionieri delle interpretazioni simboliche” (in particolare quelle postevoliane di autori come Tolkien e Lovecraft) non arriva a porsi il problema della congruità storica e filologica del relativo contenuto e della motivazione ideologica un tantino capziosa del tipo di approccio.

Sul secondo punto: il dogma gioca sulla confusione tra tradizioni culturali e filoni ideologici. È vero, una critica di matrice illuminista non può amare troppo l’esoterismo: penso a Ripellino, che in quell’opera inarrivabile che è Praga magica chiama “ciarlatano mistico” il povero Meyrink, o a Eco con l’incredibile, geniale, a suo modo profetico Pendolo di Foucault. Ma progressista è un termine ambiguo (come il suo opposto, antimodernista, che permette confusioni assai equivoche); e solo la scarsa informazione – torniamo a chiamarla così – può far ignorare la varietà di declinazioni storiche nel corso del tempo di una galassia ideale complessa e variegatissima come quella dell’esoterismo. In sostanza, esaurirlo nell’ambito dell’estrema destra – che cerca di accaparrarselo – è semplicemente falso. Ne troviamo di marca che possiamo definire progressista o ancor meglio libertaria, c’è un socialismo magico e persino un Comunismo magico (titolo offerto da Francesco Dimitri all’omonimo volume per Castelvecchi, 2004). Ma ne troviamo anche nell’ambito di un pensiero di destra che non ha nulla in comune con l’estrema destra e anzi se ne ritrae con ripugnanza. Ho il sospetto che Meyrink, nemico del militarismo, rispettoso degli ebrei in un mondo che virava pesantemente verso l’antisemitismo, fautore di un dignitoso esoterismo di crescita interiore e non di acquisizione di spazi di potere (un distinguo spesso trascurato dagli interpreti nostrani), sarebbe piuttosto addolorato da certi accaparramenti del suo nome. Un personaggio poi come l’occultista Dion Fortune – donna di polso – probabilmente butterebbe “il barone” giù dalla collina di Glastonbury, gridandogli dietro cosa pensa delle sue idee sulle donne. La realtà è che anche nella provincialissima Italia l’esoterismo andrebbe affrontato con il rigore dedicatogli da ormai un ampio filone di studi internazionali, soprattutto anglosassoni, rappresentati nel Belpaese da autori come Introvigne e lo straordinario Marco Pasi. Ciò che permetterebbe di evitare le tirate per la giacca di autori e di opere.

Il che traghetta al terzo punto: proprio l’interpretazione di Evola in Magia Sexualis mostra una sostanziale incomprensione di altre chiavi esoteriche legate a realtà culturali semplicemente diverse. Al di là insomma dei suoi contenuti ideologici (che possono ripugnarci, ma non è questo ora in questione), l’evolismo, con la sua lettura tanto autocentrata, non è una lente in grado di comprendere e far comprendere sul piano scientifico un orizzonte esoterico assai più vasto e complesso. Evola parla di Evola, della sua lettura, delle sue teorie, del suo “razzismo spirituale” eccetera, ma è poco utile per capire Randolph, de Naglowska, Meyrink o altri.

Ma allora sorge il sospetto che il curioso silenzio di questa edizione sugli ultimi decenni di studi sul Dumas d’America non costituisca un accidentale segno di trascuratezza della curatela – interpretazione che del resto suonerebbe inaccettabilmente offensiva nei confronti di un curatore colto come de Turris (o come Fincati, che però in un’ideale ripartizione del lavoro sembra essersi occupato soprattutto della Sophiale). Mostrare il profilo politico di un mago “progressista”, antirazzista, schierato per diritti di classi subalterne – dove le etichette interessano poco, non si sta cercando di cooptarlo in qualche tifoseria ma di avere un quadro storicamente corretto – minerebbe uno dei dogmi circolanti sulla piazza dell’Italietta. Quelli di cui il lettore di scarsa informazione (continuiamo a chiamarla così) continua giulivo a farsi portavoce.

(3 – continua)

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L’Italia nera https://www.carmillaonline.com/2019/08/08/litalia-nera/ Thu, 08 Aug 2019 21:02:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54021 di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, pp. 188, € 16.00

Claudio Vercelli, docente di storia dell’ebraismo all’Università cattolica di Milano e collaboratore dell’Istituto Salvemini di Torino, ha recentemente svolto un approfondito lavoro di ricerca sulla storia del neofascismo italiano, poi confluito in questo interessante volume. In poco meno di 200 pagine, organizzate in 6 capitoli che si snodano secondo un criterio cronologico, Vercelli affronta una materia molto complessa ed un arco temporale che copre settant’anni di storia italiana, nella convinzione che leggere e studiare le vicende della destra [...]]]> di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, pp. 188, € 16.00

Claudio Vercelli, docente di storia dell’ebraismo all’Università cattolica di Milano e collaboratore dell’Istituto Salvemini di Torino, ha recentemente svolto un approfondito lavoro di ricerca sulla storia del neofascismo italiano, poi confluito in questo interessante volume. In poco meno di 200 pagine, organizzate in 6 capitoli che si snodano secondo un criterio cronologico, Vercelli affronta una materia molto complessa ed un arco temporale che copre settant’anni di storia italiana, nella convinzione che leggere e studiare le vicende della destra estrema italiana, oltre che a far comprendere quella particolare area politica, le sue idee, i suoi progetti ed il suo operato nel corso degli anni, possa contribuire anche ad approfondire in controluce momenti importanti della storia repubblicana. L’autore sceglie di limitare il più possibile il ricorso alle note e alle citazioni, in tal modo rendendo molto scorrevole ed agile la lettura del libro ed inserisce, distribuendolo in modo omogeneo nel corpo del testo, una sorta di glossario dei termini e dei concetti chiave necessari per la comprensione del fenomeno del neofascismo italiano.

La tesi che Vercelli espone fin da subito nell’Introduzione è che la storia della destra radicale e neofascista italiana sia il “reciproco inverso” della storia della Repubblica, cioè della democrazia nata dalla Resistenza e dall’antifascismo. Paradossalmente il neofascismo italiano, dopo la sconfitta del 1945, trova la sua ragion d’essere nel proprio opposto, ovverosia nella natura parlamentare, democratica, pluralista ed antifascista delle nuove istituzioni repubblicane, che prendono in mano la guida di quel paese che era stato la culla del fascismo. Pertanto, riflette Vercelli, nonostante le diverse forme assunte dal neofascismo italiano, dal 1945 – quando prevalgono ancora nostalgia per il passato prossimo e rancore contro i nemici – fino ad oggi – quando le formazioni dell’estrema destra più seguite, come Casa Pound, parlano di “fascismo del terzo millennio” – la «radice comune è la posizione antisistemica, ossia l’intenzione di mutare […] il “sistema” istituzionale, politico e finanche culturale della democrazia contemporanea. Negandone la radice egualitaria, che il neofascismo denuncia come una perversione dell’ordine naturale delle cose» (p. 9).

Nonostante la sconfitta nella guerra ed il crollo subiti tra il 1943 e il 1945, il fascismo ha continuato ad essere un soggetto politico presente nel nostro paese per tre ragioni fondamentali: in primo luogo, un’esperienza politica e poi un regime così duraturi come quelli mussoliniani non potevano scomparire improvvisamente, poiché troppo profondo era stato il loro radicamento nel paese. In secondo luogo, dopo il ’45 ciò che rimaneva del fascismo attira le attenzioni di quelle componenti conservatrici della società italiana che fasciste non sono, ma che coi reduci del fascismo intendono formare un “blocco d’ordine” capace di arginare i cambiamenti in atto nel paese. Infine, la contrapposizione tra i due blocchi della guerra fredda e la volontà, interna ed esterna al paese, di evitare lo spostamento italiano su posizioni apertamente filocomuniste, produce l’effetto della mancata epurazione e – come insegna Pavone – della netta prevalenza della “continuità” politico-istituzionale dello Stato rispetto al “cambiamento” auspicato dalle forze resistenziali partigiane. A questo si aggiunga che, come cent’anni fa, ancora oggi il neofascismo pretende di essere riconosciuto come forza politica rivoluzionaria: una rivoluzione che assume la forma della “reazione”, o meglio, si potrebbe dire, quella del “ritorno”, del “recupero” di un passato puro (in realtà mitico ed astorico) e di un presunto stato “naturale” sconvolto dalla corruzione della modernità, che avrebbe prodotto la democrazia, l’egualitarismo, il cosmopolitismo, considerati disvalori e perversioni della società. Al materialismo, al pragmatismo utilitaristico, all’economicismo, alla quantità equivalente della democrazia devono contrapporsi la qualità elitaria dell’aristocraticismo, lo spiritualismo, l’eroismo disinteressato del guerriero, la tradizione, il radicamento. Insomma una politica fatta più di evocazione suggestiva del mito e di estetica del gesto e dello stile esistenziale che di analisi razionale della realtà materiale, storica e sociale.

Nella prima parte del libro vengono considerati i primi anni dopo il crollo della Repubblica sociale e l’avvento della Repubblica e della democrazia. Per i fascisti italiani è il tempo del disorientamento, della difficoltà – per i più coinvolti con il regime di Salò – di nascondersi, di scappare, di cambiare identità o anche solo di passare inosservati, aspettando l’evoluzione della situazione interna al paese. Ma è anche il tempo della rivendicazione delle proprie convinzioni e dei primi tentativi di riorganizzazione, così come della accusa di codardia verso i “traditori” del 25 luglio e della elaborazione della figura del “proscritto”, cioè di colui che viene, ma soprattutto vuole, essere messo al margine della nuova società democratica ed antifascista che disprezza. La condizione del proscritto, rivendicata come segno distintivo ed elettivo, è quella che maggiormente accomuna i reduci di Salò e che ne rinserra le file. Figure di riferimento di quel primo periodo sono innanzi tutto Pino Romualdi, collaboratore di Pavolini e vicesegretario del Partito repubblicano fascista, che fin da subito cerca di stabilire contatti con i servizi segreti americani in funzione anticomunista e il “principe nero”, Junio Valerio Borghese, il comandante della Decima Mas. Il luogo dove il neofascismo inizia ad organizzarsi è Roma, in cui la presenza di un clero disposto ad aiutarli e a nasconderli, permette ai reduci di Salò di sfuggire alla cattura. Le prime azioni sono soprattutto atti velleitari e dimostrativi, che intendono recuperare lo spirito dell’arditismo e delle provocazioni squadriste in stile futurista del fascismo delle origini. Ma poco dopo comincia ad emergere anche un altro atteggiamento, quello che non disdegna l’idea dell’avvicinamento ai partiti conservatori del nuovo arco costituzionale e alla Democrazia cristiana in particolare; indirizzo che poi sfocerà nella fondazione del partito neofascista legalitario, il Movimento sociale italiano (MSI).

Il neofascismo italiano nasce in ogni caso dal trauma della sconfitta, che impone un processo di metabolizzazione e di ripensamento complessivo dell’esperienza del regime, che conduce i neofascisti a giudicare il fascismo regime come una “rivoluzione mancata”, soprattutto a causa delle componenti conservatrici della società italiana, che avrebbero usato solo strumentalmente il fascismo; oppure come “terza via” tra collettivismo comunista e liberismo capitalista; oppure, infine, come “rivolta” contro la modernità. Nel secondo e nel terzo caso c’è evidentemente la volontà di smarcare il fascismo dal suo passato per dargli la possibilità di rappresentare un’opzione politica per il futuro.  Tra il 1945 e il ’46 i neofascisti più disposti ad imboccare la via legalitaria individuano nell’anticomunismo la merce di scambio da offrire alle forze conservatrici in cambio di un allentamento dei provvedimenti penali e punitivi contro gli ex repubblichini. Spiega di seguito Vercelli come gli eventi del giugno 1946, il referendum istituzionale e il varo dell’amnistia Togliatti, mettano i neofascisti nella condizione di tornare ad agire più scopertamente rispetto ai mesi precedenti, separandosi definitivamente dai monarchici (che fondano un loro partito) e avvalendosi della scarcerazione di molti militanti che tornano a fare attivismo politico e si impegnano nella fondazione dell’MSI del dicembre del 1946.

Ma accanto alle iniziative politicamente legali, Vercelli richiama l’attenzione su una miriade di opuscoli, giornali, riviste, semplici fogli, pubblicazioni di ogni genere e tipo, inizialmente clandestini, a cui si aggiungono gruppi, altrettanto illegali, come l’Esercito Clandestino Anticomunista (ECA) o i FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria), fondati da Romualdi stesso.  La prolificità editoriale dell’estrema destra neofascista, che si affianca a quella dei gruppi dell’attivismo politico militante, è un tratto costante del neofascismo italiano, dalle sue origini fino ad oggi, anche nei momenti di oggettivo e netto svantaggio, quantitativo e qualitativo, politico, culturale e sociale rispetto alla sinistra parlamentare ed extraparlamentare e attesta la presenza e la permanenza nel nostro paese di un’area politica, di un pezzo di società e di una parte dell’opinione pubblica inequivocabilmente fascisti, che, pur assumendo forme parzialmente diverse a seconda del mutare dei tempi e del contesto sociale, tengono fermo il riferimento al fascismo storico e ai suoi principi fondamentali.

Fin da subito, la prima distinzione interna alla destra estrema si sviluppa sull’alternativa tra l’accettazione «almeno formale e di circostanza, del parlamentarismo e delle istituzioni repubblicane» (p. 43), salvo prefiggersi lo scopo ultimo di sovvertirle se e quando possibile e la scelta eversiva della lotta senza quartiere ed esclusione di colpi contro l’assetto democratico della Repubblica italiana. La distinzione tra “eversione” e “legalità” va poi ulteriormente dettagliandosi, anche all’interno dello stesso partito ammesso alla legalità parlamentare, per esempio nelle posizioni dei reduci veri e propri, dei nostalgici del regime e della repubblica di Salò, i quali andranno via via perdendo posizioni, sia per evidenti ragioni generazionali sia per la passività e l’inconcludenza della posizione sul piano politico. Segue poi la posizione dei sostenitori della sola via legale, che si concretizza nel partito il quale però è chiamato ad affrontare fin da subito evidenti contraddizioni: i suoi dirigenti sono prevalentemente settentrionali e reduci di Salò, mentre l’elettorato è di gran lunga più consistente al Sud e legato al ricordo del «fascismo di regime, quello dai connotati notabiliari, fortemente conservatori» (p. 57). Sul piano ideologico poi, la “sinistra”, che recupera il programma di “socializzazione” di Salò, la suggestione della “terza via” e che si colloca su posizioni “antiamericane”, si scontra con le posizioni moderate aperte all’”atlantismo”, che sfoceranno più tardi nel collateralismo alla DC. Infine si configura anche la posizione, sostanzialmente eversiva, degli “spiritualisti”, ovverosia di coloro per i quali il fascismo come “idea” trascende le sue manifestazioni storiche particolari e si presenta come una “visione del mondo” che valorizza l’aspetto “spirituale” dell’uomo di contro a quello “economico-materiale” e pertanto individua i propri principi fondamentali nella “tradizione”, nella “comunità” e nella “identità” – vale a dire nella “razza” – nel “nazionalismo”, nella “gerarchia” come ”ordine naturale” che si regge sulla “disciplina”, nel rifiuto della modernità e dell’intero suo portato politico e culturale. Si tratta di quella parte dell’estrema destra neofascista che ha gravitato per molto tempo attorno a Julius Evola e che ancora oggi continua a richiamarsi a quel bagaglio di idee e che individua l’essenza e l’eccentricità del fascismo nella figura estetico-esistenziale del “legionario”, cioè del militante disciplinato, virile e combattivo che è «pronto a trasformare la propria esistenza in una continua impresa indirizzata al combattimento» (p. 47). È il “soldato politico”, parte di una élite aristocratica che si distingue dalla massa per destino, prima ancora che per volontà.

Ai suoi esordi il programma dell’MSI si concentra sull’anticomunismo, sul nazionalismo, sul richiamo ai progetti sociali della RSI, sull’idea di Stato forte e sul rifiuto della democrazia. Dopo pochi mesi di segreteria di Giacinto Trevisonno, durante la fase di gestione collegiale del partito e non potendo Romualdi assumere incarichi per ragioni giudiziarie, è Giorgio Almirante che dal giugno del ‘47 ricopre la carica di segretario della giunta esecutiva e di seguito quella di segretario del partito. Almirante intende mantenere un forte legame con l’esperienza della RSI e ripropone i temi dell’anticapitalismo e dell’antiamericanismo. Gli ultimi anni ’40 sono quelli dell’assestamento per l’MSI e nel frattempo i governi democristiani chiudono definitivamente la fase delle comunque blandissime epurazioni. Con la fine della segreteria Almirante (gennaio 1950), che viene sostituito da De Marsanich, è la parte moderata del partito a prevalere, per poi stabilizzarsi definitivamente con la scelta della linea del collateralismo nei confronti della DC, operata tanto dallo stesso De Marsanich, fino al 1954, quanto da Michelini, che guida il partito per ben quindici anni, fino al 1969. Neppure l’ingresso e l’assunzione di incarichi nel partito da parte di Rodolfo Graziani e di Junio Valerio Borghese, salutati con speranze sia dalla sinistra sociale dell’MSI sia dalla destra tradizionalista e spiritualista evoliana, producono un cambiamento della rotta politica moderata, ed è in questo contesto che nel 1956, Pino Rauti, su posizioni di tradizionalismo evoliano, esce dal partito e fonda l’associazione politico-culturale Centro Studi Ordine Nuovo (CSON).

Per Rauti – spiega Vercelli – «si trattava di trovare nuovi riferimenti alla tradizione culturale, ai simbolismi e alla mitografia neofascista. Ne derivarono alcuni risultati, destinati a lasciare un lungo segno. Il primo fu la piena e definitiva nobilitazione dell’impostazione evoliana, quella sospesa tra aristocraticismo, tradizionalismo, ed esoterismo» (p. 75). Il materialismo, l’edonismo, il consumismo, che trovano il loro equivalente giuridico-politico nel parlamentarismo democratico, devono essere combattuti attraverso forme di militanza politica che si richiamano ai movimenti legionari di estrema destra, come quello della Guardia di Ferro di Codreanu, nella Romania degli anni Trenta e Quaranta. Per superare la logica dell’alternativa tra Oriente e Occidente, viene elaborata la teoria dell’”Europa Nazione”, che – fa notare Vercelli – riprendendo l’idea nazista della “Fortezza Europa”, sfocia in una sorta di “europeismo suprematista”, che declina l’idea nazionalistica sul piano continentale europeo. Quando nel 1969, con il ritorno di Almirante alla segreteria del Movimento sociale, Rauti decide di rientrare nel partito, la componente più intransigente di Ordine Nuovo non sposa questa scelta rautiana e fonda il Movimento Politico Ordine Nuovo (MPON). Complessivamente l’esperienza di Ordine Nuovo, riflette Vercelli, costituisce «una pietra miliare nella storia della destra estrema italiana» (p. 75), sia perché molte delle sue idee sopravvivono all’organizzazione stessa e ricompaiono in altre formazioni e gruppi del neofascismo italiano fino ad oggi, sia perché «la sua traiettoria operativa s’incrociò più volte con lo strutturarsi di quel livello parallelo e non ufficiale di attività militare, lo Stay-behind, che in Italia già dal 1956 implicò la nascita dell’organizzazione Gladio» (pp. 78-79). Pertanto Ordine Nuovo è stato parte essenziale ed attore tra i principali di quella “strategia della tensione” che si è poi concretizzata nello “stragismo”, in stretta collaborazione con servizi segreti deviati ed appartati occulti dello Stato, tra gli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, da piazza Fontana alla Stazione di Bologna.

Gli anni Sessanta della destra eversiva italiana si aprono con la fondazione di una nuova organizzazione – Avanguardia nazionale – ad opera, tra gli altri, di un rautiano già coinvolto nelle attività di CSON: Stefano Delle Chiaie. Osserva Vercelli che «Avanguardia nazionale si rifaceva alla RSI come a diversi aspetti del nazionalsocialismo, giudicando fattibile una battaglia contro la democrazia solo attraverso la formazione di militanti tanto disciplinati quanto animati da un fideismo totale, nello “stile legionario” che doveva contraddistinguere le avanguardie della “rivoluzione nazionale”» (pp. 82-83). L’organizzazione di Delle Chiaie e poi di Adriano Tilgher è apertamente favorevole a soluzioni golpiste ed intrattiene rapporti coi regimi militari dell’America latina, di Spagna, Portogallo e soprattutto Grecia. Si impegna negli scontri di piazza e all’interno del mondo studentesco e universitario; il suo coinvolgimento nelle trame eversive e terroristiche di quegli anni è tale che nel 1976 viene dichiarata fuori legge. Altri eventi rilevanti di quel decennio sono il cosiddetto “piano Solo”, ovvero il tentato colpo di Stato ordito dal comandante dell’Arma dei Carabinieri, il generale Giovani de Lorenzo; l’uscita dall’MSI di Junio Valerio Borghese (1968), che dà vita al Fronte Nazionale, che due anni dopo sarà in prima fila nell’organizzazione del cosiddetto “golpe Borghese”. Una formazione politica dai progetti velleitari – tanto quanto il tentativo fallito di sovvertimento dell’ordine costituito – che, osserva Vercelli, ripropone vecchi cliché politici, che non vanno al di là della nostalgia del fascismo storico, proprio in un momento in cui, anche nell’area dell’estremismo di destra, sorgono nuovi fermenti e soprattutto l’esigenza di ripensare la militanza politica neofascista in modo indipendente dal passato.

Proprio per queste ragioni, in quegli anni hanno successo anche in Italia le idee di Jean-Francǫis Thiriart, fondatore nel 1962 di Jeune Europe, teorizzatore del “comunitarismo”, vale a dire di una confusa visione politica che intende proporsi come sintesi e quindi superamento dell’opposizione fascismo-comunismo, che riprende e corrobora l’idea di Europa Nazione, come “terza via” possibile nel mondo della contrapposizione tra blocchi, che, assumendo posizioni di antiamericanismo ed antisionismo, intende tanto opporsi al neoimperialismo, appoggiando i paesi non allineati o simpatizzando per il “guevarismo”, quanto rifiutare il materialismo edonistico ed il meticciato privo di radici, rappresentati dal modello statunitense. Idee che attraggono i giovani italiani cresciuti nell’area della destra radicale, in cerca di idee alternative tanto a quelle del conservatorismo legalitario dell’MSI, quanto a quelle del golpismo vecchio stampo. È da qui che iniziano a dipanarsi i fili di un percorso politico di lungo periodo, che ancora oggi è chiaramente presente nelle posizioni “rosso-brune” variamente espresse di volta in volta da Forza Nuova o da Casa Pound.

Il decennio 1969-1979, che Vercelli definisce “La stagione delle bombe”, è contraddistinto dai tentativi sempre più evidenti della destra estrema italiana di tagliare il cordone ombelicale col fascismo storico vissuto in modo nostalgico, perché «paralizzante rispetto a qualsiasi concreta azione politica» (p. 103). Da queste premesse prendono il via diverse linee di sviluppo politico: una è quella che si rifà al nazionalsocialismo e ad altre forme di fascismo di movimento e di militanza legionaria come le già ricordate Guardie di Ferro rumene o le Croci Frecciate ungheresi, perché ritenuto più capace di fornire una visione globale ed organica del mondo, il primo, e un modello valido di militanza, di fatto molto simile a quello evoliano del “soldato politico”, le seconde. Si tratta di idee che sostanziano le posizioni radicalmente eversive di Franco Freda, che con il suo “La disintegrazione del sistema”, ricorda Vercelli, diviene una figura carismatica di primissimo piano per il mondo dell’ultra destra italiana. Il passaggio successivo è quello della costituzione di nuove formazioni eversive, che prendano il posto delle ormai tramontate formazioni storiche (Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale), che rompano definitivamente – almeno nelle dichiarazioni – con l’MSI, considerato ormai come un partito di delatori, rinnegati, traditori compromessi col sistema che dovrebbero combattere e infine che, anche nel tentativo di competere con la forza superiore delle organizzazioni della lotta armata comunista, intraprendano la via dell’eversione terroristica, da interpretare nel modo più violento e duro possibile. Da queste premesse nascono sia Terza Posizione, di Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi, Giuseppe Dimitri, sia i Nuclei Armati Rivoluzionari, gruppo eversivo esclusivamente terroristico che in Giuseppe Valerio (Giusva) Fioravanti trova l’esponente più rappresentativo della sua essenza criminale.

Sul piano ideologico Terza posizione ripropone la prospettiva “nazionalrivoluzionaria” e mescola idee vecchie e nuove del fascismo e del neofascismo italiani: allo “Stato organico” come superamento dei conflitti di classe, al fascismo come “terza via” e al “socialismo nazionale”, alla difesa della “tradizione”, al ruolo politico delle “avanguardie consapevoli”, si aggiungono la teoria dell’Europa Nazione, il rifiuto dell’atlantismo missino, il coinvolgimento popolare nella lotta rivoluzionaria, l’attenzione per le marginalità sociali e per il mondo giovanile e di conseguenza il radicamento nel territorio e nei quartieri con la promozione di iniziative dal basso di mobilitazione e protesta, il sostegno alle lotte di liberazione nazionale, ma in quanto interpretate come movimenti di salvaguardia delle tradizioni dei popoli. Delle due anime dell’organizzazione, una – precisa Vercelli – più spontaneista e una invece (quella di Fiore e Adinolfi) che ritiene «indispensabile dotarsi di una filiera gerarchica e paramilitare per garantire la continuità organizzativa» (p. 131), è la seconda a prevalere nettamente, mentre lo spontaneismo armato e violento trova nei NAR le condizioni ideologiche e pratiche per la sua realizzazione compiuta. «I NAR, quindi, si svilupparono da subito, di contro all’esperienza di Terza Posizione, come una struttura aperta e acefala, una sorta di sigla-brand sotto la quale potevano riconoscersi soggetti anche molto diversi, ma accomunati dall’identità fascista e dalla disposizione al ricorso alle armi» (p. 134). Fioravanti, la Mambro e tutti gli altri si rifanno, aggiornandola ed adattandola al contesto degli anni in cui i NAR sono operativi (1977-1982), alla tradizionale idea fascista del primato della prassi sulla riflessione, dell’azione che fonda e giustifica se stessa, della violenza come mezzo di lotta politica non solo lecito, ma assolutamente necessario, in quanto atto che permette l’affermazione della forza guerriera degli individui superiori e che pertanto ristabilisce il naturale ordine della disuguaglianza. L’esaltazione della violenza, del ricorso necessario alle armi, della spontaneità autogiustificante dell’atto di forza, da un lato e la debolezza e la labilità ideologiche, dall’altro, conducono i NAR ad intrattenere relazioni sempre più strette con organizzazioni della malavita comune, come la banda della Magliana o la mala del Brenta. Insomma, spiega Vercelli, l’esperienza politico-terroristica dei NAR si sviluppa in direzione di un nichilismo individualistico destinato a concretizzarsi in un bagno di sangue privo di alcun senso, cioè del tutto fine a se stesso. E ancora una volta sono suggestioni evoliane, quelle dell’ultima fase della riflessione del filosofo fascista, che impregnano e supportano l’agire della più violenta tra le formazioni dell’estrema destra eversiva italiana.

In quegli stessi anni, nell’area dell’estrema destra legale e in collegamento con il partito, si sviluppano però anche altre iniziative, che, di fronte alle difficoltà di conseguire concreti risultati politici, spostano l’asse della loro azione sul piano sociale e soprattutto culturale, cioè “metapolitico”, secondo l’espressione usata a destra e in questo contesto rientrano le esperienze dei tre Campi Hobbit (1977, 1978, 1980), che per la prima volta promuovono il fenomeno della musica e dei gruppi musicali di destra, oppure di esperienze e sperimentazioni artistiche, grafiche e comunicative che possano rappresentare forme nuove di aggregazione e mobilitazione per i giovani dell’estrema destra, stanchi delle modalità tradizionali missine e che in qualche modo possano emulare le forme aggregative dell’estrema sinistra, per competere con esse.

Con il passaggio al decennio successivo, in un quadro complessivo di riflusso e declino generalizzato della partecipazione e della militanza politiche, è proprio il piano “metapolitico” quello su cui a destra si lavora con più convinzione, attraverso un consistente numero di iniziative editoriali, spesso di bassissima tiratura e di effimera durata, ma che dimostrano in ogni caso una certa vivacità dell’area politica del neofascismo italiano, che si avvale anche delle idee della cosiddetta Nuova Destra di Alain de Benoist, che dalla Francia approdano in Italia. Il bagaglio ideologico rimane sostanzialmente sempre lo stesso degli anni e dei decenni precedenti, ma si lavora soprattutto sul piano “metapolitico” e “culturale”, anche attraverso il filtro della letteratura e dell’immaginario del genere fantasy e con il fine ultimo di conquistare una posizione di “egemonia culturale”, «intesa come capacità di influenzare in maniera decisiva l’opinione pubblica, orientandone gli atteggiamenti, le preferenze e, in immediato riflesso, le scelte» (p. 156).

L’ultima parte dell’interessante saggio di Vercelli è dedicata al periodo 1992-2019, dalla fine della prima Repubblica ad oggi, in cui va profilandosi lo scenario di un nuovo neofascismo, con la diffusione innanzi tutto del fenomeno dei gruppi skinhead (Azione Skinhead, Circolo Ideogramma, Veneto Fronte Skinhead, ecc) e con la loro capacità di infiltrazione delle tifoserie calcistiche ultras e poi con l’attivismo via via crescente delle due formazioni politiche più dinamiche in questi anni: Forza Nuova e Casa Pound Italia. La prima, nota Vercelli, è più evidentemente legata all’ex militanza e all’esperienza politica di Terza Posizione di Fiore ed Adinolfi e mantiene un’impostazione ideologica decisamente più dogmatica ed ortodossa che si incentra su tradizionalismo, vetero cattolicesimo, antisemitismo, omofobia, identitarismo, sovranismo, avversione per lo straniero e rifiuto del meticciato, antimondialismo, anticapitalismo, ma da intendersi non tanto come messa in discussione delle strutture del modo di produzione capitalistico, quanto piuttosto come avversione nei confronti del sistema bancario e finanziario internazionale (associato al sionismo). La seconda, seppur il suo armamentario ideologico non si discosti poi più di tanto e in modo sostanziale da quello di Forza Nuova, si propone come una formazione politica meno rigida e dogmatica, più capace di muoversi sul piano “metapolitico” e su quello del radicamento nel territorio e nei quartieri, con la promozione di iniziative dal basso di mobilitazione sociale. Nonostante che sul piano elettorale nazionale, entrambe le formazioni politiche abbiano raccolto esiti del tutto irrilevanti (diverso è il discorso riguardante le aree tradizionalmente di maggior radicamento), anche grazie alle recenti e sempre più frequenti relazioni di Casa Pound con la Lega di Salvini, gli obiettivi dei neofascisti di ottenere una posizione di maggiore visibilità e rilevanza e di “occupare” un’area dell’opinione pubblica e dell’immaginario diffuso con alcune delle idee fondamentali dell’estrema destra, sembrano purtroppo essere stati conseguiti. Ma questo è un discorso che merita maggiori approfondimenti e più accurate analisi, essendo una pagina ancora aperta e in fieri della storia “nera” italiana che dura esattamente da un secolo.

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Istruzioni per diventare fascisti, di Michela Murgia https://www.carmillaonline.com/2019/01/16/istruzioni-per-diventare-fascisti-di-michela-murgia/ Tue, 15 Jan 2019 23:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50568 di Maurone Baldrati

Michela Murgia, Istruzioni per diventare fascisti, Einaudi, Torino, 2018, pp. 93, € 12,00

Non sappiamo se l’autrice abbia letto certi scritti e corrispondenze di Adolf Hitler. Questa citazione per esempio, tratta da una conversazione col gerarca di Danzica Rauschning, riportata da György Lukács ne La distruzione della ragione: “Altrimenti li dovremmo di nuovo inventare (gli ebrei ndr). L’essenziale è avere sempre un avversario visibile e non semplicemente astratto”. Quasi un secolo dopo il narratore (o meglio la narratrice) fascista di Michela Murgia afferma: “Non si diventa fascista senza un [...]]]> di Maurone Baldrati

Michela Murgia, Istruzioni per diventare fascisti, Einaudi, Torino, 2018, pp. 93, € 12,00

Non sappiamo se l’autrice abbia letto certi scritti e corrispondenze di Adolf Hitler. Questa citazione per esempio, tratta da una conversazione col gerarca di Danzica Rauschning, riportata da György Lukács ne La distruzione della ragione: “Altrimenti li dovremmo di nuovo inventare (gli ebrei ndr). L’essenziale è avere sempre un avversario visibile e non semplicemente astratto”. Quasi un secolo dopo il narratore (o meglio la narratrice) fascista di Michela Murgia afferma: “Non si diventa fascista senza un nemico, perché il fascismo per porsi deve opporsi”. Oppure, sempre da Hitler: “Il popolo è nella sua grande maggioranza di una natura così femminile che il suo pensiero e il suo modo di operare sono determinati non tanto dalla fredda riflessione quanto dalla sensibilità affettiva”. E la narratrice della Murgia: “Il cittadino medio è come un bambino di 12 anni non troppo intelligente”. Entrambi esprimono lo stesso sovrano disprezzo per il popolo, quell’entità composta da esseri inferiori – la natura femminile, un bambino stupido – da plasmare, spaventare, suggestionare. C’è quindi una continuità tra il progetto nazista di presa del potere e la modalità della fascista moderna che parla nel libro. E’ lo stesso cinismo, lo stesso calcolo criminale che prevede qualunque mezzo, qualunque menzogna per arrivare all’obiettivo.

E’ un personaggio inquietante questa macchina umana autocosciente del male creata da un’autrice che ha fatto dell’analisi della comunicazione autoritaria una delle proprie “cifre”. La fa viaggiare attraverso i vari “step” della distruzione del vivere civile: prima fase, la delegittimazione della democrazia, il peggior metodo di governo del pianeta. La si infanga con ogni mezzo, insultandola, calunniandola, ogni giorno, con metodo: smidollata, ricettacolo solo di confusione e debolezze, sistema bloccato dalle cosiddette “libertà”, per cui ognuno può sentirsi in diritto di manifestare il proprio dissenso bloccandone di continuo l’operatività. Lo scopo è portarla al disfacimento, insinuandosi nelle sue contraddizioni.

La democrazia è un sistema complicato, perché “si fonda sul dissenso, anziché sul consenso”. Complicato. Però il fascista non deve agire per semplificare, ma per banalizzare. Produrre una marea di messaggi banali, che distruggano l’essenziale, lasciando al popolo il superfluo, perché l’essenziale compete al “capo”. Il quale si distingue dal democratico “leader” in quanto non dirige un sistema sprecone e perditempo, ma comanda, agisce, protegge. L’alluvione di messaggi banali, di pillole di odio e di paura, minano l’esigenza, faticosa, di dover scegliere: il popolo può affidarsi al capo, che decide per lui.

A quel punto di procederà alla creazione del nemico, ben diverso dal democratico avversario, “una figura inutile e fastidiosa che per quanto possa avere delle idee diverse resta comunque dentro alla dialettica del riconoscimento”. E a differenza dell’avversario, che ha un’identità riconoscibile, il nemico “può essere incarnato da categorie generiche e nebulose, gli immigrati, gli islamici, il gender, gli anarcoinsurrezionalisti, gli ambientalisti, le femministe”.

Essendo una personalità indistinta il nemico può assorbire la colpa, qualsiasi colpa, anche se non l’ha commessa in prima persona, perché la responsabilità del singolo si fonde con la sua categoria di appartenenza. Così se un negro stupra una ragazza tutti i negri diventano stupratori e così via.

La nostra docente di fascismo militante procede lancia in resta affrontando con puntiglio tutti gli altri passaggi: la comunicazione, o meglio, la tecnica della disinformazione e della menzogna; la violenza, necessaria e naturale per il fascista; il ruolo della donna, custode del focolare e generatrice di bambini; e il populismo, altra arma fondamentale nel percorso di conquista del fascista. I democratici li accusano? Ben venga il populismo perché avvicina il capo al popolo, si comporta come lui, parla come lui, si fa vedere in bicicletta mentre i vip democratici vanno in giro con l’auto blu; mangia hamburger e il dado Star, alla faccia dei radical chic buonisti che passano da un aperitivo a una cena vegana.

Avanza pimpante, quasi strafottente, la fascista narrante. Disegna con capacità dialettica la creatura maligna che, temiamo, si appresta a possedere questa parte di mondo: una gigantesca piovra mutante con tentacoli sensibilissimi che sentono ogni segnale, ogni vibrazione che si sprigiona dall’organismo vivente del quale facciamo parte. Se ne impossessa, li sintetizza, li trasforma in messaggi subliminali, in paura e promesse. E’ sicura di sé, perché sa di essere stata sdoganata, lei i suoi camerati, da decenni di distrazione e di viltà dei democratici, o addirittura da oscene fornicazioni che hanno fatto assieme, come partecipare a dibattiti o feste più o meno palesemente fasciste, ridendo e cantando coi camerati nella più scandalosa irresponsabilità o malafede.

Istruzioni per diventare fascisti è un’opera raffinata, coraggiosa, anche se non esente da rischi: l’autrice stessa sembra rendersene conto quando scrive, nel primo capitolo: “A forza di sentirselo dire sarà naturale per chiunque arrivare alla conclusione che la concentrazione di potere nelle mani di un uomo forte che sa quel serve sarebbe molto più efficace che far esprimere continuamente sul niente un paese debole”. Appunto. A forza di sentirsi ripetere quanto è smidollata, corrotta e sbagliata la democrazia uno può arrivare a dichiararsi d’accordo. E quindi entrare in empatia con la fascista, nonostante tutto.

Oppure la vera natura del fascista: la docente non ne fa cenno. E come potrebbe? Dovrebbe entrare in una fase di autoanalisi politica. E mentirebbe, come sempre. Eppure il fascismo non è un’entita astratta, non vuole conquistare il potere per un’ideale o per il “suo” popolo. I fascisti sono, fin dalla nascita, dei mercenari creati dalle classi dominanti per i lavori sporchi. Da noi sono nati come sicari al servizio dei latifondisti per picchiare e uccidere i braccianti in sciopero. In Germania sono stati il braccio armato dei grandi capitalisti (gli Junkers), desiderosi di uscire dalla depressione delle guerre perdute e di riprendere il dominio del mondo.

La Murgia è riuscita a dribblare questi rischi scrivendo un dettagliato manuale tecnico. Infatti un titolo alternativo potrebbe essere Il manuale del fascista professionista. Ricorda Il manuale del killer professionista uscito nel 1982 con la rivista Frigidaire. Il killer era tra noi, non si impelagava in spiegazioni sul perché era tale.

Così la fascista, i fascisti, sono tra noi, modernizzati, mimetizzati, riorganizzati, e spetta proprio a noi smascherare la vera natura del loro operato e della loro malvagità.

Spetta proprio a noi impedire che il “tra noi” si trasformi, sotto il nostro naso, in “su di noi”.

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Storia di Ordine Nuovo https://www.carmillaonline.com/2017/12/16/storia-di-ordine-nuovo/ Fri, 15 Dec 2017 23:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42229 di Giovanni Iozzoli

Aldo Giannuli e Elia Rosati, Storia di Ordine Nuovo, Mimesis, Milano-Udine, pp. 240, € 18.00

Questo libro ha il valore di una testimonianza storica – rigorosa, fondata sullo studio di una ricca documentazione a cui Aldo Giannuli ha avuto accesso negli anni, in qualità di consulente della Commissione stragi, oltre che di diverse Procure impegnate in inchieste sul terrorismo nero. Ed è attraverso i documenti degli archivi di Stato che si cerca di raccontare la parabola di Ordine Nuovo, il gruppo che si è guadagnato la più fosca autorevolezza, nella [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Aldo Giannuli e Elia Rosati, Storia di Ordine Nuovo, Mimesis, Milano-Udine, pp. 240, € 18.00

Questo libro ha il valore di una testimonianza storica – rigorosa, fondata sullo studio di una ricca documentazione a cui Aldo Giannuli ha avuto accesso negli anni, in qualità di consulente della Commissione stragi, oltre che di diverse Procure impegnate in inchieste sul terrorismo nero. Ed è attraverso i documenti degli archivi di Stato che si cerca di raccontare la parabola di Ordine Nuovo, il gruppo che si è guadagnato la più fosca autorevolezza, nella storia del neofascismo italiano.

Quella di lasciar parlare le carte desecretate, custodite nei faldoni più oscuri della memoria repubblicana, non è una scelta arbitraria da parte degli autori: sta a significare che si può riscrivere la storia di quest’area, solo rileggendo in controluce la fitta trama dei suoi rapporti con istituzioni e apparati. Regimi stranieri, Ministero dell’Interno, Forze Armate, servizi di sicurezza: ON non fu mai davvero “infiltrata”, quanto consapevolmente e volontariamente organica a quei mondi. E se tra le sue fila si conteranno molti dirigenti a libro paga dei servizi – e diversi bombaroli e mercenari –, non sarà per caso, ma per coerenza alle ideologie, ai programmi e ai finanziatori del neofascismo italiano. Un capitolo finale viene dedicato alla Weltanschauung del gruppo, una formazione che vantava suggestioni iniziatico-militari, che amava descrivere se stessa come élite politica, che fu permeabile più di altri alle influenza evoliane e naziste. Ma il taglio e l’impostazione che vengono dati dagli autori a questo lavoro, non lascia spazio ad equivoci: ideologie, estetica e mitologia, vengono “dopo” – non sono l’essenza o la chiave per rileggere una storia sporca e complessa, che si colloca dentro la contesa geopolitica di quei decenni, più che nel regno dello Spirito.

La storia di ON comincia nel 1956, con la scissione di una ottantina di quadri dal MSI, partito che Michelini guida fermamente puntando a rafforzare un orientamento filo-atlantico e una prospettiva di inserimento della destra dentro i giochi politici. I fuoriusciti, guidati dal giovane Pino Rauti, si oppongono alla leadership missina che considerano garante di una “deriva moderata”: nasce così il Centro Studi Ordine Nuovo. In patria il nuovo gruppo gode di poco seguito – i micheliniani reggono alla scissione – e, almeno fino al 1959, anche di scarse risorse. Gli ordinovisti hanno però solida fama di coerenza ideologica e questo permette loro di coltivare i rapporti con Evola e con il milieu nazifascista europeo. Sarà proprio grazie alle relazioni con l’Internazionale Nera – in particolare con Jeune Europe e con l’OAS francese – che ON comincia ad accreditarsi verso le alte sfere dell’anticomunismo internazionale: «Il salto di qualità nella storia di ON sarà rappresentato, infatti, proprio dalla collaborazione con l’OAS, per conto del quale il gruppo italiano svolgerà azioni terroristiche, traffico di armi ed altro» (p.12). E questi rapporti internazionali apriranno porte importanti anche in Patria: «Fu in questo modo che un gruppo di dirigenti e fiancheggiatori del gruppo Giannettini-Ragno e lo stesso Rauti, entrò in contatto con il capo di Stato Maggiore Gen. Aloja che li introduceva, fra il 1961 e il 1964, nel Sifar» (pag.12)

È in questa fase, con l’inserimento nel traffico d’armi internazionali e con le relazioni sempre più strette con apparati di Stato e le FFAA, che ON comincia anche ad articolare la sua struttura, dotandosi di solide branche militari, con organizzazioni parallele finanziate e protette. Sarà nel rapporto con la Spagna franchista, che ON rafforzerà il suo apparato logistico ed ideologico. Un breve richiamo storico risulta utile: il salazarismo a Lisbona, il franchismo a Madrid e, più tardi, il regime dei colonnelli ad Atene, costituiscono in quei decenni una cintura fascista che stringe al cuore il Mediterraneo. L’Italia è circondata e influenzata da questa rete di forze sovranazionali che rappresentano anche il fronte sud-occidentale, della guerra ideologica e politica al blocco socialista e al movimento operaio. Al neo fascismo italiano basta attraversare un paio di frontiere o un tratto di mare, per trovare protezioni, rifugi, armi e risorse. Sono i servizi segreti – soprattutto spagnoli – a prendersi in carico questa missione di raccordo europeo delle forze anticomuniste: «I rapporti fra ON ed i servizi spagnoli non furono una casualità, ma la conseguenza logica dell’attenzione degli spagnoli per tutto quello che si muoveva sul terreno della “controinsorgenza” e della loro riconosciuta competenza in proposito» (p. 24).

La Spagna quindi, come laboratorio controrivoluzionario che fin dagli anni ’30, fornisce indicazioni preziose per ogni azione di contrasto alle forze popolari e che dal 1940 punisce il crimine di “attività comuniste” (legge rimasta in auge fino al 1977): «La guerra civile spagnola anticipò diverse soluzioni che si riproporranno nei piani di controinsorgenza degli anni 60. Infatti, nei ristretti ambienti dell’intelligence occidentale e di qui ai settori politici che avevano accesso alle loro informazioni – gli spagnoli godevano di grande considerazione in materia di guerra psicologica e guerra non ortodossa» (p. 24).

Ma in patria, il quadro dello scontro politico è altrettanto aspro che su scala internazionale. Il neocapitalismo e lo sviluppo industriale rafforzano il movimento operaio e danno al PCI un peso politico nella società italiana anche superiore a quello elettorale, pure ingente. È in questo quadro di rapporti assi torbidi, che si elaborano i progetti di Guerra Controrivoluzionaria, in cui ON fu lo snodo tra istituzioni e milizie civili: l’idea e i programmi operativi secondo cui la lotta contro il comunismo e il movimento operaio andava condotta non solo attraverso le dimensioni propriamente statuali e militari, ma anche sulla base dell’iniziativa armata dal basso. Da questo crogiuolo di suggestioni e progetti, nacquero la rete Stay Behind e i più misteriosi Nuclei difesa dello Stato, strutture in cui, quasi senza soluzione di continuità, militanti e dirigenti dell’estrema destra passarono da un livello all’altro, senza la minima remora ideologica:

In sostanza erano formati da persone che si erano tenute sempre in contatto con l’esercito, come ex sottufficiali, ex carabinieri, ex combattenti delle varie armi e costituivano piccoli plotoni che facevano addestramento anche con militari in servizio. Erano piccole unità capaci anche di essere indipendenti l’una dall’altra, secondo le tecniche di un certo tipo di difesa. Fra loro si conoscevano solo i capigruppo. L’esistenza di questa struttura in sostanza semiufficiale era pienamente nota alle autorità militari… Il suo fine era la difesa del territorio in caso di invasione e , se necessario, aveva anche compiti antinsurrezionali in caso di sommosse da parte dei comunisti. In sostanza queste strutture seguivano la linea ortodossa della Nato. Era sicuramente presente in Veneto in forze, in Alto Adige e in Valtellina, ove ad essa facevano riferimento le persone del gruppo Fumagalli… a Verona il responsabile… era il colonnello Spiazzi… La finalità della struttura era certamente quella di fare un colpo di Stato all’interno di una situazione che prevedeva attentati dimostrativi, preferibilmente senza vittime, al fine di spingere la popolazione a richiedere o ad accettare un governo forte. Ovviamente, in un attentato potevano esserci vittime casuali, ma questo, secondo chi dirigeva la struttura, era un prezzo che, in uno scontro così grosso per il nostro paese, si poteva pagare (deposizione di Carlo Di Gilio, p. 43)

Ordine Nuovo sarà la camera di compensazione in cui queste esigenze eversive troveranno spesso raccordo. Nello sforzo di rafforzare ed estendere questa intricata rete che teneva insieme militanza politica, presidio militare e servizi di sicurezza, l’attività degli ordinovisti fu infaticabile: nel libro ritorna spesso la memoria del famigerato Istituto Pollio, del quale Rauti e altri dirigenti di ON saranno tra i promotori. Ai dibattiti pubblici dell’Istituto, parteciperanno, seduti fianco a fianco, alte gerarchie delle Forze Armate, onorevoli missini, diversi direttori di quotidiani di area moderata, i vertici del Sifar, pezzi di Confindustria (generosi finanziatori, come l’armatore Costa). La campagna controinsurrezionale è già diventata il terreno comune che tiene insieme tutte queste forze. Come nella migliore tradizione italiana, però, le élite praticavano anche una guerra tra bande, dentro il fronte anticomunista, in particolare tra settori di Forze Armate più schierate e “interventiste”, rispetto alle effervescenze della società italiana; i comandi più prudentemente neutralisti e le strutture del Ministero dell’Interno – come il famigerato Ufficio Affari Riservati. Ordine Nuovo, e in particolare Pino Rauti, si alimentano di queste contraddizioni, tenendo sempre attiva una sequela di iniziative provocatorie, grandi e piccole.

Sul piano ideologico è nei primi anni 60 che dentro ON matura la svolta pienamente “occidentalista”. Ci si potrebbe chiedere, infatti: come potevano formazioni che celebravano il culto delle SS o delle “brigate nere”, zeppe di ex combattenti repubblichini e sature di retorica sul “riscatto della Patria tradita”, ritrovarsi solo pochi anni dopo, con tanta disinvoltura, a ricevere soldi e orientamento politico da parte degli ex nemici?

I movimenti fascisti e nazisti nati dopo il 1945, nella maggior parte dei casi, avevano mantenuto la contemporanea opposizione sia contro gli angloamericani che contro i sovietici… Già nella prima metà degli anni cinquanta, tuttavia, iniziava un avvicinamento tra neo-fascisti ed anticomunismo bianco. Infatti, per l’estrema destra si trattava di rompere l’accerchiamento, accettando realisticamente la sconfitta, per reinserirsi nel gioco politico. Per “l’anticomunismo bianco” la spinta veniva dal bisogno di recuperare un’area militante, disposta anche allo scontro fisico con le sinistre (p. 82)

Per potersi avvicinare agli Usa, si modificava lo statuto valoriale del neo-fascismo, si tralasciavano elementi fondanti della sua memoria di guerra, si costruiva una nuova ideologia “occidentalista”: «Per gli ideologici occidentalisti il contrasto fra occidente e comunismo non era da intendersi come confronto di natura sociale ed ideologica, ma come scontro fra modelli di civiltà irriducibili l’uno all’altro» (p. 87).

Da qui in avanti, ogni velleitaria terza via vagheggiata tra capitalismo e comunismo, ogni europeismo tradizionalista, ogni ostilità all’imperialismo americano, cessano di esistere o si limitano a esercitare solo funzioni di facciata, di agitazione, di collante ideale per le basi militanti: l’Occidente – inteso come concetto né geografico né meramente politico, ma come avamposto di civiltà contro i popoli gialli e neri, in pericolosa rivolta anticoloniale – sarà il bastione della destra radicale, in Italia e in Europa. Gli Usa e la Nato troveranno a loro disposizione una massa critica di uomini, armi, organizzazioni e quadri politici, da poter manovrare senza remore sullo scenario italiano.

Tra l’altro, dopo i fatti di Genova del luglio 60, la strategia micheliniana di approccio alla DC e di inserimento della destra italiana nel gioco politico, risulta ridimensionata. Ci si avvia alla stagione del centro sinistra. Gli apparati militari e le strutture di influenza americane in Italia entrano in fibrillazione. La critica “da destra” del Msi e la rottura rautiana con quel partito, non hanno più ragioni così forti da esibire. E del resto tra i gruppi come Ordine Nuovo e il Movimento Sociale Italiano, non si edificarono mai barriere e rigide divisioni: personalità, giornali, sedi, fonti di finanziamento, potevano attraversare labili confini di organizzazione o denominazione, continuando, più o meno, a praticare le medesime politiche (a differenza da quanto avvenne nel PCI che, già dopo il 68, eresse un muro invalicabile alla sua sinistra).

Nel 1969 Giorgio Almirante subentra al vecchio Michelini, deceduto per malattia:

con l’elezione di Almirante, la situazione mutava radicalmente ed il MSI registrava una improvvisa frustata attivistica. Già dopo pochi giorni l’elezione, Almirante, in concomitanza con la scissione socialista e con la crisi di governo, chiamava la destra alla mobilitazione di piazza… La creazione di una piazza di destra, è il primo necessario presupposto per calamitare anche i consensi di quel ceto medio impaurito dalla mobilitazione sindacale dell’autunno caldo e pronto a voltare le spalle a DC e PLI in favore di un più deciso antagonista della sinistra (p. 103).

In considerazione di questa svolta missina, la tentazione di rientrare nel MSI diventa, anche dentro ON, più pressante. La contestazione giovanile e l’autunno operaio rappresentano una scossa per la destra italiana. Tra l’altro ON, nonostante i suoi finanziatori internazionali, continua ad avere accesso a risorse troppo limitate; l’ultima velleità di trasformarsi in vero e proprio partito nazionale, è affidata a Confindustria:

Così nella primavera del 1966 ON cercava di risolvere definitivamente i suoi problemi incontrandosi con il Presidente di Confindustria. E, infatti, nel settembre di quell’anno, uno speranzoso Rauti annunciava al direttorio dell’organizzazione: i problemi finanziari di Ordine Nuovo potranno essere totalmente risolti alla fine del corrente anno o nei primi mesi del 1967 dato che sono attualmente ben avviati, con prospettive di soluzioni favorevoli, numerosi contatti e trattative con ambienti industriali italiani (p. 104).

Trattative che evidentemente non andarono nella direzione sperata. Nell’autunno del 1969 la maggioranza di ON decide il rientro alla casa madre missina. Si dice che Rauti, perorando questa decisione nel dibattito interno al gruppo dirigente ordinovista, parlasse della necessita di “aprire l’ombrello”: il partito di Almirante offriva un riparo e qualche margine di copertura politica, davanti alla durissima stagione delle stragi e dello scontro sociale che si andava ad aprire nel paese. La maggior parte del radicalismo neofascista rientrò, più o meno ufficialmente, nel MSI e questo rafforzava anche il partito e quella “destra di piazza” a cui spetterà il compito di contrastare nei territori, nei luoghi di lavoro e nelle strade, l’iniziativa di classe:

la nuova politica musclè dell’MSI almirantiano, trovava calorosi apprezzamenti nel mondo imprenditoriale scosso dalla virulenza dell’autunno sindacale. E così, le esangui casse del’MSI iniziarono ben presto a rifiorire grazie alle cospicue donazioni dell’Assolombarda ma anche dei grandi enti di Stato quali l’Iri e l’Eni, pur se a prezzo di qualche risentimento da parte di amici tradizionali del partito, come i petrolieri privati. D’altro canto, Almirante saprà giocare molto spregiudicatamente tra vecchi e nuovi sostenitori, fra capitale pubblico e privato, trovando fertile occasione di inserimento nelle vicende della Montedison, Bastogi e Sir. Requisito essenziale della fortunata ricetta almirantiana, restava il sapiente dosaggio tra manganello e doppiopetto – secondo una espressione coerente del tempo (p. 125).

Il Centro Studi Ordine Nuovo cessa di esistere, Rauti diventa un onorevole missino e solo una fronda minoritaria persiste nell’extraparlamentarismo, appellandosi come Movimento Politico Ordine Nuovo – vicende convulse tra aree che si sovrapponevano, cooperavano, si facevano concorrenza, sempre all’ombra dei poteri forti che ne garantivano l’agibilità politica e il supporto finanziario a cui contribuiva, ancora fino alla metà dei settanta, il traffico d’armi internazionale:

Come si sa, la produzione e il commercio di delle armi sono sempre assoggettati a particolari misure di sorveglianza:… L’attività di compravendita è soggetta ad una complessa serie di autorizzazioni e controlli cui non restano certo estranei i servizi di sicurezza. È dunque inevitabile che, svolgendo intermediazione in quel settore, si venga in contatto con gli apparati di intelligence e questo rimanda ad un’altra caratteristica della storia di ON: il costante rapporto con i servizi segreti e l’altissimo numero di collaboratori, informatori e confidenti più o meno occasionali presenti tanto nel gruppo dirigente nazionale, quanto nelle sedi locali e nell’ambiente più prossimo (p. 143).

Un paragrafo a parte merita Franco Freda, figura di riferimento (ancora oggi) del milieu nazifascista. Non un militante di Ordine Nuovo, in senso stretto, ma sicuramente molto vicino ai suoi vertici. Nel 2005 una sentenza della Cassazione stabilirà definitivamente la responsabilità di Freda in ordine alla strage milanese, organizzata da «un gruppo eversivo costituito a Padova nell’ambito di Ordine Nuovo, capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura» (entrambi non perseguibili perché già processati e assolti per lo stesso reato). Anche qui, grande “mobilita’” delle sigle e delle appartenenze, ma ferrea unità nel perseguire la via della “Guerra controrivoluzionaria” di cui la strategia della tensione fu il capitolo propriamente italiano.

Con il 12 dicembre 1969 si comincia a sgranare il rosario dello stragismo, nel quale l’ambiente di Ordine Nuovo – formalmente disciolto ma assolutamente operativo nella guerra sporca lanciata contro le sinistre – si distinguerà senza remore: sono ordinovisti gli autori della strage di Peteano del maggio 72; è vicinissimo ad ON il gruppo milanese della Fenice, coinvolto in più di un attentato; ebbe rapporti con ON anche Bertoli, sedicente anarchico, attentatore alla questura di Milano; è ordinovista Carlo Maria Maggi, condannato in via definitiva per la strage di Brescia.

Le vicende successive alla confluenza di ON dentro il Msi, alla creazione del MPON e infine alla nascita di Ordine Nero, raccontano la solita trama di sigle, scioglimenti e autoscioglimenti – rapporti da retrobottega da cui viene forte odore di zolfo, caserme e nitroglicerina. La caduta del Muro di Berlino e la sconfitta di parte operaia che, tra gli ’80 e i ’90, disegna nuovi equilibri in Italia e in Europa, vedono l’estrema destra cambiare e adattarsi alla mutevolezza dei tempi. Anche il mondo degli “apparati riservati” riadatta le sue funzioni, in epoca post-guerra fredda.

In mezzo a questi terremoti, Pino Rauti sopravvive come una salamandra, collezionando rinvii a giudizi e schivando sentenze. Faro morale della destra sociale, diventerà anche segretario del MSI nel 1990, cercando di promuoverne una improbabile svolta movimentista. Ma la strada dei missini, alla fine del secolo, si presenta decisamente in discesa: basta attendere il passaggio del cadavere della prima Repubblica, un paio d’anni dopo, per cominciare a prepararsi all’ingresso nella stanza dei bottoni. Molto personale politico passato da Ordine Nuovo si ritroverà a sedere nel Parlamento della seconda Repubblica, così come fu per la prima.

La parte finale del volume, a cura di Elia Rosati, si occupa del variegato bagaglio di suggestioni filosofiche e ideologiche che ON porterà in dote al dibattito dentro la destra italiana. Si ricorda la tensione ideale verso Evola e il nazionalsocialismo, la continuità con la memoria repubblichina (che pure Evola non esaltava), l’idea di Europa e Tradizione, contrapposte alla modernità decadente nelle sue due varianti – quella yankee e quella bolscevica. Tutto materiale interessante, ma collocato nel libro in una posizione indiscutibilmente “da appendice”: come a dire, nella vicenda di Ordine Nuovo, l’essenza della storia va cercata nel suo essere consapevole strumento del terrorismo di Stato. La mitopoiesi del “soldato politico” in lotta contro la “barbarie materialista”, è parte di una narrazione precocemente usurata: mai come nella destra radicale italiana idealità e prassi si scindono brutalmente e le ragioni del neo-fascismo si piegheranno docilmente alle esigenze di realpolitik dei mandanti e dei finanziatori – lasciando dietro di sé libri bislacchi, documenti pomposi, declamazioni di “sovversivismo esistenziale” e una gran massa di documentazione compromettente, a cui Aldo Giannulli ha avuto il merito di attingere con metodo e pazienza.

Si discute molto, oggi, di una presunta rinascita dell’estrema destra. Troppo complesso affrontare in questa sede la questione – e ovviamente, il libro non se ne occupa. Di fascisti in giro, in questo paese, ce ne sono sempre stati tanti. Diciamo che quelli all’opera oggi sembrano piuttosto cambiati: anziché “cavalcare la tigre” preferiscono cavalcare la protesta contro i campi rom, un po’ più agevole ed elettoralmente redditizia, rispetto alla titanica “lotta alla Modernità”. Giri vorticosi di società, merchandising, corsa ai talk show. A vederli tutti compunti a raccogliere firme contro un centro di prima accoglienza, mettono un po’ di tristezza: confermano una sorta di generale ridimensionamento delle velleità ideologiche – anche delle più ignobili –, tipica di questi tempi grami. Se questi tardi epigoni cominciassero a leggere libri come questo, forse conoscerebbero meglio le radici – marce – della storia che pretendono di rappresentare e reiterare oggi.

Mentre chiudo queste brevi note, le agenzie internazionali diffondono una notizia inquietante: l’Imam di Ripoll, Abdelbaky Es Satty, indicato come mente e organizzatore del nucleo jhiadista autore della strage di Barcellona, era ufficialmente in rapporto con i servizi segreti di Madrid. Non è il primo e non sarà l’ultimo, di quel mondo. L’impressione è di una tremenda coazione a ripetere. Pur nel profondo cambiamento di forze e contesti, mercenari, imbecilli e infiltrati, continuano a rappresentare un’arma persistente ed inossidabile della scontro geo-politico in atto. E i corpi delle persone comuni, diventano, di regola, terreno di battaglia: una storia che noi in Italia conosciamo bene.

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Fascismo manifesto https://www.carmillaonline.com/2017/09/06/40484/ Tue, 05 Sep 2017 22:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40484 di Armando Lancellotti

Era il 1944 quando il Nucleo di Propaganda del Minculpop, che gestiva la progettazione e la produzione di volantini e manifesti, ne realizzò uno a colori – di 34.5 x 24.5 cm, con lo slogan Difendila! Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia – che in questi giorni è assurto agli onori delle cronache perché pedissequamente riproposto da Forza Nuova, che in tal modo ha facilmente centrato almeno un paio di obiettivi: far parlare di sé e corroborare il già forte stereotipo che identifica stranieri-migranti e stupratori.

Di certo vi è una buona dose di [...]]]> di Armando Lancellotti

Era il 1944 quando il Nucleo di Propaganda del Minculpop, che gestiva la progettazione e la produzione di volantini e manifesti, ne realizzò uno a colori – di 34.5 x 24.5 cm, con lo slogan Difendila! Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia – che in questi giorni è assurto agli onori delle cronache perché pedissequamente riproposto da Forza Nuova, che in tal modo ha facilmente centrato almeno un paio di obiettivi: far parlare di sé e corroborare il già forte stereotipo che identifica stranieri-migranti e stupratori.

Di certo vi è una buona dose di citazionismo nostalgico decisamente rétro nella scelta di riesumare un manifesto dalla grafica e dall’estetica superate; nostalgismo indirizzato a quei “camerati” che nei propri incontrollabili vagheggiamenti onirici desidererebbero forse più di ogni altra cosa un ritorno ad un ormai lontano passato in cui si poteva – o meglio, si doveva – discriminare, arrestare e consegnare gli ebrei; internare e deportare i “barbari slavi” nei Balcani; approfittare delle “faccette nere”, trasformate in “sciarmutte” e “madame”, nelle colonie africane dai soldati italiani.

Ma se citazioni repubblichine e nostalgie “in camicia nera” si rivolgono ad un destinatario tutto sommato politicamente e quantitativamente ridotto, il “contenuto” del messaggio del manifesto del ’44 riproposto dai fascisti di oggi è in grado di raggiungere, invece, una platea ben più allargata e pericolosamente in continua, rapida ed esponenziale crescita: un destinatario che del Minculpop del Ministro Ferdinando Mezzasoma e del capo di gabinetto Giorgio Almirante potrebbe anche sapere poco o nulla, così come della storia della Rsi, ma che sempre più si sta convincendo che sia in atto una “invasione” del paese e che ci si debba mobilitare e difendere dal pericolo di una qualche “conquista allogena”, o dalla “sottomissione” agli “stranieri”, se non addirittura da una fantomatica ed apocalittica “sostituzione etnica”.

Non c’è da stupirsi, allora, che i militanti di Forza Nuova e del neofascismo italiano in generale abbiano come riferimenti ideologici il nazionalismo, lo sciovinismo, il razzismo, il maschilismo machista e paternalista (difendere madri, mogli, sorelle e figlie è lavoro da uomo risoluto e forte, avvezzo all’uso del manganello, insomma da fascista) che traboccano da un manifesto di propaganda di settant’anni fa e che costituiscono l’armamentario ideale di ogni fascismo, passato e presente; c’è da preoccuparsi piuttosto che quelle idee bislacche, quelle sbracate deduzioni ed infami associazioni ormai circolino diffusamente, al punto da costituire quasi un automatismo mentale irriflesso.

I curatori del catalogo della mostra La menzogna della razza (Grafis edizioni, Bologna, 1994) scrivevano: «chi ha progettato il manifesto riteneva che la raffigurazione dello stupro avrebbe guadagnato in atrocità proprio sottolineando la diversità etnica di chi lo perpetra. Così il soldato nero ha sguardo lubrico, bocca e labbra ingigantite, mani ad artiglio, è tutto proteso nella brama di possesso simboleggiata dalla vampa di fuoco che sembra emanare dal suo corpo, materializzazione dello smodato desiderio erotico che il pregiudizio razzista ha spesso attribuito alle genti di colore. La donna bianca viene rappresentata come il suo opposto speculare: il volto atteggiato a severo sdegno ma composto nella sua dignità ferita, la veste candida della purezza, il corpo disperatamente teso nel virtuoso sforzo della repulsione» (p. 202).

Certo, allora, nel 1944, il pericolo era individuato nel soldato americano di colore ed “invasore”, ma basterebbe sostituire la camicia verde militare e il cappello tipo ranger con una moderna felpa con cappuccio ed ogni eventuale residuo ostacolo all’innesco dell’associazione straniero-nero-migrante = stupratore di donna-bianca-italiana verrebbe agevolmente superato.

E a proposito di automatismi irriflessi o parole senza pensiero, non è stata forse la Presidente del Friuli Venezia Giulia ed esponente di primo piano del Partito Democratico Debora Serracchiani a sostenere a maggio scorso che «la violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro paese» (il manifesto, 14 maggio 2107) ? E come se non fosse bastato, per parare le critiche che le sono piovute addosso, la stessa Serracchiani ha maldestramente affermato di avere detto semplicemente «cose di buon senso».

Di certo non si tratta di “buon senso”, di quel bon sens che Cartesio definiva come la facoltà di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso e che – un po’ troppo ottimisticamente – riteneva essere la cosa nel mondo meglio ripartita; ma forse si tratta di senso comune, di un tanto generalizzato e pervasivo quanto acritico e stereotipato modo di giudicare senza pensare. Un senso comune italiano di inizio XXI secolo di cui rigurgiti razzisti, velleità nazionalistiche e sovraniste, rivendicazioni identitarie pseudoculturali-religiose, innescate da crisi economica, pauperizzazione crescente, disorientamento sociale e politico, costituiscono una parte essenziale.

Allora forse non ci si dovrà stupire se tra qualche settimana o qualche mese Forza Nuova et similia ripescheranno dagli archivi della memoria repubblichina altre immagini o manifesti, come quest’altro, che si presterebbe precisamente a fare da supporto al teorema della sottomissione culturale-religiosa, dopo un’opportuna e semplice operazione di maquillage, per la quale ci si potrebbe rivolgere agli stessi che un anno fa hanno preparato per il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, il manifesto propagandistico per il Fertility Day.
Nel manifesto di 100 x 70 cm disegnato da Gino Boccasile – Un soldato U.S.A. nero depreda una chiesa – «il soldato afro-americano, i cui tratti vengono contorti dal disegnatore in un grottesco ghigno satanico ed insieme subumano, diventa qui saccheggiatore di chiese, sacrilego nemico della religione nel nome del guadagno. È accovacciato in un angolo del manifesto, che così viene tragicamente dominato dalla figura di questo Cristo biondo e arianizzato, più corpo rattrappito che statua di culto, quasi ad incarnare una “razza bianca” pura ed innocente abbattuta dagli “inferiori”» (La menzogna della razza, cit, p. 202).
Si pensi di svestire l’uomo di colore di uniforme ed elmetto statunitensi e di fargli indossare abiti che lo connotino immediatamente come musulmano e il manifesto è pronto per il riutilizzo, magari in occasione di una delle sempre più frequenti mobilitazioni di cittadini contro il trasferimento e l’insediamento di migranti.

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“Cinghiamattanza”: pensieri, parole ed opere dei “fascisti del terzo millennio” https://www.carmillaonline.com/2015/12/18/cinghiamattanza-pensieri-parole-ed-opere-dei-fascisti-del-terzo-millennio/ Fri, 18 Dec 2015 22:30:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27112 di Armando Lancellotti

cover CammelliMaddalena Gretel Cammelli, Fascisti del terzo millennio. Per un’antropologia di CasaPound, Ombre Corte, Verona, 2015, 126 pagine, € 12,00

«Primo: me sfilo la cinta; due: inizia la danza/ Tre: prendo bene la mira; quattro: cinghiamattanza/ Primo: me sfilo la cinta; due: inizia la danza/ Tre: prendo bene la mira; quattro: cinghiamattanza/ Cinghiamattanza!/ Cinghiamattanza!/ Cinghiamattanza!/ Questo cuoio nell’aria sta ufficializzando la danza/ Solo la casta guerriera pratica cinghiamattanza/ Questo cuoio nell’aria sta ufficializzando la danza/ Solo la casta guerriera pratica cinghiamattanza/ Cinghiamattanza!/ Cinghiamattanza!/ Ecco le fruste sonore stanno incendiando [...]]]> di Armando Lancellotti

cover CammelliMaddalena Gretel Cammelli, Fascisti del terzo millennio. Per un’antropologia di CasaPound, Ombre Corte, Verona, 2015, 126 pagine, € 12,00

«Primo: me sfilo la cinta; due: inizia la danza/ Tre: prendo bene la mira; quattro: cinghiamattanza/ Primo: me sfilo la cinta; due: inizia la danza/ Tre: prendo bene la mira; quattro: cinghiamattanza/ Cinghiamattanza!/ Cinghiamattanza!/ Cinghiamattanza!/ Questo cuoio nell’aria sta ufficializzando la danza/ Solo la casta guerriera pratica cinghiamattanza/ Questo cuoio nell’aria sta ufficializzando la danza/ Solo la casta guerriera pratica cinghiamattanza/ Cinghiamattanza!/ Cinghiamattanza!/ Ecco le fruste sonore stanno incendiando la stanza/ Brucia la vita d’ardito, urlerai: “Cinghiamattanza!”» (p. 70).
Sono le parole di una canzone degli ZetaZeroAlfa, gruppo musicale di Gianluca Iannone, frontman della band, leader e guida carismatica di CasaPound Italia, movimento politico nato a Roma nel 2003 e che dà di sé la definizione di “fascismo del terzo millennio”.

Maddalena Gretel Cammelli, antropologa e ricercatrice presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e l’Università di Bergamo, ascolta la canzone e osserva la reazione del pubblico in una sera d’estate del 2010, quando si reca ad “Area 19 – postazione nemica”, dietro lo stadio Olimpico a Roma, uno spazio che «vuole essere l’equivalente fascista dei centri sociali […] in occasione dell’appuntamento annuale di musica ‘non conforme’: la ‘Tana delle Tigri’». (p. 65) Quando risuonano le note della canzone, si scatena una danza collettiva, un pogo fatto di cinture sfilate e di cinghiate reciprocamente scambiate dai militanti di CasaPound che ascoltano il concerto.
Si tratta di una liturgia collettiva, di un rito comunitario che sancisce e ribadisce l’appartenenza al gruppo, che consolida un’identità condivisa, che materializza il legame della comunità, consistente in un condensato di cameratismo, machismo, arditismo e settarismo elitario, nella convinzione di appartenere ad una “casta guerriera”, ad un’entità orgogliosamente ‘non-conforme’, che, seppur con le modalità di un pogo punk-rock sotto il palco di un concerto, intende rievocare e ripraticare il “mito” squadristico del gruppo d’assalto del fascismo della prima ora. Il “mito”, appunto, perché, secondo l’autrice, è di questo che soprattutto si alimenta – e ci sembra una delle tesi più interessanti del libro – l’identità del singolo militante come dell’intero gruppo di CasaPound Italia; il mito della ‘non conformità’ irriducibile, del comunitarismo organico, del fascismo vissuto più come esperienza esistenziale, come categoria mistica dello spirito, come estetico stile di vita che come prassi politica costruita su rigorose e coerenti categorie socio-economiche, politiche e culturali.

Di questo parla il libro di Maddalena Gretel Cammelli, Fascisti del terzo millennio. Per un’antropologia di CasaPound, recentemente uscito per Ombre Corte, nel novembre 2015. Un lavoro importante, dice nella Prefazione Jonathan Friedman, perché studia un movimento politico di estrema destra fascista quale CasaPound che, come tutti gli analoghi gruppi europei ultranazionalisti e populisti, fa del principio identitario, ridefinito su base etnico-nazionale, un punto fermo della propria piattaforma ideologica e pratica, in un momento storico in cui l’intera società occidentale – a seguito degli intensi e crescenti fenomeni migratori, della globalizzazione economica e della sua crisi – pare subire una sorta di “ubriacatura identitaria”, fertile terreno di coltura in cui le cellule di un risorgente fascismo possono moltiplicarsi e prosperare. La «crisi delle tradizionali forme d’identificazione quali la classe sociale» lascia spazi vuoti da occupare per «forme di radicalizzazione ed etnicizzazione legate a specifiche identità culturali, in cui il focus è passato dalla classe all’etnicità, dalla classe alla cultura, dalla razionalità al bisogno di religione» (p. 52). Fenomeni – come è noto – che si sono manifestati in anticipo nell’Europa orientale post-comunista, in cui l’affannosa ricerca di paradigmi identitari da sostituire a quelli esauritisi ha prodotto un pullulare di movimenti neofascisti, neonazisti, comunque variamente nazionalistici (o localistici) che hanno (ri)dato voce a sciovinismi xenofobi vecchi e nuovi e a revisionismi mai del tutto cancellati.
In ogni caso si tratta di forme di “integralismo” politico, che l’autrice definisce, sulla scorta di Douglas Holmes, come correnti o movimenti di pensiero conseguenti a periodi o fenomeni destabilizzanti di radicale crisi di senso e che elaborano modalità di appartenenza essenzializzanti, cioè olistiche, totalizzanti.

L’approccio all’oggetto d’analisi che l’antropologa Maddalena Gretel Cammelli appronta è quello etnografico: una approfondita e rigorosa ricerca sul campo che si sviluppa dalla dialettica tra la prospettiva “emica” dell’oggetto sociale analizzato, del suo punto di vista, del suo sistema di pensiero e di valori, con cui la studiosa deve stabilire un efficace contatto/scambio e la prospettiva “etica” della presa di distanza dall’”indigeno” analizzato e del rigoroso giudizio scientifico che deve concludere il lavoro di ricerca. Lavoro reso ancora più difficile dalla appartenenza dell’autrice all’area politica contraddittoria rispetto a quella studiata e al mondo culturale e valoriale dell’antifascismo. Divergenza dall’oggetto di indagine che se, come Cammelli stessa afferma, ha prodotto da un lato scontate e sospettose diffidenze reciproche – si tratta di uno di quei casi «in cui “non si amano i propri indigeni”» (p. 19) – dall’altro rende ancora più interessante il lavoro svolto e il libro che lo rendiconta.

Tra le parti più interessanti del saggio, quella in cui l’autrice, dopo aver tracciato una sintetica storia del neofascismo dal Msi fino alla nascita di CasaPound – prima come costola di Fiamma Tricolore, poi come movimento indipendente – considera il programma politico del ‘fascismo del terzo millennio’, con cui il movimento partecipa alle elezioni amministrative e regionali del 2013.
Si tratta di una miscellanea di idee e punti programmatici attinti a piene mani dal fascismo del Ventennio e dall’intero suo arco di sviluppo storico, dalla prima ora fino a Salò, con l’aggiunta di qualche variazione, mai essenziale, o adattamento al contesto e alla realtà odierni.

Centrale e fulcro dell’intero impianto programmatico è l’idea della Nazione, intesa secondo le modalità organicistiche dello Stato etico gentiliano, che intende la Stato stesso come un fatto spirituale e morale prima ancora che come un’entità giuridico-politica, dove l’individuale è concepito solo in quanto sussunto dall’universale organico del corpo statale e dove i rapporti sociali di classe si articolano secondo la logica corporativistica dello sforzo interclassista per il conseguimento del bene comune superiore. Una siffatta Italia Nazione dovrebbe, di seguito, essere in grado di imporre una Sovranità forte, variamente intesa come difesa del territorio e conseguente potenziamento del sistema di difesa nazionale, anche attraverso la reintroduzione della leva obbligatoria estesa pure alle donne; oppure intesa come sovranità energetica, tramite il ritorno all’energia termonucleare e la nazionalizzazione dell’energia elettrica e di altri settori economici e infrastrutturali strategici. E’ facile cogliere il nesso con la sovranità autarchica del fascismo mussoliniano, che viene però estesa e traslata sul piano europeo, per il quale CasaPound auspica la creazione di uno spazio commerciale chiuso, una sorta di autarchia continentale, che si coniuga al contempo con l’avversione fortissima per la moneta unica europea, intesa come strumento del “vampirismo” del sistema finanziario e bancario internazionale.

La critica al sistema finanziario, accusato di strozzinaggio e usura ai danni dei popoli, è uno dei temi più ricorrenti nella propaganda politica di CasaPound, soprattutto e comprensibilmente dall’inizio dell’attuale crisi economica in poi. La soluzione proposta consiste nella statalizzazione delle banche e dell’intero sistema finanziario che però, a giudizio della Cammelli, si traduce in uno sciovinismo economico che non mette in discussione i meccanismi strutturali del sistema capitalistico, ma assume la forma di un apparente anticapitalismo che identifica un nemico esterno al corpo della nazione, la finanza internazionale (l’equivalente aggiornato e corretto – neppure troppo! – delle demoplutocrazie degli anni Trenta additate come nemico da Mussolini o del complotto antitedesco della finanza ebraica internazionale denunciato da Hitler) e agisce sulla leva del consolidamento comunitario attraverso il ricorso al fin troppo facile meccanismo del capro espiatorio.

Come già nei fascismi “classici”, l’organicismo comunitario della nazione sovrana trae linfa vitale dalla definizione identitaria etnico-nazionale – se non più razziale – e trova la propria antitesi nel fenomeno dell’immigrazione. CasaPound specifica di non essere contro il migrante in sé, ma contraria all’immigrazione usata dalla finanza internazionale per destrutturate e precarizzare a proprio vantaggio il mercato del lavoro, nella fattispecie quello italiano.
L’associazione Sovranità, fondata nel dicembre del 2014 come piattaforma di convergenza politica tra CasaPound Italia e la Lega Nord di Salvini, sintetizza il proprio programma nei tre punti: no euro; basta immigrazione; prima gli italiani. «Il sintetico progetto si presenta con un logo che sembra richiamare l’estetica del fascio, non littorio, ma esplicitamente legato alla terra: tre germi di grano, su sfondo celeste». (p. 43-44) Radicamento, comunità, identità etnico-culturale sono concetti cari ad un integralismo etnico o essenzialismo culturale che a parole prende le distanze dal razzismo biologico e differenzialista e dal darwinismo sociale ottocentesco e primo novecentesco, ma nella sostanza li ripropone con gli abiti apparentemente più presentabili del razzismo differenzialista, ormai da più di trent’anni idea portante di tutti gli estremismi di destra europei a partire – come ci ricorda l’autrice – dalla cosiddetta Nouvelle Droite francese di Alain De Benoist. Le differenze biologiche veterorazziste vengono ridefinite come “differenze culturali”, che, nonostante la loro natura storico-culturale, sono presentate come qualcosa di immodificabile e statico, cioè come “caratteri naturali”, come essenze incomunicabili tra loro che separano e aborrono qualsiasi tipo di meticciato, di fusione o incontro.

«Nella pagina dedicata alle FAQ del sito [di CasaPound], dichiarano: “Noi ci battiamo per un mondo plurale e in cui le differenze, sotto qualsiasi forma, siano tutelate e incrementate. Vogliamo un mondo con popoli diversi, lingue diverse, culture diverse, religioni diverse, alimenti diversi. Vogliamo un confronto tra forme di esistenza differenti che non degeneri mai nella confusione e nello sfiguramento delle reciproche identità». (p. 45)
Come già un secolo fa la lettura dialettica marxista delle dinamiche sociali e la lotta di classe, opportunamente decontestualizzate, volutamente fraintese e applicate come chiavi interpretative delle reciprocamente ostili politiche di potenza internazionali, avevano contribuito a forgiare i principi portanti del nazionalismo italiano (poi fascista), così oggi l’avversione all’omologazione unidimensionale (economica, politica, culturale…) della globalizzazione viene capovolta in fondamento legittimante le rivendicazioni identitarie etnico-nazionali e le pratiche aggressive ed ostili verso immigrazione e migranti.
Pertanto, osserva Cammelli, «il fondamentalismo culturale non è altri che un’alternativa al tradizionale razzismo, che mantiene una prospettiva di esclusione: due differenti culture non possono approcciarsi, pena il rischio di contaminazione, in cui la purezza identitaria andrebbe perduta. […] In tale contesto, si può meglio cogliere la proposta di CasaPound Italia riguardo l’istruzione nelle scuole pubbliche e l’introduzione del libro unico per ogni materia». (p. 46-47)
In questo caso, addirittura, la propensione alla mimesi del fascismo del Ventennio arriva alla riproposizione anacronistica della legge del gennaio 1929 che introduceva, a partire dall’anno scolastico 1930-‘31, il Libro unico di Stato.

Ma il radicamento comunitario e la difesa e la promozione identitarie passano anche attraverso altri due punti essenziali del programma di CasaPound (di cui, ancora una volta, non è difficile trovare la matrice mussoliniana): demografia/maternità e il mutuo sociale per la casa.
Naturalmente le proposte per la promozione e la difesa della maternità e la crescita demografica del popolo italiano – nel dettaglio esaminate dall’autrice – non sono finalizzate all’arruolamento di “otto milioni di baionette bene affilate e impugnate da giovani intrepidi e forti” (dal discorso di Benito Mussolini del 24 ottobre 1936 a Bologna) che, nei progetti del duce, avrebbero dovuto fare grande l’Italia fascista in Africa e in Europa, ma a difendere l’italianità, la comunità nazionale e la loro identità etnico-culturale, così come l’idea di un mutuo sociale che permetta l’acquisto generalizzato dell’abitazione mira al rafforzamento del radicamento territoriale, del legame con il suolo, attraverso la proprietà della casa.

Come si evince dalle analisi proposte dal saggio della Cammelli, è comunque e sempre il concetto di “comunità” quello che prevale su tutti gli altri, sia essa quella macrocosmica della nazione, dello stato, della cultura, dell’etnia o sia quella microcosmica del palazzo del quartiere Esquilino, sede e centro di riferimento della vita e di ogni attività di CasaPound Italia. E – ancora una volta – come già accadeva nel fascismo del Ventennio, il cemento comunitario è il culto del capo, della guida carismatica, con conseguenti interpretazione gerarchica dei ruoli e delle relazioni sociali interne alla comunità e “mistica” del leader, come emerge chiaramente dalle parole di alcuni militanti di CasaPound dall’autrice intervistati: «Gianluca [Iannone] è importante in questo perché lui comunque secondo me ha permeato di sé tutta la comunità… lui… è l’idea che qualunque cosa è possibile, che qualunque cosa si può fare, il potere della volontà […]». (p. 71)

Per concludere la presentazione di questo interessante saggio, ancora un paio di considerazioni risultano necessarie e riguardano l’olismo oppositivo che qualifica l’idea di comunità di CasaPound e il fascismo inteso ed interpretato come uno stile di vita.
L’idea comunitaria propria dei ‘fascisti del terzo millennio’ – secondo l’autrice – non si regge su una «vera e propria valorizzazione della totalità sociale come unità» (p. 79), ma su un essenziale individualismo, interpretato in senso olistico, cioè esteso alla comunità, che diventa così un individuo collettivo contrapposto all’individuo collettivo dell’”altro”, del “nemico”. In tal senso, si spiega il richiamo costante nel linguaggio dei militanti si CasaPound alla ‘non conformità’: non conformità innanzi tutto rispetto alla carta costituzionale, ai suoi principi democratici e ai suoi valori antifascisti; non conformità rispetto alla «società in generale, ma anche ai centri sociali, il mondo della contro-cultura antagonista e antifascista». (p. 80) Ne consegue una visione combattiva della vita, che vede quest’ultima come lotta per l’affermazione dell’individuo e dell’individualismo e negazione del collettivismo.

Quando le analisi e le riflessioni proposte dal libro affrontano il tema della collocazione all’interno del quadro politico che i ’fascisti del terzo millennio’ scelgono per loro stessi, il discorso si sposta sul fascismo inteso e vissuto più come stile di vita, come esperienza esistenziale che come adesione ad un progetto e ad un programma politici. CasaPound ha elaborato il concetto di “estremo centro alto” per rivendicare e tracciare una collocazione ed uno spazio politici nuovi ed originali, che vorrebbero prendere le distanze dalle definizioni politico-partitiche tradizionali, soprattutto dalla contrapposizione destra e sinistra.
«Alla destra non perdoniamo di aver parlato d’ordine e di averlo confuso con compiti di nettezza urbana e bassa sbirraglia. Alla sinistra non perdoniamo di aver sollevato le masse contro il potere solo per meglio insediarsi in quest’ultimo. Al centro non perdoniamo niente, e basta. […] Basta con destra e sinistra, sorga l’estremo centro alto». (p. 85-86)
Il concetto di “estremo centro alto” è formulato in modo volutamente indefinito e paradossale, quasi provocatorio, al fine di ridefinire la politica come un atteggiamento, uno stile, in cui l’azione precede e fonda la riflessione e non viceversa.
«L’estremo centro alto schifa le ideologie e non possiede la verità. E’ però portatore di uno stile. Lo stile è superiore alla verità, poiché reca in sé la prova dell’esistenza». (p.87).
L’autrice, sulla scorta di Mosse e del suo La nazionalizzazione delle masse, parla di estetizzazione della politica, per cui «il linguaggio assume una forma vaga e imprecisa, il cui significato non risulta essere propriamente logico. A caratterizzare tale linguaggio è, piuttosto, uno stile retorico pieno di immagini dove “l’estetica della politica” assume il ruolo primario descritto da Mosse». (p. 86)

In una concezione estetica della politica risulta fondamentale allora la fertilità mitopoietica del linguaggio utilizzato in modo evocativo, non denotativo, per costruire immagini suggestive e miti potenti capaci di affascinare e mobilitare. E come in ogni concezione mitica della realtà è ad un “passato fondativo” che ci si deve ancorare e in questo caso il “mito fondativo” viene trovato nello squadrismo e prima ancora nel fiumanesimo dannunziano, in cui la concezione estetica della politica aveva raggiunto il suo apice. Per molti di coloro, infatti, che seguirono D’Annunzio, Fiume fu il luogo in cui essere protagonisti sia di un’esperienza politica “eversiva” sia di un’esperienza “esistenziale” nuova e soprattutto trasgressiva, nei costumi e nello stile di vita: indisciplina, individualismo ed originalità nei comportamenti, libertà sessuale, ecc.
In ogni caso si tratta – ora come allora – di una adesione sulla base di un «sentimento del mondo», come dice un militante di CasaPound intervistato dall’autrice, sulla base di «un certo modo di vivere la vita» e non tanto «perché si è letto un programma». (p. 109)
Tornano alla mente le considerazioni di Walter Benjamin sulla estetizzazione della politica e sulla trasformazione della prassi politica in gesto estetico, operate dal fascismo ed anticipate dal futurismo italiano.

Al breve, ma denso ed originale saggio di Maddalena Gretel Cammelli va dunque riconosciuto il merito di aver prodotto un’analisi che tratteggia una antropologia del fascismo italiano contemporaneo, proprio in un momento in cui la politica nazionale ed internazionale sembrano predisporre le condizioni più propizie per una estensione dei suoi spazi di agibilità politica.

 

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La periferia del conflitto – Savona, 1974-75 https://www.carmillaonline.com/2014/01/17/la-periferia-del-conflitto-savona-1974-75/ Thu, 16 Jan 2014 23:01:04 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12039 di Simone Scaffidi Lallaro 

Savona non si piegherà alla violenza nera, Società&Lavoro, 1984, p.11[Questo testo verrà radiofonizzato e trasmesso su Radio Città Fujico nel programma Vanloon curato da Il Caso S. in onda/streaming sabato 18 dalle 12 alle 13]

Il 20 novembre la deflagrazione di un ordigno collocato nel portone del civico n. 20 di Via Giacchero – in pieno centro cittadino – provoca la morte della signora Fanny Dallari (82 anni), avvenuta il giorno seguente, e di Virgilio Gambolati (71 anni) – verificatasi tre mesi più tardi a causa delle ferite riportate. Si tratta [...]]]> di Simone Scaffidi Lallaro 

Savona non si piegherà alla violenza nera, Società&Lavoro, 1984, p.11[Questo testo verrà radiofonizzato e trasmesso su Radio Città Fujico nel programma Vanloon curato da Il Caso S. in onda/streaming sabato 18 dalle 12 alle 13]

Il 20 novembre la deflagrazione di un ordigno collocato nel portone del civico n. 20 di Via Giacchero – in pieno centro cittadino – provoca la morte della signora Fanny Dallari (82 anni), avvenuta il giorno seguente, e di Virgilio Gambolati (71 anni) – verificatasi tre mesi più tardi a causa delle ferite riportate. Si tratta di uno dei dodici attentati dinamitardi che colpiscono Savona tra la primavera del ’74 e quella del ’75, il picco più alto di tensione politica vissuto dalla città dal dopoguerra in avanti. L’attentato irrompe in città con tutta la sua violenza e verrebbe da scomodare De André – che l’anno prima scriveva «io con la mia bomba portò la novità, la bomba che debutta in società[1]» – se non fosse che in Italia le bombe esplodono da almeno cinque anni. Nessuna novità dunque e pochi dubbi sui colori che si celano – e vengono complicemente celati – dietro gli attentati dinamitardi. Ricordarlo è importante soprattutto in questi tempi di becero revisionismo storiografico, pensiamo alla recente fiction Gli anni spezzati ma anche al film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage o al testo Il segreto di Piazza Fontana dello storico Paolo Cucchiarelli.

In una città come Savona nel 1974 gli attentati non te li aspetti. Le organizzazioni neofasciste da più di trent’anni non hanno cittadinanza e la sinistra extraparlamentare più radicale è inconsistente. Il Pci domina incontrastato la scena politica e la conflittualità sociale e sindacale si attesta su posizioni moderate. Eppure le bombe non si fanno aspettare: sette in soli quindici giorni nel novembre del 1974. Colpiscono edifici pubblici, abitazioni private e infrastrutture.

Ordine Nero – organizzazione neofascista di squisita matrice terroristica nata dalle ceneri di Ordine Nuovo – rivendica la paternità di alcune azioni[2]. La stampa azzarda la suggestiva ipotesi che Savona rappresenti un laboratorio di azione terroristica per testare la reazione della popolazione in vista di un futuro colpo di stato. Non è da escludersi però la possibilità di un succedersi irregolare di attentati neofascisti[3] – a seguito della progressiva disgregazione del movimento eversivo di destra – con l’obiettivo di destabilizzare il sistema. In quel momento, infatti, le forze eversive di estrema destra venivano colpite, con grave ritardo e per la prima volta, dall’azione repressiva dello Stato[4] e contemporaneamente scaricate dalle connivenze interne ai servizi segreti[5].

bombe di savona 013 compressoDetto ciò, nonostante il bilancio di dodici attentati, due morti e una ventina di feriti nessuna inchiesta porta a risultati e polizia e magistratura non individuano nessun colpevole. Nel mese di novembre, il susseguirsi e l’impressionante costanza degli attentati – praticamente uno ogni due giorni – provocano la reazione popolare. Si assiste a una mobilitazione dal basso spontanea e capillarmente diffusa sul territorio al fine di prevenire altri attentati. Prende così forma un movimento che trova immediatamente nei Consigli di quartiere feconde strutture attraverso le quali tradurre l’iniziale e confuso spontaneismo in autogestita vigilanza civile.

Il terreno è fertile. Tra il 1969 e il 1974 sorgono in città ben quattordici Consigli di Quartiere – l’ultimo dei quali sotto impulso degli attentati dinamitardi – che arrivano a coprire la quasi totalità dell’area comunale[6]. Questi si riuniscono nei luoghi storici di aggregazione sociale dei vari rioni – per la maggior parte dei casi si tratta di Società di Mutuo Soccorso e, benché la loro capacità d’intervento politico rimanga limitata, creano i presupposti per «nuovi spazi di partecipazione e conflitto sul tema della qualità sociale e dello sviluppo urbano»[7].

Il presidio costante ed auto-organizzato dei quartieri va avanti per tutto il mese di dicembre. Sul finire del mese di gennaio ha una flessione per poi riprendere con forza all’indomani degli attentati di febbraio[8]. In alcuni Consigli di Quartiere, come quello di Savona Ponente, i volontari si dotano di tesserino identificativo e i presidi del territorio sono organizzati meticolosamente:

franca 011 (compresso)Dividemmo il quartiere in nove zone. Poi si pensò di organizzare le persone anziane, assieme alle donne, durante il giorno, che avrebbero dovuto vigilare davanti ed attorno alle scuole e nei punti più disparati. Prima dell’inizio della giornata scolastica, veniva esercitato un accurato controllo all’interno delle scuole. Dopo che i bambini erano entrati, con i cancelli chiusi, la vigilanza continuava all’esterno, sino all’orario di uscita. Questo giorno dopo giorno.

Invece la notte diventò il momento degli uomini che a gruppi di tre avevano il compito di sorvegliare gli edifici scolastici […]. Altri controllavano la S. M. S. e la parrocchia, ed infine diversi gruppi sorvegliavano le strade ed i caseggiati. Tutti i portoni sia di giorno che di notte, dovevano tassativamente essere chiusi. I muri di cinta della CHEVRON, dove nei suoi enormi serbatoi erano depositati milioni di litri di carburante venivano anch’essi sorvegliati con occhi di riguardo perché bastava poco a far saltare in area mezza Savona.

Si controllavano le strade, specie in entrata al quartiere […]. I veicoli che sembravano sospetti, venivano da noi segnalati alle forze di polizia. Ognuno di noi portava in tasca un tesserino di riconoscimento, riportante tutte le generalità ed il numero della carta di identità. Le tessere intestate al Quartiere di Savona Ponente erano rilasciate soltanto dal Comitato Unitario Antifascista. Al braccio ad ognuno di noi era legata una fascia rossa, con su scritto, con pennarello nero, “Consiglio di Quartiere – Savona Ponente”.[9]

È bene sottolineare che le forze istituzionali cavalcano l’onda del movimento, non avviene il contrario. L’indirizzo che il Partito Socialista dà ai suoi militanti è di partecipare e promuovere le azioni di mobilitazione democratica che stavano sorgendo su iniziativa degli organismi di base quali consigli di quartiere, società di mutuo soccorso, sezioni dell’ANPI e sindacati[10]. E l’allora segretario della CGIL riconoscerà che l’organizzazione della vigilanza «è un fatto che è venuto veramente dal basso dai quartieri»[11], non nasceva dal sindacato che l’ha certamente sorretta ma non ne è stato il promotore. Non c’è dubbio però che il movimento, pur mantenendo una sua autonomia organizzativa, subì o accolse l’egemonia culturale del Partito Comunista. Le posizioni degli organismi di base in riferimento alle forze di polizia coincisero con le politiche perseguite dal Pci, sia a livello nazionale che locale, le quali facevano eco alla volontà del Partito di riappropriarsi di un certo senso di identificazione con lo Stato.

Tesserino Riconoscimento Quartiere Savona PonenteSi palesa dunque un conflitto tra cittadinanza e istituzioni che non si traduce in scontro frontale ma rimane sotterraneo e contraddittorio. L’esigenza di spazi alternativi che includano la base nel sistema di rappresentanza cresce attraverso la voce dei Consigli di quartiere. I quali rivendicano luoghi di espressione e socialità che le forze politiche non garantiscono. La conflittualità sociale, a bassa intensità rispetto ad altre realtà del paese – sia in termini di pratiche di lotta al di fuori dei confini democratici che di contrapposizione con le forze di polizia –, si manifesta con forme diverse rispetto ai centri della violenza politica. Qui il conflitto non va ricercato in consuete contrapposizioni rossi/neri, stato/nemici dello stato, ma è altrove, meno eclatante e vistoso ma non per questo meno significativo: si tratta infatti di mettere in discussione il sistema di rappresentanza istituzionale con pratiche quotidiane di democrazia partecipativa e di decentramento dei poteri.

Note

[1]F. De Andrè, Al ballo mascherato, «Storia di un impiegato», 1973.

[2]Cfr. “Il Secolo XIX” 05-05-’74, qui vengono pubblicate le foto delle rivendicazioni di Ordine Nero; “Il Secolo XIX”, 27-11-’74, p. 1; “L’Unità”, 10-11-’74, p. 6; “L’Unità”, 17-11-’74, p. 5

[3]Cfr. Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2005.

[4]Il 21 novembre 1973 Ordine Nuovo viene sciolto e dichiarato fuori legge dal Ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani.

[5]Cfr. Franzinelli, La sottile linea nera, cit., p. 10;  Giorgio Bocca, Il terrorismo italiano 1970/1980, Milano, Rizzoli, 1981, p. 55; AA.VV., La strage di stato, cap. 5.

[6]Cfr. R. Bonfanti, L. Batkovich Ferrari, Una nuova democrazia nasce dalle città, «Quaderni del CRES», Savona, M. Sabatelli Editore, 1979.

[7]C. Papa, Alle origini dell’ecologia politica in Italia, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Roma, Rubettino, 2001, p. 419.

[8]Cfr. Comunicato del Comitato Unitario Antifascista del Quartiere di Lavagnola del 25 febbraio 1975, in Archivio dell’ANPI provinciale di Savona.

[9]M. Tissone, “È una bomba fascista quella esplosa nel palazzo dove abitava il Sen. Varaldo” diceva la gente in ISREC, 35° anniversario delle bombe di Savona, «Quaderni Savonesi», 17, 2009, p. 59.

[10]F. Carega, Le decisioni del P. S. I. savonese in ISREC, 35° anniversario delle bombe di Savona, cit., p. 53.

[11]Testimonianza di S. Imovigli in M. Macciò, 1974-75 Le bombe di Savona, Savona, L-Editrice, 2008, p. 26.

Per approfondire

B. Armani, Italia anni Settanta. Movimenti, violenza politica e lotta armata tra memoria e rappresentazione storiografica, «Storica» 32, 2005.

G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970/1980, Milano, Rizzoli, 1981.

R. Bonfanti, L. Batkovich Ferrari, Una nuova democrazia nasce dalle città. Pagine del movimento partecipativo savonese, «Quaderni del CRES», Savona, Marco Sabatelli Editore, 1979.

G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2005.

M. Franzinelli, La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da Piazza Fontana a Piazza della Loggia, Milano, Rizzoli, 2008.

Istituto Storico Della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Provincia di Savona, 35° anniversario delle bombe di Savona (30 aprile 1974 – 26 maggio 1975), «Quaderni Savonesi. Studi e ricerche sulla Resistenza e l’Età contemporanea»17, 2009.

M. Macciò, 1974-75 Le bombe di Savona: Chi c’era racconta, Savona, L-Editrice, 2008.

S. Scaffidi Lallaro, Bombe a ponente. Savona 1974-1975 in Sotto attacco. La violenza politica in discussione, «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale», n. 32, settembre-dicembre 2013.

M. Tolomelli, Italia anni ’70: nemico di Stato vs Stato nemico, «Storicamente», 1, 2005.

C. Venturoli, La storiografia e le stragi nell’Italia repubblicana: un tentativo di bilancio, «Rivista Storia e Futuro», 11, 2006.

 

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