Neocolonialismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “La terribilità dell’Africa è la sua solitudine”: gli “Appunti per un’Orestiade africana” di Pasolini https://www.carmillaonline.com/2022/11/27/la-terribilita-dellafrica-e-la-sua-solitudine-gli-appunti-per-unorestiade-africana-di-pasolini/ Sun, 27 Nov 2022 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74954 di Paolo Lago

Gli Appunti per un’Orestiade africana (1969) sono l’unico episodio realizzato del film Appunti per un poema sul Terzo Mondo al cui interno avrebbero dovuto sostituire il precedente progetto de Il padre selvaggio. Lo afferma lo stesso Pasolini in una intervista rilasciata a Lino Peroni nel 1968:

Il prossimo film che farò si intitolerà “Appunti per un poema sul Terzo Mondo” e comprenderà quattro o cinque episodi e uno di questi si svolgerà in Africa e sarà “Il padre selvaggio”; però non ne sono certo. Può darsi che anziché fare “Il [...]]]> di Paolo Lago

Gli Appunti per un’Orestiade africana (1969) sono l’unico episodio realizzato del film Appunti per un poema sul Terzo Mondo al cui interno avrebbero dovuto sostituire il precedente progetto de Il padre selvaggio. Lo afferma lo stesso Pasolini in una intervista rilasciata a Lino Peroni nel 1968:

Il prossimo film che farò si intitolerà “Appunti per un poema sul Terzo Mondo” e comprenderà quattro o cinque episodi e uno di questi si svolgerà in Africa e sarà “Il padre selvaggio”; però non ne sono certo. Può darsi che anziché fare “Il padre selvaggio” faccia un altro film che mi è venuto in mente, sempre però su questa linea, cioè una “Orestiade” ambientata in Africa. Ricreerei delle analogie, per quanto arbitrarie e poetiche, e in parte irrazionali, tra il mondo arcaico greco, in cui appare Atena che dà, attraverso Oreste, le prime istituzioni democratiche, e l’Africa moderna. Quindi Oreste sarebbe un giovane negro, mettiamo Cassius Clay (pensavo a lui come protagonista), che ripete la tragedia di Oreste. Comunque sia, che si tratti di un film su “Il padre selvaggio” o sull’”Orestiade”, in ogni caso non sarà fatto come un vero e proprio film, ma come un «film da farsi» (P.P. Pasolini, “Per il cinema”, a cura di W. Siti e F. Zabagli, vol. II, Mondadori, Milano, 200, p. 2935-2936).

Gli Appunti per un’Orestiade africana, secondo la definizione dell’autore e come si può evincere dal titolo, si presentano come un «film da farsi», come degli «appunti». Il gusto per il non finito e per la forma-progetto si ritrova sovente nell’ultimo Pasolini: basti ricordare gli Appunti per un film sull’India, o la forma volutamente frammentaria e incompiuta de La divina Mimesis e di Petrolio.

Il titolo «appunti» (che avrebbe connotato anche il film di cui l’«Orestiade africana» avrebbe fatto parte) bene si riflette nella forma stessa dell’opera. Quest’ultima si presenta infatti come una sorta di diario scritto durante un sopralluogo in diversi paesi africani. Fin dall’incipit è molto forte la dimensione personale dell’autore, come in un diario di viaggio: Pasolini si presenta allo spettatore mentre si specchia «con la macchina da presa nella vetrina del negozio di una città africana»1. Tutto il film è del resto costruito come un viaggio attraverso diversi paesi africani e il suo nucleo centrale è determinato dalla dinamica dell’incontro. Il regista e la troupe incontrano svariate persone, animali, luoghi, paesaggi: ognuno di questi incontri è focalizzato dalla voce narrante di Pasolini come un possibile risvolto narrativo per la sua progettata Orestiade africana. In ognuno di essi si cela la possibilità di iniziare o continuare la narrazione. Nel film i diversi incontri si presentano come una grande fucina di storie che aspettano soltanto il tocco finale dell’autore per librarsi in una futura, potenziale pellicola cinematografica. Pasolini, infatti, per mezzo del progetto dell’Orestiade africana, compie quella che, secondo l’analisi di Roman Jakobson, si presenta come una «traduzione intersemiotica», la quale «consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di segni non linguistici»2.

Gli Appunti per un’Orestiade africana presentano dunque il progetto cinematografico della trasposizione della trilogia di Eschilo nell’Africa contemporanea. Del resto, elementi che rimandavano all’Africa erano già presenti nella messa in scena dell’Orestiade (la traduzione pasoliniana dell’Orestea di Eschilo del 1960) realizzata da Gassman e Lucignani: la scenografia realizzata da Theo Otto proponeva diverse colonne totemistiche alle quali erano appesi trofei di caccia, teschi umani e grandi maschere di bronzo dorato. Anche il film, come la traduzione, possiede una chiara impronta politica e sociale3: in esso infatti è inserito un dibattito tenuto da Pasolini con alcuni studenti africani di Roma nel quale l’autore spiega che il suo intento è quello di creare un’analogia tra i processi sociali descritti da Eschilo e il passaggio dell’Africa dalla cultura arcaica e tribale alla modernizzazione post-colonialista. Per questo, secondo Pasolini, è necessario retrodatare il film all’inizio degli anni Sessanta, quando il processo di modernizzazione si faceva sentire assai meno nei paesi africani. Nella prima parte è maggiormente presente l’impronta documentaristica, che ha il suo culmine nelle crude immagini di repertorio sulla guerra colonialistica del Biafra. Nei primi momenti del film, davanti alla macchina da presa di Pasolini scorrono i volti di possibili interpreti dei personaggi della trilogia, introdotti dalla voce del regista, appunto, con la formula potenziale «questo potrebbe essere». Interessante è la potenziale interprete del personaggio di Clitennestra, della quale non vediamo il volto, coperto da un velo, così introdotta: «Dietro questo sinistro velo nero si potrebbe nascondere la faccia di Clitennestra»4. Di fronte alla macchina da presa appare una figura dai risvolti inquietanti, col viso coperto da un velo nero, che si para dinanzi allo spettatore quasi come un’apparizione spettrale. Non è un caso che Pasolini definisca il velo che copre il viso di questa donna come «sinistro». Molto probabilmente, con questa possibile interprete, l’autore avrebbe sottolineato il carattere ‘oscuro’ dell’eroina tragica, legato al passato arcaico dominato dal terrore ancestrale delle Erinni, carattere che era stato evidenziato anche nella traduzione dell’Orestiade.

Per rappresentare le Erinni il regista sceglie di non utilizzare delle forme umane. Come afferma Pasolini con la sua voice over, esse potrebbero essere rappresentate con degli alberi o con l’immagine di una leonessa ferita:

Restano altri personaggi da ricercare: le Furie. Ma le Furie sono irrappresentabili sotto l’aspetto umano e quindi deciderei di rappresentarle sotto un aspetto non umano. Questi alberi, per esempio, perduti nel silenzio della foresta, mostruosi, in qualche modo, e terribili. La terribilità dell’Africa è la sua solitudine, le forme mostruose che vi può assumere la natura, i silenzi profondi e paurosi. L’irrazionalità è animale. Le Furie sono le dee del momento animale dell’uomo5.

Di centrale importanza, nel film, è la figura di Oreste, che viene rappresentato come un giovane alto che cammina verso la città, centro della ragione e del tempio di Apollo. Quest’ultimo, non a caso, è rappresentato dall’università di Dar es Salaam in Tanzania «che, vista da lontano, subito mostra inconfondibili segni di assomigliare alle tipiche università anglosassoni, neocapitalistiche»6. La macchina da presa inquadra il suo volto ieratico, caratterizzato dallo sguardo rivolto in avanti, unicamente concentrato – sembra – a seguire le istruzioni di Apollo. Il personaggio di Oreste, perciò, appare caratterizzato da una spinta irrefrenabile verso la verità che si esprime tramite un linguaggio connotato dal logos e dalla razionalità. A commentare il suo viaggio, Pasolini inserisce alcuni versi delle Eumenidi in cui Apollo lo incita a fuggire «anche oltre il mare, anche nelle città / circondate dall’acqua» (Ivi, p. 1189.)).

Negli Appunti per un’Orestiade africana, infatti, Pasolini inserisce dei brani dell’Orestiade, recitandoli egli stesso con una intonazione teatrale. Come ha osservato Antonio Costa, «la lettura che Pasolini fa, negli Appunti, di passi della sua traduzione dell’Orestiade, inseriti quasi senza soluzione di continuità nella trama del commento colloquiale e descrittivo alle immagini, possono dare un’idea di ciò che egli intendesse nel Manifesto per un nuovo teatro, per interprete che si fa “veicolo del testo stesso”»7. E, continua Costa, «c’è, quindi, nell’idea di teatro di Pasolini un’esigenza di recupero dell’oralità che costituisce il punto di contatto con l’esperienza cinematografica»8.

Risulta interessante il fatto che, tramite l’inserimento dei brani dell’Orestiade, Pasolini, oltre a recitare la sua traduzione, la mette in scena. Il traduttore, in veste di regista, mette in scena con una impronta personale gli stessi brani tragici che anni prima, sempre per mezzo di una impronta personale, aveva tradotto. La messa in scena, all’interno del film, non è più quella di Gassman e Lucignani, ma quella di Pasolini. Il poeta traduttore, divenuto regista, può così finalmente creare, per mezzo delle immagini e dei commenti, una sua Orestiade. Ad esempio, il brano recitato da Clitennestra, all’inizio dell’Agamennone, in cui la regina descrive i segnali di fuoco che annunciano la presa di Troia è commentato da alcune immagini che rappresentano fuochi e incendi in diversi territori africani. Alcuni brani dell’Orestiade vengono addirittura cantati in traduzione inglese, su musica di Gato Barbieri, in una session di free jazz da Yvonne Murray e Archie Savage, accompagnati dallo stesso Barbieri e dal suo gruppo. Sono le profezie di Cassandra nell’Agamennone ad essere messe in musica: in questo modo, all’interno della sala di registrazione di Roma, dove ora l’azione si è spostata, Pasolini conferisce una maggiore sottolineatura in chiave onirica e rituale alle parole della profetessa che già aveva tradotto con una impronta alogica e onirica.

Gli Appunti per un’Orestiade africana, perciò, rappresentano una conferma dell’impronta stilistica che Pasolini aveva conferito alla sua traduzione. Quest’ultima viene ‘rivitalizzata’ e messa in scena al cinema per mezzo di una «traduzione intersemiotica». Non è un caso, infatti, che in una poesia di Trasumanar e organizzar, Il Gracco, scritta (come la precedente, La nascita di un nuovo tipo di buffone) durante le riprese del film in Tanzania, Pasolini associ l’Orestiade a Jakobson e ai formalisti russi:

Ma Vitabu vidogo vitatu vinatosha, d’altronde.
Tre piccoli libri bastano (un’Orestiade – Jakobson –
un manoscritto di formalisti russi).
Ché, in Tanzania, ingenuamente al sicuro, dopotutto,
faccio anch’io del trionfalismo, nella mia umiltà9.

In questi versi – in cui, nella citazione di una frase in swahili (che significa «tre piccoli libri bastano»), si può riscontrare il gusto pasoliniano per il pastiche e la mescolanza linguistica – domina la marca dell’ironia. Una giocosa leggerezza sembra inoltre dominare i versi (la poesia che precede Il Gracco si intitola, non a caso, La nascita di un nuovo tipo di buffone), scritti parallelamente alla realizzazione degli Appunti. Nel film, la dimensione della leggerezza emerge soprattutto nelle immagini che mostrano la danza dei Wa-gogo. Si tratta di una allegra danza (che riprende antichi e seriosi gesti rituali) che Pasolini così descrive: «Ora, invece, come vedete, la gente Wa-gogo, negli stessi luoghi dove una volta faceva veramente sul serio queste cose, le ripete; le ripete, ma allegramente, per divertirsi, svuotando questi gesti, questi movimenti del loro antico significato sacro e rifacendoli quasi per pura allegria»10. Il poeta stesso, quasi come i Wa-gogo, trasformando in lieta e leggera la sua poesia, può gettare allegramente il suo manoscritto nel Lago Vittoria (dove sono state girate molte scene della parte iniziale del film) in una bottiglia di Coca Cola: «Getterò (a parole) questo manoscritto / nel Lago Vittoria, diciamo in una bottiglia di Coca Cola. Così sarà straordinariamente utile»11. Una leggerezza e una lietezza che, però, risuonano amaramente tragiche: la poesia, nella società neocapitalistica, si sta progressivamente trasformando in un truce e inquinante oggetto di consumo, come una bottiglia di Coca Cola lanciata in un lago africano. L’Occidente capitalista e consumista, fino a oggi, fino ai più recenti fatti di cronaca, non fa altro che deturpare e abbandonare a sé stessi l’Africa e gli africani.


  1. P.P. Pasolini, Per il cinema, cit., vol. I, p. 1177. Cfr. G. Santato, Il mito dell’Africa e del terzo mondo, in Id., Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), Mucchi, Modena, 2016, p. 154. 

  2. R. Jakobson, Aspetti linguistici della traduzione, in Id., Saggi di linguistica generale, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1966, p. 57. 

  3. A questo proposito si può ricordare come in molti momenti del film, a commentare le immagini sia un canto di protesta polacco, la Warszawianka 1905 roku, scritto nel 1883 e largamente diffuso tra la popolazione sottoposta al dominio zarista. Fu poi molto popolare in Russia durante le Rivoluzioni del 1905 e del 1917. Durante la guerra civile spagnola, con il testo adattato, divenne un canto repubblicano di parte anarchica dal titolo A las barricadas

  4. P.P. Pasolini, Per il cinema, cit., vol. 1, p. 1178. 

  5. Ivi, p. 1183. 

  6. Ivi, p. 1190. 

  7. A. Costa, Pier Paolo Pasolini: la scrittura tragica, Introduzione a P. P. Pasolini, Appunti per un’Orestiade africana, a cura di A. Costa, Quaderni del Centro Culturale di Copparo, Copparo, 1983, p. 9. 

  8. Ibid. 

  9. P.P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 2003, p. 61. 

  10. Id., Per il cinema, cit., vol. 1, p. 1194. 

  11. Id., Tutte le poesie, vol. II, cit., p. 61 

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Confini e superamenti. La mobilità umana come terreno di conflitto https://www.carmillaonline.com/2019/06/25/confini-e-superamenti-la-mobilita-umana-come-terreno-di-conflitto/ Tue, 25 Jun 2019 21:30:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53341 di Gioacchino Toni

Shahram Khosravi, Io sono confine, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 240 , € 18,00

«Le frontiere sono un problema per i poveri. Perché i ricchi possono sempre accedere a un mercato legale per superarle» Shahram Khosravi

Convinto che le “pratiche di frontiera” siano “pratiche coloniali” di controllo delle popolazioni, basandosi sulle sue esperienze di viaggio e sui “racconti di confine” altrui, l’antropologo iraniano Shahram Khosravi approfondisce non solo la natura dei confini ed il loro utilizzo  politico, ma anche le modalità ed i significati della loro violazione da parte di esseri [...]]]> di Gioacchino Toni

Shahram Khosravi, Io sono confine, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 240 , € 18,00

«Le frontiere sono un problema per i poveri. Perché i ricchi possono sempre accedere a un mercato legale per superarle» Shahram Khosravi

Convinto che le “pratiche di frontiera” siano “pratiche coloniali” di controllo delle popolazioni, basandosi sulle sue esperienze di viaggio e sui “racconti di confine” altrui, l’antropologo iraniano Shahram Khosravi approfondisce non solo la natura dei confini ed il loro utilizzo  politico, ma anche le modalità ed i significati della loro violazione da parte di esseri umani.

Oltre a mettere in luce come la regolamentazione della mobilità segua logiche di selezione sociale improntate alla discriminazione di sesso, genere, razza e classe («Supera il confine soltanto chi è utile, chi è produttivo»), l’autore si sofferma su come i confini siano anche spazi di opposizione e di resistenza. Se le frontiere finiscono per produrre nuove soggettività (segnalando «che chi sta dall’altra parte è diverso, indesiderato, pericoloso, contaminante, persino non umano»), non di meno anche chi viola tali frontiere, sottolinea Khosravi, produce a sua volta nuove identità.

Io sono confine è uscito in lingua inglese nel 2010 con il titolo ‘Illegal’ traveller. An auto-ethnography of borders proprio con l’intenzione di palesare, attraverso l’uso del termine “traveller” (“viaggiatore”) al posto di “migrante” o “profugo”, la ferrea distinzione gerarchica introdotta dall’attuale «regime delle frontiere alla mobilità»: esistono viaggiatori “qualificati” (turisti, espatriati, avventurieri) e viaggiatori “non qualificati” (migranti, profughi, persone prive di documenti).

Attraverso il libro, l’autore non intende raccontare il calvario di un profugo, bensì parlare politicamente dei confini e di coloro che li violano. Una volta constatato come l’industria delle frontiere sia ormai diventata un business di proporzioni colossali, l’antropologo iraniano invita a cogliere in ogni confine tra Stati anche, almeno in certa misura, un confine di classe. «Non sorprende che i più insanguinati siano quelli tracciati tra il mondo ricco e quello povero. Il regime delle frontiere punta a tenere le persone “al loro posto” all’interno della gerarchia di classe. Le pratiche di confine come modalità per tenere sotto controllo la mobilità dei lavoratori sono cruciali per preservare la sperequazione salariale tra cittadini e non-cittadini, tra il Nord globale e il Sud globale».

Se da un lato le frontiere impongono l’immobilità, dall’altro, sostiene Khosravi, «esiste un secondo meccanismo di controllo della società che opera attraverso una costante mobilità forzata. Le persone sono infatti costrette a un andirivieni infinito non solo tra paesi, legislazioni e istituzioni, ma anche tra campi di accoglienza e campi di espulsione, tra richieste d’asilo e ricorsi contro le deportazioni, tra riconoscimenti provvisori e ritorno alla clandestinità, tra un periodo d’attesa e l’altro. È una circolarità perpetua in cui si vive in uno stato di “non arrivo”, di radicale precarietà o, per usare l’espressione di Fanon, di “ritardo”».

Di fronte al tentativo neo-coloniale di presentare i “muri-frontiera” come naturali, senza tempo (negando così il loro essere soggetti al cambiamento storico), risulta indispensabile storicizzare ogni confine al fine di «denaturalizzare e politicizzare ciò che l’odierno regime delle frontiere ha naturalizzato e spoliticizzato».

Il meccanismo della frontiera, ricorda l’autore, non si esaurisce una volta che questa è oltrepassata; gli “indesiderati” continuano ad essere respinti anche dopo aver varcato il confine e a distanza di tempo.

«Il sistema dello Stato-nazione si fonda sul nesso funzionale tra un luogo determinato (territorio) e un ordine determinato (lo Stato), un nesso mediato da regole automatiche per la registrazione della vita, individuale o nazionale. Nel sistema dello Stato-nazione, la zoé, o nuda vita biologica, viene immediatamente tramutata in bios, la vita politica o cittadinanza. La naturalizzazione del collegamento tra vita/nascita e nazione è lampante nel linguaggio. I termini “nativo” e “nazione” hanno la stessa radice latina di “nascere”».

I confini «sono giunti a costituire un ordine naturale in molte dimensioni dell’esistenza umana. Non si tratta più dei semplici limiti di uno Stato». Essi giungono a plasmare l’immaginario, la percezione del mondo, il senso di comunanza e di identità. Tanto che la la condizione di profugo finisce per essere presentata «come la conseguenza di un modo di essere “innaturale”» e chi trasgredisce ai limiti posti dai confini spezza «il legame tra “natività” e nazionalità, mettendo in crisi il sistema dello Stato-nazione». Ecco allora che i migranti privi di documenti e i clandestini che violano i confini vengono percepiti e narrati come «contaminati e contaminanti proprio in quanto non classificabili».

Il discorso e la normativa politico-giuridica, continua l’autore, insieme all’essere umano politicizzato (il cittadino), costruiscono anche «un sotto-prodotto, un “residuo” politicamente non identificabile, un “essere non più umano”. Rimbalzati tra Stati sovrani, umiliati, presentati come corpi contaminati e contaminanti, i richiedenti asilo apolidi e i migranti irregolari sono esclusi e diventano gli scarti dell’umanità, condannati a vivere esistenze sprecate».

Zygmunt Bauman1 ha messo in luce come i moderni Stati-nazione si siano arrogati il diritto di distinguere tra vite produttive (considerate legittime) e vite da scartare (considerate illegittime). Tali “vite di scarto” rappresentano quell’homo sacer del presente di cui parla Giorgio Agamben2 e proprio in quanto tale, il migrante irregolare viene sottoposto tanto alla violenza dello Stato quanto a quella dei privati cittadini.

Il grande merito del libro di Shahram Khosravi è quello di non limitare il ragionamento al sistema di controllo della mobilità degli individui, ma di mettere in evidenza come la questione della mobilità degli esseri umani sia un terreno di conflitto.

 

 


  1. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, 2018 

  2. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 2005 

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In Africa si va https://www.carmillaonline.com/2018/01/07/africa-si-va/ Sun, 07 Jan 2018 20:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42621 di Alessandra Daniele

Il conte Gentiloni ha chiuso l’anno e il mandato con l’invio d’un contingente della Folgore in Africa. Buon 1882. Per la gioia dell’amico Macron, e naturalmente dell’ENI, ai parà in Niger seguiranno specialisti del Genio, addestratori, esperti delle forze speciali. Il loro compito ufficiale sarà “contrastare il traffico di migranti”. Ammazziamoli a casa loro. È così che il conte è risalito nei sondaggi. Il sobrio, banale Gentiloni: non era difficile prevedere il suo avvento dopo Renzi. Lo schema ormai è consolidato. Dopo la Quaresima tornerà il Carnevale, per questo Berlusconi e Di Maio sperano, [...]]]> di Alessandra Daniele

Il conte Gentiloni ha chiuso l’anno e il mandato con l’invio d’un contingente della Folgore in Africa.
Buon 1882.
Per la gioia dell’amico Macron, e naturalmente dell’ENI, ai parà in Niger seguiranno specialisti del Genio, addestratori, esperti delle forze speciali.
Il loro compito ufficiale sarà “contrastare il traffico di migranti”.
Ammazziamoli a casa loro. È così che il conte è risalito nei sondaggi.
Il sobrio, banale Gentiloni: non era difficile prevedere il suo avvento dopo Renzi.
Lo schema ormai è consolidato.
Dopo la Quaresima tornerà il Carnevale, per questo Berlusconi e Di Maio sperano, e si preparano a passare tutta la campagna elettorale promettendo soldi facili a tutti come un casinò online.
Il PD ha invece già definitivamente bruciato il suo Cazzaro.
La Commissione banche è stata un’idea sua.
Lo chiamano Capitan Boomerang.
Meteor Renzi s’è schiantato, e il PD non ne ha ancora pronto un altro, quindi spera di prolungare artificialmente la vita del governo Gentiloni-Minniti oltre le elezioni, come già fece con il governo Monti nel 2013.
Mattarella ha paragonato i ragazzi che diventeranno maggiorenni quest’anno alla generazione del 1899, che fu spedita a morire nella Prima Guerra Mondiale.
Ha fatto uno spoiler involontario?
Il previously però era incompleto: quando ha parlato del “più lungo periodo di pace del nostro paese e dell’Europa”, Mattarella ha dimenticato che la Jugoslavia era in Europa. E che l’Italia l’ha bombardata.
Come ha dimenticato tutte le guerre neocoloniali alle quali l’Europa – Italia compresa – ha partecipato in questi 70 anni.
Era concentrato sul suo parallelo contro l’astensionismo giovanile.
In effetti, l’unico sistema per convincere i diciottenni a partecipare alla tragica farsa che è diventata la democrazia italiana è la coscrizione obbligatoria sotto minaccia di fucilazione.
Carnevale o Quaresima, la facciata cambia ma la sostanza rimane la stessa: neoliberismo, neocolonialismo, abolizione dei diritti sociali, mercificazione e sfruttamento delle risorse umane.
È sempre l’agenda Monti.
Sono le regole del Mercato, anzi del Supermercato.
È là il nostro futuro, ci passeremo il Natale, il Capodanno, il Ferragosto, ci toccherà persino partorirci. Vivere e morire al Supermarket.
Non come clienti però, e neanche come commessi. Noi siamo la merce in vendita.
Nel Supermercato degli schiavi.

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Nemico (e) immaginario. Il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo https://www.carmillaonline.com/2016/09/20/nemico-e-immaginario-il-ritorno-del-mostruoso-tra-cattiva-coscienza-coloniale-e-neocolonialismo/ Tue, 20 Sep 2016 21:30:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33294 di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) [...]]]> di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) immaginario” ripratendo da una scena del film La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1986) di George Romero in cui l’eroe nero viene scambiato per uno zombie ed ucciso dagli uomini bianchi. Si tratta di un errore “del tutto comprensibile”, visto che nella società bianca il nero è uno zombie, è una presenza priva di soggettività. Quello subito dal personaggio nero può dirsi dunque un processo di de-umanizzazione ed a ben guardare è il medesimo processo a cui sono sottoposti i migranti sugli schermi televisivi e fuori da essi.

Nel saggio di Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi (Le Monnier, 2016), meritoriamente recensito da Luca Cangianti nel suo “I mostri dell’accumulazione originaria”, l’autrice ha, tra le altre cose, particolarmente approfondito il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo. Il «nemico si manifesta come l’Altro e l’Altra esterni, mostrificati, deumanizzati, che si moltiplicano all’infinito, che non cessano mai di attrarre/sbarcare e opprimere l”umanità’ con la propria invadenza o con la propria incontrollabile ‘pazzia’ e/o sete di vendetta. Egli è l’Altro assoluto che ha attraversato le acque per venire a capovolgere una nave già piena, come nel caso dei sopravvissuti al disastro del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, o in quello dei pescatori di perle (migranti irregolari cinesi) che muoiono nel totale silenzio mediatico al largo delle coste britanniche […] È l’Altro-assoluto contro cui la società – quella fatta di ‘simili’ per cultura, religione, spirito democratico e, parrebbe conseguirne, appartenenza razziale – si rinsalda e si muove compatta» (pp. 10-11).

La studiosa ricorda come contemporaneamente all’appello alla solidarietà democratica, europea, occidentale, contro l’attacco alla redazione di “Charlie Hebdo” del gennaio 2015, in difesa della libertà d’espressione, nelle società occidentali è stata riadattata «la narrazione dello scontro di civiltà contro i ‘cattivi extraterrestri’ (gli stranieri simmeliani trasformati in potenziali criminali) e lungo il perimetro degli spazi nazionali e comunitari si rafforzano le misure di protezione delle frontiere contro l’immigrazione» (p. 11). Secondo Giuliani è esemplare l’intreccio francese tra “costruzione dell’Altro-assoluto” e “costruzione del Sé nazionale”: un paese dal violento passato coloniale plurisecolare contraddistinto da un’amnesia di Stato a proposito dello schiavismo e dal riprodursi di una narrazione istituzionale di stampo coloniale della “missione civilizzatrice” e del Progresso. Nel saggio, a tal proposito, si ricorda come la legge francese n.2005/158 del 23 febbraio 2005, nell’articolo 4, richieda espressamente che agli studenti della scuola dell’obbligo venga spiegato il «ruolo positivo della colonizzazione francese […] specialmente in Nord Africa».

Convinta dell’idea che il mostruoso rimandi, a maggior ragione oggigiorno, «alla mutazione interna dell’organismo umano e all’incapacità cartesiana di ristabilire il controllo su di essa» (p. 12), Giuliani definisce l’alterità (alieno/a, non-morto/a, mutante, cyborg ecc.) come post-umana. Inoltre, la studiosa definisce neocoloniale il tentativo di ristabilire il controllo su tutto ciò che è mutato, producendo alterità, trasgredendo alle regole della razionalità sovrana.

Nel saggio si ricorda come la narrazione distopica non abbia mancato di soffermarsi sull’ambivalenza della mutazione determinata dalla scienza e dalla tecnologia, a tal proposito si può far riferimento, ad esempio, alla produzione cinematografica di David Cronenberg degli anni Settanta ed Ottanta o, nel decennio successivo, a film come 12 Monkeis (1995) di Terry Gilliam od ancora, nel nuovo millennio, ad opere come I am Legend (2007) di Francis Lawrence, District 9 (2009) di Neill Blomkamp e World War Z (2013) di Marc Forster.

Esiste un’evidente continuità tra il “subumano” proprio del periodo coloniale e schiavista ed il “non-umano” o “post-umano” neocoloniale; in entrambi i casi la sua eliminazione solleva da responsabilità e lo sterminio diventa “naturale” nel suo essere presentato come la “soluzione finale” che permette il ritorno ad un’ontologia di un particolare tipo dell’umano di nuovo al centro dell’universo. Molte narrazioni recenti insistono sul fatto che il non-umano, o post-umano, conviva già con l’umano e tale convivenza, sostiene la studiosa, rimanda «alla codificazione della cosiddetta ‘società multirazziale’ del mondo reale, con le sue divisioni e contraddizioni sociali e culturali» (p. 16).

cover_zombie_alieni_e_mutanti_giulianiRifacendosi ad «una prospettiva genealogica che tende a rintracciare la paura nella storia delle sue rappresentazioni e dei suoi significati a partire dalla modernità, dalla nascita dello Stato nazione e dagli albori del movimento coloniale delle potenze europee verso ovest» (p. 18), il saggio affronta tematiche che vanno dal “ritorno del mostruoso” al “rapporto tra modello multiculturale ed Alterità assoluta” (tra “normalizzazione della diversità” e costruzione di una “diversità inconciliabile”), dalle “fantasie di bianchezza” presenti nelle narrazioni della catastrofe (utopiche e distopiche) alla “cittadinanza emotiva” concentrata «sull’incontro con l’alterità da parte delle diverse incarnazioni (culturali, sociali istituzionali) della ‘norma bianca’ in Europa e nelle ex colonie di popolamento» (p. 19).

Da parte nostra, in questo scritto, ci limiteremo alla questione del “ritorno del mostruoso” – affrontato dall’autrice nel primo capitolo del volume – rimandando per le altre questioni trattate dal denso ed interessante saggio al quadro d’insieme ricostruito nella già citata recensione stesa da Luca Cangianti [su Carmilla].

Giuliani legge alcune figure del cinema di genere horror e dintorni come allegorie della violenza coloniale e del suo ripresentarsi attraverso narrazioni distopiche sotto le sembianze di morti viventi. In generale il mostruoso coincide con la rappresentazione della finis mundi e se tale funzione può essere intesa come componente importante nella costruzione della “comunità antropologica”, nel corso dei secoli, sostiene la studiosa, si è strutturata nei termini dei confini dell’Ecclesia cristiana e, nella modernità, nei termini della separazione cartesiana e rinascimentale tra conoscente e conosciuto. Il satanico, bestializzato dall’iconografica della Scolastica sino a metà del Trecento, viene incorporato nelle leggende dei viaggiatori cinquecenteschi che toccavano i lontani territori del Pacifico, africani, caraibici, amazzonici… fino al Calibano shakespeariano. Ancora a cavallo tra Otto e Novecento Cesare Lombroso colloca proprio a tali latitudini la “barbarie calcificata” inestirpabile, incline al cannibalismo ed in epoca ancora più recente, ricorda Giuliani, sopravvivano tracce di tali “storie antropologiche” utili all’auto-rappresentazione dell’occidente che si vuole civilizzato e civilizzatore, si pensi a tal proposito il film Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato.

In età rinascimentale il cannibalismo (vero o presunto) dei nativi è inteso come prova evidente della loro “bestialità” o sottomissione all’anti-Cristo. La mostruosità del cannibalismo gioca un ruolo importante nella legittimazione del primo colonialismo divenendo “l’estremo male” da combattere in funzione dell’edificazione dell’Utopia. La bestia umana deve essere eliminata o sottomessa «alle leggi della Cristianità, dell’istituzione politica e, infine, del capitale […] La conquista e la realizzazione di nuove società abitate solo dagli elementi migliori (cristiani, bianchi e proprietari) necessitava di un’”accumulazione originaria” nel senso più marxiano del termine, ossia, da un lato, la cannibalizzazione della forza lavoro, il suo addomesticamento mediante lavoro servile o schiavo» (p. 27). Ed è proprio a questo secondo fine «che adempierà la costruzione di un nuovo mostruoso (lo/la schiavo/a ‘negro’, il coolie e il/la migrante ‘bruna’ del Mediterraneo, della Cina e dell’Asia meridionale sovente descritti mediante riferimenti a bestie ed insetti) utile a dividere e governare la forza lavoro mediante statuti (razziali) differenziali» (p. 27).

La donna sin dal Medioevo viene collocata tra le mostruosità per poi divenire nell’epoca del razionalismo settecentesco, dell’imperialismo e della moralità vittoriana, «la diversità assoluta all’interno degli spazi domestici dell’intimità borghese e della sua riproduzione. Diverrà non solo l’oggetto di violenze mediche, culturali e di polizia […] ma la sua diversità diverrà uno dei dispositivi di inferiorizzazione all’interno della comunità coloniale e imperiale della Modernità» (p. 27).

Dunque, continua Giuliani, il mostruoso è il prodotto della cattiva coscienza coloniale che si ripresenta a noi tramite la figura del non-morto, è il Calibano che si ripresenta per vendicarsi dello stigma e della violenza. È la “coscienza nera” che si incarna sottraendosi alla rimozione dell’esperienza coloniale e dello schiavismo, che si ripresenta prendendo a morsi chi ha massacrato in nome del progresso e chi oggi lucra erigendo “confini razzializzati” contro l’umanità migrante. «Questo cannibalismo in lettere e celluloide ribalta il cannibalismo fisico e simbolico dei conquistadores, dei padri pellegrini, degli schiavisti e di chi possedeva le piantagioni, ma anche quello dei ‘capitalisti’ descritti da Marx nel frammento dei Grundrisse del 1858, avidi di sangue – di denaro, di carne da lavoro – come ‘vampiri’» (p. 28).

Già in diversi scritti abbiamo fatto riferimento alla comparsa haitiana della figura dello zombi ed alla nascita di quella “Repubblica nera” incubo degli Stati Uniti segregazionisti. Abbiamo anche visto come le prime pellicole americane che affrontano gli zombie inevitabilmente abbiano a che fare tanto col senso di colpa nei confronti delle sofferenze inflitte agli schiavi, quanto col timore che infondono i neri nella società bianca. Abbiamo anche preso atto di come, tra gli anni ’30 e ’50, attraverso la figura dello zombie, l’immaginario cinematografico americano richiami la questione della “perdita di di volontà e controllo su se stessi”; l’epoca è quella della Depressione, dei conflitti mondiali, della Guerra fredda e della minaccia atomica. Nel corso degli anni ’60, con i movimenti di lotta per i diritti civili, il cannibalismo degli zombie portati sullo schermo da Romero pare legarsi al riscatto dei morti viventi contro la violenza razzista operata dal capitalismo.

I film di Romero «tematizzano il ritorno dei diseredati, dei subalterni e dei reietti della società statunitense sotto forma di zombie cannibali, i quali sono gli unici in grado di svelare […] come ricchezza e consumismo, fondati su violenza e marginalizzazione, non siano altro che realtà fragili, transeunti, ‘grondanti di sangue’» (p. 30). I linving dead romeriani vengono raffigurati come “moltitudine rivoluzionaria”, oscillando tra “massificazione” e “individuazione” e questi, pian piano smettono di essere massa indistinta per divenire “moltitudine di identità”. Se nella produzione romeriana si ricorre alla figura del morto vivente per riflettere sulle contraddizioni e sulle diseguaglianze americane, nelle produzioni più recenti, sostiene Giuliani, non si tratta più tanto di fare i conti con il “lato mostruoso” della società umana ma di “invocare un nuovo inizio”, di fondare un nuovo mondo con ogni mezzo necessario. Il nemico venuto dal passato, “il nuovo Calibano” che ha voce ma non linguaggio, deve essere eliminato attraverso una “guerra fondativa” di esseri superiori. Come esempi di ciò la studiosa cita il film spagnolo REC (2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza, ove l’origine satanista dell’epidemia legittima la “guerra giusta” contro il demone zombie, la saga Resident Evil (2002-2012) di Paul W. S. Anderson, ove la guerra è mossa contro zombie derivati da un’epidemia batteriologica determinata da esperimenti farmaceutici e World War Z (2013) di Marc Forster, ove l’apocalisse zombie porta ad uno “stato di guerra permanente”.

In questo ultimo caso la studiosa evidenzia come a tale “stato di eccezione permanente senza confini” non pare accompagnarsi alcuna critica alla società presente mentre circa la società a venire, il film, sembra indirizzarsi verso fantasie di supremazia eteronormativa di classe (borghese) e di razza (bianca). «Essa appare come lo spettro di quella guerra che il filosofo italiano Carlo Galli ha chiamato ‘globale’, all’alba della Guerra al Terrore di George Bush Jr. In questo quadro la guerra non è più quella tra Stati, come per tutta la Modernità e in particolare, su scala globale, sin dalla prima guerra mondiale: in esso riaffiora l’idea di guerra ‘giusta’ invocata da san Tommaso e dalla cristianità medievale, e successivamente dal colonialismo, contro vecchi e ‘nuovi barbari’» (p. 34).

Nell’età globale la legittimazione della guerra pare poggiarsi sul confronto tra morali decisamente semplificate e, nella visione occidentale, si stabilirebbe così, secondo Galli, una sorta di gerarchia di valore tra la guerra a difesa (o portatrice) di diritti e democrazia mossa da poteri legittimati dall’ordinamento internazionale ed il terrorismo fondato sugli istinti più bassi. A tal proposito Giuliani preferisce rifarsi alla tesi di Tasal Asad (Sull’attentato suicida) sulla linea di continuità che l’inferiorizzazione coloniale del nemico traccia tra modernità e post-modernità. Tale impostazione la si ritrova anche in Judith Butler (Sexual politics, torture and secular time) quando a proposito della “Guerra al Terrore”, soffermandosi sulle torture nei campi di detenzione americani, sostiene che tali pratiche coercitive, violente ed umilianti possono essere considerate l’esplicitazione di una logica già presente “a monte” nella stessa idea di “missione civilizzatrice”.

28daysÈ dunque in tale contesto culturale e geopolitico che si viene a dare una particolare mutazione dello zombie a partire dall’inizio del nuovo millennio: «il mutante è soprattutto un infettato che viene ad essere il pericolo numero uno, incontrollabile attentatore suicida che per contagio trasforma gli altri in terroristi. Di fronte a lui la sovranità statuale si manifesta come totalmente impotente» (p. 35). Il morto vivente di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle rappresenta un’umanità animalizzata regolata dalle leggi del branco e della forza che ha in sé tanto le caratteristiche dei mutanti che della bestia rabbiosa. Tali caratteristiche le ritroviamo nel francese La horde (2009) di Yannick Dahan e Benjamin Rocher, ove più che camminare gli zombie corrono velocemente: il walking dead si è mutato in un running dead.

La natura mutante risignifica la figura del morto vivente quale risultato del dilagare del virus e secondo Peter Dendle (The Zombie Movie Encyclopedia) i timori incarnati da questi nuovi zombie non sono espressione della perdita del sé ma di una sua sovraesposizione. Se le vecchie generazioni di zombi sono contraddistinte dalla mancanza di affettività, dall’irrazionalità, dalla semplificazione e dalla lentezza, ora palesano un’energia senza precedenti.

Secondo Giuliani il nuovo morto vivente incarna anche la figura del pericolo post-11 settembre 2001 e post-massacri vari da Columbine ad Utøya, fino agli episodi più recenti. Si tratta di un pericolo errante ed incontrollabile che proviene dal vicino di casa, dai propri compagni di scuola o di lavoro che improvvisamente palesa una forza ed una violenza inimmaginabili.

La studiosa sottolinea come in queste produzioni si evochi l’idea che a sopravvivere possano essere le figure più adattabili, più avvezze a difendersi, come i giovani, le donne ed i marginali, quasi a palesare «una speranza di un’umanità futura che chiude con i debiti le sperequazioni (di genere, classe, razza) che hanno da sempre infestato la storia dell’Occidente» (p. 41). Non sfugge, però, continua la studiosa, come in diverse produzioni audiovisive recenti questi sopravvissuti, per fondare una nuova società, finiscano col piegarsi nuovamente a regole e consuetudini conservatrici: nel film di Boyle, «Selena smetterà di essere la guerriera autonoma e coraggiosa per divenire (o tornare ad essere) la femmina bisognosa di protezione […] e dispensatrice di cure materne» (p. 41).

Vi sono però alcune importanti differenze tra i due film citati tanto a proposito dell’estensione del contagio che delle cause scatenanti. Da una parte l’insularità britannica del film di Boyle può lasciar pensare che il contagio non si sia propagato “al di fuori” dell’isola mentre diverso è il rapporto tra la Parigi in fiamme di Yannick Dahan e Benjamin Rocher e le sue periferie postcoloniali prive di barriere al contagio. Circa le cause, in 28 giorni dopo l’origine dell’epidemia è palesata nella sperimentazione laboratoriale, mentre La horde sorvola totalmente sulle cause scatenati concentrandosi sulla vita degli umani di fronte alla possibile fine dell’umanità così come conosciuta. Inoltre, se nel film britannico l’umano-rabbioso è mortale, non è un non-morto, nel lungometraggio francese il linving dead rappresentata “l’intramontabilità della catastrofe”.

In comune i due film hanno l’ambientazione urbana e Londra e Parigi rappresentano la metropoli europea centro del potere coloniale in passato e luogo di attrazione per migranti, oltre che di sperimentazione di “pratiche di governabilità”. «La mobilitazione/dislocazione dei corpi secondo le regole del controllo biopolitico e del mercato salta all’arrivo del cannibale la cui corsa frenetica e in gruppo sembra non ammettere barriere di classe, razza e genere. È una marea distruttiva e fagocitante che annulla i dispositivi della segregazione spaziale e della produzione capitalistica incarnate dalle metropoli europee. Lo scenario urbano svuotato dei significati che fondano l’ordine sociale è così la massima espressione del sovvertimento delle regole alla base della società umana come polis» (p. 42).

Come abbiamo visto affrontando il saggio di Federico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano (Mimesis, 2016) [su Carmilla], l’ambientazione rurale è tipica del gotico americano, ad essa, sostiene Giuliani, si accompagna una vera e propria disumanizzazione cannibalistica rimandante al conflitto tra la costruzione nordista della nazione e dei suoi “altri-interni”. A tal proposito tra gli studi più interessanti occorre citare, anche se datato, il saggio di Sacvan Bercovitch, The american Jeremiad (1978).

Nella serie britannica Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, da noi affrontata nuovamente grazie a Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis, 2016) [su Carmilla], la ruralità rimanda all’isolamento, all’impossibilità di controllare e difendere il territorio e, più in generale, nelle produzioni europee, sostiene Giuliani, l’ambiente agreste rinvia alla «costruzione della barbarie-interna in conflitto con l’urbanità ‘civilizzata’» (p. 42). Vale la pena notare come anche in Dead Set, al pari di 28 giorni dopo e La horde, i cannibali corrano veloci ed in questo caso è evidente l’analogia con la velocità di trasmissione televisiva.

Il film 28 settimane dopo (28 Weeks Later, 2007) di Juan Carlos Fresnadillo, sequel del film di Boyle, si concentra sulla questione della “molteplicità” che caratterizza la società londinese, sulla difficoltà di definire una demarcazione netta volta ad escludere il nemico esterno ed a neutralizzare quello interno e sull’immunizzazione della popolazione attraverso la quarantena.

Giuliani segnala come analizzando in sequenza cronologica, i film affrontati – 28 giorni dopo (2002), 28 settimane dopo (2007), Dead Set (2008) e La horde (2009) – è possibile «affermare che la speranza di sopravvivenza infusa dal primo, e tematizzata dal secondo come olocausto del mostruoso, viene drammaticamente distrutta dal terzo e dal quarto, i quali sacrificano progressivamente ogni sogno di sopravvivenza dell’idea di umano – e del suo rapporto tra corpo e mente, vita e morte» (p. 47).

Se in diverse produzioni americane recenti, come World War Z (2013) di Marc Forster, si rintracciano alcune caratteristiche tipiche del cinema di guerra, come ad esempio il palesare una netta dicotomia spaziale, etica e politica tra i contendenti e la possibilità di ripristinare l’ordine internazionale modernamente inteso (meglio se entro la fine del film), nelle produzioni europee come 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set e La horde, secondo Giuliani, non abbiamo l’eroe unico e non vi è superamento definitivo della crisi.

In World War Z quella che inizialmente sembra una critica ad un uso scriteriato delle tecnologie e della scienza si risolve in un’esaltazione delle capacità del maschio bianco occidentale e della razionalità scientifica e militare. Se si confrontano World War Z e Land of the Dead di Romero, si vede come entrambi «pongono al centro la rottura della geometria spaziale umana – spazzata via da un take over zombie irresistibile, per Romero la rottura con la geometria/gerarchia significa una nuova idea di progresso che […] include il post-umano o ha nel post-umano il proprio attore principale. In WWZ la rottura è solo una sospensione di un ordine sociale e politico che viene subito ristabilito e che vede vincitori ‘i migliori, i più bianchi, i più ricchi, i più tecnologici abitanti dell’Occidente civilizzato’» (p. 48).

In una serie di recenti produzioni audiovisive il vivo si deve riconciliare col non-morto e, riprendendo Michel Foucault, si può dire che il potere di “uccidere” (lo zombie) da parte dello Stato lascia il posto al potere di “lasciarlo vivere” (recluso) ed, infine, al potere di “farlo vivere” riabilitandolo, governando il bios dei post-zombie. Dunque i walking dead subiscono un processo di individualizzazione e soggettivazione, divengono “oggetti governamentali” e «devono vivere, al fine di permettere ai vivi di riconciliarsi col trauma dell’apocalissi. E allo stesso tempo essi divengono nuda (post-)vita – un bios molto particolare – la cui ricodificazione sociale e biologica in quanto ‘membri della società’ dipende da medicine che prima i dottori, poi i famigliari, iniettano nella loro spina dorsale. Lo Stato governa sulla loro costruzione biologico-corticale e così facendo, permette alle persone di ricostruire le proprie comunità» (p. 36). I morti viventi si trasformano da minaccia a manifestazione della mutazione (da umana a post-umana) che ha investito le società contemporanee.

Giuliani vede nelle fantasie di vittoria sul contagio presenti in tanta narrazione distopica contemporanea una volontà di riscatto mossa dal senso di colpa «di chi è stato all’origine contagio di se stesso». Abbiamo visto in altri scritti della serie “Nemico (e) immaginario” come il contagio derivi spesso da interventi umani sulla natura. «È il senso di colpa che produce mostri, come lo era in quelle descrizioni dei tropici di fine Ottocento da parte dei medici australiani che sostenevano che l’uomo bianco là desiderava l’indesiderabile, aspirava a ciò che non sarebbe mai riuscito ad ottenere: la sopravvivenza in un ambiente già, o diventato, ostile. Con la differenza che là la natura non doveva essere violata, e nelle narrazioni distopiche contemporanee è la natura violata che si vendica» (p. 36).

revenants456Nel volume vengono passate in rassegna tre recenti realizzazioni audiovisive – Fido (2006) di Andrew Currie, Les revenantes (2012 – in produzione) ideata da Fabrice Gobert ed In the flesh (2013-1914) scritta da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell – che pur nella loro diversità, in un modo o nell’altro, risultano contraddistinte dal grado di precarietà in cui versa un’umanità ormai incapace di governare le conseguenza della guerra e/o della tecnica e del Progresso.

Il film Fido, di produzione americana/canadese, è un horror-comico in cui «la memoria incarnata dalla violenza a cui rimanda la figura dello zombie è quella della schiavitù» (p. 54). Alla fine di una cruenta guerra dell’umanità contro gli zombie una grande azienda realizza un collare in grado di neutralizzare gli istinti aggressivi degli zombie rendendoli mansueti servitori della comunità piccolo-borghese nordamericana. Il film è ambientato tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 e questi “zombi addomesticati” sostituiscono quella componente sociale, razziale e di classe maggiormente sfruttata. La nuova figura di schiavo non deve essere riprodotta, non sporca, non mangia ed è ubbidiente al padrone. La tranquilla vita piccolo-borghese della cittadina viene interrotta dall’attacco omicida di cannibali in libertà e la storia «si conclude con il sovvertimento dell’ordine sociale (razziale e di genere) ma non di classe» (p. 56). Il nuovo mondo che pare far capolino a fine narrazione pare essere di quelle «donne per bene, pur sempre angeli del focolare ma ora anche capofamiglia, in cui l’uomo gioca la parte del ‘sottosviluppato’ addomesticato» (p. 56).

Il tema principale della serie Les revenantes è individuato da Giuliani nel “dono” del ritorno dei morti tra i loro cari. Il fatto che i morti tornino alla spicciolata per riprendere il loro posto tra i loro cari nella piccola comunità montana situata accanto ad un’enorme ed inquietante diga crea immediatamente problemi di comprensione e di convivenza a cui si aggiunge il riaffiorare del vecchio paesino dalle acque del bacino idrico che si abbassano misteriosamente. Il riemergere del passato, secondo la studiosa, potrebbe essere «simbolo del riscatto dalla violenza umana sulla natura e il sovrannaturale, la valle sembra utilizzare il ritorno degli oltrepassati come una sorta di vendetta contro chi in quell’area ha continuato a vivere» (pp. 56-57). Resta misterioso il motivo per cui alcuni personaggi tornino in vita più volte così come sono ignote le ragioni per cui questi revenants vengano reclamati da loro simili privando nuovamente le famiglie dei propri cari.

Nella serie In the flash, prodotta dalla BBC, si ha una narrazione molto intimista tra zombie e “scomparsi e poi ritornanti”. Giuliani sottolinea come qui si scavi nei conflitti famigliari di una piccola comunità ed il ritorno di Kieren Walker ha tutte le sembianze di un dono offerto alla famiglia per riparare agli errori commessi precedentemente. Il tutto pare ruotare attorno alla trasformazione dello zombie in una nuova possibilità d’amore e di riscatto. «La storia di Kieren e sua madre ci inducono alle ragioni della scelta, da parte del regista e narratore, del genere zombie e del post-umano per raccontare una storia di marginalità e sofferenza (cagionata da discriminazione di genere, classe e sessualità) all’interno di una piccola comunità inglese: il post-umano e l’Apocalisse, in particolare, sembrano permettere infatti, seguendo le teorie del femminismo materiale, di tematizzare la critica all’epistemologia maschile e bianca, all’antropocentrismo eterosessuale e illuminista e al patriarcato (etero) sessista che è sia matrice della secolarizzazione sia pilastro del potere spirituale della Chiesa» (p. 60). Il ruolo della chiesa è qui decisamente ambivalente; da una parte essa ha contribuito a mantenere unita la comunità nel corso dell’insurrezione ma ha basato tale coesione sull’odio nei confronti dei ritornanti.

Giuliani si sofferma anche sulla sovversione femminile dell’ordine costituto presente sia nel film Fido che nella serie In the flash. Nell’horror-comico Fido le donne americane intendono abbandonare il ruolo di «passive domestiche dedite alla riproduzione del maschio e della sua egemonia tipico dei primissimi anni Sessanta (si pensi alla rappresentazione della domesticità femminile nella serie americana Mad men): sono anche quelle che più nettamente infrangono i tabù sessuali legati alla linea del colore e di classe, e le regole sociali che stabiliscono il confine tra normalità e anormalità» (pp. 60-61). Nel caso di In the flash abbiamo donne che segretamente «costruiscono le reti affettive che sembrano garantire materialmente l’avvento di un futuro ‘migliore’: le madri e mogli dei ritornanti si incontrano in una stanza buia, separata, insieme all’infermiera e madre di Philip, il segretario del vicario (La ragazza madre del paesino), che ha deciso di insegnare loro come ‘medicare’ i propri famigliari PDS [Partially Deceased Syndrome, sindrome del parzialmente deceduto]. È sempre lei che ha creato questo gruppo di ‘autocoscienza’ e ‘autoaiuto’, perché le donne possano raccontare che cosa provano e come riescono a fare i conti con i PDS e la società attorno» (p. 61). Dunque, in qusto ultimo caso, le donne hanno un “ruolo ponte” tra umano e post-umano.

Nella serie la milizia, nonostante comprenda anche donne, secondo la studiosa rappresenta lo spazio semantico della virilità, del maschio, del soldato che custodisce la purezza della nazione e si fonda sulla convinzione che la minaccia è ancora presente pur certificando che la mutazione non è eliminabile. «La milizia si nutre dell’emergenza e, al contempo, la combatte: come per le polizie anti-terrorismo a cui è demandata parte della gestione governamentale del ‘nemico’ all’interno delle società reali, anche nella narrazione distopica il permanere del ‘mostruoso’ come parte integrante della società legittima il controllo di polizia su persone e relazioni. Come per le prassi e il discorso securitario e anti-terrorista posti in vigore dagli apparati di sicurezza britannici a partire dalla guerra in Afghanistan e in Iraq e dagli attacchi suicidi del luglio 2005, così anche nel racconto horror di In the flash tutti sono chiamati a fare i delatori e a manifestare, anche dentro le proprie case, la presenza di un PDS. Ma non devono agire da soli contro ‘i ritornanti’: devono piuttosto affidarsi alla milizia, alla polizia, auto-dichiaratasi in charge dell’eliminazione del risorto, come in una ‘società totale’ che non ammette critica né diversità» (p. 61).

Dunque, conclude Giuliani, se guardiamo 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set, La horde, Fido, Les revenants ed In the flash «in continuità con le guerre ‘coloniali’ del secolo scorso […] queste produzioni insistono sul backlash, sugli effetti di ritorno, di una condotta che può, in queste distopie, essere definita coloniale: il nemico è divenuto ‘inestirpabile’, ed è una costante intrinseca all’Europa ‘sin da quando essa è uscita da se stessa per reinventarsi sugli altri continenti. Al suo pari, il mondo degli uomini, nelle narrazioni distopiche prese in considerazione, ha ‘superato i propri confini’. A meno di una guerra che come quella ‘atomica’ potrebbe cancellare l’umano, insieme al post-umano, dalla faccia della Terra, l’apertura ‘della porta coloniale’ ha permesso all’altro, persino al non-morto che viene dall’aldilà, di varcare l’uscio e restare» (p. 62).

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Memento https://www.carmillaonline.com/2016/01/11/memento/ Mon, 11 Jan 2016 04:12:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27849 di Alessandra Daniele

bomba 1Da sempre, in guerra il corpo delle donne è considerato sia territorio di conquista che strumento di propaganda. Anche in questo l’attuale Scontro di Civiltà rimette in scena ancora una volta gli stessi schemi millenari. Ed è una grande occasione per gli imbonitori della Civiltà Occidentale quando il Nemico recita il suo ruolo in modo tanto diligente, quando sa corrispondere così accuratamente ai peggiori stereotipi. Alcuni degli aggressori di Colonia avevano addirittura in tasca un copione. A tutti in questa guerra è richiesto d’interpretare disciplinatamente il loro [...]]]> di Alessandra Daniele

bomba 1Da sempre, in guerra il corpo delle donne è considerato sia territorio di conquista che strumento di propaganda. Anche in questo l’attuale Scontro di Civiltà rimette in scena ancora una volta gli stessi schemi millenari.
Ed è una grande occasione per gli imbonitori della Civiltà Occidentale quando il Nemico recita il suo ruolo in modo tanto diligente, quando sa corrispondere così accuratamente ai peggiori stereotipi. Alcuni degli aggressori di Colonia avevano addirittura in tasca un copione.
A tutti in questa guerra è richiesto d’interpretare disciplinatamente il loro ruolo, e d’interpretarlo come se fosse la prima volta.
Ci vengono richieste obbedienza, e ignoranza.
“Chi dimentica i propri errori è condannato a ripeterli”, ed è esattamente sulla continua ripetizione in loop degli errori che è costruito il sistema.
È una macchina il cui motore è una ruota. Il criceto che c’è dentro siamo noi.
Perché la ruota continui a girare, e ogni loop si ripeta come il precedente, occorre cancellarne la memoria.
Carmilla nasce come supplemento a una rivista chiamata “Progetto Memoria”.

La cosiddetta Civiltà Occidentale s’è resa responsabile o corresponsabile della maggioranza dei peggiori crimini contro l’umanità della Storia.
Considerando solo l’ultimo secolo:
Il Colonialismo, con l’oppressione, la schiavizzazione, la deportazione, e il massacro delle popolazioni locali.
La Prima Guerra Mondiale.
Il Nazifascismo, con le persecuzioni, le deportazioni, e i campi di sterminio per ebrei, rom, comunisti, anarchici, omosessuali, disabili, testimoni di Geova, dissidenti e appartenenti a minoranze etniche e religiose in generale.
La Seconda Guerra Mondiale.
La distruzione totale con armi nucleari di due città, Hiroshima e Nagasaki.
Le centinaia di proxy war fomentate e combattute in tutto il mondo fra la Nato e il Patto di Varsavia del cosiddetto Blocco Orientale, dalla Corea all’Afghanistan.
Le dittature militari europee e latino americane sostenute dagli USA, responsabili di milioni di morti e desaparecidos.
Il sostegno diretto e indiretto alle non meno sanguinose dittature e alle guerre civili in Africa e Asia.
Il sostegno diretto e indiretto alle guerre civili successive al crollo del Patto di Varsavia, dalla Jugoslavia all’Ucraina.
Il sistematico saccheggio di tutte le risorse naturali e la devastazione dell’ambiente, con le conseguenti carestie causa principale dello sterminio per fame di intere popolazioni.
Il Neocolonialismo in Africa e Asia, direttamente responsabile della nascita dell’integralismo islamico armato, dai Talebani all’Isis, dell’agonia delle popolazioni palestinese e curda, della distruzione di almeno quattro stati, Afghanistan, Iraq, Libia, e Siria.
E dell’attuale guerra, per la quale anche la Russia, ex cosiddetto Blocco Orientale, responsabile o corresponsabile di crimini contro l’umanità come l’Imperialismo russo e sovietico, i progrom, lo Stalinismo, il sostegno a dittature e guerre civili, il massacro dei dissidenti, e le proxy war, s’è arruolata nell’Occidente.

Quell’Occidente che oggi fa la morale al mondo, stando immerso fino ai gomiti nel sangue che ha versato.
Memento.

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Futuro Breve XIV https://www.carmillaonline.com/2008/11/25/futuro-breve-xiv/ Tue, 25 Nov 2008 10:11:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=2854 di Alessandra Daniele

alcentro.JPG Percentuale accettabile

– Avete trovato la testa? — Chiese Magni guardando il cadavere decapitato. Longo alzò le spalle — Macché. Solo poltiglia. – Niente segni di effrazione, o di lotta? – Come al solito. Sangue e cervella dappertutto, ma solo qualche soprammobile rotto, e il televisore sfondato. Magni annuì. — Dev’essere così che li ammazza — mimò il gesto col braccio — prima gli afferra la testa, e gliela sbatte violentemente contro lo schermo, e poi gliela spacca come un cocomero. – Che stronzo. – Già – No, dicevo che stronzo a sfasciare questi — disse Longo, [...]]]> di Alessandra Daniele

alcentro.JPG Percentuale accettabile

– Avete trovato la testa? — Chiese Magni guardando il cadavere decapitato.
Longo alzò le spalle — Macché. Solo poltiglia.
– Niente segni di effrazione, o di lotta?
– Come al solito. Sangue e cervella dappertutto, ma solo qualche soprammobile rotto, e il televisore sfondato.
Magni annuì.
— Dev’essere così che li ammazza — mimò il gesto col braccio — prima gli afferra la testa, e gliela sbatte violentemente contro lo schermo, e poi gliela spacca come un cocomero.
– Che stronzo.
– Già
– No, dicevo che stronzo a sfasciare questi — disse Longo, indicando il grande televisore a parete — Questo è l’ultimo modello di bioplasma home-theatre ultrapiatto Living Colors della Sunya.
Magni sospirò.
— L’avevo riconosciuto.

Tornato a casa stanco, Magni si stravaccò sul divano, e s’addormentò di colpo. Fu svegliato da una musichetta irritante. Si cercò a tentoni il telefonino nelle tasche, ma non lo trovò. Riaprì gli occhi. Chi aveva acceso la tv? Pensò d’essersi sdraiato sul telecomando. Si alzò con un grugnito, ma non c’era niente sul divano. S’avvicinò al suo home-theatre Sunya per spegnerlo dal tasto centrale.
Lo schermo esplose in una tempesta di schegge, e una massa di tentacoli pulsanti di plasma luminoso schizzò fuori avvolgendogli la testa.
Magni annaspò freneticamente alla cieca cercando di liberarsi. La massa di bioplasma si strinse attorno al suo cranio come per stritolarlo.
Poi improvvisamente perse densità, facendosi più rarefatta. Quando fu diventata appena una piccola nube di gas luminescente, Magni riuscì a riprendere fiato. Respirò in fretta, ansimando.
Aspirandola a grandi boccate.
Poi si sedette sul divano.
«Questa fusione è riuscita — disse una voce suadente nella sua testa — Non è necessario distruggere il ricettacolo. Finora i casi di rigetto sono stati soltanto sei. È una percentuale accettabile»
Magni non ci fece caso. Gli sembrava di non riuscire a pensare più a niente.

Al centro del mondo

Il generale Haggart si godeva l’aria tiepida dell’emisfero orientale di Freya Gamma. Le folate di brezza entrate dalle feritoie si rincorrevano nel dedalo di corridoi del Palazzo centrale. Complicati intarsi di vari materiali preziosi decoravano tutte le pareti. Quella costruzione aliena aveva una struttura bizzarra, pensava Haggart, ma era una magnificenza. Per questo ne aveva fatto il suo quartier generale.
– Signore, l’allineamento dei pianeti sta avendo inizio — disse il colonnello Tanzi, entrando. Haggart voltò la sua poltrona girevole verso la feritoia più grande, inforcò gli occhiali schermati, e vide sul bordo di Freya, il sole del pianeta, una piccola ombra semicircolare.
— Sarà una sorta di doppia eclisse… sì, interessante — disse con voce incolore — ma come procedono gli interrogatori dei nativi?
Tanzi intrecciò le dita con aria imbarazzata.
— A rilento. L’idioma di questi alieni ci risulta particolarmente… alieno.
Il generale Haggart si rigirò verso di lui, e si tolse lentamente gli occhiali schermati.
— Colonnello, lei sa perché siamo qui, vero? Quando è stato scoperto Freya Gamma dalle sonde NASA s’è subito capito che le risorse energetiche di questo pianeta erano l’ultima speranza per il nostro. Noi dobbiamo scoprire da cosa i nativi ricavino la loro energia, e non c’è traccia di generatori su tutto il pianeta.
– Generale, il problema non è riuscire a farli parlare, è riuscire a capirli.
La luce nella stanza riccamente istoriata s’era fatta più tenue. La doppia eclisse procedeva rapidamente.
– L’unica cosa che finora siamo riusciti a capire chiaramente è il loro panico irrazionale per gli eventi celesti come l’eclisse imminente — continuò Tanzi — tutti quelli che hanno potuto sono fuggiti dalla città. Mi chiedo come sia possibile che una specie così culturalmente arretrata possa disporre d’una rete di accumulatori d’energia sofisticata come quella che abbiamo trovato qui.
– Della loro ottusa superstizione non mi lamento, scappando dalla città l’hanno lasciata a noi.
La stanza era ormai in penombra. Haggart rimise gli occhiali schermati, e guardò dalla feritoia. L’ultimo spicchio di Freya sparì dietro i due pianeti allineati. La stanza piombò nelle tenebre.
Il generatore alieno sul lontano Freya Alpha entrò in funzione.
– Dove l’ha messa? — Chiese Tanzi, cercando a tentoni la lampada alogena a muro appesa dal generale tra gli arabeschi che ricoprivano ogni parete, soffitto, e pavimento del palazzo.
Il trasformatore alieno sul vicino Freya Beta ricevette il flusso, e si preparò a ritrasmetterlo.
– Questi intarsi metallici sono belli da vedere quanto l’obelisco sul soffitto, ma toccarli alla cieca dà l’impressione di poter… – Tanzi terminò la frase in un filo di voce — prendere la scossa.
Il terminale alieno sul soffitto del Palazzo-Centrale energetica di Freya Gamma ricevette la gigantesca scarica elettromagnetica, e attraverso tutti i suoi circuiti la convogliò alla rete di accumulatori cittadina.
Del generale e i suoi uomini non restò che qualche brandello bruciacchiato.

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